Le mura rosse intorno alla città terminano in una maestosa porta rosso e nera con le sue colonne in rilievo. Li tantissimo tempo fa vi erano instancabili sentinelle che regolavano l’entrata e l’uscita dalla città. Oggi, invece, la gente entra ed esce in un interminabile via vai. Li, poco dopo la porta, ci sono i mercatini di Sana’a che si estendono tra le strade e i vicoli sovrastati della case architettoniche di mattone e decorate con magnifici ghirigori bianchi. Camminando ti puoi perdere e il tuo sguardo non sa dove dirigersi. La piazza è affollata, tutti parlano, scherzano e di sottofondo si sente la musica che si leva verso il cielo. È così da secoli in quel museo a cielo aperto in cui commercio, architettura e società si fondono e vivono. Li si vende qualsiasi cosa: il vero argento yemenita che da vita ad enormi piatti, gli specchi, il rame, l’erba medica, l’hennè o il legno. Si vende di tutto, basta che sia a buon prezzo. Girando per il mercato puoi vedere chi si ripara dal sole sotto le tende blu o gialle, chi si prova la giacca nel mercato dei vestiti, chi osserva il muro di pugnali tradizionali ornati di argento e pietre preziose o chi cerca da mangiare nel mercato alimentare con i suoi altissimi sacchi di cereali. La via centrale è una strada lunga che porta alle principali città del sud, è la porta dello Yemen. Ma a chi è semplice non importa di questa imponenza, sta lungo la via a prendersi un caffè stretto ai suoi amici. In quel tutto è possibile trovare anche un ristorante italiano frequentato anche da italiani. È un posto unico al mondo, è “una venezia selvaggia sulla polvere”, è introvabile nel mondo un posto simile e per qualcuno quel posto è casa.
Sono tre anni che Nada è lontana da casa e ci racconta di questo posto seduta intorno a un tavolino di metallo vicino alla metro di valle aurelia a Roma. Questa ragazza ci dice che è importante dire qualcosa di bello del suo paese, in molti non sanno dove è lo Yemen e chi lo conosce, se lo conosce, lo conosce solo come una delle pagine terribili della storia del nostro pianeta. Le notizie che abbiamo sono filtrare tanto da sapere solo che c’è una guerra, che c’è una terribile crisi umanitaria o che molti paesi occidentali vendono le armi all’Arabia Saudita per proseguire la guerra. Armi usate per colpire mercati, scuole o ospedali. Ma nessuno si preoccupa di dire cosa è lo Yemen al di la di questo, chi sono gli yemeniti e come era prima. Urliamo, tante volte, di non pensare ai numeri ma alle persone, però non sappiamo la storia di queste persone o dei luoghi da cui provengono. Nada dice che spesso la gente la guarda stupefatta e dice “c’è una ragazza dallo Yemen che sa l’inglese!”, “c’è una ragazza dallo Yemen che può vestire così!” o “c’è una ragazza dallo Yemen che è andata all’università!”. Sono stupefatti perché ciascuno pensa che tutte le donne in Yemen stanno in cucina, puliscono o non hanno una vita. Pensano che non ci sia istruzione: forse è vero che il 70% della popolazione non va all’università ma c’è un 30% molto forte che vuole cambiare tanto contro tutto quello che sta accadendo. Prima della partenza ricorda che in un mese la città è stata 15 giorni senza luce, la mattina si poteva fare tutto mentre di sera si doveva stare con le candele. Nonostante questo pensa che le persone in Yemen si abituano. Lo Yemenita è una persona semplice: se può avere un buon cibo tutti i giorni è contento e se mangiano un cibo normale dopo un po di giorni, sono sempre contenti. Si adattano. Basta pensare al fatto che gran parte della popolazione yemenita ha risposto costruendosi pannelli solari dall’immondizia come reazione alla mancanza di corrente. Ogni volta che chiama a casa dice ai suoi amici che le dispiace, se vogliono qualcosa, ma la risposta è “ma stiamo bene!”. Ci dice che sono contenti perché sono a casa, non importa se la vita è più costosa adesso. La vita, ovviamente, non è come prima. Occorre pensare tanto a come spendere lo stipendio con cui ora puoi fare molto di meno. Occorre pensare alla famiglia. Spesso le bombe si sentono vicine, c’è questa paura costante. Però la famiglia è li, gli amici sono li e la paura, con le persone care vicine, è diversa. I primi giorni del conflitto la paura era tremenda. Tutti le notti lei e sua madre non dormivano, c’erano giorni in cui non pensava di vedere la mattina. Apriva la finestra e vedeva la bomba li vicino. Sentiva tutto. Cominciava a pregare l’arrivo del giorno dopo. Al mattino però era un altro giorno, usciva di casa e parlava con gli amici. Come se nulla fosse. Gli yemeniti sono persone forti e semplici, si adattano. Ma alle volte la paura è più forte, il rischio è grande e la volontà di proteggere la famiglia ti costringe a scappare. È cosi che Nada e dovuta andare via con la madre. Pensa a quando lavorava li, al fatto che aveva una casa, dei soldi e una propria macchina. Spesso si è domandata “perché me ne sono andata?”, “perché chi non aveva un lavoro invece è rimasto?”.
Certo, molte cose sono cambiate in meglio ma Nada dice che qui si sente come in guerra: “Quando arrivi in un altro paese, con posti nuovi e una nuova lingua, vivi una situazione di emergenza da sola”. Li aveva i suoi amici, qui deve iniziare tutto da zero. Non è la lingua ma sono gli affetti. Per farsi degli amici, per farsi una famiglia, per avere qualcuno che pensi a te o che si preoccupi di te, ci vuole tempo. Non si fa tutto in un anno o due, ci vuole tempo per fidarsi di qualcuno. Senza una stabilità è difficile riprendere gli studi o riprendere una patente o seguire un corso di lingua. Tutto diventa più difficile se continuano a spostarti. C’è qualche difficoltà ma Nada è una donna forte, si adatta e impara un ottimo italiano stando accanto agli italiani pignoli che la correggono. È comunque una ragazza che prima di prendere la laurea, in Yemen, ha lavorato presso la biglietteria Emirates di Sana’a e dopo la laurea in economia ha lavorato presso un azienda petrolifera. Prima di rimanere qui è stata in Olanda per un anno ma è dovuta ritornare qui poiché incatenata dalla burocrazia del regolamento Dublino, dato che tre anni fa l’Italia era l’unica ambasciata che riconosceva lo status di asilo politico agli yemeniti. In Olanda si trovava in un paese piccolissimo dove erano tutti razzisti, non gli piacevano gli stranieri. Dai loro volti, senza una parola, riuscivi a capire tutto ma non dicevano nulla sul velo. Poteva entrare in un Mc Donald e trovare una mussulmana con il velo, una ragazza lesbica e una atea tutte amiche. Tutte insieme. C’era anche una ragazza somala con il Burqa che guidava il treno, il problema non era il velo ma il fatto di non essere uno di loro. Lei dice che non è obbligata a portare il velo, ha fatto una scelta, si piace con il velo. All’inizio non c’è una scelta dato che arrivati ad una certa età occorre metterlo. Ma poi c’è chi porta il velo basso e chi a mano a mano lo sposta. Forse il togliere completamente il velo non è una bella idea, dipende sempre dal posto in cui vivi. Per esempio ad Aden quasi tutti mettono qualcosa di leggero per cultura o escono con i pantaloni, mentre a Sana’a tutto ciò non accade. Però lei qui è stata costretta a togliere il velo perchè non trovava lavoro. Mentre girava in cerca di lavoro c’era chi chiaramente le diceva “lo so che non devo dire questa cosa, ma non ci sono ragazze che lavorano con il velo”. La nostra cultura ha paura del velo. Una volta Nada ha frequentato una scuola di “servizio di sala” e il maestro le faceva i complimenti per la sua bravura. L’ultima settimana doveva fare un tirocinio in un ristorante e le ha detto che in 15 anni non aveva mai incontrato una cameriera con il velo. “Cosa c’entra se uno lavora con il velo o meno, l’importante è come uno lavora!” Ma in Italia non è così. Dopo tre mesi di studio non avrebbe potuto prendere il diploma senza lo stage. La madre capiva le sue motivazioni a tenere il velo ma occorreva comunque sopravvivere. Cosi ha dovuto togliere il velo, non è stata una scelta. Lo era di più in Yemen. Nada ha girato tra Stati uniti e Olanda ma non ha mai pensato di levare il velo, fa parte della sua identità, le piace il suo viso con il velo e quando non lavora comunque non lo rimette. Non vuole che diventi un gioco, non vuole giocare con la sua identità. È una forma di rispetto verso di sé, la sua identità, la sua cultura e gli altri. Il velo è rispetto e nasconde tanti significati che intrecciano il religioso e il senso di comunità, se incomincia a giocare gli altri della sua comunità se ne accorgono. Accettano di più che stia sempre senza il velo. È una ragazza che si abitua a tutto e i primi tempi si sentiva nuda. Però, in ogni caso, levato il velo non vuol dire che va in giro senza maglie o va al mare con il costume. Si sente a suo agio cosi, non c’è nessuno che le dica cosa fare o no. È il suo modo di essere e chi le sta intorno deve stare bene per quello che è e non per come veste o cosa beve.
La vita in Yemen era una vita di comunità. Ricorda che tornare a casa di sera era un pò strano, una ragazza in Yemen non deve essere mai sola, se sta da sola di sera non è per lavoro ed è come se stesse facendo qualcosa di sbagliato. Se ti trovano da sola non si sa cosa può accadere. Se è una zona brutta non ti lasciano ma neanche ti toccano. Stanno dietro, ti parlano, ti dicono di andare con loro perché pensano che la donna deve stare a casa. Se per lavoro non si esce di sera. Per un periodo ha dovuto lavorare la mattina e la sera e prima di avere la macchina era difficile. Sia la madre che il vicino di casa l’aspettavano in piedi ma non appena arrivava nella sua zona era a casa ed era una cosa bella. Nessuno poteva toccarti. Inoltre il giorno del compleanno, il 24 dicembre, la sorella fa un grosso albero di natale con due regali per lei: uno per il compleanno e uno per il natale. Lo Yemen non è come l’Arabia Saudita.
Questo clima di comune è una cosa che si è riprodotta anche qua. Durante una festività mussulmana Nada era rimasta a casa perché doveva lavorare e la madre era andata a festeggiare con una amica. Ma gli amici italiani, che non c’entrano nulla con questa festa, le hanno fatto un sorpresa e hanno mangiato con lei il pranzo. In Olanda non c’è tutto questo: si, ti danno I soldi; si, ti danno la casa; si, ti danno l’istruzione; però non fanno la vita con i rifugiati. Qui la vita è difficile, il governo non ti aiuta, molte persone ti fissano per il velo e senti tanti occhi addosso ma ci sono tante fantastiche persone.
Nada non è solo la ragazza dello Yemen. Nada è una ragazza forte che come tutti noi ricorda il cibo del suo paese e la sua bontà. Ricorda il caos dei propri autobus dove tutti parlano insieme e dove prendono migliaia di diverse scene quotidiane. Ricorda la generosità del proprio popolo disposto in ogni caso ad ospitarti in casa e a darti cibo in segno di rispetto, anche se in condizioni economiche peggiori. Ricorda il suo popolo che con pochi soldi cerca di vivere al meglio, senza pensare all’accumulo ma pensando solo a vivere con gli altri. Ricorda il Ramadan e il suo piatto che gira di casa in casa con il cibo che cambia di volta in volta, di vicino in vicino, di famiglia in famiglia formando un unica grande famiglia. Ricorda le vie polverose e la bellezza del mercato di Sana’a. Ricorda i suoi amici e i suoi cari. Nada è una ragazza dallo Yemen che vive e lavora accanto a noi contro le difficoltà che può avere una mussulmana in Italia ma, nonostante questo, è sempre li pronta ad adattarsi e a donarti un sorriso.
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Vice-presidente Large Movements APS | Climate Change e Migration Specialist | Dottore in Relazioni Internazionali | Blogger in Geopolitica, Geoeconomia e tematiche Migratorie | Referente LM Environment