L’omicidio di Ilaria Alpi e l’inchiesta sul traffico di rifiuti tossici in Somalia

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Il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia, è stata assassinata, insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin, Ilaria Alpi. La giornalista dal 1992 effettuò diverse missioni per conto del TG3 per raccontare la missione di pace delle Nazioni Unite “Restore Hope” e il contesto somalo della guerra civile scoppiata a seguito della caduta del regime di Siad Barre nel 1991. Le indagini del Caso Alpi-Hrovatin si sono concentrate sull’ultimo reportage della giornalista che sarebbe dovuto andare in onda la sera del 20 marzo. Di quel reportage rimangono solo frammenti e filmati incompleti in quanto la versione integrale non arrivò mai in Italia. Di quell’omicidio ancora non è chiaro né il movente, né il mandante, né gli esecutori.

Tra i principali protagonisti del Caso Alpi-Hrovatin si ricorda Giancarlo Marocchino, traportatore piemontese che per anni è stato un influente imprenditore di Mogadiscio. Per il SISMI, secondo una delle note declassificate, era “un imprenditore abile e furbo” in grado di lavorare per tutti e di districarsi nella Somalia sconvolta dalla guerra civile. Secondo il SISMI si occupava di logistica ed era sospettato di trafficare in armi e rifiuti tossici e radioattivi, sospetti che al momento non trovano un riscontro giudiziario. Sullo sfondo dell’indagine occorre inoltre tenere a mente il contesto somalo e in particolar modo il coinvolgimento Italiano in Somalia.

La relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, approvata nel febbraio del 2006, ha analizzato diverse causali dell’omicidio tenendo in conto anche il fondamentalismo e la criminalità nel paese. Grazie ad un’analisi dei taccuini di Ilaria Alpi si è cercato di ricostruire i temi dell’ultimo reportage in modo da proseguire su tre linee di indagine: il traffico di armi, il traffico di rifiuti tossici e gli effetti della cooperazione italiana in Somalia.

La cooperazione Italiana in Somalia

Prima dell’inizio della guerra civile in Somalia l’Italia fu una stretta alleata del governo di Siad Barre, presidente-dittatore somalo fino al 1991, a cui vendeva armi che sono state accumulate in diversi magazzini del paese e che sono stati oggetto di interesse delle milizie e dei signori della guerra a seguito della caduta del regime. In generale si riconosce che l’Italia ha sostenuto economicamente e politicamente Siad Barre anche nel momento in cui il regime appariva completamente screditato agli occhi dell’opinione pubblica internazionale e alla maggioranza del popolo somalo.

Tra le linee di indagine della Alpi rientrava la cooperazione dell’Italia con i paesi in via di sviluppo e in particolar modo con la Somalia. La giornalista era interessata al fenomeno degli aiuti in generale ed alla modalità di distribuzione degli stessi, oltre al fatto che essi potessero essere stati utilizzati per arricchimenti illeciti anziché per lo scopo per cui erano stati erogati. In particolar modo la Alpi era interessata alla strada Garoe-Bosaso e al progetto di pesca della Shifco.

La cooperazione allo sviluppo in favore della Somalia fu voluta dal parlamento italiano nel 1979 con l’elargizione di ingenti finanziamenti. In particolar modo durante il periodo 1986-1989 il volume degli investimenti italiani in Somalia e nel corno d’Africa è aumentato in modo esponenziale per poi interrompersi con l’esplosione della guerra civile nel 1992. La relazione conclusiva della commissione parlamentare sostiene che nel decennio 1981-1990 l’80% dei fondi è stato destinato alla realizzazione di progetti definiti “fisici”. Di questi il 49% è stato destinato alla costruzione di grandi infrastrutture, il 21% alla realizzazione di investimenti produttivi e il 15% a investimenti definiti “socio-comunitari” (progetti che possono essere considerati a beneficio della popolazione). Tale assetto della cooperazione italiana è stato segnato da difetti di programmazione e mancanza di coordinamento con le iniziative multilaterali e internazionali. L’effettiva riuscita di queste iniziative di cooperazione, inoltre, è stata pesantemente minata dalla prerogativa alla tutela di interessi particolari che aziende, lobbies e gruppi di pressione italiane avevano in Somali e che non tenevano in conto i bisogni reali del paese.

L’analisi di queste politiche di cooperazione internazionale è stata condotta durante la stagione di Tangentopoli. In questo quadro alcune inchieste fecero emergere una realtà nella quale gli stanziamenti per la Cooperazione con i Paesi in via di sviluppo erano una parte non trascurabile di tutto il sistema tangentizio italiano. Le indagini permisero di scoprire progetti costosi e inutili, stanziamenti multimiliardari, tangenti e traffici di ogni genere tra cui quello di armi verso la Somalia. A tal proposito la Commissione parlamentare di inchiesta sulla cooperazione con i Paesi in via di sviluppo del 1994 si recò in missione a Gibuti, in Somalia e in Kenya dal 29 gennaio al 31 gennaio del 1996. Il resoconto dei lavori sottolineò che ci furono molti errori di gestione e che molti soldi erano andati nelle mani sbagliate.

Tra le opere più controverse finanziate dal governo italiano pertanto rientrano la strada Garoe-Bosaso e il porto di Bosaso, nonché il progetto di pesca oceanica e la relativa società di pesca “Shifco”. Per quanto riguarda la strada, il costo medio per chilometro è stato pari a 605 milioni, sproporzionato rispetto alle medie di spesa sul territorio italiano ma anche rispetto alle altre strade realizzate con i fondi della cooperazione allo sviluppo nel corno d’africa. Dall’altra parte all’inizio del 1979 si provò ad intraprendere un progetto di pesca oceanica che fu segnato da disastri e insuccessi. Venne così creata la società “Shifco” che dispose il trasferimento dei pescherecci dopo la guerra anti-Barre del ’90 nelle acque del golfo di Aden. Vi è un sospetto che tale iniziativa, caratterizzata da errori di progettazione gravi, sia servita soprattutto ad arricchire, non necessariamente per vie illecite, gruppi privati italiani e somali.

La pista del Traffico di Armi in Somalia

Ilaria Alpi prima di intraprendere il suo ultimo viaggio aveva individuato la zona di Bosaso, città portuale nel nord della Somalia, come una zona “giornalisticamente interessante” ed aveva intenzione di approfondire i temi legati al traffico di armi e l’intreccio con la “mala cooperazione” e il traffico di rifiuti tossici. Perseguendo questo obiettivo, la Alpi condusse indagini sulle navi della Shifco alla ricerca di riscontri. In particolar modo l’ultima intervista prima dell’omicidio sembrerebbe concentrarsi proprio su questo aspetto.

L’operatore Alberto Calvi, con cui la Alpi aveva lavorato nelle precedenti missioni in Somalia, ha riferito che la giornalista aveva sempre cercato delle prove in relazione al traffico di armi e di droga. Come possibile pista seguiva quella dell’utilizzo delle navi Shifco e il ruolo di Mugne, direttore della compagnia di pesca, e Giancarlo Marocchino. L’intuito della Alpi era guidato dalle testimonianze della popolazione somala, che sosteneva che i pescherecci della Shifco erano coinvolti nel trasporto di armi durante il regime di Siad Barre e che tale traffico era ancora in atto.

La relazione conclusiva della commissione parlamentare però, rileva che Marocchino e Mugne non si conoscevano ed operavano in “settori del tutto diversi e separati”: il primo effettuava trasporti e faceva da factotum per i contingenti militari, il secondo gestiva le navi da pesca e una società di zootecnia. La relazione inoltre evidenzia che il traffico di armi era diretto dalla Somalia ai paesi limitrofi e che le armi vendute provenivano dai magazzini abbandonati del regime di Barre. Il generale Pucci, direttore del SISMI all’epoca dei fatti, ha dichiarato che l’Italia non aveva influenza nella zona dove si svolgeva il traffico di armi anche se i servizi ne erano a conoscenza. Sostanzialmente si faceva monitoraggio a distanza ma non si aveva accesso ad esempio alla zona di Bosaso, in quanto esulava dalla zona di interesse italiana.

Il traffico di rifiuti tossici in Somalia

Prima di partire Ilaria Alpi aveva incontrato la giornalista Rita Del Prete a cui aveva raccontato di aver sentito dire che in Somalia “si costruivano strade che partivano dal nulla e finivano nel nulla, fatte apposta per scavare e mettere detriti tossici”. Questa strada si sarebbe dovuta trovare nella zona di Garoe e serviva probabilmente per occultare scorie radioattive, a tal proposito è accertato che il 15 Marzo del 1994 Ilaria Alpi e Miran Hrovatin hanno percorso metà della strada Garoe-Bosaso. Inoltre la Alpi stava indagando su un traffico di scorie radioattive scaricate davanti alla coste somale. Un fatto di cui tutti i somali si dicono a conoscenza e si ritengono impotenti.

Sull’ipotesi che coinvolge la strada Garoe-Bosaso rileva un episodio che coinvolge Giancarlo Marocchino. Nel 2003 l’ingegnere Vittorio Brofferio, che si occupò dal giugno 1987 al dicembre 1988 della costruzione di detta strada, inviò una email ai gestori del sito internet www.ilariaalpi.it segnalando un episodio in cui Marocchino, che si occupava dei convogli per la cooperativa che costruì la strada, mostro un telex allo stesso Brofferio che recitava “ricevere dei container da interrare in zone disabitate lungo la nostra strada, alla sola condizione di non aprirli per controllare il contenuto”. Secondo la commissione parlamentare però tali fatti non trovano riscontri oggettivi né smentite. 

Inoltre, le indagini condotte dalle Procure della Repubblica sul traffico dei rifiuti non hanno mai portato ad alcun risultato significativo. Tuttavia la Procura di Milano istruì un procedimento penale scaturito dalle dichiarazioni rese da Gianpiero Sebri che, accusando anche se stesso, riferì in ordine ad una ramificata organizzazione dedita al traffico internazionale di rifiuti. Sebri nelle proprie dichiarazioni fece riferimento al Progetto URANO, ovvero un complesso progetto per lo smaltimento di rifiuti tossici attraverso l’interramento in aree ritenute idonee, fra queste anche la Somalia. Tale progetto fu ideato e promosso da Guido Garelli attraverso la Compagnia Mineraria Rio de Oro. La Procura di Asti ha invece indagato sui rapporti che intercorrevano tra Ezio Scaglione e Giancarlo Marocchino, intercettando numerose conversazioni telefoniche su un coinvolgimento in un traffico di rifiuti verso la Somalia. Secondo la Procura di Asti, Scaglione avrebbe procacciato clienti in Italia, mentre Marocchino avrebbe assicurato la compiacenza delle autorità locali e dato supporto logistico all’operazione. Occorre però evidenziare che l’inchiesta penale non è giunta all’accertamento di alcuna responsabilità.

Per quanto riguarda l’ipotesi delle scorie radioattive sulla costa somala nel 2011 Paul Moreira, firma di prestigio del giornalismo d’inchiesta in Europa, ha prodotto il documentario “Toxic Somalia”. Nel documentario il giornalista francese segue la strada aperta da Ilaria Alpi per indagare sul traffico illecito che partiva dal Nord Italia e finiva in Somalia con il benestare dell’allora presidente ad interim Ali Mahd. La ragione di questi traffici è da ritrovare nei costi di smaltimento dei rifiuti tossici: più il materiale è tossico e più il costo per lo smaltimento nei paesi avanzati è alto. Di conseguenza una delle vie percorse è quello dello smaltimento illegale nei paesi in via di sviluppo.

Moreira documenta una realtà in cui lo tsunami che colpì la Somalia nel 2005 riporto dei grossi “bidoni” sulle coste. Il giornalista intervista la popolazione somala che segnala che con l’arrivo dei bidoni sono sorte molte malattie nel villaggio lì vicino (diarrea, infezione agli occhi, problemi alla pelle, difficoltà a respirare) e che denuncia il fatto che le coste non sono sorvegliate dalla guardia costiera e chiunque può gettare quello che vuole. Questi “bidoni” hanno delle maniglie che permettono con facilità di gettare via il carico dalla nave. Nel 2006 una ONG ha trovato 40 di questi bidoni testimoniando che molti di questi hanno perso il proprio contenuto riversandolo in mare. La missione della ONG era guidata da Andreas Bernstorff, uno specialista di rifiuti tossici, che però afferma di non aver trovato nessun segno identificativo sui barili e che questi non furono aperti in quanto mancavano le necessarie misure di sicurezza in caso di materiale tossico, ipotesi dovuta alla mancanza di segni di riconoscimento e alla presenza di saldature su tutto il contenitore. A quanto sembra nessuno si è occupato di controllare il contenuto dei bidoni e l’allora vice primo ministro del Governo della Repubblica Somala Abdirahman Ibbi dichiarò di aver provato ad inviare del personale delle Nazioni Unite che però non si è nemmeno avvicinato ai bidoni. Ulteriore problematica per l’analisi del contenuto di questi bidoni è che la zona in questione è sotto il controllo del gruppo terroristico Al Shabaab e si temono rischi per la sicurezza.

Moreira si dirige poi a Merca, capitale dei pirati somali, dove la pirateria è l’unica attività economica dal momento che sembra che l’inquinamento di questi rifiuti abbia sterminato tutti i pesci. I pirati Somali accusano l’occidente di scaricare nelle loro acque i rifiuti tossici e che se ci si immerge nel mare, si riscontrano problemi alla pelle una volta usciti dall’acqua. Per poter verificare tali testimonianze Moreira quindi si dirige all’ospedale di Mogadiscio. Qui trova molti bambini con infezioni, malattie e malformazioni riconducibili all’esposizione a materiali tossici (prevalentemente malattie che colpiscono l’apparato urinario). L’ospedale conferma che dall’inizio della guerra civile il numero di bambini nati con malformazioni congenite è triplicato, il problema in questo caso è che l’ospedale non ha i mezzi necessari per poter ricercare in maniera precisa le cause di tali malformazioni in quanto, ad esempio, non esiste un laboratorio di analisi.

Il Caso Alpi-Hrovatin nel 2020 e i rapporti della CIA

A 26 anni dall’omicidio della giornalista in Somalia si continua a parlare del caso Alpi-Hrovatin grazie anche all’azione di L’Espresso e del giornalista Andrea Palladino che sono riusciti ad entrare in possesso dei rapporti inediti dei Servizi segreti americani. Dopo un anno e mezzo di istruttoria il rapporto della CIA aggiunge elementi importanti al contesto somalo oggetto dell’ultimo reportage di Ilaria Alpi.

Nel momento della guerra civile vi erano due principali fazioni: Ali Mahdi, alleato con le forze delle Nazioni Unite, e Mohammed Farah Hassan detto “Aidid”, a capo delle forze islamiste. La CIA quindi nel settembre del 1993 era sulle tracce di quest’ultimo e ne monitorava ogni spostamento. L’obiettivo era quello di capire chi finanziasse la fazione islamista e da dove provenissero le armi utilizzate dalle milizie. Viene pertanto segnalato un aumento dei flussi di armi verso tale fazione nell’Agosto del 1993. Dato che l’obiettivo di Aidid era quello di far fallire la missione Restore Hope, secondo la CIA, l’acquisto delle armi aveva due scopi: 1) essere pronti al combattimento; 2) convincere altri signori della guerra ad allearsi con gli islamisti.

Secondo la CIA i supporter di Aidid utilizzavano la società di trasporti che apparteneva a Ahmed Duale e a Giancarlo Marocchino. Tale società inoltre funzionava come snodo logistico dei supporter di Aidid. La stessa società era ben nota negli ambienti del contingente Italiano e dal comando ITALFOR, che emetteva fatture per migliaia di dollari relative a forniture di ogni tipo. Inoltre questa era stata spesso utilizzata come supporto logistico per la cooperazione italiana prima del conflitto.

A 26 anni dall’omicidio in Somalia, però il caso Alpi-Hrovatin rimane una ferita aperta da segreti che durano ancora oggi. Riflettere e portare la verità su questo caso potrebbe rappresentare una vittoria per chi mette a rischio la propria vita per riportare la voce degli ultimi nei paesi più svantaggiati e allo stesso tempo riflettere sugli effetti dell’azione italiana su un paese come la Somalia, in modo da offrire un aiuto concreto e un futuro augurabile a un paese sprofondato nel dimenticatoio.

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Vice-presidente Large Movements APS | Climate Change e Migration Specialist | Dottore in Relazioni Internazionali | Blogger in Geopolitica, Geoeconomia e tematiche Migratorie | Referente LM Environment

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Una risposta

  1. Veramente interessante per chi come me si sta interessando al traffico illegale dei rifiuti solidi e alle navi dei veleni. Hai qualche altro materiale sull’argomento specifico?

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LA PIRATERIA SOMALA

La pirateria somala viene spesso descritta solo ed esclusivamente come criminale, e se invece espletasse anche un’altra funzione, ossia quella di guardiani del mare? In questo articolo si cercherà di indagare la natura del fenomeno nonostante le fonti che risaltano una visione alternativa a quella diffusa internazionalmente siano poche. Il tentativo sarà dunque, quello di individuare gli indizi funzionali a definire la pirateria non solo come criminale, ma come “forza” di difesa alternativa delle acque, servizio di cui il Governo di Transizione non riesce a farsi carico pienamente. Contesto storico La pirateria moderna, che si è sviluppata soprattutto in aree geopoliticamente strategiche, ha assunto tutti i caratteri della definizione storica di “predone del mare”. A differenza dei suoi analoghi, la pirateria somala ha acquisito caratteristiche diverse che l’hanno resa un fenomeno particolarmente difficile da studiare e, soprattutto, da debellare. Queste differenze sono dovute alla presenza di molti fattori e, in particolare, alla situazione politica in cui la Somalia si trova. Ciò, infatti, ha dato luogo a tutta una serie di fenomeni chiave nello sviluppo della pirateria. La complessità della situazione somala quindi sta proprio nell’esistenza e nella sovrapposizione di diverse dinamiche, locali ma anche regionali ed internazionali che rendono necessario un approccio onnicomprensivo. In questa sede, tuttavia, si affronterà solo uno dei tanti aspetti di questo fenomeno e, in particolare, si cercherà di rispondere alla questione sulla natura della pirateria sviluppatasi in questo contesto. Usando termini somali, si cercherà di capire se ricadono nella categoria di burcad badeed, stricto sensu “predoni del mare”, o badaadinta badah, “salvatori del mare”. Da quando nel 2012 gli sforzi congiunti della comunità internazionale sono riusciti a debellare questo problema, il sequestro della petroliera Aris 13 del 2017, ha riportato nuovamente l’attenzione, assopita da anni, sull’area, facendo presagire anche un ritorno della pirateria. Questo attacco, tuttavia, sembra aver rappresentato solo una breve parentesi dovuta probabilmente all’abbassamento della guardia delle misure intraprese sino ad allora e al ritiro delle forze NATO della missione “Ocean Shield”, terminata nel 2016. Ma se questo fosse solo il sintomo di un ritorno che potrebbe essere ancora più pericolo del precedente? Per questo motivo potrebbe essere utile capire la natura degli atti dei pirati somali e comprendere se il ruolo iniziale di difensori del mare sia scomparso durante l’evoluzione che la pirateria ha subito, divenendo finalizzato solo ed esclusivamente ad azioni di depredazione, oppure se questo sia stato solo “nascosto” per legittimare in maniera più semplice le azioni svolte della comunità internazionale. Tale tentativo, tuttavia, risulterà molto difficile per la scarsità di dati e di notizie svincolate dall’”occhio europeo”. In questa sede, pertanto, si proverà a fornire solamente uno spunto di riflessione. Pescatori o professionisti? Quando nel 1991 si venne a creare un vuoto politico nel paese, dovuto alla caduta del regime di Siad Barre, fu subito evidente che venne anche a mancare una struttura centralizzata in grado di avere un controllo efficace su tutto il territorio somalo e, consequenzialmente, sulle sue acque. Fu di questa situazione che attori esterni, principalmente pescherecci europei e cinesi ed organizzazioni criminali, iniziarono ad approfittare. La pesca intensiva e lo scarico di rifiuti tossici hanno rappresentato le motivazioni principali che hanno spinto i pescatori locali ad improvvisare attacchi disorganizzati verso gli estranei invasori. Nonostante ciò, la depredazione straniera non può essere definita come la sola motivazione, a questa, infatti, si aggiunge un quadro molto più complesso: la mancanza di uno Stato centralizzato in grado di farsi carico dei bisogni della società, un’organizzazione clanica della società somala che si pone come rappresentante differente di ordine e portatore di principi di organizzazione politica differenti da quelli dello Stato moderno e post-moderno, e uno stato di povertà e crisi umanitaria notevole. Fino agli anni 2000, quindi, si parla più di un fenomeno finalizzato alla sopravvivenza, in cui il confine tra pirata, pescatore e contrabbandiere è molto labile. Si può perciò ipotizzare che in questa fase, nonostante la popolazione che traeva il suo sostentamento dal mare abbia raggiunto livelli di frustrazione notevoli dovuti alle attività illegali di pesca straniere, non sia tuttavia riuscita a creare una struttura tale da poter essere considerata come “guardiana delle acque”. In questi anni, infatti, si è assistito principalmente al fenomeno che è stato definito come “pirateria d’opportunità”, deducibile soprattutto dalla sua discontinuità, dalla poca redditività degli attacchi e dal corto raggio d’azione. Non si può comunque escludere che proprio in questo periodo iniziarono a formarsi e svilupparsi i gruppi di pirateria di stampo criminale che siamo abituati a conoscere. Infatti, secondo un ex leader pirata somalo, Farah Hirsi Kulan “Boya”, il passaggio ad una pirateria professionalizzata avviene già nel 1994. Da pirati d’opportunità a vera e propria guardia costiera? Dai primi attacchi sporadici e disorganizzati, le attività piratesche in pochi anni cambiarono totalmente divenendo un business molto redditizio. Molti affermano che c’è stato un passaggio da un fenomeno di protesta ad uno, solo ed esclusivamente, basato sul profitto, anche se, potrebbe non essere esattamente così.  In un contesto politico come quello somalo, il Governo Federale di Transizione è l’unico potere istituzionale e riconosciuto a livello internazionale che, nonostante ciò, non è in grado di estendere la propria autorità oltre Mogadiscio, permettendo ad altri tipi di “organizzazioni politiche” di subentrare nel controllo dello spazio. 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