La rotta del Mediterraneo Occidentale

Tra il 17 e il 18 maggio 2021, in quasi 24 ore,  circa 8 mila persone sono entrate nell’enclave spagnola di Ceuta, punto finale della rotta del Mediterraneo occidentale, per richiedere asilo in Europa. Lì migliaia di migranti hanno cercato di superare l’unica frontiera che unisce l’Africa all’Europa rischiando l’ipotermia e la morte. Solo nei primi 6 mesi del 2021 sono stati registrati 13.483 arrivi lungo la rotta del Mediterraneo occidentale ma i dati, offerti da FRONTEX e dal Ministero dell’Interno spagnolo, non comprendono gli arrivi a Ceuta del 17 e del 18 maggio poiché il governo spagnolo ha schierato l’esercito e rimandato indietro quasi la metà delle persone che hanno tentato l’attraversamento.

La rotta del Mediterraneo Occidentale

Secondo l’Agenzia Europea per il controllo delle Frontiere Esterne (FRONTEX) sono otto le principali rotte che rifugiati e migranti percorrono nel tentativo di raggiungere l’Unione Europea: 1) la rotta orientale; 2) la rotta balcanica; 3) la rotta circolare; 4) la rotta atlantica; 5) la rotta del Mar Nero; 6) la rotta del Mediterraneo centrale; 7) la rotta del Mediterraneo orientale; 8) e la rotta del Mediterraneo occidentale.

La rotta del Mediterraneo occidentale  si riferisce agli arrivi in Spagna sia attraverso il Mediterraneo verso la Spagna continentale, sia verso le enclave spagnole di Ceuta e Melilla nell’Africa settentrionale. Chi sceglie di percorrere questa rotta, transita attraverso il Marocco, il Sahara Occidentale, la Mauritania e l’Algeria per raggiungere l’Europa.

La rotta del Mediterraneo occidentale nel 2018 è stata la rotta maggiormente utilizzata ma, da allora, il numero degli arrivi è costantemente diminuito a causa dei maggiori sforzi del Marocco nella lotta contro la migrazione irregolare, la cooperazione di Spagna ed Unione Europea con il Paese maghrebino e la pandemia legata al Covid-19.

Le frontiere sono sorvegliate dalle autorità marocchine, per nulla toccate dalle Primavere Arabe, in cambio di finanziamenti economici da parte del Governo di Madrid, garantendo un’intensa azione di contrasto ai flussi migratori provenienti dall’Africa subsahariana.

A ciò, si aggiunge il sostegno di FRONTEX al governo spagnolo attraverso il controllo delle sue frontiere esterne continentali con l’ausilio di operazioni marittime congiunte, come ad esempio l’Operazione Indalo.

Dopo gli eventi del maggio 2021 e la distensione dei rapporti con la Spagna, il Marocco ha cominciato ad erigere recinzioni di filo spinato alla frontiere di Ceuta.

L’entrata in massa di migranti sembrerebbe essere causato da una crisi diplomatica nata dopo che il governo spagnolo ha accolto sul proprio territorio Brahim Ghali, leader del Fronte Polisario. La questione riguarda il riconoscimento del Sahara occidentale in quanto provincia marocchina e la distensione dei rapporti tra i due Paesi è avvenuta in seguito alle dimissione del Ministro degli Affari esteri spagnola Arancha González Laya e la nomina di José Manuel Albares come nuovo Ministro.

L’azione marocchina sembrerebbe quindi essere stata un vero e proprio ricatto diplomatico a spese di migliaia di esseri umani ed il nuovo filo spinato non esclude che ciò riaccada in futuro.

La rotta del Mediterraneo Occidentale: le migrazioni come arma sulla questione del Sahara Occidentale

La rotta del Mediterraneo Occidentale sembrerebbe essere stata usata, nonostante le smentite ufficiali, come arma diplomatica ed alle origini della crisi del maggio 2021 sembrerebbe esserci stato un allentamento dei controlli alle frontiere da parte della polizia marocchina.

La mossa del governo di Rabat sembrerebbe essere una risposta alla decisione spagnola di accogliere sul suo territorio il leader del Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro, meglio noto come Fronte Polisario, ovvero del movimento indipendentista del Sahara Occidentale che ha  lo scopo di ottenere la realizzazione del diritto all’autodeterminazione per il popolo Sahrawi.

La questione della sovranità sul Sahara occidentale è al centro di una disputa da molto tempo e, dopo il riconoscimento da parte dell’amministrazione Trump della sovranità marocchina sul territorio, il Marocco sta facendo sempre più pressione affinché l’Unione Europea riconosca la sua sovranità.

Sahara spagnolo, province del sud, Repubblica Araba Sahrawi Democratica e Sahara occidentale sono tutti nomi che indicano la medesima porzione di territorio e ognuna traduce uno specifico “progetto politico” degli attori che hanno agito su di esso.

La questione del Sahara occidentale assume un ruolo di primo piano solo recentemente, con la fine del dominio coloniale spagnolo nel 1975.

Il periodo coloniale aveva visto un confronto tra gli spagnoli e la popolazione locale dei Sahrawi, un rapporto che vedeva colonizzatori e colonizzati. Negli ultimi anni della dominazione spagnola, anche a causa di questo scontro, il popolo Sahrawi ha iniziato a riconoscersi in un processo di costruzione nazionale e si sono compattati attorno al progetto indipendentista del Fronte Polisario.

La fine della dominazione spagnola ha però complicato vicenda e gli attori regionali, primi tra tutti il Marocco e la Mauritania,  colsero l’occasione per far valere le proprie rivendicazioni sul territorio Sahariano. Nel 1975 si giunse a una situazione di compromesso e venne sottoscritto l’accordo tripartito Ispano-Marocchino-Mauritano che di fatto spartì i domini spagnoli tra il Marocco e la Mauritania, suscitando il contrasto con le Nazioni Unite in quanto non si era data la possibilità al popolo Sahrawi di far valere il proprio diritto all’autodeterminazione come garantito dalla Risoluzione n.1514 del 1960.

Dopo la spartizione, il Fronte Polisario decise di proseguire l’obiettivo indipendentista con una strategia più strutturata dal punto di vista politico e militare.

Nel 1976 venne proclamata la Repubblica Araba Sahrawi Democratica, si costituì un governo in esilio presso il campo profughi di Tindouf in Algeria e si riorganizzò l’assetto militare con lo scopo di effettuare azioni di guerriglia contro i due Paesi del Maghreb.

Presto la Mauritania ebbe problemi a mantenere l’occupazione a causa delle proprie fragilità politiche ed economiche  e nel 1979 optò per il ritiro dal territorio. Il Marocco di risposta annesse repentinamente tutto il territorio e lo denominò “Province del Sud”.

Da allora la questione del Sahara Occidentale si è identificata nello scontro tra il Marocco, che vuole vedere riconosciuta la sovranità sulle province del Sud, e i Sahrawi, che vogliono vedersi riconosciuto il diritto all’autodeterminazione ed alla propria indipendenza.

I motivi dietro all’interesse Marocchino sull’area sono molteplici.

Dopo l’indipendenza dalla Francia avvenuta nel 1956, in Marocco iniziò un periodo di fermento nazionalista che confluì in una politica di recupero dei territori del Sahara e nella strategia di riconquista del “Grande Marocco, un mito nazionalista che prevedeva l’annessione di: Sahara Spagnolo, Mauritania, la regione Nord-occidentale dell’Algeria e quella settentrionale del Mali.

Oltre alle mire ideologiche vi erano anche quelle economiche in quanto si tratta di territori ricchi di miniere di ferro e di rame, di petrolio e, soprattutto nel Sahara Occidentale, di giacimenti di Fosfato, risorsa di cui il Marocco deteneva la leadership del mercato internazionale all’epoca del ritiro spagnolo.

Il tema dell’integrità territoriale e della riconquista delle frontiere storiche per raccogliere il consenso generale sulla popolazione non si è mai spento, pur passando attraverso fallimenti politici. Tra il 1981 e il 1986 il Marocco per giunta, ha costruito un muro di difesa a protezione del cosiddetto “triangolo utile”(El Aaiun, Smara, Bu Craa), ricco di giacimenti di fosfato e risorse. La maggiore sicurezza dalle azioni di guerriglia ha portato a maggiori interventi di sviluppo e investimenti determinando il controllo di fatto del Marocco sull’area.

Tutto ciò è importante in quanto il mito del “Grande Marocco” è utilizzato ancora oggi in vista delle elezioni che si terranno nel Settembre 2021: i partiti nazionalisti durante la campagna elettorale hanno utilizzato, oltre alla questione del Sahara occidentale, quella della rivendicazione del territorio spagnolo, dichiarando le città autonome di Ceuta e Melilla come “presidi occupati” dalla Spagna.

Il fervore nazionalista e gli interessi economici sull’area fanno sì che la questione del Sahara Occidentale rimanga ancora un obiettivo importante della politica estera marocchina.

Di conseguenza, migliaia di persone rischierebbero in futuro di essere “utilizzate” nuovamente come mezzo di pressione sui governi europei al fine di raggiungere questo obiettivo ed accumulare consenso politico al proprio interno.

L’esternalizzazione delle frontiere sulla rotta del Mediterraneo occidentale

Oltre alla questione del Sahara Occidentale, negli interessi del Marocco vi è la questione legata ai fondi dei Paesi europei verso i Paesi di origine e transito dei migranti per la gestione esterna delle frontiere. Di conseguenza l’allentamento dei controlli potrebbe essere stato utilizzato per negoziare un ulteriore aumento dei finanziamenti.

É da notare che l’Unione Europea in risposta agli eventi del maggio 2021 si è “fatta sentire” attraverso il suo Commissario per gli Affari Interni, Ylva Johansson, che ha ammesso che l’afflusso di migliaia di persone attraverso il confine di Ceuta è “preoccupante”.

Il Commissario europeo ha ricordato che il confine della Spagna con il Marocco è anche la frontiera dell’Unione Europea. Al 2021 il Marocco è beneficiario di sette progetti finanziati dall’Unione Europea in materia di migrazione, per un valore totale di 182,9 milioni di euro. Quasi la totalità dei finanziamenti (circa 175 milioni di euro) è destinata a “migliorare” la gestione della migrazione. Secondo un documento pubblicato da El Pais, il Marocco vorrebbe avere un ruolo centrale nell’esternalizzazione dei confini, e per questo chiede un budget di 450 milioni all’anno per un totale di 3,5 miliardi in 7 anni.

Alla negoziazione tra Marocco e l’Unione Europea si aggiunge quella tra il Marocco e la Spagna. Non a caso, infatti, il governo di Pedro Sánchez nel pieno della crisi ha annunciato di aver approvato 30 milioni di euro per il “supporto alla gestione dei flussi migratori”.

Oltre ai finanziamenti però, la Spagna ha fatto frequentemente uso della forza ed anche durante la crisi ha risposto con un dispiegamento delle forze militari, operando di fatto dei respingimenti sistematici denominati “devoluciones en caliente” (espulsioni a caldo) a ridosso della frontiera.

Si tratterebbe di una pratica contraria al diritto internazionale dei diritti umani e dei diritti di rifugiati e migranti.

Si trattatterebbe di una violazione del principio di non respingimento, violazione oggetto di analisi della controversa sentenza del febbraio del 2020 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sul caso N.D. e N.T. c. SPAGNA (Ricorsi nn. 8675/15 e 8697/15).

Di fronte a questa terribile condotta però, la Commissione Europea ha rilasciato dichiarazioni su quanto stava avvenendo senza ricordare che si trattava di procedure illegali, venendo così meno al suo ruolo di garante dei diritti all’interno dell’Unione Europea.

Uomini, non merci

Delle vicende di Ceuta una delle immagini che ci dovremmo portare dietro come simbolo dell’Europa che vogliamo è l’abbraccio tra due esseri umani, quello che la stampa internazionale ha definito come un abbraccio tra un migrante ed una volontaria.

Si tratta di un’immagine che riconosce l’altro nella sua umanità, nelle sue speranze e nelle sue paure. Si tratta di un abbraccio che accoglie l’altro in quanto essere umano e non come un numero o una merce di scambio.

Quello che preoccupa della gestione migratoria portata avanti dall’Unione Europea è che sempre più spesso il corpo di donne, uomini, bambini e minori rischia di diventare uno strumento di trattativa per mire geopolitiche, economiche e nazionaliste.

Fonti e approfondimenti

Camilli E., Ceuta, arrivi record nell’enclave spagnola. “Una crisi diplomatica sulla pelle delle persone”

Sempere A., Il Marocco erige recinzioni alla frontiera di Ceuta e mantiene i suoi impegni con l’UE

Consiglio Europeo – Rotte del Mediterraneo occidentale e dell’Africa occidentale

Pagnini M.P., Terranova G., Geopolitica delle rotte migratorie tra criminalità e umanesimo in un mondo digitale, Aracne editrice, 2018

Castels S., De Haas H., Miller M.J., The age of migration. International Population Movements in the Modern World, 2014

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Vice-presidente Large Movements APS | Climate Change e Migration Specialist | Dottore in Relazioni Internazionali | Blogger in Geopolitica, Geoeconomia e tematiche Migratorie | Referente LM Environment

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Frontiera India-Bangladesh: il confine più pazzo del mondo

Tra India e Bangladesh sorge, con i suoi 4156 km,  il quinto confine più lungo del mondo e su cui insiste la barriera più lunga costruita. I territori che vengono separati da questa barriera sono densamente popolati e in molte zone il terreno è coltivato il più vicino possibile alla recinzione. In molti punti la barriera è a doppio strato e la tecnologia ha semplificato tutta una serie di attività che avrebbero richiesto centinaia di ore lavorative per il monitoraggio, la segnalazione e l’intervento delle autorità.  Nonostante i rischi la recinzione non scoraggia i migranti dal tentativo di attraversamento, sia per chi vuole raggiungere l’India, sia per chi vuole raggiungere il Bangladesh. Negli ultimi anni la frontiera tra Bangladesh e India è diventato il simbolo del costo umano e di sangue delle barriere. Lungo il confine si è registrato l’aumento di insicurezza dei migranti e delle violenze da loro subite nel tentativo di attraversamento, come nel caso della morte della quindicenne Felani Khatun nel 2011. Qui i problemi della cosiddetta immigrazione illegale si sono intrecciati con la questione delle enclavi, soprattutto a seguito dell’accordo del 2015. Quattro anni dopo l’accordo di semplificazione del confine, avvenuta con uno scambio di terre tra i due paesi, molti di coloro che hanno scelto di trasferirsi piuttosto che cambiare la propria cittadinanza hanno visto tradite le proprie aspettative. Secondo un censimento indiano del 2011 sono state circa 53 mila le persone travolte dagli effetti del trattato. Tali problematiche si inseriscono nel tema più ampio della lotta all’immigrazione clandestina portata avanti dall’India. La storia dei Chhit mahal tra Bangladesh e India Un aspetto particolare e problematico lungo il confine tra Bangladesh e India sono state le enclavi, conosciute come chhit mahal (briciole di terra). In generale si chiamano Enclave i territori che sono all’interno di uno stato ma sono appartenenti ad un altro stato, mentre per Exclave si intendono quei territori di uno stato che sono all’esterno di questo. La differenza delle due nozioni risiede dal punto di vista che si assume ma descrivono lo stesso fenomeno, ovvero la porzione di territorio di uno stato che però è all’interno di un altro. Per esempio se una porzione di territorio del Bangladesh è all’interno dell’India si tratterà al contempo di una Exclave Bangladina (un territorio nazionale posto al di fuori, quindi ex dai confini politici) e un Enclave Indiana (quindi una porzione di territorio all’interno della nazione indiana, En, ma non sotto la sua giurisdizione). Secondo le leggenda popolare l’origine di queste “briciole di terra” era dovuta al fatto che Maharaja e Nababbi se le giocassero a scacchi. Secondo i dati storici le Chhit Mahal erano il risultato degli effetti di un trattato del 1713 tra il regno di Cooch Behar e l’Impero Moghul, con cui i Moghul hanno posto fine a una guerra senza determinare un confine per i quali i territori fossero definiti come conquistati o persi. La questione confinaria si è consolidata a seguito dell’indipendenza dell’India, avvenuta nel 1947, con l’annessione del Cooch Behar all’India e del Rangpur al Pakistan Orientale, che divenne lo stato del Bangladesh nel 1971. L’indipendenza aveva comunque lasciato in sospeso la situazione delle enclavi, tra queste la più problematica era rappresentata da una enclave che conteneva tre contro-enclave e una contro-contro enclave nel territorio del Rangpur. In altre parole si trattava di un enclave di terzo livello: un enclave, circondata da un’enclave, circondata da un’enclave circondata da un altro stato. Questa apparteneva all’India ed era conosciuta come Dhahala Khagrabari. Abbiamo provato a rappresentare questa specifica situazione con la mappa qui sotto. Vi era un pezzo di India dalla dimensione di 0,69 ettari, nel territorio del Bangladesh che era esso stesso in un pezzo di territorio indiano dentro allo stato del Bangladesh. Per questo motivo la semplificazione del confine diventò una questione importante per entrambi i governi e nel 1958 si cercò di arrivare ad un accordo tra Jawaharlal Nehru, primo ministro indiano, e Feroz Khan Noon, primo ministro del Pakistan. L’accordo prevedeva uno scambio tra India e Pakistan senza tenere in conto la perdita o il guadagno di territorio ma la questione venne trasformata in un caso della Corte suprema Indiana che stabilì la necessità di un emendamento costituzionale per il trasferimento del territorio. A causa però del deterioramento delle relazioni tra India e Pakistan la questione rimase irrisolta. La situazione cambiò quando, dopo anni di discriminazioni da parte del Pakistan occidentale, nel 1971 i bengalesi del Pakistan orientale iniziarono a chiedere l’indipendenza. Il governo pakistano tentò di sopprimere il movimento indipendentista e milioni di persone persero la vita o cercarono rifugio in India. Fu così che a causa dei continui attriti l’India appoggiò l’indipendenza della regione bengalese e fu il primo stato a riconoscere il neonato Bangladesh, diventandone il principale interlocutore in politica estera. Nel 1974 fu firmato l’Accordo per la delimitazione dei confini terrestri tra Indira Gandhi e Mujibur Rahman, che prevedeva lo scambio di enclavi. Il Bangladesh ratificò rapidamente l’accordo nel 1974, ma l’India non riuscì a farlo. Lo scambio avrebbe dovuto interessare 111 enclavi indiani in territorio bangladino, circa 17 mila acri, e 51 enclavi bangladine in territorio indiano, circa 7 mila acri. Nel 2011 si riapre la questione confinaria con la firma da parte dell’India del Protocollo aggiuntivo per l’accordo sui confini terrestri del 1974. Entrambe le nazioni hanno annunciato l’intenzione di scambiare le 162 enclavi, dando ai residenti la possibilità di scegliere la propria nazionalità. Il passaggio successivo venne rappresentato dall’introduzione della legge costituzionale, nota come 119° emendamento, alla camera alta del parlamento indiano nel 2013. La legge ha visto la dura opposizione dei gruppi nazionalisti dell’Assam ma alla fine il disegno di legge è stata approvato dalla Commissione permanente per gli affari esterni nel 2014. Nel maggio 2015 la legge ha concluso l’iter legislativo ed è stato cosi approvato il 199° emendamento. In questo modo il 6 giugno del 2015 è stato possibile ratificare l’accordo, conosciuto come Land Boundary Agreement, che ha comportato lo scambio di territorio tra i due

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La frontiera Stati Uniti – Messico: muri visibili e invisibili

In quattro anni di presidenza, Donald Trump non ha mai fatto mistero delle sue intenzioni di chiudere definitivamente la frontiera con il Messico, a sud degli Stati Uniti. La costruzione del muro che separa questi due Paesi, già iniziata negli anni ‘90, è stata infatti uno dei punti saldi della sua campagna elettorale. Questa prevedeva l’implementazione della barriera per impedire l’immigrazione dall’America Latina, con un forte impatto sulle risorse economiche e ambientali, nonché sui diritti umani. A livello mediatico la sua feroce retorica contro l’immigrazione ha suscitato scalpore. Secondo le sue dichiarazioni, non solo il muro sarebbe stato finanziato dai messicani, ma lo stesso status di immigrato sarebbe stato ridefinito legalmente tramite l’imposizione di norme più restrittive. La sua politica migratoria si sarebbe basata sul rimpatrio e l’incarcerazione di centinaia di migliaia di persone. Nell’arco del suo mandato presidenziale egli ha effettivamente rafforzato la barriera di confine, ostacolando ulteriormente l’immigrazione attraverso legislazioni e burocrazie. Questo non ha impedito a migliaia di sudamericani di avventurarsi nella traversata dell’America centrale, nel tentativo di scavalcare la barriera, mettendo a rischio la propria vita e la propria incolumità nella disperata ricerca di una protezione. Le cause della migrazione Il passato coloniale del continente americano ha plasmato la situazione sociopolitica ed economica odierna in maniera decisiva. Le popolazioni precolombiane furono infatti sterminate o confinate in zone isolate dai nuovi coloni europei del XVI secolo, i quali si incaricarono così di riscrivere da zero la storia della società americana. La nascita degli Stati Uniti come federazione di stati sovrani ha spostato l’ago della bilancia geopolitica da est a ovest. Con la sua escalation a superpotenza mondiale, l’influenza statunitense sul resto del continente è stata determinante nell’impedire lo sviluppo dei Paesi del sud. La condizione economica che ne è emersa ha visto dunque gli Stati Uniti prendere il controllo della produzione, del commercio e della manodopera del sud. Alla stessa maniera, dal punto di vista sociopolitico, l’America Latina e centrale sono sempre state soggette all’interventismo degli USA nelle questioni interne. La sua prepotente influenza sul resto del continente ha dato forma ad una società molto ineguale, con delle forti élite di imprenditori e politici benestanti che governano sulle grandi masse di popolazione svantaggiata, carente di qualsiasi tipo di assistenza sociale e relativamente povera. Queste sono le motivazioni principali che hanno destato un forte sentimento antiamericano nelle popolazioni dell’America centrale e del sud. Tuttavia – per le stesse ragioni – migliaia di persone ogni anno lasciano la propria casa e si incamminano verso nord. Il muro che divide gli Stati Uniti dal Messico è dunque un muro mentale, oltre che fisico. Questo non solo divide i due Paesi e i rispettivi continenti, ma anche due società, due ideologie di vita opposte. I privilegiati dagli svantaggiati, ed i governanti dai governati. Ed è per questo che molte persone rischiano la vita per scavalcare quel muro. La rotta verso la frontiera Stati Uniti – Messico Il muro di confine è solo il traguardo di un lungo viaggio. La rotta migratoria che interessa la regione inizia dai Paesi del centro America, prevalentemente dall’Honduras ed El Salvador, attraversa il Messico e raggiunge la frontiera. Il cammino è ricco di ostacoli e pericoli. Chi viaggia da solo rischia di essere rapinato, rapito o addirittura ucciso dalle gang criminali che militano in queste zone e che sono concausa della migrazione in sé. Al confine, poi, dove non c’è il muro c’è il deserto più caldo del Messico. La frontiera occidentale con gli Stati Uniti, infatti, si trova in mezzo al deserto di Sonora. Molti migranti terminano la loro traversata proprio qui, soccombendo al caldo, alla disidratazione, alla fame e alla stanchezza. Secondo i dati raccolti dall’associazione No More Deaths, che si occupa di soccorrere i migranti nelle zone desertiche di Sonora, in quattro anni sono stati rinvenuti 1086 cadaveri. Il conteggio, includendo solo i corpi rinvenuti dagli ufficiali della polizia di frontiera (Border Patrol) in territorio statunitense, non risulta accurato poiché taglia fuori tutti coloro che hanno perso la vita in terre messicane. L’entità della tragedia che ogni anno si abbatte su questa regione ha fatto sì che alcune organizzazioni si interessassero al fenomeno migratorio in corso. Oltre No More Deaths, anche Humane Borders si occupa di assistere i migranti in difficoltà. Più a monte del processo migratorio, in Honduras, l’associazione Pueblos Sin Fronteras organizza la partenza dell’esodo, raccogliendo e accompagnando carovane di vari popoli caraibici, da San Pedro Sula fino alla frontiera Messico – Stati Uniti. Così, migliaia di migranti marciano insieme attraverso il Guatemala e poi il Messico nel tentativo di scappare dalla violenza, dalla povertà e dalla repressione politica subìta nel proprio Paese. L’immigrazione negli Stati Uniti La presidenza di Donald Trump ha buttato benzina sul fuoco della questione dei migranti, intavolando una guerra economica e diplomatica contro il Messico. Dopo il rifiuto a contribuire al muro, il presidente messicano Enrique Peña Nieto ha ceduto alle minacce di bloccare le rimesse degli immigrati, di alzare i dazi e le tasse sulle domande di visto e di applicare tariffe commerciali sfavorevoli al Messico. Dal 2018 il presidente ha intrapreso la scelta strategica di bloccare la carovana in territorio messicano. Alcuni migranti vengono rimpatriati, altri si fermano in Messico in attesa di una risposta alla richiesta di asilo negli Stati Uniti. Altri ancora decidono di fermarsi qui in pianta stabile, accettando l’offerta di un permesso di soggiorno temporaneo che possa permettere loro di trovare un lavoro e ricevere assistenza medica. Anche chi è riuscito a scavalcare il muro spesso finisce per essere “riconsegnato” al Messico. Nel 2019 più di 60mila persone sono state espulse dal territorio statunitense. Dal 2018 il governo di Trump, tramite la politica “zero tolerance”, ha inaugurato la pratica di divisione delle famiglie di migrati alla frontiera. Questa prevede la separazione tra i clandestini adulti e i propri figli. I primi vengono incarcerati, mentre i minorenni vengono affidati in custodia a strutture apposite situate in tutto il Paese. La dichiarazione di un alto funzionario giuridico dell’entourage di Trump lascia

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Frontiera greco turca

LA FRONTIERA GRECO-TURCA: genesi di una nuova crisi migratoria

La crisi che vede come disperati protagonisti i rifugiati bloccati alla frontiera tra la Turchia e la Grecia dimostra ancora una volta il divario esistente tra il diritto internazionale ed europeo in materia di asilo e la sua effettiva implementazione. Il 27 febbraio 2020, il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato che le frontiere erano aperte e che i rifugiati non sarebbero più stati fermati nel loro tentativo di raggiungere l’Europa. In risposta al provvedimento turco, tra le 10.000 e le 20.000 persone, perlopiù profughi siriani, ma anche afghani, iraniani e iracheni, hanno quindi raggiunto la frontiera nord-est della Turchia, dove il fiume Evros crea un confine naturale con la Grecia, e dunque con l’Unione europea (Ue). Ad aspettarli le forze di sicurezza greche determinate a non farli passare, anche a costo di attuare misure durissime. Sono presenti ovviamente soggetti vulnerabili quali bambini/e ed anziani/e o semplicemente persone scappate da aree di conflitto e costrette a vivere lontano da casa in condizioni di indeterminatezza e povertà. Ma facciamo un passo indietro per sintetizzare il contesto geopolitico che ha portato a questa situazione, partendo proprio dal ruolo della Turchia. La Turchia: avamposto d’Europa Dall’inizio del conflitto siriano, ormai nove anni fa, la Turchia è il paese che più di tutti ha accolto i profughi in fuga dalla guerra, al momento ospita circa 4 milioni di migranti, di cui 3,6 milioni di siriani. Infatti, nonostante la Turchia non sia nota per il rispetto dei diritti umani, il Paese ha applicato, fino alla chiusura della frontiera nel 2015, una politica di “porta aperta” rispetto ai profughi provenienti dalla Siria. È necessario spiegare perché in questo caso non sia corretto, almeno formalmente, parlare di rifugiati. La Turchia, infatti, pur avendo ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, lo ha fatto con una clausola che ne limita l’applicazione alle persone provenienti dall’Europa, portando i milioni di profughi di guerra a non usufruire ufficialmente dello status di rifugiato, seppur acquisendo altri tipi di protezione. Questo è uno dei motivi che denota la poca credibilità dell’accordo del 2016 stipulato tra l’Unione europea e la Turchia. In seguito al grande flusso migratorio che ha interessato l’Europa nel 2015, l’Ue ha proposto alla Turchia di fungere da barriera per l’arrivo dei migranti, soprattutto siriani. In cambio di 6 miliardi di euro e di passi avanti nel processo di adesione all’Ue, la Turchia ha accettato di far rientrare i richiedenti asilo presenti soprattutto sulle isole greche. D’altro canto l’accordo prevedeva per ogni profugo siriano rimandato in Turchia dalla Grecia, il trasferimento di un altro siriano dalla Turchia all’Unione europea attraverso dei canali umanitari. L’accordo Ue – Turchia non è stato rispettato del tutto da parte di entrambi gli attori coinvolti. Se l’Unione aveva promesso il reinsediamento di circa 70.000 profughi siriani presenti in Turchia, risulta che quelli effettivi siano stati 25.000. Anche la Turchia d’altra parte non sembra aver portato avanti i rientri in Turchia dei siriani presenti in Grecia. Questo delicato quadro ha subito uno svolta in seguito alle conseguenze della tragica situazione che sta vivendo la provincia siriana di Idlib, a ridosso del sud della Turchia, ultimo territorio ribelle rimasto fuori dal regime di Assad. La Turchia, dal 2016, è in parte coinvolta nel conflitto siriano tramite operazioni militari nel nord del Paese le quali, se da una parte hanno come obiettivo il rientro dei profughi siriani, dall’altro celano la volontà di contrastare i territori a maggioranza curda e le Unità di protezione popolare (Ypg). L’esercito turco è presente anche nella provincia di Idlib per monitorare l’area. Qui, dal dicembre 2019, l’esercito di Assad, supportato dalla Russia, sta bombardando indiscriminatamente colpendo soprattutto civili che non hanno alternativa se non fuggire verso i confini turchi. In questo contesto sono rimasti uccisi a fine febbraio 2020 ad Idlib, da parte dell’aviazione siriana, più di trenta soldati turchi. Di fronte a questa escalation di tensione, il governo turco si è ritrovato, isolato a livello internazionale e con un calo di consenso dovuto in parte alla questione migratoria e alle ricadute sociali ed economiche che ne conseguono, ad affrontare l’arrivo di una nuova ondata di sfollati dall’area di Idlib. Erdoğan ha deciso così di utilizzare i profughi presenti nel suo territorio per attirare l’attenzione dell’Unione europea. Quale modo migliore se non aprire unilateralmente il confine con la Grecia nell’era delle frontiere chiuse? Confini violenti Ad accogliere i profughi, che si sono precipitati dalla Turchia al confine con la Grecia dopo aver saputo dell’apertura della frontiera, è stato il filo spinato e le guardie frontaliere greche, armate di gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Oltre al confine terrestre, rappresentato dal fiume Evros, migliaia di migranti si sono diretti sulle isole greche di fronte alle coste turche, in particolare Lesbo, Kos e Samos, e anche in mare le forze di sicurezza greche hanno adottato misure inaccettabili, speronando i gommoni dei migranti e sparando proiettili in acqua rivolti verso di essi. Nel frattempo la tensione sulle isole è diventata altissima, poiché la nuova ondata di arrivi si inserisce in una situazione preesistente di sovraffollamento e di disagio. Basti pensare al campo d’accoglienza di Lesbo, pensato per tremila persone, ma che ne accoglie al momento 21mila.  Sulle isole greche stanno aumentando, inoltre, attacchi violenti a migranti, attivisti ed operatori umanitari da parte dei militanti del partito di estrema destra Alba Dorata e non solo. In ultimo l’incendio, probabilmente doloso, della scuola dell’ong svizzera One Happy Family, un centro che ogni giorno accoglieva fino a 800 migranti. La risposta europea In risposta all’apertura della frontiera da parte della Turchia, il 1° marzo il Primo Ministro greco, Mītsotakī, ha annunciato la sospensione della presa in carico delle domande di asilo per un mese e ha dichiarato l’espulsione di chiunque entri irregolarmente nel Paese. L’Ue ha appoggiato la Grecia, e durante la sua visita al confine con la Turchia, Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione europea, ha definito la Grecia “lo scudo d’Europa”. L’Unione si è impegnata a sostenere la Grecia con un finanziamento di 700

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La rotta del Mediterraneo Centrale

Secondo il report “Missing migrants” dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM), il Mediterraneo centrale è sempre più mortale a causa dell’assenza delle navi ONG e di navi di ricerca e soccorso dei governi europei. Attualmente, le operazioni di soccorso sono spesso svolte dalle autorità libiche e tunisine e il report evidenzia come, per il secondo anno consecutivo, vi sia un aumento dell’attività dei Paesi nordafricani: sono 23.117 le persone recuperate nei primi sei mesi del 2020, mentre sono 31.500 le persone recuperate nei primi sei mesi del 2021. Chi viene recuperato dalle autorità nordafricane rischia di subire tortura, trattamenti inumani e degradanti od il rimpatrio verso il Paese di origine, dove possono incorrere in ulteriori violazioni. La rotta del Mediterraneo Centrale Secondo l’Agenzia Europea per il controllo delle Frontiere Esterne (FRONTEX), sono otto le principali rotte che rifugiati e migranti percorrono nel tentativo di raggiungere l’Unione Europea: 1) la rotta orientale; 2) la rotta balcanica; 3) la rotta circolare; 4) la rotta atlantica; 5) la rotta del Mar Nero; 6) la rotta del Mediterraneo occidentale; 7) la rotta del Mediterraneo orientale; 8) e la rotta del Mediterraneo centrale. La rotta del Mediterraneo centrale coinvolge le frontiere marittime di Libia, Tunisia, Malta e Italia, costituendo uno spazio di 400 km circa. Il Mediterraneo centrale però costituisce solamente la parte finale di un lungo viaggio che spesso dura tra i 2 ed i 5 anni. Prima di arrivare in Libia o in Tunisia, chi migra ha intrapreso una delle 5 rotte migratorie terrestri che dall’Africa Subsahariana portano all’Italia. Ognuna di queste rotte attraversa il deserto del Sahara e passa o nella cittadina di Agadez, in Niger, per chi parte dal Sahel occidentale o per Khartoum, la capitale del Sudan, per chi parte dal Sahel orientale. Il protagonismo del Mediterraneo Centrale nelle migrazioni del XXI secolo La rotta del Mediterraneo Centrale ha iniziato ad assumere un ruolo rilevante a seguito della caduta del Muro di Berlino. Fino a quel momento, la maggior parte dei flussi migratori verso l’Europa proveniva dalla frontiera orientale, ovvero dai Paesi dell’Ex-Unione Sovietica. La cosiddetta epoca del bipolarismo ha avuto effetti anche nel continente africano, dove i due blocchi combattevano guerre per procura e finanziavano le élite locali. Di conseguenza, le pressioni politiche ed economiche, le forniture di armi, i mercenari e talvolta interventi militari diretti sono stati fattori che hanno contribuito al sorgere di nuovi conflitti od all’inasprimento di quelli storici. Al termine di questa epoca – e di conseguenza dei finanziamenti da parte degli Stati Uniti o dell’Unione Sovietica – si aprirono nuovi teatri di crisi a causa di una nuova instabilità politica a cui si susseguirono crisi umanitarie, conflitti e fenomeni di persecuzione verso le minoranze e gli oppositori politici. Questo cambiamento dello scenario geopolitico ha portato, da una parte, a nuovi flussi migratori e, dall’altra, a ripensare le politiche d’immigrazione nei Paesi del Nord del mondo. É bene notare però che la gran parte dei flussi migratori africani si svolgono, prima più di oggi, all’interno del continente e, nella maggior parte dei casi, l’Europa non è la destinazione finale programmata all’inizio del viaggio. Fino ai primi anni 2000 vi erano importanti sistemi regionali di migrazioni che nei decenni si sono costruiti attorno a centri economici africani in crescita, come nel caso della Libia. Questo Paese ha infatti storicamente rappresentato un’importante destinazione dei flussi migratori africani e, fino al 2011, non era affatto una meta di transito. Ciò era dovuto, almeno fino alla seconda metà degli anni ‘90, alla politica promossa dal Colonnello Gheddafi volta a favorire i cosiddetti migranti economici provenienti dall’Africa subsahariana al fine di impiegarli nel comparto petrolifero ed edilizio. Dal 2000 però, gli africani subsahariani hanno cominciato sempre più ad essere vittime della xenofobia e delle violente rivolte anti-immigrazione che dilagavano nel Paese. Si assistette ad una escalation di violenze nei confronti dei subsahariani  che sfociarono in espulsioni, detenzioni arbitrarie e tortura. Ciò spinse a nuovi fenomeni migratori verso altri Stati del Nord Africa o l’Europa. Nonostante ciò, la Libia ha continuato ad essere un’importante destinazione fino al 2011. Le cosiddette Primavere Arabe hanno riconfigurato ulteriormente i flussi migratori contemporanei facendo registrare un aumento esponenziale dei numeri sulle rotte marittime migratorie del Mediterraneo. Le proteste hanno infatti portato alla caduta di regimi ultra-decennali (come ad esempio Mubarak in Egitto, Ben Alì in Tunisia e Gheddafi in Libia) che a loro volta hanno portato ad una instabilità politica che ha contribuito ad aumentare i movimenti di popolazione tra le due sponde del Mediterraneo. Nel caso libico, il violento conflitto tra le milizie di Gheddafi ed i ribelli ha causato il ritorno in massa dei lavoratori migranti verso paesi sub-sahariani, come il Niger, il Mali e il Ciad. Ciò ha avuto effetti sulla stabilità di altri Paesi, ad esempio il ritorno dei Tuareg dalla Libia al Mali sembrerebbe aver incoraggiato la ribellione Tuareg nel nord del Mali. Dopo la caduta del regime di Gheddafi, la Libia è caduta in una crisi senza fine e si è trasformata, ancora più di prima, in un porto franco per trafficanti di esseri umani, per la criminalità organizzata e per le milizie che si scontrano per prendere il potere. A pagare questo vuoto politico sono nuovamente le migliaia di persone provenienti dall’Africa sub-sahariana che per anni hanno lavorato in Libia. Queste all’indomani della morte del Colonnello si sono ritrovati in un vero e proprio limbo subendo violazioni dei diritti e violenze. A ciò si aggiunge che la debolezza politica della Libia e la possibilità dei trafficanti di infiltrarsi nelle istituzioni, come ad esempio nel caso del noto trafficante di esseri umani Al-Bija accolto in Italia come esponente della Guardia costiera libica, hanno reso la rotta del Mediterraneo centrale più appetibile per la criminalità organizzata. Qui infatti, i trafficanti possono agire indisturbati e sfruttare o ricattare coloro che decidono di intraprendere il viaggio. Ciò accade in misura minore nella rotta del Mediterraneo Occidentale, dove il governo Spagnolo finanzia  il governo del Marocco, e nella rotta del Mediterraneo Orientale, dove

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