(A cura di Lorenzo Perrotti)
È lunedì mattina. Mentre faccio colazione, come d’abitudine, prendo il cellulare e quasi svogliatamente inizio a scorrere la home del mio Facebook. Fra i vari post di persone di cui a malapena ricordo il volto, mi soffermo su una notizia che mi sveglia esattamente come se mi fossi gettato dell’acqua gelata in faccia: 200 migranti riscattati a largo delle coste della Sicilia sono stati portati a terra e sono ora in un centro d’accoglienza. La foto sulla copertina dell’articolo è un’immagine molto, troppo simile a numerose altre che ho già visto. Una mamma evidentemente africana con il suo bambino in primo piano, sullo sfondo parecchie persone. È difficile con un colpo d’occhio fare una stima esatta del loro numero, sicuramente sono più di venti. La fotografia è una festa di colori, con il mare azzurro come cornice, la pelle scurissima dei protagonisti messa in risalto dal sole e dall’arancione acceso dei salvagente che indossano, ed il riflesso dei caschetti bianchi dei soccorritori. Prima ancora di aprire l’articolo, decido di sfogliare i commenti al post. Sono molti e diversi fra loro. C’è chi scrive parole di affetto e compassione, chi ringrazia i soccorritori e chi Dio, chi si scaglia contro il governo per aver permesso lo sbarco e chi contro le istituzioni europee. Molti messaggi, soprattutto di protesta, sono simili fra loro e si ripetono sempre identici: “vengono a rubarci il lavoro”, “non possiamo accoglierli tutti noi”, “aiutiamoli a casa loro”. Uno, in particolare, cattura la mia attenzione. F. scrive “non stanno scappando da nessuna guerra, non dobbiamo accettarli”. Tentenno un attimo davanti a queste parole, ma mi decido ed inizio a digitare in risposta al commento:“Perché, nel caso in cui stessero scappando da una guerra, sarebbe più giusto accettare lo sbarco di decine di migranti?”Il cellulare inizia a vibrare quasi immediatamente. Sono le notifiche di tre persone che mi replicano. Tutte e tre scrivono più o meno la stessa cosa, che parafrasata diventa un “è evidente, perché in tal caso il proprio Paese non sarebbe più un luogo sicuro in cui stare e allora il migrare diventerebbe una necessità”. Tale affermazione, nonostante possa sembrare ovvia e addirittura banale, improvvisamente mi illumina e si converte in un messaggio rivelatore di due profonde verità: primo, che se qualcuno vive in una situazione di insicurezza oggettiva, deciderà di migrare per necessità; secondo che la necessità di fuggire da una situazione insicura è qualcosa di talmente forte e profondo che molti, se non tutti, ne accetterebbero la validità, sarebbero cioè capaci di riconoscere la legittimità dell’atto. Finalmente, dunque, penso di aver capito. Penso di aver capito che ad essere ancora poco compreso ed infelicemente giudicato non è il fenomeno migratorio in sé, quanto piuttosto le sue cause. Perché l’opinione che si ha nei confronti di una migrazione, quel giudizio personale basato sulle proprie credenze e valori, sulla propria educazione, perde di soggettività quando la situazione di insicurezza che ne è la ragione diventa palese. Il migrante quindi può arrivare ad essere oggettivamente percepito come una vittima, come un debole da aiutare. E lo diventa quando scappa da una guerra, perché la guerra già porta nel suo nome, alle orecchie di chi lo ascolta, la forma, il sapore, l’odore triste e terribile dell’insicurezza. E allora forse, in fondo, il problema nasce dalla difficoltà nel definire pienamente ed accuratamente la sicurezza. Perché ciò porta alla concezione, erronea e pericolosa, che solo la guerra sia abbastanza forte da generare una situazione insicura, o almeno sufficientemente insicura da giustificare la migrazione di centinaia di persone. Decido di continuare con il mio piccolo esperimento sociale. Ormai ho smesso di fare colazione e sono completamente stimolato da questo confronto e dibattito virtuale. Voglio assolutamente capire meglio che cosa di solito intenda la gente con sicurezza, che cos’è che aiuta a differenziare ciò che è sicuro da ciò che è insicuro e dove inizia a delinearsi il confine fra la sicurezza individuale, soggettiva e la sicurezza collettiva, oggettiva. Penso bene alle parole da utilizzare, poi finalmente pubblico un nuovo commento:
“in che modo una guerra priva le sue vittime della sicurezza e rende insicuro un territorio?”Anche questa volta le risposte non si fanno attendere a lungo. Fra tutte, due mi colpiscono più di altre: M. dice che “la guerra crea insicurezza perché in un solo istante puoi convertirti in una vittima diretta. Puoi essere ucciso, violentato, derubato, catturato… Chiunque, da un momento all’altro, può diventare il tuo nemico e non esiste posto in cui rifugiarti. Neanche dentro le mura di casa tua sei al sicuro”, mentre S. sostiene che “la guerra crea paura. Paura di morire, paura di perdere tutto, lavoro, amici, famiglia. Paura di non essere al sicuro. Perché in fondo niente o nessuno, polizia, esercito, leggi, governo, stato, niente o nessuno al di fuori di te stesso può impedire che tu diventi una vittima, può darti sicurezza”. Leggo con profonda attenzione ed interesse. Questi commenti, per quanto possano sembrare in un certo senso quasi scontati, in realtà portano a galla, fanno emergere alcune delle caratteristiche fondamentali della sicurezza. M., con le sue parole, ha puntato i riflettori sulle minacce esterne che possono colpire e ferire le vittime di una guerra: chiunque può ucciderci, derubarci, violentarci, catturarci. Per M., durante una guerra, l’insicurezza è massima in quanto i pericoli sono fisicamente dietro ogni angolo. Secondo S., invece, un aspetto essenziale dell’insicurezza che una guerra comporta e genera coincide con una parte più emotiva, e cioè con il diffondersi della paura. Una paura che in fondo altro non è che la consapevolezza che non esiste via di fuga o uscita d’emergenza, che nessuna misura, nessuna decisione può evitare che tu diventi una vittima. L’insicurezza pertanto non nasce dalla minaccia in sé, ma dalla consapevolezza che niente può realmente garantire la sicurezza. I due commenti, ad una prima lettura, possono sembrare quasi identici. Concretamente, paiono voler trasmettere, con parole distinte, esattamente lo stesso significato e contenuto. E forse, in molti punti sono, se non analoghi, almeno complementari. Di fatto, in italiano entrambi possono essere considerati come distinte definizioni dello stesso concetto, poiché entrambi si riconducono alla stessa parola: (in)sicurezza. Però, ad un livello più sostanziale, i due commenti catturano in un’istantanea due aspetti, due facce profondamente distinte della sicurezza. E questa differenza, oltre ad essere semantica, implica degli effetti ed una logica differenti. L’italiano purtroppo, nonostante la sua straordinaria ricchezza lessicale, non rende giustizia a questa sottile ma fondamentale separazione. In inglese, invece, la parola sicurezza può essere tradotta sia con security che con safety. Ed è grazie all’aiuto dell’inglese che la definizione della sicurezza diviene più completa, più profonda, più dettagliata. Perché la scelta di utilizzare un vocabolo rispetto all’altro non è casuale; security e safety, infatti, pur essendo concetti simili e fra loro relazionati, non sono sinonimi. Sono piuttosto il nome utilizzato per riconoscere e descrivere due sfere differenti della sicurezza. Nel caso del post che sto seguendo, il commento di M. cade chiaramente nell’ambito della security, mentre ciò di cui S. sta parlando si definisce come safety.
“Eppure, potrei elencare numerosissime situazioni in cui il pericolo è dietro l’angolo, in cui chiunque può diventare una vittima di violenza. Ed altrettanto potrei fare con i momenti in cui è possibile provare un profondo senso di paura. Ma guardando i migranti descritti in questo articolo, cosa rende la loro insicurezza diversa da quella di chi fugge da una guerra?”Nessuna risposta. Penso di essermi spinto troppo in là. Penso che la mia domanda, mossa da una genuina curiosità, possa essere percepita come una critica piena di giudizio. Penso che, in fondo, è lunedì mattina e sono tutti troppo presi dalla settimana che inizia per continuare con questa conversazione. Penso che… Una notifica! C. ha finalmente risposto al mio commento, e sono impressionato dal suo messaggio: “parlando di migranti, data la portata immensa del fenomeno, purtroppo non si può parlare di pericoli individuali, e della percezione o della paura di ogni singola persona. Tutti, ogni giorno, dobbiamo far fronte a innumerevoli minacce e tutti vorremmo fuggire alle nostre paure. Ma per una migrazione massiva è necessario abbandonare la soggettività ed individuare una insicurezza oggettiva. E, probabilmente, solo la guerra ha una magnitudine sufficientemente forte”. In queste poche linee che leggo sullo schermo del mio cellulare, intravedo moltissimi spunti di riflessione. C., in fondo, ha ragione. Tutti noi, ogni giorno della nostra vita, prendiamo innumerevoli decisioni accettando di correre un livello minimo di rischio. Attraversare la strada, utilizzare apparati elettronici, mettersi al volante: sono tutte attività che implicano un pericolo. Eppure, consci della minaccia, agiamo assumendoci un certo livello, o soglia, di rischio. Il nostro cervello, in ogni circostanza, fa una rapida analisi della minaccia e mette in relazione l’impatto che tale minaccia avrebbe su di noi nel caso in cui si verificasse, con la probabilità che ciò accada. E siamo talmente abituati a ragionare in questo modo, che lo facciamo senza sforzo, senza rendercene nemmeno conto. Ma la situazione cambia, per esempio, quando viaggiamo in un Paese sconosciuto e remoto. Prima di attraversare la strada tentenneremo più a lungo, guideremmo prestando molta più attenzione ad ogni segnale, ad ogni incrocio, ad ogni curva nuova. Tutte queste misure sono volte a salvaguardare la sicurezza personale, che è allo stesso tempo ugualmente prioritaria per tutti, ma altamente soggettiva. Per alcuni guidare diventa una sfida, perché significa assumersi un rischio enorme, mentre sono capaci di rilassarsi su un aereo. Per altri, funziona esattamente al contrario. C., inoltre, ha ragione anche quando afferma l’evidenza del fatto che, per analizzare i processi migratori, sia fondamentale superare la soggettività e mirare piuttosto ad una sicurezza oggettiva. Diventa però ora importante determinare:
“in un mondo senza guerre, in cui tutti gli Stati vivessero in pace fra loro, le migrazioni perderebbero la loro reale ragion d’essere e, di conseguenza, sarebbero da condannare e contrastare?”Non faccio in tempo a controllare l’ora esatta, che ricevo una risposta. È P., e dalla foto non sembra avere più di 15 anni. Il suo commento è la ragione per la quale sto passando il mio lunedì mattina su Facebook. Scrive: “direi di sì, ma forse solo perché è così che sono stato educato. Personalmente faccio molta fatica a pesare ad una situazione che generi un’insicurezza simile a quella che deriva da una guerra. Un’insicurezza tale, cioè, da rendere le migrazioni necessarie. Però sono curioso, e vorrei sapere se potresti darmi degli esempi di situazioni profondamente insicure, che nulla hanno a che vedere con la guerra”. Immediatamente inizio a pensare ad una circostanza che rispetti i requisiti dedotti dai commenti precedenti: insicura, in cui manchi protezione e prevenzione, e in cui tale mancanza sia oggettiva. Sto ancora pensando, quando il cellulare inizia a vibrare. Vibra e non smette. Mi arrivano moltissime notifiche. Le apro. Gli occhi mi si riempiono di lacrime e il petto di soddisfazione. Sono stato preceduto. L., in risposta a P. scrive: “i disastri naturali. Pensa ad un terremoto, ad uno tsunami, ad un uragano o ad un’alluvione. Nessuno è a salvo, nessuno può fare nulla per contrastare realmente la minaccia. Ci si può affidare allo Stato, è vero. In una situazione ideale, questo ci fornirà protezione, grazie a entità come i vigili del fuoco, la protezione civile, l’esercito, il personale sanitario. E non solo, compito di uno Stato è anche quello di prevenire e ridurre i danni: i cittadini possono essere avvisati del pericolo in anticipo, esisteranno piani di emergenza per gestire l’evacuazione, le strutture sanitarie e pubbliche verranno adibite per proteggere e curare le vittime. Purtroppo però non tutti gli Stati sono in grado di far fronte debitamente ai disastri naturali; in tal caso, non esiste sicurezza, e la migrazione può arrivare a diventare l’unica via possibile”. T., invece, commenta che: “la guerra non è l’unica fonte di insicurezza. Anzi, al giorno d’oggi parlare di guerra tradizionale, intesa come scontro fra due eserciti nemici, è molto difficile. Però i conflitti continuano ad esistere, e continuano ad essere numerosissimi. Terrorismo, guerriglia, manifestazioni violente, colpi di stato, dittature, guerre civili, persecuzioni… Nessun territorio avvelenato da questi mali può fornire sicurezza ai suoi abitanti. Migrare, scappare può essere sinonimo di sopravvivere”.
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