La frontiera Stati Uniti – Messico: muri visibili e invisibili

In quattro anni di presidenza, Donald Trump non ha mai fatto mistero delle sue intenzioni di chiudere definitivamente la frontiera con il Messico, a sud degli Stati Uniti. La costruzione del muro che separa questi due Paesi, già iniziata negli anni ‘90, è stata infatti uno dei punti saldi della sua campagna elettorale.

Questa prevedeva l’implementazione della barriera per impedire l’immigrazione dall’America Latina, con un forte impatto sulle risorse economiche e ambientali, nonché sui diritti umani.

A livello mediatico la sua feroce retorica contro l’immigrazione ha suscitato scalpore. Secondo le sue dichiarazioni, non solo il muro sarebbe stato finanziato dai messicani, ma lo stesso status di immigrato sarebbe stato ridefinito legalmente tramite l’imposizione di norme più restrittive. La sua politica migratoria si sarebbe basata sul rimpatrio e l’incarcerazione di centinaia di migliaia di persone.

Nell’arco del suo mandato presidenziale egli ha effettivamente rafforzato la barriera di confine, ostacolando ulteriormente l’immigrazione attraverso legislazioni e burocrazie.

Questo non ha impedito a migliaia di sudamericani di avventurarsi nella traversata dell’America centrale, nel tentativo di scavalcare la barriera, mettendo a rischio la propria vita e la propria incolumità nella disperata ricerca di una protezione.

Le cause della migrazione

Il passato coloniale del continente americano ha plasmato la situazione sociopolitica ed economica odierna in maniera decisiva. Le popolazioni precolombiane furono infatti sterminate o confinate in zone isolate dai nuovi coloni europei del XVI secolo, i quali si incaricarono così di riscrivere da zero la storia della società americana.

La nascita degli Stati Uniti come federazione di stati sovrani ha spostato l’ago della bilancia geopolitica da est a ovest. Con la sua escalation a superpotenza mondiale, l’influenza statunitense sul resto del continente è stata determinante nell’impedire lo sviluppo dei Paesi del sud.

La condizione economica che ne è emersa ha visto dunque gli Stati Uniti prendere il controllo della produzione, del commercio e della manodopera del sud. Alla stessa maniera, dal punto di vista sociopolitico, l’America Latina e centrale sono sempre state soggette all’interventismo degli USA nelle questioni interne.

La sua prepotente influenza sul resto del continente ha dato forma ad una società molto ineguale, con delle forti élite di imprenditori e politici benestanti che governano sulle grandi masse di popolazione svantaggiata, carente di qualsiasi tipo di assistenza sociale e relativamente povera.

Queste sono le motivazioni principali che hanno destato un forte sentimento antiamericano nelle popolazioni dell’America centrale e del sud. Tuttavia – per le stesse ragioni – migliaia di persone ogni anno lasciano la propria casa e si incamminano verso nord.

Il muro che divide gli Stati Uniti dal Messico è dunque un muro mentale, oltre che fisico. Questo non solo divide i due Paesi e i rispettivi continenti, ma anche due società, due ideologie di vita opposte. I privilegiati dagli svantaggiati, ed i governanti dai governati.

Ed è per questo che molte persone rischiano la vita per scavalcare quel muro.

La rotta verso la frontiera Stati Uniti – Messico

Il muro di confine è solo il traguardo di un lungo viaggio. La rotta migratoria che interessa la regione inizia dai Paesi del centro America, prevalentemente dall’Honduras ed El Salvador, attraversa il Messico e raggiunge la frontiera.

Il cammino è ricco di ostacoli e pericoli. Chi viaggia da solo rischia di essere rapinato, rapito o addirittura ucciso dalle gang criminali che militano in queste zone e che sono concausa della migrazione in sé.

Al confine, poi, dove non c’è il muro c’è il deserto più caldo del Messico. La frontiera occidentale con gli Stati Uniti, infatti, si trova in mezzo al deserto di Sonora. Molti migranti terminano la loro traversata proprio qui, soccombendo al caldo, alla disidratazione, alla fame e alla stanchezza.

Secondo i dati raccolti dall’associazione No More Deaths, che si occupa di soccorrere i migranti nelle zone desertiche di Sonora, in quattro anni sono stati rinvenuti 1086 cadaveri. Il conteggio, includendo solo i corpi rinvenuti dagli ufficiali della polizia di frontiera (Border Patrol) in territorio statunitense, non risulta accurato poiché taglia fuori tutti coloro che hanno perso la vita in terre messicane.

L’entità della tragedia che ogni anno si abbatte su questa regione ha fatto sì che alcune organizzazioni si interessassero al fenomeno migratorio in corso. Oltre No More Deaths, anche Humane Borders si occupa di assistere i migranti in difficoltà.

Più a monte del processo migratorio, in Honduras, l’associazione Pueblos Sin Fronteras organizza la partenza dell’esodo, raccogliendo e accompagnando carovane di vari popoli caraibici, da San Pedro Sula fino alla frontiera Messico – Stati Uniti. Così, migliaia di migranti marciano insieme attraverso il Guatemala e poi il Messico nel tentativo di scappare dalla violenza, dalla povertà e dalla repressione politica subìta nel proprio Paese.

L’immigrazione negli Stati Uniti

La presidenza di Donald Trump ha buttato benzina sul fuoco della questione dei migranti, intavolando una guerra economica e diplomatica contro il Messico. Dopo il rifiuto a contribuire al muro, il presidente messicano Enrique Peña Nieto ha ceduto alle minacce di bloccare le rimesse degli immigrati, di alzare i dazi e le tasse sulle domande di visto e di applicare tariffe commerciali sfavorevoli al Messico.

Dal 2018 il presidente ha intrapreso la scelta strategica di bloccare la carovana in territorio messicano.

Alcuni migranti vengono rimpatriati, altri si fermano in Messico in attesa di una risposta alla richiesta di asilo negli Stati Uniti. Altri ancora decidono di fermarsi qui in pianta stabile, accettando l’offerta di un permesso di soggiorno temporaneo che possa permettere loro di trovare un lavoro e ricevere assistenza medica.

Anche chi è riuscito a scavalcare il muro spesso finisce per essere “riconsegnato” al Messico. Nel 2019 più di 60mila persone sono state espulse dal territorio statunitense.

Dal 2018 il governo di Trump, tramite la politica “zero tolerance”, ha inaugurato la pratica di divisione delle famiglie di migrati alla frontiera. Questa prevede la separazione tra i clandestini adulti e i propri figli. I primi vengono incarcerati, mentre i minorenni vengono affidati in custodia a strutture apposite situate in tutto il Paese.

La dichiarazione di un alto funzionario giuridico dell’entourage di Trump lascia intendere il clima che si respira alla Casa Bianca: “Se stai contrabbandando un bambino, allora ti perseguiremo e quel bambino sarà separato da te come richiesto dalla legge.”

Il futuro delle frontiere

Con l’avvento della pandemia la situazione sulla frontiera a sud degli Stati Uniti sta precipitando. Le persone respinte sono in aumento, non solo da qui ma anche dal Messico. La procedura adottata in tempi di Covid-19 prevede l’espulsione diretta dei migranti, senza affrontare il processo legale. Il Messico, invece, si è dimostrato più ospitale, promettendo accoglienza ai cittadini honduregni, guatemaltechi e salvadoregni.

Il futuro dei flussi migratori è preoccupante. La crisi sanitaria ha causato la chiusura delle frontiere, bloccando i migranti alle porte della loro destinazione. La crisi economica, poi, colpirà più forte quelle realtà già vulnerabili dai quali i migranti scappano. Questo porterà con ogni probabilità ad un esodo ancora più imponente, che dovrà scontrarsi contro un vero e proprio muro.

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Bosnia Croazia Confine

Bosnia: L’urlo disperato dalla foresta innevata

Dopo mesi di respingimenti sistematici al confine fra la Croazia e la Bosnia, migliaia di richiedenti asilo sono costretti a sopravvivere nelle gelide foreste bosniache. L’Ufficio dell’Alto Rappresentante per i Rifugiati delle Nazioni Unite ha dichiarato: “L’ufficio è allarmato per la frequenza crescente con cui i rifugiati e i richiedenti asilo vengono espulsi e respinti alle frontiere terrestri e marittime dell’Europa, e chiede agli Stati di indagare e fermare queste pratiche” Effettivamente, i numeri e gli incessanti casi che continuano ad essere raccontati sia fra le prime pagine delle testate giornalistiche, che ai tavoli delle varie organizzazioni internazionali, che sono direttamente sul campo al fine di aiutare i rifugiati e gli sfollati, confermano tali attestazioni. Fra i casi più eclatanti e terrificanti di questi mesi bisogna soffermarsi sulla Bosnia-Erzegovina. Negli ultimi anni il paese è stato prettamente “di transito”, ossia uno stato che i rifugiati e richiedenti asilo attraversano per poi raggiungere le loro destinazioni finali lungo la Rotta Balcanica. Quest’ultima consiste nel tragitto che parte dai paesi d’origine ed attraversa la Grecia e tutti i paesi balcanici per arrivare in Europa. Dal momento che la Bosnia non è stata una delle principali protagoniste della prima grande ondata migratoria – la cosiddetta “crisi migratoria del 2015” – non era molto preparata a fronteggiare un arrivo massivo di migranti e richiedenti asilo. Il Paese non ha a disposizione centri d’accoglienza e forniture di prima necessità tali da poter ospitare tutti i richiedenti asilo che si trovano sul proprio territorio in questo momento. Ad ogni modo, ancora oggi la Bosnia continua a rimanere un paese di transito, questo perché ultima meta dei richiedenti asilo – dopo essere passati per la Grecia i cui confini esterni con la Turchia rappresentano una costante minaccia per gli equilibri geopolitici tra l’Europa e lo stato di Ankara che peggiora ulteriormente le condizioni di vita dei migranti– rimane l’Europa, percepita come luogo sicuro in virtù della presenza di maggiori servizi di accoglienza e quindi di maggiore stabilità. Sfortunatamente i continui respingimenti alla frontiera con la Croazia, condotti in maniera sistematica e spesso violenta dalla polizia croata, hanno costretto migliaia di richiedenti asilo a rimanere per mesi in Bosnia, dove ora trovano rifugio in condizioni al limite dell’umano e che, molto spesso, non rispettano gli standard umanitari di base. Ma cosa sono i Respingimenti, anche detti “Push-Backs”? I respingimenti, o push-backs, sono uno dei mezzi maggiormente utilizzati dagli Stati di frontiera durante le procedure di controllo dell’immigrazione ed avvengono sulla linea di confine o al di fuori del territorio dello Stato stesso. Questa ed altre procedure, infatti prendono il nome di pratiche d’immigrazione extraterritoriale. I respingimenti possono essere di due tipi: terrestri o marittimi. In mare un respingimento avviene quando, dopo che un gommone con a bordo migranti viene riconosciuto, viene abbordato dalla guardia costiera e susseguentemente trainato dalla stessa fino a raggiungere le acque territoriali dalle quali si presume che il gommone sia partito. Lo scopo ultimo è quello di far desistere i migranti – che secondo il diritto del mare, si trovano in una situazione di “distress”, ovvero difficoltà, in quanto lo stesso gomone è così sovraffollato che il rischio di affondare è elevato– nel ritentare il viaggio che li porterebbe in un porto sicuro. Uno dei primi casi, concernenti questa forma di respingimento è stato affrontato dalla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) in Xhavara et al., dove, nel 1997, nel respingere una barca ricolma di migranti albanesi, una nave della Marina Italiana, ha tentato una manovra di respingimento che ha portato al ribaltamento della barca stessa ed alla successiva morte di 58 richiedenti asilo. La Corte CEDU, in questo caso ha condannato lo Stato italiano per la violazione dell’Articolo 2 della Convenzione – diritto alla vita – in quanto il fatale incidente era stato causato direttamente dalla nave delle Marina Militare italiana. Altro famosissimo caso in cui la nostra Marina Militare si è resa protagonista è il caso Hirsi Jammaa, concernente sempre un respingimento avvenuto nel 2009, quando un gommone con a bordo migranti provenienti dalla Libia, era stato abbordato ed i migranti che trasportava erano stati fatti salire sulla nave militare italiana. A questo punto la nave li porta forzatamente in Libia, dove di alcuni di loro si perdono completamente le tracce, altri sono caduti vittime del traffico di esseri umani, mentre altri ancora sono stati rispediti nei loro paesi d’origine. Dal momento che la giurisdizione su una nave battente bandiera italiana è dell’Italia – quindi a bordo valgono le stesse leggi che valgono sul suolo nazionale – la Corte ha condannato l’Italia che non ha applicato come avrebbe dovuto tutte quelle norme provenienti dal Dritto Internazionale, dai vari trattati sui Diritti Umani e dal Diritto Europeo. Similarmente, i respingimenti su terra avvengono proprio quando la polizia di confine di un determinato paese, controlla i richiedenti asilo e li blocca o li rispedisce all’interno dello stato confinante, senza, applicare le norme sopracitate. Ma che leggi ci sono a protezione dei richiedenti asilo? La Convenzione di Ginevra del 1951, sullo status dei rifugiati, è uno dei trattati che maggiormente impone agli stati firmatari di bilanciare la loro sovranità territoriale e quindi, il loro potere sul territorio. Potere che, per altro, permette all’autorità statale di decidere chi può o non può entrare, con alcune garanzie di protezione da riservare anche a coloro che non sono classificati come cittadini. Infatti, anche se l’Articolo 14 – sul diritto d’asilo – della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo viene considerato un “diritto vuoto” dal momento che tale concessione è comunque subordinata alla discrezionalità dello Stato, d’altra parte gli stati firmatari e ratificanti della Convenzione di Ginevra hanno il dovere di garantire l’accesso alle procedure d’asilo e su di loro vige il divieto di respingere (non refoulment) gli individui che potrebbero essere esposti ad un serio rischio di persecuzione qualora fossero costretti a rientrare nel paese dal quale sono scappati. Questa “sfida” alla sovranità statale, può essere ritrovata sia nell’articolo 31 che 33 della Convenzione sullo status dei rifugiati.

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La rotta del Mediterraneo Occidentale

Tra il 17 e il 18 maggio 2021, in quasi 24 ore,  circa 8 mila persone sono entrate nell’enclave spagnola di Ceuta, punto finale della rotta del Mediterraneo occidentale, per richiedere asilo in Europa. Lì migliaia di migranti hanno cercato di superare l’unica frontiera che unisce l’Africa all’Europa rischiando l’ipotermia e la morte. Solo nei primi 6 mesi del 2021 sono stati registrati 13.483 arrivi lungo la rotta del Mediterraneo occidentale ma i dati, offerti da FRONTEX e dal Ministero dell’Interno spagnolo, non comprendono gli arrivi a Ceuta del 17 e del 18 maggio poiché il governo spagnolo ha schierato l’esercito e rimandato indietro quasi la metà delle persone che hanno tentato l’attraversamento. La rotta del Mediterraneo Occidentale Secondo l’Agenzia Europea per il controllo delle Frontiere Esterne (FRONTEX) sono otto le principali rotte che rifugiati e migranti percorrono nel tentativo di raggiungere l’Unione Europea: 1) la rotta orientale; 2) la rotta balcanica; 3) la rotta circolare; 4) la rotta atlantica; 5) la rotta del Mar Nero; 6) la rotta del Mediterraneo centrale; 7) la rotta del Mediterraneo orientale; 8) e la rotta del Mediterraneo occidentale. La rotta del Mediterraneo occidentale  si riferisce agli arrivi in Spagna sia attraverso il Mediterraneo verso la Spagna continentale, sia verso le enclave spagnole di Ceuta e Melilla nell’Africa settentrionale. Chi sceglie di percorrere questa rotta, transita attraverso il Marocco, il Sahara Occidentale, la Mauritania e l’Algeria per raggiungere l’Europa. La rotta del Mediterraneo occidentale nel 2018 è stata la rotta maggiormente utilizzata ma, da allora, il numero degli arrivi è costantemente diminuito a causa dei maggiori sforzi del Marocco nella lotta contro la migrazione irregolare, la cooperazione di Spagna ed Unione Europea con il Paese maghrebino e la pandemia legata al Covid-19. Le frontiere sono sorvegliate dalle autorità marocchine, per nulla toccate dalle Primavere Arabe, in cambio di finanziamenti economici da parte del Governo di Madrid, garantendo un’intensa azione di contrasto ai flussi migratori provenienti dall’Africa subsahariana. A ciò, si aggiunge il sostegno di FRONTEX al governo spagnolo attraverso il controllo delle sue frontiere esterne continentali con l’ausilio di operazioni marittime congiunte, come ad esempio l’Operazione Indalo. Dopo gli eventi del maggio 2021 e la distensione dei rapporti con la Spagna, il Marocco ha cominciato ad erigere recinzioni di filo spinato alla frontiere di Ceuta. L’entrata in massa di migranti sembrerebbe essere causato da una crisi diplomatica nata dopo che il governo spagnolo ha accolto sul proprio territorio Brahim Ghali, leader del Fronte Polisario. La questione riguarda il riconoscimento del Sahara occidentale in quanto provincia marocchina e la distensione dei rapporti tra i due Paesi è avvenuta in seguito alle dimissione del Ministro degli Affari esteri spagnola Arancha González Laya e la nomina di José Manuel Albares come nuovo Ministro. L’azione marocchina sembrerebbe quindi essere stata un vero e proprio ricatto diplomatico a spese di migliaia di esseri umani ed il nuovo filo spinato non esclude che ciò riaccada in futuro. La rotta del Mediterraneo Occidentale: le migrazioni come arma sulla questione del Sahara Occidentale La rotta del Mediterraneo Occidentale sembrerebbe essere stata usata, nonostante le smentite ufficiali, come arma diplomatica ed alle origini della crisi del maggio 2021 sembrerebbe esserci stato un allentamento dei controlli alle frontiere da parte della polizia marocchina. La mossa del governo di Rabat sembrerebbe essere una risposta alla decisione spagnola di accogliere sul suo territorio il leader del Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro, meglio noto come Fronte Polisario, ovvero del movimento indipendentista del Sahara Occidentale che ha  lo scopo di ottenere la realizzazione del diritto all’autodeterminazione per il popolo Sahrawi. La questione della sovranità sul Sahara occidentale è al centro di una disputa da molto tempo e, dopo il riconoscimento da parte dell’amministrazione Trump della sovranità marocchina sul territorio, il Marocco sta facendo sempre più pressione affinché l’Unione Europea riconosca la sua sovranità. Sahara spagnolo, province del sud, Repubblica Araba Sahrawi Democratica e Sahara occidentale sono tutti nomi che indicano la medesima porzione di territorio e ognuna traduce uno specifico “progetto politico” degli attori che hanno agito su di esso. La questione del Sahara occidentale assume un ruolo di primo piano solo recentemente, con la fine del dominio coloniale spagnolo nel 1975. Il periodo coloniale aveva visto un confronto tra gli spagnoli e la popolazione locale dei Sahrawi, un rapporto che vedeva colonizzatori e colonizzati. Negli ultimi anni della dominazione spagnola, anche a causa di questo scontro, il popolo Sahrawi ha iniziato a riconoscersi in un processo di costruzione nazionale e si sono compattati attorno al progetto indipendentista del Fronte Polisario. La fine della dominazione spagnola ha però complicato vicenda e gli attori regionali, primi tra tutti il Marocco e la Mauritania,  colsero l’occasione per far valere le proprie rivendicazioni sul territorio Sahariano. Nel 1975 si giunse a una situazione di compromesso e venne sottoscritto l’accordo tripartito Ispano-Marocchino-Mauritano che di fatto spartì i domini spagnoli tra il Marocco e la Mauritania, suscitando il contrasto con le Nazioni Unite in quanto non si era data la possibilità al popolo Sahrawi di far valere il proprio diritto all’autodeterminazione come garantito dalla Risoluzione n.1514 del 1960. Dopo la spartizione, il Fronte Polisario decise di proseguire l’obiettivo indipendentista con una strategia più strutturata dal punto di vista politico e militare. Nel 1976 venne proclamata la Repubblica Araba Sahrawi Democratica, si costituì un governo in esilio presso il campo profughi di Tindouf in Algeria e si riorganizzò l’assetto militare con lo scopo di effettuare azioni di guerriglia contro i due Paesi del Maghreb. Presto la Mauritania ebbe problemi a mantenere l’occupazione a causa delle proprie fragilità politiche ed economiche  e nel 1979 optò per il ritiro dal territorio. Il Marocco di risposta annesse repentinamente tutto il territorio e lo denominò “Province del Sud”. Da allora la questione del Sahara Occidentale si è identificata nello scontro tra il Marocco, che vuole vedere riconosciuta la sovranità sulle province del Sud, e i Sahrawi, che vogliono vedersi riconosciuto il diritto all’autodeterminazione ed alla propria indipendenza. I motivi dietro

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Frontiera greco turca

LA FRONTIERA GRECO-TURCA: genesi di una nuova crisi migratoria

La crisi che vede come disperati protagonisti i rifugiati bloccati alla frontiera tra la Turchia e la Grecia dimostra ancora una volta il divario esistente tra il diritto internazionale ed europeo in materia di asilo e la sua effettiva implementazione. Il 27 febbraio 2020, il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato che le frontiere erano aperte e che i rifugiati non sarebbero più stati fermati nel loro tentativo di raggiungere l’Europa. In risposta al provvedimento turco, tra le 10.000 e le 20.000 persone, perlopiù profughi siriani, ma anche afghani, iraniani e iracheni, hanno quindi raggiunto la frontiera nord-est della Turchia, dove il fiume Evros crea un confine naturale con la Grecia, e dunque con l’Unione europea (Ue). Ad aspettarli le forze di sicurezza greche determinate a non farli passare, anche a costo di attuare misure durissime. Sono presenti ovviamente soggetti vulnerabili quali bambini/e ed anziani/e o semplicemente persone scappate da aree di conflitto e costrette a vivere lontano da casa in condizioni di indeterminatezza e povertà. Ma facciamo un passo indietro per sintetizzare il contesto geopolitico che ha portato a questa situazione, partendo proprio dal ruolo della Turchia. La Turchia: avamposto d’Europa Dall’inizio del conflitto siriano, ormai nove anni fa, la Turchia è il paese che più di tutti ha accolto i profughi in fuga dalla guerra, al momento ospita circa 4 milioni di migranti, di cui 3,6 milioni di siriani. Infatti, nonostante la Turchia non sia nota per il rispetto dei diritti umani, il Paese ha applicato, fino alla chiusura della frontiera nel 2015, una politica di “porta aperta” rispetto ai profughi provenienti dalla Siria. È necessario spiegare perché in questo caso non sia corretto, almeno formalmente, parlare di rifugiati. La Turchia, infatti, pur avendo ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, lo ha fatto con una clausola che ne limita l’applicazione alle persone provenienti dall’Europa, portando i milioni di profughi di guerra a non usufruire ufficialmente dello status di rifugiato, seppur acquisendo altri tipi di protezione. Questo è uno dei motivi che denota la poca credibilità dell’accordo del 2016 stipulato tra l’Unione europea e la Turchia. In seguito al grande flusso migratorio che ha interessato l’Europa nel 2015, l’Ue ha proposto alla Turchia di fungere da barriera per l’arrivo dei migranti, soprattutto siriani. In cambio di 6 miliardi di euro e di passi avanti nel processo di adesione all’Ue, la Turchia ha accettato di far rientrare i richiedenti asilo presenti soprattutto sulle isole greche. D’altro canto l’accordo prevedeva per ogni profugo siriano rimandato in Turchia dalla Grecia, il trasferimento di un altro siriano dalla Turchia all’Unione europea attraverso dei canali umanitari. L’accordo Ue – Turchia non è stato rispettato del tutto da parte di entrambi gli attori coinvolti. Se l’Unione aveva promesso il reinsediamento di circa 70.000 profughi siriani presenti in Turchia, risulta che quelli effettivi siano stati 25.000. Anche la Turchia d’altra parte non sembra aver portato avanti i rientri in Turchia dei siriani presenti in Grecia. Questo delicato quadro ha subito uno svolta in seguito alle conseguenze della tragica situazione che sta vivendo la provincia siriana di Idlib, a ridosso del sud della Turchia, ultimo territorio ribelle rimasto fuori dal regime di Assad. La Turchia, dal 2016, è in parte coinvolta nel conflitto siriano tramite operazioni militari nel nord del Paese le quali, se da una parte hanno come obiettivo il rientro dei profughi siriani, dall’altro celano la volontà di contrastare i territori a maggioranza curda e le Unità di protezione popolare (Ypg). L’esercito turco è presente anche nella provincia di Idlib per monitorare l’area. Qui, dal dicembre 2019, l’esercito di Assad, supportato dalla Russia, sta bombardando indiscriminatamente colpendo soprattutto civili che non hanno alternativa se non fuggire verso i confini turchi. In questo contesto sono rimasti uccisi a fine febbraio 2020 ad Idlib, da parte dell’aviazione siriana, più di trenta soldati turchi. Di fronte a questa escalation di tensione, il governo turco si è ritrovato, isolato a livello internazionale e con un calo di consenso dovuto in parte alla questione migratoria e alle ricadute sociali ed economiche che ne conseguono, ad affrontare l’arrivo di una nuova ondata di sfollati dall’area di Idlib. Erdoğan ha deciso così di utilizzare i profughi presenti nel suo territorio per attirare l’attenzione dell’Unione europea. Quale modo migliore se non aprire unilateralmente il confine con la Grecia nell’era delle frontiere chiuse? Confini violenti Ad accogliere i profughi, che si sono precipitati dalla Turchia al confine con la Grecia dopo aver saputo dell’apertura della frontiera, è stato il filo spinato e le guardie frontaliere greche, armate di gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Oltre al confine terrestre, rappresentato dal fiume Evros, migliaia di migranti si sono diretti sulle isole greche di fronte alle coste turche, in particolare Lesbo, Kos e Samos, e anche in mare le forze di sicurezza greche hanno adottato misure inaccettabili, speronando i gommoni dei migranti e sparando proiettili in acqua rivolti verso di essi. Nel frattempo la tensione sulle isole è diventata altissima, poiché la nuova ondata di arrivi si inserisce in una situazione preesistente di sovraffollamento e di disagio. Basti pensare al campo d’accoglienza di Lesbo, pensato per tremila persone, ma che ne accoglie al momento 21mila.  Sulle isole greche stanno aumentando, inoltre, attacchi violenti a migranti, attivisti ed operatori umanitari da parte dei militanti del partito di estrema destra Alba Dorata e non solo. In ultimo l’incendio, probabilmente doloso, della scuola dell’ong svizzera One Happy Family, un centro che ogni giorno accoglieva fino a 800 migranti. La risposta europea In risposta all’apertura della frontiera da parte della Turchia, il 1° marzo il Primo Ministro greco, Mītsotakī, ha annunciato la sospensione della presa in carico delle domande di asilo per un mese e ha dichiarato l’espulsione di chiunque entri irregolarmente nel Paese. L’Ue ha appoggiato la Grecia, e durante la sua visita al confine con la Turchia, Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione europea, ha definito la Grecia “lo scudo d’Europa”. L’Unione si è impegnata a sostenere la Grecia con un finanziamento di 700

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In un viaggio di viaggi. Fare volontariato a Calais.

Oggi andiamo ad esplorare il nord della Francia, a neanche tre ore dalla capitale, a Calais, una città apparentemente uguale al resto delle città francesi. Da sei anni a questa parte Calais è però diventata un porto d’arrivo per migliaia di rifugiati che sognano le coste inglesi. Le condizioni in cui vengono accolti e costretti a vivere sono uno scandalo dal punto di vista della dignità umana, denunciato a più riprese da organizzazioni umanitarie in tutta Europa. Le polemiche crescono ma le soluzioni reali sembrano ancora essere lontane. Una vasta rete di ONG francesi ed inglesi è l’unica vera fonte di salvezza per i rifugiati di Calais. Large Movements vuole promuovere un dialogo vivo e vero con i rifugiati, e ha deciso così di intraprendere un’esperienza sul campo di Calais, attivandosi con una delle principali ONG inglesi. Qui, la maggior parte dei migranti proviene dall’Afghanistan, Eritrea, Iran, Iraq e Sud Sudan. Per lo più sono uomini, tra i 16 ed i 40 anni. Questo perché i governi di provenienza impongono loro il servizio militare obbligatorio e l’unica via per sottrarsene è la fuga. Tra tutti i paesi in Europa, nonostante la Brexit e la barriera linguistica, l’Inghilterra resta tra le mete predilette e viene percepita da queste persone come la speranza per migliori condizioni di vita grazie al facile accesso al mondo del lavoro. Purtroppo, quest’ultimo, come testimoniano molti dei rifugiati, è il mondo del lavoro in nero, che non richiede tutti quei documenti e procedure burocratiche i cui tempi di attesa spesso superano quelli del viaggio per raggiungere le coste europee. Tra le ragioni che ispirano ad intraprendere un’esperienza di volontariato a Calais è proprio la posizione di questa realtà, scenario di una delle crisi umanitarie più gravi in Europa. L’espressione “crisi umanitaria” è normalmente associata a paesi lontani, a territori sperduti e contaminati dalla guerra. Eppure, la (non) gestione degli arrivi di immigrati in Francia ha fatto sì che il confine franco-inglese si sia trasformato in un luogo dove è scoppiata una profonda crisi umanitaria, violando diritti e principi fondamentali. La tristemente nota “Giungla di Calais” si trova nel dipartimento di Grand-Synthe, a Dunkerk, ad una ventina di km dal centro di Calais. Dallo smantellamento del 2016 in realtà, della Giungla rimangono soltanto delle tracce. Oggi i rifugiati si trovano in varie zone di accampamento tra il centro e fuori città, privi di una struttura di riferimento come ai tempi della Giungla. Le zone di accampamento sono infatti enormi aree che si sviluppano dove intorno non vi è assolutamente nulla oppure accanto a grandi centri commerciali, dove le ONG attive sul territorio organizzano quotidianamente la distribuzione di cibo e beni essenziali come vestiti, coperte o tende. Oltre all’ex Giungla di Calais, le distribuzioni avvengono in più punti della città: le piazzole situate sia di fronte l’ospedale principale sia nelle vicinanze del tunnel della Manica sono due tra questi. Il tunnel giunge fino in Inghilterra ed è da qui che tutte le notti molti rifugiati provano a salire su di un camion nel disperato tentativo di raggiungere la terra anglosassone. Dal 2017 il Comune ha messo a disposizione un servizio di docce per i migranti e, per i mesi più freddi, un sistema di dormitori per proteggersi dalla morsa del gelo. Tuttavia, la convivenza in stretti spazi e sotto il controllo di personale francese non è sempre la scelta prediletta dai migranti. Infatti, nel corso degli anni si sono ripetuti scontri e violente discussioni che hanno fatto chiudere o sospendere i servizi. Risale allo scorso gennaio la denuncia delle maggiori ONG circa l’attivazione di questi servizi perché, secondo la legge nazionale, spetta al prefetto decidere l’attivazione – e quindi anche l’interruzione o la sospensione – di questi servizi ma non sempre questa funzione è considerata una priorità nell’agenda amministrativa. A Calais lo stereotipo europeo del migrante – al quale la maggioranza della popolazione occidentale in qualche modo è assuefatta a causa del continuo bombardamento informatico e mediatico che lo diffonde quotidianamente – viene a cadere fin dal primo giorno. Si incontrano storie di persone che vogliono rivendicare un destino ingiusto, perché nati in paesi la cui miseria e violenza non ha permesso loro di vivere una vita degna di essere chiamata tale. I più giovani non hanno potuto frequentare la scuola ma riescono ad imparare da autodidatti l’inglese, a volte anche il francese o l’italiano, con una dizione ed una padronanza quasi perfetta. I più anziani lasciano spesso carriere brillanti nell’ambito della ristorazione o dell’estetica. È sorprendente ad esempio come i parrucchieri curino l’aspetto dei loro compagni anche sotto la neve o con il freddo che rende i campi immense distese di ghiaccio. Operare in un luogo del genere permette anche di scoprire la diversità delle nazioni di provenienza dei rifugiati e la loro organizzazione in territorio straniero. Gli Afghani, insieme agli Iracheni, Curdi ed Iraniani si “impongono” sul resto degli altri rifugiati dato il loro carattere particolarmente forte. Ad esempio, nelle attività sportive accade spesso che i Sudanesi o gli Eritrei siano esclusi o mal visti, a causa della loro esile forma fisica. Per quanto riguarda invece l’organizzazione delle comunità, gli Eritrei hanno una loro interna gerarchia: vi è un capo eletto che ogni giorno si occupa di ripartire i vari beni ricevuti. Interessante è anche capire come la popolazione di Calais percepisce e descrive lo scenario. Un primo elemento è legato allo scenario politico locale: dal 2008 Natacha Bouchart, rappresentante repubblicana, è il sindaco di Calais e fin da subito ha adottato una serie di misure per contrastare l’arrivo clandestino dei migranti, invocando un continuo scambio di informazioni con le autorità inglesi ed invocando che le stesse si assumano le proprie responsabilità in merito alla regolarizzazione dei flussi migratori. Il sindaco ha anche più volte denunciato l’operato delle organizzazioni perché “si servono dei migranti per esistere”. Al di là del discorso politico, vi è una parte dei cittadini di Calais che si lamenta della reputazione che ha ormai acquisito la loro città. “Calais viene ormai unicamente

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I Rohingya: la minoranza invisibile

Tra le grandi crisi umanitarie del nostro tempo quella che coinvolge i Rohingya del Myanmar è tra le meno conosciute. Pur avendo acquisito rilevanza sulla scena internazionale solo nel 2017, le violenze e le discriminazioni che hanno costretto più di un milione e mezzo di persone al dislocamento forzato in Bangladesh hanno origini lontane, facendo tristemente conquistare ai Rohingya la denominazione di “minoranza più perseguitata al mondo”. Clandestini nel proprio paese Le origini dei Rohingya sono contese e da sempre strumentalmente usate dal Myanmar (Ex-Birmania) per negare sistematicamente i loro diritti. Gli stessi dati che li riguardano sono incerti per lo stesso motivo, i Rohingya sono invisibili anche agli occhi delle statistiche governative, non venendo inclusi nei censimenti nazionali. Da quello che si può ricostruire di questa etnia “invisibile” è che i Rohingya sono una minoranza musulmana sunnita che risiede nell’area dello Stato di Rakhine, nel Myanmar a maggioranza buddista, da molto tempo. Sull’identificazione precisa di questa temporalità vi sono varie opinioni. Alcuni storici fanno risalire la presenza di questo popolo nell’Ex-Birmania al XII secolo, mentre la teoria portata avanti da coloro che li respingono è che siano discendenti di un gruppo musulmano proveniente dall’allora Bengala ed emigrato nel Rakhine durante la colonizzazione britannica. Ciò che è certo è che la loro presenza sul territorio si sia intensificata durante il periodo coloniale, da quando il Myanmar è stato amministrato come una provincia indiana. Alla base della discriminazione dei Rohingya vi è proprio il non riconoscimento della loro appartenenza al Paese in cui vivono da secoli. Nonostante le politiche portate avanti dai regimi che si sono susseguiti in Myanmar a seguito dell’indipendenza, nel 1948, siano sempre state repressive nei confronti delle diverse minoranze etniche e religiose, quelle verso i Rohingya sono state particolarmente violente, arrivando a negare loro il più basilare dei diritti, la nazionalità birmana. I Rohingya non rientrano, infatti, nei 135 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti dalla legge del 1982 decretata dall’allora regime militare del generale Ne Win, venendo condannati ad un’esistenza di perenne clandestinità, privati del diritto al voto, all’istruzione superiore, al libero spostamento sul territorio nazionale. I Rohingya sono quindi destinati all’apolidia, a meno che non riescano a dimostrare la loro presenza sul territorio prima del 1824, anno di annessione all’India britannica. Nel corso dei regimi militari che si sono susseguiti in Myanmar, un clima di intolleranza si è aggiunto alla mancanza di diritti, provocando distruzione di abitazioni e luoghi di culto, saccheggi, stupri e omicidi etnici. I crimini dei militari hanno costretto migliaia di Rohingya a fuggire verso gli stati confinanti, primo tra tutti il vicino Bangladesh, con ondate migratorie nel 1978 e nel 1991-92, periodi caratterizzati da una particolare escalation di violenze. Il picco della crisi Le elezioni parlamentari che si sono tenute nel 2015 hanno costituito un punto di svolta per il Myanmar, vedendo la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, la leader dell’opposizione costretta in regime di detenzione per più di 15 anni e vincitrice del premio Nobel per la Pace nel 1991. Nonostante tra le alte cariche governative fosse ormai presente una personalità quale quella della Suu Kyi, la violenza governativa verso i Rohingya non si è arrestata. Le violenze e i rastrellamenti su base etnica sono aumentati negli ultimi anni costringendo, già nel dicembre 2016, circa ventimila persone a fuggire in Bangladesh. Sono stati pero gli avvenimenti dell’estate 2017 a diffondere il dramma dei Rohingya a livello internazionale e discutere sulla tesi di genocidio rispetto alle violenze nei loro confronti.  Le nuove ondate di repressione governativa si sono scatenate in risposta alle azioni armate del gruppo ribelle ARSA, Arakan Rohingya Salvation Army. In particolare, l’attacco ad un check-point della polizia, il 25 agosto 2017, ha scatenato una reazione durissima dell’esercito birmano rivolta indiscriminatamente a tutta la popolazione civile Rohingya del Rakhine. Secondo i dati delle Nazioni Unite i militari hanno distrutto quasi 300 villaggi e perpetuato migliaia di violenze ed uccisioni a danni di uomini, donne e bambini. Dal 25 agosto al 7 settembre 2017 si stima che oltre 700.000 Rohingya abbiano lasciato il paese, circa metà della popolazione totale stimata. Nonostante alcune migliaia di persone si siano rifugiate anche in Thailandia e in Malaysia, la maggioranza di essi hanno raggiunto il Bangladesh, sia via terra, attraversando il fiume Naf, che via mare. Qui si sono aggiunti agli oltre 300.000 profughi già presenti nel distretto di Cox’s Bazar, provincia di Chittagong. Fino a marzo 2019, quando il Bangladesh ha chiuso le frontiere, migliaia di Rohingya hanno continuato a varcare il confine, costretti in condizioni di vita degradanti. Nonostante l’allestimento di campi d’accoglienza e la fornitura di alcuni servizi essenziali da parte del governo e delle organizzazioni internazionali presenti sul territorio, i Rohingya vivono in situazioni di grave sovraffollamento e non hanno acceso al mercato del lavoro legale, né tantomeno al sistema scolastico e sanitario. D’altra parte il Bangladesh non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 e dunque la popolazione non vede riconosciuti neanche formalmente i propri diritti in quanto rifugiati. Dopo le prime dimostrazioni di solidarietà, inoltre, a Cox’s Bazar è cresciuto il malcontento della popolazione locale rispetto all’alto numero di profughi.  Il Bangladesh è infatti tra i paesi più poveri tra quelli che ospitano il maggior numero di rifugiati, 1,1 milioni, e presenta forti carenze in quanto a servizi, infrastrutture e occupazione. Ad oggi secondo il Piano di risposta congiunta (JRP) 2020 dell’UNHCR per la crisi umanitaria dei Rohingya, circa 855.000 rifugiati risiedono in 34 campi formali nel distretto di Cox’s Bazar, ormai congestionato, e si stima che il 55% di loro siano bambini. La situazione nei campi resta molto precaria, aumentano tra l’altro le famiglie di rifugiati che si indebitano per sopravvivere, passando dal 35% a luglio 2018 al 69% ad agosto 2019. Nel corso degli anni inoltre, vari gruppi jihadisti hanno occupato il vuoto spesso lasciato dalle istituzioni, distribuendo beni e servizi nei campi e reclutando i Rohingya tra le loro file. Un futuro incerto Con il 2020 le sorti

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