Le migrazioni climatiche in Africa: una panoramica sul fenomeno

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Le migrazioni climatiche e le migrazioni ambientali sono un fenomeno di cui si discute in occasione dei diversi forum sull’ambiente. Ogni contesto porta però con se differenze nelle cause e nelle conseguenze, nel frattempo diventa sempre di più urgente una risposta su entrambi i fronti mentre a livello internazionale si hanno crescenti difficolta a trovare un accordo.

Migrazioni ambientali e migrazioni climatiche

Le migrazioni climatiche in Africa sono un argomento sempre più al centro nel dibattito sulle migrazioni. Già nel 1990 l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), il foro scientifico delle Nazioni Unite con lo scopo di studiare il riscaldamento globale e i suoi effetti, ha osservato che il maggiore impatto potrebbe aversi sulle migrazioni umane. Pertanto occorre ricordare la sottile differenza tra le migrazioni ambientali, dovute a una azione diretta dell’uomo (per esempio causata da un danno ambientale come lo sversamento di petrolio), e le migrazioni climatiche. In altre parole le migrazioni dovute all’impatto meteorologico conseguente al cambiamento climatico. Per chiarire, occorre ricordare che già da tempo la comunità scientifica ha riconosciuto l’origine antropica del cambiamento climatico. In aggiunta occorre specificare che non è facile distinguere tra i due tipi di migrazione e che spesso si muovono in parallelo, sommandosi nei loro effetti sulla mobilità umana.

D’altra parte l’impatto meteorologico del cambiamento climatico può essere diviso in due distinti fattori di migrazione: i processi climatici e i fattori non climatici. Ad esempio per processi climatici si intendono fenomeni come l’innalzamento del livello del mare, la salinizzazione dei terreni agricoli, la salinizzazione delle acque e della terra, la desertificazione e la crescente scarsità d’acqua, oltre che eventi climatici come le inondazioni e le irregolarità (oltre che la violenza) delle precipitazioni. In aggiunta abbiamo i fattori non climatici come l’instabilità politica, il governo, la crescita della popolazione e la resilienza a livello di comunità alle catastrofi naturali. In breve tutti questi fattori contribuiscono al grado di vulnerabilità che sperimentano persone e società.

Gli effetti delle precipitazioni in Africa e le migrazioni climatiche

Per quanto riguarda le migrazioni climatiche in Africa, si osserva una crescente irregolarità delle precipitazioni in ampie aree dell’Africa subsahariana, in particolare nelle zone aride e semi-aride. Certamente questo comporta un inizio sempre meno prevedibile e una fine anticipata della stagione delle piogge, prolungate fasi di siccità stagionale e un incremento delle precipitazioni più intense. In aggiunta la tendenza sembra essere quella di una riduzione del livello generale delle precipitazioni e un aumento delle precipitazioni occasionali di forte intensità. Vale a dire difficoltà crescenti per i sistemi agricoli dipendenti dalle piogge per l’irrigazione. Di conseguenza tali dinamiche costituiscono una minaccia persistente alla sicurezza alimentare in quanto comportano la perdita di ingenti raccolti e di alimenti base come mais e miglio. Inoltre, i cambiamenti delle precipitazioni sono accompagnati da allagamenti, esondazioni fluviali e alluvioni causate dall’attività di cicloni in aree costiere.

In Africa, dal punto di vista delle migrazioni climatiche, abbiamo diversi effetti a seconda dell’area colpita. Sugli altipiani dell’Africa orientale, le alluvioni distruggono abitualmente insediamenti e campi agricoli, spesso costringendo gli agricoltori ad abbandonare le aree di coltura. Nelle pianure, esondazioni fluviali e allagamenti su larga scala colpiscono principalmente gli allevatori che operano in aree aride e semi-aride, minacciando al contempo anche i lavoratori urbani. In Africa australe, le terre in prossimità dei grandi bacini fluviali e le zone costiere (in particolare, in Africa sud-orientale e Madagascar) sono interessate da fenomeni alluvionali di forte intensità, che danno impulso a fenomeni migratori temporanei o permanenti. In conclusione occorre dire che la forte dipendenza dall’agricoltura e dall’allevamento costringe i piccoli produttori agricoli e le comunità pastorali a diversificare le fonti di reddito: ciò determina un incremento dei flussi migratori circolari e stagionali all’interno del continente africano, che rappresentano una fondamentale strategia di adattamento e resilienza.

Le migrazioni climatiche e le Forme di mobilità all’interno dell’Africa

In Africa si può assistere a flussi di mobilità lavorativa circolare rurale-urbana e rurale-rurale che costituiscono una reazione comune in tutte le regioni del continente. In questo caso parliamo di “migrazione come adattamento” al cambiamento climatico. In molti casi, singoli individui migrano per un certo periodo di tempo per guadagnare denaro e impiegarlo in modo da mitigare le difficoltà dei nuclei familiari. Però occorre ricordare l’esistenza delle cosiddette “popolazioni in trappola”, ovvero quei numerosi nuclei familiari colpiti dalle conseguenze del cambiamento climatico ma che non dispongono delle risorse necessarie a spostarsi. In aggiunta va quindi detto che non vi è un “automatismo” allo spostamento poiché problemi come lo sfruttamento lavorativo, l’indisponibilità di occupazione e in generale le asperità delle condizioni di vita e di lavoro per i migranti indeboliscono talora il potenziale positivo della migrazione.

Le comunità più mobili dal punto di vista delle migrazioni climatiche sono le comunità pastorali e semi-pastorali. In primo luogo queste sono costrette a spostamenti forzati o riallocazioni temporanee a causa della siccità. In secondo luogo tali spostamenti possono prendere due diverse forme: processi di sedentarizzazione locale o migrazione verso i contesti urbani. D’altra parte queste due forme possono avere dei risvolti “negativi”. Spesso le comunità si insediano lungo i fiumi per permettere al bestiame di abbeverarsi e di conseguenza aumenta la loro vulnerabilità alle esondazioni. D’altra parte la migrazione verso i contesti urbani porta spesso i nuovi arrivati a vivere nelle baraccopoli delle megalopoli. Qui, oltre ai problemi igienico-sanitari in cui possono incorrere, possono essere soggetti a fenomeni di crescente violenza.

Rischi ambientali e rischi politici

Se i cambiamenti ambientali e le potenziali conseguenze rappresentano gli agenti chiave delle migrazioni climatiche, in aggiunta sono connessi a questi fattori politici, sociali, economici e culturali. In altre parole il rischio di migrazioni climatiche è particolarmente grave in presenza di un quadro socio-politico generalmente instabile e di conflitti armati prolungati. Facciamo un esempio di un contesto fragile con scarsità idrica causata da siccità. In questo caso ci troviamo in un contesto con un accesso limitato alle risorse. In primo luogo possiamo avere un aumento delle probabilità di conflitto per l’accesso all’acqua tra agricoltori e allevatori. In secondo luogo il concretizzarsi del conflitto o la stessa scarsità delle risorse può portare alle migrazioni climatiche. In terzo luogo occorre non trascurare l’elemento del terrorismo. L’Africa è il continente che soffre maggiormente della violenza del terrorismo. Spesso la scelta di imbracciare un fucile e servire la causa di un gruppo terrorista è legata a una sorta di legge del più forte: “io ho le armi, io posso accaparrarmi quella risorsa”. Spesso la risorsa di cui parliamo è l’acqua, altre volte può essere la gestione stessa di una porzione di territorio. Vale a dire che la scelta di affiliarsi a un gruppo terrorista sempre di più è legata alla capacità di sostentarsi e nutrirsi.

In conclusione quanto detto vuole porre l’attenzione su un semplice fatto: quando parliamo di ambiente parliamo anche di società. In altre parole non possiamo distinguere tra ambiente e uomo. La lotta al cambiamento climatico e alla crisi climatica, come anche la tutela dell’ambiente, sempre di più sono necessarie per portare stabilità in tutte le nostre società. Infine occorre tenere a mente che ogni contesto vive di fragilità proprie e che ogni minino cambiamento in un sistema (in questo caso abbiamo parlato di cambiamenti ambientali) può avere conseguenze tragiche. In alcuni contesti, sempre di più, la risposta è quella delle migrazioni climatiche.

Fonti e approfondimenti

Schraven B., Adaawn S., Rademacher-Schulz C., Segadlo N., Human mobility in the context of climate change in Sub-Saharan Africa: trends and basic recommendation for development cooperation ;

Casteles S., De Haas H., Miller M., The Age of Migration: International population Movements in the modern World;

Mastrojeni G., Pasini A., Effetto serra, Effetto Guerra;

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Vice-presidente Large Movements APS | Climate Change e Migration Specialist | Dottore in Relazioni Internazionali | Blogger in Geopolitica, Geoeconomia e tematiche Migratorie | Referente LM Environment

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Uganda: Porto Sicuro o Polvere sotto al Tappeto? Ne parliamo con Maëlle Noir

Sentiamo spesso parlare del conflitto nella Repubblica Democratica del Congo, come in Sud Sudan o delle continue violenze e rappresaglie in Repubblica Centraficana. Sappiamo gravemente poco, però, delle persone che scappano da questi conflitti, dei rifugiati, delle loro condizioni, e soprattutto delle condizioni delle donne che si ritrovano a fuggire per salvare le proprie vite e le proprie famiglie. Per questo oggi vorremmo porre l’accento su una parte spesso tralasciata nelle narrative dei conflitti: le persone che sono spinte a fuggire da questi contesti e che nella stragrande maggioranza dei casi, contrariamente a quanto spesso viene falsamente sostenuto, rimangono in Africa cercando asilo in Stati confinanti e non scelgono di affrontare il pericolossissimo viaggio verso l’Europa. Uno dei Paesi africani che accoglie una grande quantità di persone in fuga è l’Uganda. Oggi ne parliamo con Maëlle Noir, dottoranda dell’Irish Research Council presso l’Irish Centre for Human Rights dell’Università di Galway. La sua ricerca affronta la questione della violenza nei confronti delle donne rifugiate attraverso una prospettiva femminista intersezionale e decoloniale, esplorando la rilevanza di un approccio femminista al diritto come alternativa alla prassi legale nel contesto dei rifugiati urbani ugandesi. Maëlle ha una vasta esperienza nel campo dell’advocacy e della ricerca comunitaria, poiché negli ultimi cinque anni ha lavorato con diverse organizzazioni nazionali e locali della società civile in India, Irlanda, Francia e Uganda.  È anche assistente di ricerca part-time nell’ambito del progetto Horizon dell’Unione Europea su democrazia e politica, collaborando con ricercatori in Slovacchia, Austria, Italia e Irlanda. Ciao Maëlle, è un piacere averti qui con noi. Innanzitutto, vorrei chiederti della popolazione rifugiata che raggiunge l’Uganda. Quali sono le principali nazionalità che chiedono asilo in Uganda, qual è la procedura per richiedere asilo nel Paese e dove sono accolti i rifugiati? È importante iniziare dicendo che in Uganda risiedono oltre 1,5 milioni di rifugiati, cifra che ne fa la prima popolazione di rifugiati in Africa e la quarta al mondo. Ciò si spiega con la posizione geografica dell’Uganda, crocevia di diverse zone di conflitto nei Paesi vicini, tra cui la Repubblica Democratica del Congo (RDC), il Sud Sudan, la Somalia, l’Etiopia, il Burundi, l’Eritrea, il Ruanda, ecc. L’Uganda ha anche una lunga storia di “politica di porte aperte”, sostenuta finanziariamente e politicamente dal Nord globale che sostiene lo Stato nell’accogliere i rifugiati in fuga dai conflitti e dalle persecuzioni. Per quanto riguarda la nazionalità, il Sud Sudan, la Repubblica Democratica del Congo e la Somalia sono i Paesi di origine predominanti per i rifugiati in Uganda, in quanto costituiscono rispettivamente il 57,1%, il 32% e il 4,1% della popolazione totale rifugiata. Tuttavia, quando si tratta di rifugiati urbani, solitamente localizzati nella capitale Kampala, nella parte meridionale del Paese, questi sono principalmente Somali, Congolesi, Eritrei, Sud Sudanesi, Burundiani ed Etiopi. Il Refugee Act ugandese del 2006 amplia la definizione di rifugiato fornita dalla Convenzione sui Rifugiati del 1951 e dalla Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana del 1969 che disciplina gli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa, includendo il criterio del genere. Pertanto, chiunque si trovi al di fuori del proprio Paese d’origine, a causa di aggressioni esterne, occupazione, dominazione straniera od eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico, ed abbia il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale, opinione politica o genere, può ottenere lo status di rifugiato. La procedura per richiedere asilo in Uganda varia a seconda che il richiedente asilo desideri stabilirsi in un campo (che spesso viene concesso sulla base dello status di rifugiato prima facie o “automatico” ossia, di gruppi di persone che provengono da uno Stato che l’UNHCR ha riconosciuto soddisfare i requisiti oggettivi che giustificano la presupposizione dello status di rifugiato. Per queste persone dunque, dovrebbe essere più semplice e veloce ottenere lo status perché l’onere probatorio della situazione nel Paese di origine è del tutto inesistente. Si sono intenzionalmente lasciate le virgolette sul termine automatico però, perché nella realtà questa presunzione non viene quasi mai applicata) o in città (rifugiato non prima facie, al contrario, individui non appartententi alla modalità “automatica”), ma in entrambi i casi rimane relativamente semplice. Per lo status di rifugiato “automatico”, i richiedenti asilo che raggiungono il confine vengono trasferiti in uno dei numerosi centri di accoglienza del Paese per un breve colloquio con un agente dell’Ufficio del Primo Ministro (OPM) prima della registrazione e dell’ottenimento dello status di rifugiato. Questo processo dura da pochi giorni ad un massimo di un paio di settimane, a meno che non ci sia un afflusso particolarmente importante di rifugiati. È più difficile ottenere lo status di rifugiato “non-automatico”, soprattutto per potersi stabilire in una città. Il richiedente asilo deve registrarsi presso l’OPM e sottoporsi a una serie di colloqui con diversi interlocutori, tra cui un ufficiale di polizia e un funzionario dell’OPM incaricato di esaminare lo status, seguiti da un esame finale del caso da parte del Comitato per l’ammissibilità del rifugiato. Secondo l’UNHCR, nel 2022 circa l’87,5% delle domande di status di rifugiato è stato accolto. A titolo di confronto, nel 2022 in Italia oltre l’80% dei richiedenti asilo si è visto negare lo status di rifugiato. Parlando dei campi profughi ugandesi, quali sono le condizioni di accoglienza nei campi? L’Uganda è spesso elogiata dalla comunità internazionale e dai media per le sue condizioni di accoglienza esemplari che favoriscono un “porto sicuro” o addirittura un “paradiso” per i rifugiati. In effetti, sulla carta e in conformità con il Comprehensive Refugee Response Framework, i richiedenti asilo che hanno ottenuto lo status di rifugiato ricevono automaticamente un appezzamento di terreno da coltivare, l’accesso all’istruzione ed all’assistenza sanitaria gratuita, nonché il diritto al lavoro ed alla libertà di movimento. Tuttavia, sappiamo che la teoria di solito differisce drasticamente dalla pratica ed è il caso anche del contesto dei rifugiati in Uganda. La politica di non confinamento (non-encampment policy), apparentemente progressista, promossa dal Comprehensive Refugee Response Framework, non è molto ben attuata in quanto la libertà di movimento rimane condizionata all’ottenimento di un permesso rilasciato dall’OPM

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La voce queer di Kakuma: la storia di A.

Nei nostri articoli precedenti abbiamo parlato delle condizioni della comunità LGBTQ+ in Kenya e delle violazioni dei diritti umani che avvengono all’interno del campo profughi di Kakuma.  Abbiamo poi raccolto la testimonianza di J, il primo caso del nostro approfondimento sulle violazioni di diritti umani all’interno di Kakuma. Proseguendo, dunque, l’inchiesta che Large Movements APS sta portando avanti insieme ad International Support Human Rights, in questo articolo analizzeremo la situazione specifica di A., nome di fantasia di una donna lesbica ospite di Kakuma con la quale abbiamo avuto modo di parlare.  Come tanti altri che vivono a Kakuma, A. è fuggita dal suo Paese d’origine a causa delle discriminazioni subite da amici e familiari in ragione della sua omosessualità ed ha cercato rifugio nel vicino Kenya. La possibilità di sfuggire ai maltrattamenti e le discriminazioni subite e la speranza di costruirsi una vita migliore sono stati i motori che l’hanno spinta lontano da casa, ma la realtà con cui si è scontrata è stata tanto dura con lei quanto quella da cui è scappata. La testimonianza di A. Attraverso la Word Cloud estrapolata dalle interviste agli ospiti queer di Kakuma è possibile intuire la natura della loro permanenza all’interno del campo. Parole come “violence”, “assault”, “forced” tracciano un’immagine chiara e poco rassicurante sulla situazione dentro Kakuma per le persone LGBTQ+ come A. L’arrivo a Kakuma A. è una cittadina ugandese. È fuggita dal suo Paese quando la sua famiglia ha scoperto della sua omosessualità. A. infatti, è stata fortemente discriminata ed ha subito gravi attacchi omofobi di varia natura, a tal punto che la sua famiglia, prima che lei riuscisse a fuggire per il Kenya, stava per costringerla a sposarsi. È arrivata a Kakuma nel novembre del 2019 e vi risiede tuttora.  Le violenze e le denunce inascoltate Non appena arrivata, A. si è trovata di fronte a delle condizioni di vita molto difficili per la comunità LGBTQ+ residente a Kakuma. La convivenza tra le persone queer e gli altri rifugiati, infatti, ha portato a diversi attacchi ed aggressioni a discapito degli ospiti LGBTQ+ del campo. Per questo motivo, ci riporta A., sia lei che gli altri membri della comunità queer residenti a Kakuma sono profondamente spaventati per la loro vita. Nel luglio del 2020, quella che era stata la casa di A. nel campo è stata data alle fiamme da altri ospiti e lei ha perso nell’incendio quasi tutti i suoi averi, inclusi beni di prima necessità come vestiti e medicinali. Dopo tutto, il resto dei residenti del campo ha più volte riferito che le persone queer come A. non sono benvenute, definendole “una maledizione” o minacciandole di morte con percosse, aggressioni sessuali ed attacchi incendiari.  La situazione è stata ripetutamente denunciata all’UNHCR ed alle autorità, ma entrambi hanno sempre respinto A. e non sono stati in grado di fornire tutela e protezione dalle violenze gravi subite da A. e dagli altri residenti LGBTQ+. Quando nel luglio 2020 la casa di A. è stata colpita da un incendio doloso, pur se ha riportato immediatamente il fatto allo staff di UNHCR presente nel campo, la donna ha ricevuto supporto solo dagli altri ospiti queer del campo, che le hanno fornito i beni di prima necessità di cui aveva bisogno e che erano andati distrutti nell’incendio. I ricollocamenti Uno dei problemi principali che impedisce di fornire servizi puntuali e garantire efficacemente i diritti umani fondamentali è rappresentato dall’estrema difficoltà nell’ottenere informazioni, in particolare sui ricollocamenti. Il personale di UNHCR presente nel campo ed i componenti del RAS, il dipartimento governativo kenyota che gestisce l’intera procedura di ricollocamento e di concessione dello status di rifugiato, infatti, non forniscono informazioni chiare o non le forniscono affatto. A. stessa non ha mai fatto domanda di reinsediamento non solo perché è molto difficile ottenere informazioni sulle procedure necessarie (tutte le volte che ci ha provato non è stata assistita, proprio dalle persone direttamente responsabili dell’informativa in merito) ma anche a causa del suo status. Non si può accedere al programma di reinsediamento, infatti, se non è stato riconosciuto lo status di rifugiato. Status che, secondo la legge kenyota, deve essere concesso o diniegato entro 6 mesi dall’esame della domanda. Nonostante A. si trovi a Kakuma da quasi 3 anni però, non ha ancora notizie circa l’esito della sua richiesta di asilo.  Il fatto che non abbia presentato domanda per il ricollocamento, dunque, non significa che A. non ne riconosca l’importanza. Tanto è vero che A. ci ha detto che ritiene quella del ricollocamento l’unica opzione in grado di ridare speranza alle persone LGTBQ+ ospiti in Kenya dato che nel contesto in cui si trovano attualmente non possono muoversi liberamente, non vengono forniti loro beni di prima necessità, come gli assorbenti, e vivono nella paura di essere nuovamente attaccati.  Per di più, lei e tutte le altre persone LGBTQ+ di Kakuma sono traumatizzate dal trattamento ricevuto nel campo. Soprattutto, si sentono come se la loro vita fosse rimasta bloccata all’interno di Kakuma, dove ogni giorno è uguale al precedente, e sono molto spaventati dall’idea di invecchiare nel campo. A. vuole tornare a scuola e finire gli studi. Vuole trovare un lavoro per potersi mantenere. Vuole un futuro migliore per i bambini del campo, affinché possano tornare a scuola come dovrebbero, perché, come dice giustamente, l’istruzione è un diritto umano. Se ti è piaciuto l’articolo, CondividiCi!

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Diritti LGBTQ+ in Sudan

Il Sudan, che letteralmente significa “Terra dei Neri”, è uno Stato a maggioranza arabo-musulmana, la quale detta l’orientamento politico e religioso del Paese. Il processo di islamizzazione avviato il secolo scorso ha portato a discriminazioni che hanno fondamento nell’apparato legislativo e che hanno colpito non solo le minoranze etniche e religiose ma anche i membri appartenenti alla comunità LGBTQ+. Quadro Legislativo ed Impatto nella Società Civile Sebbene in Sudan non siano presenti esplicite leggi contro l’omosessualità, la sodomia è descritta come reato nel Codice penale del Sudan ed è punita con sanzioni severissime. Fino ad un passato drammaticamente recente, tra l’altro, era ancora prevista la pena di morte come punizione per un rapporto omosessuale.  Nel Codice penale sudanese la disciplina giuridica dei rapporti omosessuali è contenuta nell’articolo 148 dellasezione Reati di Sodomia, parte del quale recita: “Chiunque commetta l’atto di sodomia, sarà passibile di reclusione fino a cinque anni”. Per di più, in caso di recidiva sono previste pene progressivamente più severe, fino all’ergastolo. Grazie al lavoro degli attivisti ed il costante dissenso di una sempre più crescente parte della popolazione sudanese, nell’agosto 2020 il governo ha ceduto alle forti pressioni della società civile ed ha varato diversi emendamenti al Codice penale, dichiarando di voler “abolire tutte le leggi che violano i diritti umani dei sudanesi”. Tra i vari emendamenti è stata compresa una modifica al suddetto articolo 148, che ha definitivamente eliminato la pena di morte e la fustigazione dalle sanzioni previste per i rapporti omosessuali.  Menzione a parte poi, merita l’articolo 151 del Codice penale del Sudan che disciplina gli Atti Osceni, criminalizzando i rapporti sessuali non assimilabili alla sodomia e prevedendo per coloro colti in fragranza di reato la reclusione fino ad un anno – senza distinzione di pena tra donne e uomini.  Conseguentemente i membri della comunità LGBTQ+ non possono celebrare alcun tipo di unione né sono tra le categorie tutelate dalle leggi antidiscriminazione. Il Codice penale del Sudan non viene significativamente riformato dal 1991, quando i conflitti erano ancora aspri ed il governo cercava sempre più consensi da parte della popolazione musulmana integralista che domandava l’applicazione stringente dei principi della Sharia. Solo con la recente deposizione di Al-Bashir, autocrate al potere per quasi 30 anni, avvenuta nel 2019, si è potuta intravedere una speranza di cambiamento. Attualmente infatti, il Sudan è in continuo subbuglio: la stabilità governativa è precaria e gli scontri tra forze armate e civili sono sempre più frequenti.  Nonostante questo però, la lotta per la parità dei diritti della comunità LGBTQ+ in Sudan è ancora lunga dal concludersi vittoriosamente dal momento che l’omosessualità è ancora considerata un reato.  Percezione e Status Sociale Oltre a violare numerosi articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il Sudan ha sempre votato contro ogni proposta di risoluzione a favore di diritti LGBTQ+ avanzata dalle Nazioni Unite. Oltre alla repressione istituzionalizzata, ciò che rende ancora più difficile la vita degli individui appartenenti alla comunità LGBTQ+ in Sudan è l’intolleranza e l’omofobia radicate nella società. Tra le radici del problema un ruolo fondamentale lo gioca la religione. La maggior parte della popolazione, come abbiamo visto, è di fede musulmana conservatrice e come tale osteggia l’attribuzione dei diritti civili e sociali alle persone LGBTQ+. Per di più, sono grandemente frequenti gli episodi di maltrattamenti, non solo da parte delle autorità, ma soprattutto da parte delle famiglie delle persone che decidono di “uscire allo scoperto”. La tendenza generale è infatti quella di tenere nascosto il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere, al fine di autotutelarsi il più possibile. In una società in cui l’omosessualità è criminalizzata e le discussioni sulla sessualità sono tabù, internet è diventato uno dei modi in cui è possibile soddisfare le esigenze di informazione delle persone LGBTQIA+ e un luogo in cui possono creare connessioni e trovare sostegno e comprensione. Il Sudan però, è un Paese in cui i media tradizionali sono strettamente controllati dal governo ed il libero flusso di informazioni online viene spesso percepito come una minaccia dalle autorità. Per questo motivo, in momenti di instabilità o crisi il governo vara misure come la censura o la completa chiusura dell’accesso ad internet, per impedire a certe informazioni di circolare tra la popolazione. Queste restrizioni della libertà di informazione dei cittadini dunque, influiscono negativamente sull’attività della società civile e limitano la diffusione di informazioni in merito all’educazione sessuale e civile ed al godimento dei pieni diritti di uguaglianza da parte di ciascun cittadino sudanese. Questa attività di censura ha determinato la terminazione delle attività della prima associazione LGBTQ+ del Sudan, Freedom Sudan che fu fondata nel 2006 ma che risulta inattiva da vari anni. Un’altra organizzazione sta portando avanti il testimone: Bedayaa, che si rivolge agli individui LGBTQ+ della Valle del Nilo, regione collocata tra l’Egitto e il Sudan. Questa associazione è stata fondata nel luglio 2010 da volontari che hanno riconosciuto le somiglianze tra le lotte in questi due Paesi, in particolare per quanto riguarda la criminalizzazione e  la percezione religioso-culturale degli omosessuali. In ultimo, dal 2012 è sorta un’altra associazione – la Rainbow Sudan – che si batte per i diritti di tutti, compresi quelli di donne e bambini. Come dichiara il suo fondatore Mohamed infatti, nonostante “in questo momento il Paese non sia pronto ad aprirsi alle tematiche LGBTQ+, non abbiamo perso la speranza di farcela”. È evidente che la lotta per un futuro senza odio e discriminazioni non accenna a fermarsi, noncurante degli ostacoli da sormontare, e la comunità LGBTQ+ del Sudan è pronta a far sentire la propria voce. Se ti è piaciuto l’articolo, CondividiCi!

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L’omicidio di Ilaria Alpi e l’inchiesta sul traffico di rifiuti tossici in Somalia

Il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia, è stata assassinata, insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin, Ilaria Alpi. La giornalista dal 1992 effettuò diverse missioni per conto del TG3 per raccontare la missione di pace delle Nazioni Unite “Restore Hope” e il contesto somalo della guerra civile scoppiata a seguito della caduta del regime di Siad Barre nel 1991. Le indagini del Caso Alpi-Hrovatin si sono concentrate sull’ultimo reportage della giornalista che sarebbe dovuto andare in onda la sera del 20 marzo. Di quel reportage rimangono solo frammenti e filmati incompleti in quanto la versione integrale non arrivò mai in Italia. Di quell’omicidio ancora non è chiaro né il movente, né il mandante, né gli esecutori. Tra i principali protagonisti del Caso Alpi-Hrovatin si ricorda Giancarlo Marocchino, traportatore piemontese che per anni è stato un influente imprenditore di Mogadiscio. Per il SISMI, secondo una delle note declassificate, era “un imprenditore abile e furbo” in grado di lavorare per tutti e di districarsi nella Somalia sconvolta dalla guerra civile. Secondo il SISMI si occupava di logistica ed era sospettato di trafficare in armi e rifiuti tossici e radioattivi, sospetti che al momento non trovano un riscontro giudiziario. Sullo sfondo dell’indagine occorre inoltre tenere a mente il contesto somalo e in particolar modo il coinvolgimento Italiano in Somalia. La relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, approvata nel febbraio del 2006, ha analizzato diverse causali dell’omicidio tenendo in conto anche il fondamentalismo e la criminalità nel paese. Grazie ad un’analisi dei taccuini di Ilaria Alpi si è cercato di ricostruire i temi dell’ultimo reportage in modo da proseguire su tre linee di indagine: il traffico di armi, il traffico di rifiuti tossici e gli effetti della cooperazione italiana in Somalia. La cooperazione Italiana in Somalia Prima dell’inizio della guerra civile in Somalia l’Italia fu una stretta alleata del governo di Siad Barre, presidente-dittatore somalo fino al 1991, a cui vendeva armi che sono state accumulate in diversi magazzini del paese e che sono stati oggetto di interesse delle milizie e dei signori della guerra a seguito della caduta del regime. In generale si riconosce che l’Italia ha sostenuto economicamente e politicamente Siad Barre anche nel momento in cui il regime appariva completamente screditato agli occhi dell’opinione pubblica internazionale e alla maggioranza del popolo somalo. Tra le linee di indagine della Alpi rientrava la cooperazione dell’Italia con i paesi in via di sviluppo e in particolar modo con la Somalia. La giornalista era interessata al fenomeno degli aiuti in generale ed alla modalità di distribuzione degli stessi, oltre al fatto che essi potessero essere stati utilizzati per arricchimenti illeciti anziché per lo scopo per cui erano stati erogati. In particolar modo la Alpi era interessata alla strada Garoe-Bosaso e al progetto di pesca della Shifco. La cooperazione allo sviluppo in favore della Somalia fu voluta dal parlamento italiano nel 1979 con l’elargizione di ingenti finanziamenti. In particolar modo durante il periodo 1986-1989 il volume degli investimenti italiani in Somalia e nel corno d’Africa è aumentato in modo esponenziale per poi interrompersi con l’esplosione della guerra civile nel 1992. La relazione conclusiva della commissione parlamentare sostiene che nel decennio 1981-1990 l’80% dei fondi è stato destinato alla realizzazione di progetti definiti “fisici”. Di questi il 49% è stato destinato alla costruzione di grandi infrastrutture, il 21% alla realizzazione di investimenti produttivi e il 15% a investimenti definiti “socio-comunitari” (progetti che possono essere considerati a beneficio della popolazione). Tale assetto della cooperazione italiana è stato segnato da difetti di programmazione e mancanza di coordinamento con le iniziative multilaterali e internazionali. L’effettiva riuscita di queste iniziative di cooperazione, inoltre, è stata pesantemente minata dalla prerogativa alla tutela di interessi particolari che aziende, lobbies e gruppi di pressione italiane avevano in Somali e che non tenevano in conto i bisogni reali del paese. L’analisi di queste politiche di cooperazione internazionale è stata condotta durante la stagione di Tangentopoli. In questo quadro alcune inchieste fecero emergere una realtà nella quale gli stanziamenti per la Cooperazione con i Paesi in via di sviluppo erano una parte non trascurabile di tutto il sistema tangentizio italiano. Le indagini permisero di scoprire progetti costosi e inutili, stanziamenti multimiliardari, tangenti e traffici di ogni genere tra cui quello di armi verso la Somalia. A tal proposito la Commissione parlamentare di inchiesta sulla cooperazione con i Paesi in via di sviluppo del 1994 si recò in missione a Gibuti, in Somalia e in Kenya dal 29 gennaio al 31 gennaio del 1996. Il resoconto dei lavori sottolineò che ci furono molti errori di gestione e che molti soldi erano andati nelle mani sbagliate. Tra le opere più controverse finanziate dal governo italiano pertanto rientrano la strada Garoe-Bosaso e il porto di Bosaso, nonché il progetto di pesca oceanica e la relativa società di pesca “Shifco”. Per quanto riguarda la strada, il costo medio per chilometro è stato pari a 605 milioni, sproporzionato rispetto alle medie di spesa sul territorio italiano ma anche rispetto alle altre strade realizzate con i fondi della cooperazione allo sviluppo nel corno d’africa. Dall’altra parte all’inizio del 1979 si provò ad intraprendere un progetto di pesca oceanica che fu segnato da disastri e insuccessi. Venne così creata la società “Shifco” che dispose il trasferimento dei pescherecci dopo la guerra anti-Barre del ’90 nelle acque del golfo di Aden. Vi è un sospetto che tale iniziativa, caratterizzata da errori di progettazione gravi, sia servita soprattutto ad arricchire, non necessariamente per vie illecite, gruppi privati italiani e somali. La pista del Traffico di Armi in Somalia Ilaria Alpi prima di intraprendere il suo ultimo viaggio aveva individuato la zona di Bosaso, città portuale nel nord della Somalia, come una zona “giornalisticamente interessante” ed aveva intenzione di approfondire i temi legati al traffico di armi e l’intreccio con la “mala cooperazione” e il traffico di rifiuti tossici. Perseguendo questo obiettivo, la Alpi condusse indagini sulle navi della Shifco alla ricerca di riscontri. In particolar

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La voce queer di Kakuma: la storia di G.

Nei nostri articoli precedenti abbiamo parlato delle condizioni della comunità LGBTQ+ in Kenya e delle violazioni dei diritti umani che avvengono all’interno del campo profughi di Kakuma.  Abbiamo poi raccolto la testimonianza di J, il primo caso del nostro approfondimento sulle violazioni di diritti umani all’interno di Kakuma, e la testimonianza di A, donna lesbica ospite di Kakuma. Proseguendo, dunque, l’inchiesta che Large Movements APS sta portando avanti insieme ad International Support Human Rights, in questo articolo analizzeremo la situazione specifica di G., nome di fantasia di un ragazzo LGBTQ+ di Kakuma con il quale abbiamo avuto modo di parlare.  Come riportato nei casi precedenti, anche G. ha dichiarato di aver lasciato il suo Paese d’origine in seguito alle diverse aggressioni subite a causa della sua sessualità e di aver cercato rifugio nel vicino Kenya. La speranza di poter vivere lontano dalla paura e dalle violenze subite in quella che un tempo chiamava “casa”, è stata la sua bussola che lo ha guidato lungo il suo viaggio, ma la vita a Kakuma si è rivelata molto più terribile di quanto potesse immaginarsi.  La breve permanenza a Kakuma  G. è un cittadino ugandese. È fuggito dal suo Paese quando la vita in patria era diventata insopportabile dopo diverse aggressioni subite a causa della sua sessualità. È arrivato a Kakuma nell’aprile 2020 ed è ripartito un anno dopo, nell’aprile 2021, quando le condizioni di vita all’interno del campo erano diventate molto rischiose, essendosi trovato a vivere numerosi attacchi violenti, insieme a tutta la comunità LGBTQ+ di Kakuma: è stato quasi dato alle fiamme nel maggio del 2020 ed hanno cercato di avvelenarlo due volte. Non sorprende quindi che G. descriva le condizioni all’interno del campo di Kakuma come “orribili”. La negligenza della polizia e dello staff UNHCR  G. ha dichiarato di aver denunciato alla polizia e al personale dell’UNHCR ogni volta che è stato oggetto di un’aggressione. Tuttavia, tutte le e-mail che ha scritto sono state ignorate al punto che nell’aprile 2021 è stato costretto a fuggire per salvarsi la vita dopo essere sopravvissuto all’ennesima aggressione.  Ci ha inoltre riferito che al suo arrivo è stato scelto come portavoce delle persone LGBTQ+ a Kakuma. Ed è proprio per questo suo stretto contatto con le altre persone all’interno del campo che può assicurare che ogni persona queer che conosce ha sperimentato la stessa negligenza da parte delle autorità e del personale dell’UNHCR. Intimidazioni, minacce e detenzioni arbitrarie sono mezzi spesso usati per opprimere la comunità LGBTQ+ a Kakuma e costringerla al silenzio, tanto che G. afferma che molti rapporti dell’UNHCR dal Kenya condividono informazioni e dati che non sono affatto affidabili né vicini alla verità del campo, perché tali informazioni sono il risultato dell’uso della forza sui rifugiati LGBTQ+, confermando che Kakuma non è un luogo sicuro per le persone queer e che queste hanno bisogno e meritano protezione internazionale e di essere trasferite il prima possibile. La discutibilità della gestione dei ricollocamenti Anche la gestione dei ricollocamenti è discutibile. I ricollocamenti sono così importanti per le persone LGBTQ+ di Kakuma perché, innanzitutto, danno loro speranza. La speranza di vivere e amare liberamente, di essere la persona che sono e di diventare membri produttivi della società. Soprattutto, il ricollocamento significa libertà e sicurezza per G. e per coloro che a Kakuma vivono ancora oggi nella paura, incapaci di muoversi liberamente anche quando vengono attaccati. Anche se G. non ne ha mai fatto richiesta, in quanto secondo lui un trasferimento era implicito nella sua domanda di asilo, dato che il Kenya è un Paese ostile per le persone queer, ci ha raccontato come è stata gestita la situazione dei ricollocamenti mentre si trovava nel campo: all’inizio, l’UNHCR ha detto loro che c’erano pochi posti disponibili per il reinsediamento e che non erano in grado di trasferirli tutti. Poi, col pretesto dell’emergenza sanitaria da Covid-19, hanno ritardato i trasferimenti ma dallo scoppio della pandemia i ricollocamenti non sono ancora avvenuti. Inoltre, i ricollocamenti sono stati usati come arma dal governo keniota e talvolta dal personale dell’UNHCR contro i membri più attivi e vocali della comunità LGBTQ+ che hanno cercato di denunciare le violazioni che avvenivano nel campo. Sostanzialmente, coloro che cercavano di denunciare le condotte gravissime a Kakuma, come G., sono stati minacciati di non essere mai trasferiti. Nel giugno 2021, dopo la morte dell’attivista 22enne Chriton Atuhwera nel campo di Kakuma avvenuta due mesi prima, G. e le persone LGBTQ+ all’interno del campo hanno lanciato una petizione all’UNHCR chiedendo protezione e di essere trasferiti. Gli agenti dell’UNHCR hanno risposto con intimidazioni a coloro che volevano aderire alla petizione, dicendo che sarebbero stati rimpatriati se avessero firmato. “Non si tratta solo di stare zitti, ma loro sono stati proattivi nel mettere a tacere la comunità LGBTQ+”, ha affermato in merito G. Se ti è piaciuto l’articolo, condividi!

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Diritti LGBTQ+ in Senegal: un mosaico di differenze senza i colori dell’arcobaleno

Il Senegal è un Paese che presenta un quadro nazionale eterogeneo sia dal punto di vista etnico che da quello linguistico e religioso. Come molte altre nazioni limitrofe, in Senegal convivono diverse popolazioni che praticano diverse fedi e parlano diversi idiomi. L’etnia dominante è la Wolof, seguita dai Fula e dai Sérèr e da altre popolazioni ancora. La religione più diffusa invece è l’Islam, praticato da circa il 95% della popolazione, segue poi il Cristianesimo (5%) mentre il resto della popolazione pratica alcune forme di animismo che, rifacendosi ad una radicata tradizione prettamente africana, permeano in realtà anche le fedi dominanti importate dall’esterno, originando un sincretismo religioso islamico e cristiano. Ogni popolo, inoltre, ha una sua lingua e la lingua ufficiale del Paese è il francese (uno dei lasciti del colonialismo). Eterogeneo, dunque, è il modo migliore per descrivere la situazione in Senegal, ma qui più che in altri paesi queste differenze interne trovano il modo di mescolarsi e mischiarsi tutto sommato armoniosamente, soprattutto rispetto ad altre controparti del Continente che presentano condizioni sociali e antropologiche simili. In una realtà come questa in cui Islam e Cristianesimo convivono pacificamente, dove popoli e lingue diversi sono comunque legati l’un l’altro da rapporti di cousinage (“cuginanza”, un legame vero e proprio avvertito dai cittadini senegalesi) ci si può aspettare un atteggiamento disteso nei confronti delle minoranze sessuali. Tuttavia non è esattamente così e le persone queer in Senegal sperimentano comunque discriminazione, oppressione e marginalizzazione all’interno della società. Quadro Legislativo e Impatto nella Società Civile L’articolo 319 del Codice Penale Senegalese legifera in materia di omosessualità. Nello specifico, l’articolo stabilisce una pena da 1 a 5 anni di carcere e una multa da 100.000 a 1.500.000 franchi per chiunque commetta un “atto contro natura con un individuo dello stesso sesso”. Inoltre, sempre secondo quanto stabilito dal Codice, il massimo della pena verrà sempre applicato se l’atto viene commesso con una persona al di sotto dei 21 anni. Con una premessa del genere è naturale che in Senegal non esista alcun riconoscimento per le coppie omosessuali (né matrimonio egualitario, né unioni civili), mentre, sebbene le regole in materia di adozioni non esprimano un chiaro divieto per le coppie formate da individui dello stesso sesso (rendendo quindi la pratica, sulla carta, possibile), è chiaro che tale diritto non venga in alcun modo goduto dagli stessi nel Paese. Mancano, inoltre, leggi che tutelino le minoranze sessuali criminalizzando l’intolleranza ed i crimini d’odio che spesso subiscono le persone LGBTQ+ senegalesi. Alla luce di un tale quadro legislativo, il Senegal negli ultimi anni ha ricevuto pressioni internazionali per abrogare la normativa discriminatoria e mettere in atto politiche di tutela per la comunità LGBTQ+. Fra gli attori internazionali che hanno spinto per questo cambio legislativo ci sono le Nazioni Unite, Amnesty International e l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama che nel giugno 2013, in visita in Senegal, invitò i paesi africani a concedere diritti alle persone omosessuali. In tutta risposta, il Presidente del Senegal, Macky Sall, rieletto di recente alle presidenziali del 2019, rispose che il Paese “non è ancora pronto a decriminalizzare l’omosessualità” aggiungendo tuttavia che questo non faceva del Senegal un paese omofobo e che anzi si qualificava come uno Stato piuttosto tollerante per le persone omosessuali e transessuali. La risposta del Capo di Stato al Presidente statunitense fu accolta dai giornali con gioia e lodi per il Presidente Sall, dimostrando che quanto da lui sostenuto non era esattamente vero. Il Senegal, infatti, rientra fra i 31 Paesi africani che criminalizzano i rapporti consensuali fra individui dello stesso sesso. La normativa inoltre è largamente applicata ed è molto lontana da essere lettera morta e, anzi, è spesso utilizzata come pretesto legislativo per arresti arbitrari, violenze ed altre violazioni dei diritti umani ai danni della comunità LGBTQ+ senegalese che, è certo, non ha assolutamente vita facile all’interno del Paese, checché ne dica il suo più alto rappresentante. Percezione e Status Sociale Le persone queer senegalesi, infatti, sono costrette a vivere la loro condizione in clandestinità, nell’impossibilità di esprimersi liberamente col rischio di incorrere in pene giudiziarie molto gravi, nel migliore dei casi, od in violenze e privazioni delle libertà fondamentali nel peggiore.  Secondo un sondaggio del 2013 del Pew Research Center di Washington, in Senegal il 97% della popolazione ritiene che l’omosessualità sia inaccettabile per la società, confermando una tendenza riscontrata dallo stesso istituto in un sondaggio simile nel 2007. L’origine di questa intolleranza risiede, in parte, sicuramente nella cultura religiosa del Paese, composta per la maggioranza da musulmani sunniti e, in piccola parte, da confessioni cristiane. L’Islam ed il Cristianesimo, sebbene abbiano tradizioni antichissime nel Paese, sono religioni d’importazione che si sono stabilite su un substrato animista tipico delle regioni africane già presente in principio – e che ancora sopravvive nel sincretismo religioso che si è originato in Senegal – ed in veri e propri culti animisti che ancora sopravvivono in alcune zone del paese e presso alcune popolazioni. Quando queste due fedi ora dominanti si sono incontrate con le credenze animiste, hanno soppiantato alcuni dei valori insiti a quel credo e li hanno sostituiti con nuovi. Fra questi ci sono sicuramente il binarismo di genere, la disparità fra i sessi e la sacralità e l’istituzionalizzazione delle relazioni eterosessuali, concetti cardine che regolano i rapporti fra fedeli islamici e cristiani, mentre è noto che le religioni animiste siano molto meno legate a certi modi d’intendere le relazioni fra persone, l’identità di genere e la sessualità (non è raro, infatti, che le figure religiose di riferimento di certi culti animisti non pratichino per forza relazioni eterosessuali).  La posizione ufficiale del governo senegalese è che l’omosessualità in sé non sia reato, solo gli atti ritenuti contro natura fra persone dello stesso sesso e questo basterebbe a rendere il Paese tollerante. Così non è, in realtà. Lo provano le numerose violazioni dei diritti umani perpetrate ai danni di molti cittadini senegalesi, violazioni che si sono verificate non soltanto quando i protagonisti si trovavano in flagranza di reato, ma anche basandosi su voci, pettegolezzi o sul mero sospetto che qualcuno potesse

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