Nagorno-Karabakh: La guerra dei quarantaquattro giorni.

Nagorno-Karabakh

Il Nagorno-Karabakh una regione perennemente contesa fra due stati, Armenia ed Azerbaijan, si è ritrovata nuovamente la protagonista principale di una guerra durata quarantaquattro giorni.

La regione che comprende la Repubblica dell’Artsakh – uno Stato non riconosciuto a livello internazionale e satellite dello Stato armeno – è locata nel Caucaso del Sud, territorio a nord della Turchia e dell’Iran.

Nagorno” deriva dalla parola russa “montuoso” mentre “Karabakh” in turco, significa “giardino nero”. Il nome stesso ci racconta della dualità di questa regione facente parte dell’ex-Unione Sovietica a maggioranza armena e circondata, nella sua totalità, da distretti azeri. Il Nagorno-Karabakh sotto Josef Stalin, diventa una regione autonoma all’interno della Repubblica Socialista Sovietica Azera, circondata quindi da distretti con maggioranza di popolazione azera. Durante le riforme della Perestrojka nel 1991, la regione indisse un referendum votando per la secessione del governo azero e per la creazione della Repubblica dell’Artsakh. Con il 99,8% dei voti a favore la regione, si auto-determinò diventando – pochi giorni prima dello scoppio della prima di una numerosa serie di conflitti – una repubblica democratica come si può leggere nei nostri due precedenti articoli a cura di Mattia Ignazi e di Livia Nataloni.

La prima guerra del Nagorno-Karabakh, che uccise 30.000 persone, durò fino al 1994 quando i due Stati belligeranti, grazie all’aiuto internazionale del cosiddetto Gruppo Minsk – una coalizione fra Francia, Russia e Stati Uniti che si era posta come mediatore principale del conflitto – firmarono l’Accordo di Biškek. Quest’ultimo impose un cessate il fuoco senza però riuscire a trovare un’efficace soluzione per la pace della regione, lasciandola sotto il controllo armeno.

Ciononostante, negli ultimi decenni l’accordo è stato violato varie volte e, lungo la linea di confine fra Armenia e Azerbaijan, sono avvenute numerose schermaglie. Ogni anno infatti, fra la primavera e l’estate, veniva infranto il cessate il fuoco fra le parti, si assisteva a delle sparatorie ed alla cattura di soldati ad opera di entrambe le parti – spesso “utilizzati” come merce di scambio per costringere l’altra fazione a liberare i propri militari fatti prigionieri. Uno degli scontri più violenti avvenne nel 2016 e venne rinominato la guerra dei quattro giorni, per la rapidità in cui si susseguirono battaglie così cruente.  

Le prime avvisaglie della guerra dei quarantaquattro giorni in Nagorno-Karabakh si ebbero a luglio 2020, mentre l’attenzione dei giornali internazionali erano focalizzata esclusivamente sulla battaglia contro il Covid. Il 29 luglio l’Azerbaijan iniziò, sulla linea di confine, una serie di esercitazioni militari che durarono fino ai primi giorni di agosto, riprendendole nei primi di settembre con l’aiuto dell’esercito turco. Nel frattempo, anche lo Stato armeno svolse una serie di esercitazioni militari all’interno della Federazione Russa. Uno degli ultimi scontri violenti, a metà luglio di quest’anno, ha causato 17 morti su entrambi i lati ed ha implicato l’uso di artiglieria pesante e di droni.

Lo scoppio

Il 27 Settembre 2020 è scoppiata la guerra che per quarantaquattro giorni ha imperversato fra Armenia e Azerbaijan nella regione del Nagorno-Karabakh. Nella domenica mattina del 27 settembre sono iniziati i primi scontri violenti lungo la frontiera durante i quali ci furono perdite di vite umane da ambo le parti. I rapporti a riguardo confermano anche il continuo uso di artiglieria pesante e la mobilitazione aerea e missilistica.

Successivamente a questi attacchi l’Armenia ha dichiarato la legge marziale ordinando ai suoi soldati di mobilitarsi. Il presidente Nikol Pashinyan, si è rivolto ai cittadini dicendo di “essere pronti a difendere la nostra patria sacra”. Il governo armeno ha accusato la sua nemesi di aver attaccato degli insediamenti civili nella regione del Nagorno-Karabakh fra cui anche la capitale di Stepanakert. Il Ministero della Difesa armeno ha dichiarato inoltre, che l’esercito era riuscito ad abbattere due elicotteri azeri e tre droni in risposta all’attacco mattutino.

D’altra parte, il Ministro della Difesa azero ha asserito che gli attacchi lanciati la mattina del 27 Settembre, erano parte di una controffensiva per sopprimere le attività militari armene e tutelare la sicurezza della popolazione tramite l’uso di carrarmati, missili, aviazione da combattimento e droni. Il Ministero ha inoltre riportato che, pur se gli stessi aerei sono stati abbattuti dal governo armeno, l’equipaggio al loro interno sarebbe sopravvissuto. La presidenza azera ha inoltre dichiarato alla popolazione di “aver subito delle perdite sia militari che civili a causa dei bombardamenti armeni”.

Nella Regione del Nagorno-Karabakh, i rappresentanti della Repubblica hanno anch’essi imposto la legge marziale ed ordinato ai cittadini di mobilitarsi, inoltre l’ufficiale dell’ombudsman Artak Beglaryan ha dichiarato che ci sono state delle morti civili fra la popolazione della regione a causa degli scontri armati.

La Guerra

Centinaia di morti, tra cui dozzine di civili e decine di migliaia di sfollati interni da entrambe le parti, questi sono i numeri che, in meno di due settimane, hanno stravolto nuovamente la vita della popolazione del Nagorno-Karabakh. L’Armenia in sole due settimane di guerra ha perso più di 400 soldati, molti dei quali avevano solo 20 anni. Lo stato azero, al contrario, ha deciso di non dichiarare la conta dei propri morti fino alla fine della guerra. In ogni caso, il bilancio sembrerebbe molto più alto di quanto riportato dai numeri. Questo fino a sabato 10 Ottobre, quando un fragile cessate il fuoco è stato annunciato grazie alla mediazione della Federazione Russa.

Sfortunatamente, le ostilità sono ricominciate il giorno dopo quando sia l’Armenia che l’Azerbaijan, si sono accusati a vicenda di aver violato il cessate il fuoco attaccando la controparte. Domenica 11 ottobre un missile a lungo raggio ha colpito un appartamento nella seconda città più grande dell’Azerbaijan, Ganja, uccidendo 9 persone mentre, nel frattempo, l’Armenia accusava le forze azere di aver bombardato la città più grande della regione del Nagorno-Karabakh, Stepanakert e la cittadina di Hadrut.

I reports dell’Ombudsman per i diritti umani del Karabakh hanno dichiarato che, nelle prime due settimane di guerra, le perdite civili della parte armena sono state 20 – di cui 12 uomini ed 8 donne – inoltre, 101 persone sono state ferite negli scontri. Sono stati riportati danni su larga scala ad edifici civili ed infrastrutture: in totale, sono state distrutte 5800 proprietà e 520 veicoli privati; mentre le infrastrutture che hanno riportato dei danni strutturali sono state 960 fra civili, pubbliche ed industriali. Infine, il bilancio parla di 70.000 persone sfollate.

Domenica 11 ottobre, l’ufficio del Procuratore Generale azero ha dichiarato che 41 civili sono stati uccisi e 205 persone sono state ferite dagli attacchi armeni. Le forze armene hanno inoltre distrutto 1165 case, 57 edifici e 146 uffici pubblici.

Ma neanche questo è riuscito a fermare gli scontri.

In meno di un mese 65 azeri e 37 armeni facenti parte della popolazione civile sono stati uccisi, mentre la conta dei soldati morti sotto l’artiglieria da tutte e due le parti è almeno dieci volte più alta. In aggiunta a tutto questo, migliaia di persone sono fuggite dalla città più grande del Nagorno-Karabakh, Stepanakert, cercando di raggiungere e rifugiarsi nella vicina Armenia, quelli che non sono riusciti o non hanno voluto scappare, si sono dovuti nascondere sottoterra iniziando a vivere nei rifugi anti-bomba. Anche in Azerbaijan, la popolazione è scappata dalle città più colpite, come Tartar, andandosi a rifugiare in aree più sicure della nazione.

La comunità internazionale, già pesantemente colpita dalla pandemia di Covid-19, sta assistendo passivamente al conflitto. In 50 giorni, infatti, ci sono stati 3 tentativi di cessate il fuoco a fini umanitari che avrebbero consentito lo scambio di prigionieri ed il recupero delle salme dei caduti in guerra, mediati da attori internazionali, che purtroppo hanno fallito. Il primo cessate il fuoco, come già detto, mediato dalla Federazione Russa non è durato nemmeno 24 ore. Il secondo, è avvenuto una settimana dopo, a seguito di una chiamata telefonica del Ministro degli Affari Esteri Russo Sergey Lavrov con le sue controparti armene ed azere. Il terzo, mediato dagli Stati Uniti era entrato in vigore il 26 ottobre. In tutti questi casi le parti in guerra si sono accusate reciprocamente di aver violato il cessate il fuoco poche ore dopo che gli accordi erano entrati in vigore.

Una guerra non solo sul campo.

La guerra dei quarantaquattro giorni in Nagorno-Karabakh non è stata combattuta solo sui campi di battaglia ma di pari-passo anche sul campo mediatico.

Ad esempio, un video musicale è stato prodotto nella Cattedrale di Ġazančec’oc’, anche conosciuta come Cattedrale del Salvatore di Shushi in Nagorno-Karabakh. La cattedrale, che secondo gli ufficiali armeni è stata bombardata l’8 ottobre da due attacchi delle forze azere, è diventata il palcoscenico per il video musicale del violoncellista armeno Sevak Avanesyan. Il brano, suonato intorno ai bianchi detriti di quello che un tempo era la cattedrale, intitolato Krunk, è stato composto da uno dei maggiori compositori tragici armeni, Komitas, che soffrì di esaurimento nervoso dopo essere sopravvissuto allo sterminio armeno perpetrato dalla Turchia Ottomana e che, successivamente morì in un istituto psichiatrico di Parigi. Il video musicale è stato postato il 12 ottobre dal governo armeno, con un chiaro messaggio riferito ai bombardamenti azeri, ma volto anche ad ipotizzare un nesso fra questi bombardamenti ed il genocidio armeno.

Per l’Azerbaijan tali affermazioni sono del tutto false. Gli ufficiali governativi infatti hanno negato completamente non solo l’ipotesi di questo nesso, ma anche i bombardamenti stessi. Il Ministro della Difesa azero ha infatti dichiarato che le informazioni rilasciate riguardo il danneggiamento della cattedrale di Shushi non hanno niente a che fare con le operazioni militari azere in quanto, l’esercito azero, non ha come target monumenti storici, culturali o religiosi. Per gli osservatori azeri il video musicale è parte di una più larga campagna mediatica contro Baku.

Alcuni analisti politici azeri affermano che il lato armeno rilascia deliberatamente delle fake news, come, per esempio, la partecipazione di alcuni mercenari siriani assoldati da Ankara per combattere al fianco dell’esercito azero. Successivamente a queste affermazioni, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha completamente smentito tali notizie affermando che comunque, supporta i suoi alleati azeri.

A questo si è unita anche la voce della first lady azera Mehriban Aliyeva che tramite un post di Facebook ha scritto: “[…] siamo tutti soldati che devono fare del loro meglio per sfatare le bugie armene. Esorto ognuno di voi a smascherare i falsi della propaganda armena ed a rivelare la verità sull’aggressione armena alla comunità internazionale su tutte le piattaforme disponibili! Tutti coloro che considerano l’Azerbaijan la loro madre patria devono alzare la voce e confutare le bugie armene! […]”

D’altro canto, anche analisti politici armeni accusano il lato azero di evidente propaganda di guerra, dicendo che il presidente azero Aliyev stesso – che ha ereditato la presidenza come le politiche autoritarie da suo padre Heydar – controlla fermamente i canali mediatici statali, il governo azero viene infatti accusato dalla sua controparte di non rilasciare importanti informazioni durante il periodo di guerra, come ad esempio la conta dei morti che è stata divulgata solamente al cessarsi delle ostilità.

Si può quindi notare come la guerra sul campo è accompagnata da una feroce guerra mediatica costellata da informazioni trattenute e da accuse da ambo le parti. Di queste possiamo notare soprattutto le accuse che sia l’Armenia che l’Azerbaijan si sono rivolte riguardo il diritto internazionale umanitario, e quindi imputandosi l’un l’altro di crimini di guerra.

Il trattato di pace

Lunedì 9 novembre, successivamente alla conquista della città di Shushi da parte delle forze azere che, grazie alla vittoria sulla città, si erano spinte fino alle porte di Stepanakert – la città più importante della regione del Nagorno-Karabakh – il Primo Ministro Armeno, Nikol Pashinyan, ha dichiarato tramite un post su Facebook di aver firmato il cessate il fuoco per la conclusione del conflitto, definendola una “decisone molto difficile per me e per tutti noi […] ed indicibilmente dolorosa per me personalmente e per il nostro popolo.”

L’accordo, mediato dalla Federazione Russa ed entrato in vigore all’ 1:00 GMT del 10 novembre, prevede che le forze armene si dovranno ritirare dai sette distretti contesi del Karabakh e anche dalla città di Shushi, che rimane sotto il controllo azero. Inoltre, sul Corridoio di Laçın – una striscia di territorio di 9km di larghezza che rappresenta il punto più vicino fra l’Armenia e la regione del NagornoKarabakh e che, prima della guerra dei quarantaquattro giorni si trovava sotto il controllo della Repubblica dell’Artsakh – devono essere schierati 2.000 peacekeepers russi per almeno 5 anni, anche se il loro mandato può essere esteso fino ad una durata massima di 10 anni.

Rimangono però alcune perplessità su tale accordo. Infatti, non solo come quanto detto prima migliaia di infrastrutture e di abitazioni sono state distrutte dalla guerra ma, come anche riportato da Amnesty International, rimangono preoccupanti tutte le bombe a grappolo inesplose lanciate sulla città di Stepanakert. A questo si deve aggiungere, inoltre, il pericoloso rischio per sfollati e per la popolazione civile vittima delle conseguenze della guerra di dover alloggiare in strutture sovraffollate con la preoccupazione di poter contrarre il virus SARS-CoV-2 a cui neanche la regione del Nagorno-Karabakh è immune.

Domanda ancora più importante si pone per tutti i profughi e gli sfollati interni. L’accordo di pace prevede che tutti gli sfollati interni ed i rifugiati possano tornare nel territorio del Nagorno-Karabakh sotto la supervisione dell’UNHCR (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), sfortunatamente però l’accordo utilizza il termine profughi senza definire tali persone. Questa mancanza di definizione che da un lato dovrebbe essere elogiata in quanto egalitaria rispetto a tutti i profughi di guerra della regione, potrebbe però causare problemi in quanto già nel 1994, dopo la fine della prima guerra in Nagorno-Karabakh, i profughi azeri che vivevano nella regione del Nagorno-Karabakh sono stati costretti a lasciare le proprie case, nonché il territorio, dovendosi rifugiare quindi in Azerbaijan. Con il nuovo accordo di pace, si potrebbero quindi creare due flussi di rientro all’interno della regione: i primi, i rifugiati dell’ultimo conflitto, prettamente di etnia armena, che potrebbero decidere di tornare pacificamente alle loro case, ed i secondi, i profughi azeri del 1994 che potrebbero anche avere delle rivendicazioni sulle stesse proprietà armene. Bisogna dunque trovare una soluzione per poter assicurare che tutte e due le etnie possano vivere pacificamente l’una a fianco all’altra, garantendo i diritti fondamentali di tutte e due le popolazioni senza avere una prevaricazione sociale di una delle due forze. Solo in questo modo si potrebbe trovare una pace duratura per il Nagorno-Karabakh.

Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

Conoscere è resistere!

Condividi questo articolo e aiutaci a diffondere i nostri contenuti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Puoi continuare ad approfondire attraverso i nostri articoli:

I-Rohingya-la-minoranza-invisibile-Large-Movements

I Rohingya: la minoranza invisibile

Tra le grandi crisi umanitarie del nostro tempo quella che coinvolge i Rohingya del Myanmar è tra le meno conosciute. Pur avendo acquisito rilevanza sulla scena internazionale solo nel 2017, le violenze e le discriminazioni che hanno costretto più di un milione e mezzo di persone al dislocamento forzato in Bangladesh hanno origini lontane, facendo tristemente conquistare ai Rohingya la denominazione di “minoranza più perseguitata al mondo”. Clandestini nel proprio paese Le origini dei Rohingya sono contese e da sempre strumentalmente usate dal Myanmar (Ex-Birmania) per negare sistematicamente i loro diritti. Gli stessi dati che li riguardano sono incerti per lo stesso motivo, i Rohingya sono invisibili anche agli occhi delle statistiche governative, non venendo inclusi nei censimenti nazionali. Da quello che si può ricostruire di questa etnia “invisibile” è che i Rohingya sono una minoranza musulmana sunnita che risiede nell’area dello Stato di Rakhine, nel Myanmar a maggioranza buddista, da molto tempo. Sull’identificazione precisa di questa temporalità vi sono varie opinioni. Alcuni storici fanno risalire la presenza di questo popolo nell’Ex-Birmania al XII secolo, mentre la teoria portata avanti da coloro che li respingono è che siano discendenti di un gruppo musulmano proveniente dall’allora Bengala ed emigrato nel Rakhine durante la colonizzazione britannica. Ciò che è certo è che la loro presenza sul territorio si sia intensificata durante il periodo coloniale, da quando il Myanmar è stato amministrato come una provincia indiana. Alla base della discriminazione dei Rohingya vi è proprio il non riconoscimento della loro appartenenza al Paese in cui vivono da secoli. Nonostante le politiche portate avanti dai regimi che si sono susseguiti in Myanmar a seguito dell’indipendenza, nel 1948, siano sempre state repressive nei confronti delle diverse minoranze etniche e religiose, quelle verso i Rohingya sono state particolarmente violente, arrivando a negare loro il più basilare dei diritti, la nazionalità birmana. I Rohingya non rientrano, infatti, nei 135 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti dalla legge del 1982 decretata dall’allora regime militare del generale Ne Win, venendo condannati ad un’esistenza di perenne clandestinità, privati del diritto al voto, all’istruzione superiore, al libero spostamento sul territorio nazionale. I Rohingya sono quindi destinati all’apolidia, a meno che non riescano a dimostrare la loro presenza sul territorio prima del 1824, anno di annessione all’India britannica. Nel corso dei regimi militari che si sono susseguiti in Myanmar, un clima di intolleranza si è aggiunto alla mancanza di diritti, provocando distruzione di abitazioni e luoghi di culto, saccheggi, stupri e omicidi etnici. I crimini dei militari hanno costretto migliaia di Rohingya a fuggire verso gli stati confinanti, primo tra tutti il vicino Bangladesh, con ondate migratorie nel 1978 e nel 1991-92, periodi caratterizzati da una particolare escalation di violenze. Il picco della crisi Le elezioni parlamentari che si sono tenute nel 2015 hanno costituito un punto di svolta per il Myanmar, vedendo la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, la leader dell’opposizione costretta in regime di detenzione per più di 15 anni e vincitrice del premio Nobel per la Pace nel 1991. Nonostante tra le alte cariche governative fosse ormai presente una personalità quale quella della Suu Kyi, la violenza governativa verso i Rohingya non si è arrestata. Le violenze e i rastrellamenti su base etnica sono aumentati negli ultimi anni costringendo, già nel dicembre 2016, circa ventimila persone a fuggire in Bangladesh. Sono stati pero gli avvenimenti dell’estate 2017 a diffondere il dramma dei Rohingya a livello internazionale e discutere sulla tesi di genocidio rispetto alle violenze nei loro confronti.  Le nuove ondate di repressione governativa si sono scatenate in risposta alle azioni armate del gruppo ribelle ARSA, Arakan Rohingya Salvation Army. In particolare, l’attacco ad un check-point della polizia, il 25 agosto 2017, ha scatenato una reazione durissima dell’esercito birmano rivolta indiscriminatamente a tutta la popolazione civile Rohingya del Rakhine. Secondo i dati delle Nazioni Unite i militari hanno distrutto quasi 300 villaggi e perpetuato migliaia di violenze ed uccisioni a danni di uomini, donne e bambini. Dal 25 agosto al 7 settembre 2017 si stima che oltre 700.000 Rohingya abbiano lasciato il paese, circa metà della popolazione totale stimata. Nonostante alcune migliaia di persone si siano rifugiate anche in Thailandia e in Malaysia, la maggioranza di essi hanno raggiunto il Bangladesh, sia via terra, attraversando il fiume Naf, che via mare. Qui si sono aggiunti agli oltre 300.000 profughi già presenti nel distretto di Cox’s Bazar, provincia di Chittagong. Fino a marzo 2019, quando il Bangladesh ha chiuso le frontiere, migliaia di Rohingya hanno continuato a varcare il confine, costretti in condizioni di vita degradanti. Nonostante l’allestimento di campi d’accoglienza e la fornitura di alcuni servizi essenziali da parte del governo e delle organizzazioni internazionali presenti sul territorio, i Rohingya vivono in situazioni di grave sovraffollamento e non hanno acceso al mercato del lavoro legale, né tantomeno al sistema scolastico e sanitario. D’altra parte il Bangladesh non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 e dunque la popolazione non vede riconosciuti neanche formalmente i propri diritti in quanto rifugiati. Dopo le prime dimostrazioni di solidarietà, inoltre, a Cox’s Bazar è cresciuto il malcontento della popolazione locale rispetto all’alto numero di profughi.  Il Bangladesh è infatti tra i paesi più poveri tra quelli che ospitano il maggior numero di rifugiati, 1,1 milioni, e presenta forti carenze in quanto a servizi, infrastrutture e occupazione. Ad oggi secondo il Piano di risposta congiunta (JRP) 2020 dell’UNHCR per la crisi umanitaria dei Rohingya, circa 855.000 rifugiati risiedono in 34 campi formali nel distretto di Cox’s Bazar, ormai congestionato, e si stima che il 55% di loro siano bambini. La situazione nei campi resta molto precaria, aumentano tra l’altro le famiglie di rifugiati che si indebitano per sopravvivere, passando dal 35% a luglio 2018 al 69% ad agosto 2019. Nel corso degli anni inoltre, vari gruppi jihadisti hanno occupato il vuoto spesso lasciato dalle istituzioni, distribuendo beni e servizi nei campi e reclutando i Rohingya tra le loro file. Un futuro incerto Con il 2020 le sorti

Leggi Tutto »
Frontiera-Bangladesh-India-Large-Movements

Frontiera India-Bangladesh: il confine più pazzo del mondo

Tra India e Bangladesh sorge, con i suoi 4156 km,  il quinto confine più lungo del mondo e su cui insiste la barriera più lunga costruita. I territori che vengono separati da questa barriera sono densamente popolati e in molte zone il terreno è coltivato il più vicino possibile alla recinzione. In molti punti la barriera è a doppio strato e la tecnologia ha semplificato tutta una serie di attività che avrebbero richiesto centinaia di ore lavorative per il monitoraggio, la segnalazione e l’intervento delle autorità.  Nonostante i rischi la recinzione non scoraggia i migranti dal tentativo di attraversamento, sia per chi vuole raggiungere l’India, sia per chi vuole raggiungere il Bangladesh. Negli ultimi anni la frontiera tra Bangladesh e India è diventato il simbolo del costo umano e di sangue delle barriere. Lungo il confine si è registrato l’aumento di insicurezza dei migranti e delle violenze da loro subite nel tentativo di attraversamento, come nel caso della morte della quindicenne Felani Khatun nel 2011. Qui i problemi della cosiddetta immigrazione illegale si sono intrecciati con la questione delle enclavi, soprattutto a seguito dell’accordo del 2015. Quattro anni dopo l’accordo di semplificazione del confine, avvenuta con uno scambio di terre tra i due paesi, molti di coloro che hanno scelto di trasferirsi piuttosto che cambiare la propria cittadinanza hanno visto tradite le proprie aspettative. Secondo un censimento indiano del 2011 sono state circa 53 mila le persone travolte dagli effetti del trattato. Tali problematiche si inseriscono nel tema più ampio della lotta all’immigrazione clandestina portata avanti dall’India. La storia dei Chhit mahal tra Bangladesh e India Un aspetto particolare e problematico lungo il confine tra Bangladesh e India sono state le enclavi, conosciute come chhit mahal (briciole di terra). In generale si chiamano Enclave i territori che sono all’interno di uno stato ma sono appartenenti ad un altro stato, mentre per Exclave si intendono quei territori di uno stato che sono all’esterno di questo. La differenza delle due nozioni risiede dal punto di vista che si assume ma descrivono lo stesso fenomeno, ovvero la porzione di territorio di uno stato che però è all’interno di un altro. Per esempio se una porzione di territorio del Bangladesh è all’interno dell’India si tratterà al contempo di una Exclave Bangladina (un territorio nazionale posto al di fuori, quindi ex dai confini politici) e un Enclave Indiana (quindi una porzione di territorio all’interno della nazione indiana, En, ma non sotto la sua giurisdizione). Secondo le leggenda popolare l’origine di queste “briciole di terra” era dovuta al fatto che Maharaja e Nababbi se le giocassero a scacchi. Secondo i dati storici le Chhit Mahal erano il risultato degli effetti di un trattato del 1713 tra il regno di Cooch Behar e l’Impero Moghul, con cui i Moghul hanno posto fine a una guerra senza determinare un confine per i quali i territori fossero definiti come conquistati o persi. La questione confinaria si è consolidata a seguito dell’indipendenza dell’India, avvenuta nel 1947, con l’annessione del Cooch Behar all’India e del Rangpur al Pakistan Orientale, che divenne lo stato del Bangladesh nel 1971. L’indipendenza aveva comunque lasciato in sospeso la situazione delle enclavi, tra queste la più problematica era rappresentata da una enclave che conteneva tre contro-enclave e una contro-contro enclave nel territorio del Rangpur. In altre parole si trattava di un enclave di terzo livello: un enclave, circondata da un’enclave, circondata da un’enclave circondata da un altro stato. Questa apparteneva all’India ed era conosciuta come Dhahala Khagrabari. Abbiamo provato a rappresentare questa specifica situazione con la mappa qui sotto. Vi era un pezzo di India dalla dimensione di 0,69 ettari, nel territorio del Bangladesh che era esso stesso in un pezzo di territorio indiano dentro allo stato del Bangladesh. Per questo motivo la semplificazione del confine diventò una questione importante per entrambi i governi e nel 1958 si cercò di arrivare ad un accordo tra Jawaharlal Nehru, primo ministro indiano, e Feroz Khan Noon, primo ministro del Pakistan. L’accordo prevedeva uno scambio tra India e Pakistan senza tenere in conto la perdita o il guadagno di territorio ma la questione venne trasformata in un caso della Corte suprema Indiana che stabilì la necessità di un emendamento costituzionale per il trasferimento del territorio. A causa però del deterioramento delle relazioni tra India e Pakistan la questione rimase irrisolta. La situazione cambiò quando, dopo anni di discriminazioni da parte del Pakistan occidentale, nel 1971 i bengalesi del Pakistan orientale iniziarono a chiedere l’indipendenza. Il governo pakistano tentò di sopprimere il movimento indipendentista e milioni di persone persero la vita o cercarono rifugio in India. Fu così che a causa dei continui attriti l’India appoggiò l’indipendenza della regione bengalese e fu il primo stato a riconoscere il neonato Bangladesh, diventandone il principale interlocutore in politica estera. Nel 1974 fu firmato l’Accordo per la delimitazione dei confini terrestri tra Indira Gandhi e Mujibur Rahman, che prevedeva lo scambio di enclavi. Il Bangladesh ratificò rapidamente l’accordo nel 1974, ma l’India non riuscì a farlo. Lo scambio avrebbe dovuto interessare 111 enclavi indiani in territorio bangladino, circa 17 mila acri, e 51 enclavi bangladine in territorio indiano, circa 7 mila acri. Nel 2011 si riapre la questione confinaria con la firma da parte dell’India del Protocollo aggiuntivo per l’accordo sui confini terrestri del 1974. Entrambe le nazioni hanno annunciato l’intenzione di scambiare le 162 enclavi, dando ai residenti la possibilità di scegliere la propria nazionalità. Il passaggio successivo venne rappresentato dall’introduzione della legge costituzionale, nota come 119° emendamento, alla camera alta del parlamento indiano nel 2013. La legge ha visto la dura opposizione dei gruppi nazionalisti dell’Assam ma alla fine il disegno di legge è stata approvato dalla Commissione permanente per gli affari esterni nel 2014. Nel maggio 2015 la legge ha concluso l’iter legislativo ed è stato cosi approvato il 199° emendamento. In questo modo il 6 giugno del 2015 è stato possibile ratificare l’accordo, conosciuto come Land Boundary Agreement, che ha comportato lo scambio di territorio tra i due

Leggi Tutto »

La frontiera Stati Uniti – Messico: muri visibili e invisibili

In quattro anni di presidenza, Donald Trump non ha mai fatto mistero delle sue intenzioni di chiudere definitivamente la frontiera con il Messico, a sud degli Stati Uniti. La costruzione del muro che separa questi due Paesi, già iniziata negli anni ‘90, è stata infatti uno dei punti saldi della sua campagna elettorale. Questa prevedeva l’implementazione della barriera per impedire l’immigrazione dall’America Latina, con un forte impatto sulle risorse economiche e ambientali, nonché sui diritti umani. A livello mediatico la sua feroce retorica contro l’immigrazione ha suscitato scalpore. Secondo le sue dichiarazioni, non solo il muro sarebbe stato finanziato dai messicani, ma lo stesso status di immigrato sarebbe stato ridefinito legalmente tramite l’imposizione di norme più restrittive. La sua politica migratoria si sarebbe basata sul rimpatrio e l’incarcerazione di centinaia di migliaia di persone. Nell’arco del suo mandato presidenziale egli ha effettivamente rafforzato la barriera di confine, ostacolando ulteriormente l’immigrazione attraverso legislazioni e burocrazie. Questo non ha impedito a migliaia di sudamericani di avventurarsi nella traversata dell’America centrale, nel tentativo di scavalcare la barriera, mettendo a rischio la propria vita e la propria incolumità nella disperata ricerca di una protezione. Le cause della migrazione Il passato coloniale del continente americano ha plasmato la situazione sociopolitica ed economica odierna in maniera decisiva. Le popolazioni precolombiane furono infatti sterminate o confinate in zone isolate dai nuovi coloni europei del XVI secolo, i quali si incaricarono così di riscrivere da zero la storia della società americana. La nascita degli Stati Uniti come federazione di stati sovrani ha spostato l’ago della bilancia geopolitica da est a ovest. Con la sua escalation a superpotenza mondiale, l’influenza statunitense sul resto del continente è stata determinante nell’impedire lo sviluppo dei Paesi del sud. La condizione economica che ne è emersa ha visto dunque gli Stati Uniti prendere il controllo della produzione, del commercio e della manodopera del sud. Alla stessa maniera, dal punto di vista sociopolitico, l’America Latina e centrale sono sempre state soggette all’interventismo degli USA nelle questioni interne. La sua prepotente influenza sul resto del continente ha dato forma ad una società molto ineguale, con delle forti élite di imprenditori e politici benestanti che governano sulle grandi masse di popolazione svantaggiata, carente di qualsiasi tipo di assistenza sociale e relativamente povera. Queste sono le motivazioni principali che hanno destato un forte sentimento antiamericano nelle popolazioni dell’America centrale e del sud. Tuttavia – per le stesse ragioni – migliaia di persone ogni anno lasciano la propria casa e si incamminano verso nord. Il muro che divide gli Stati Uniti dal Messico è dunque un muro mentale, oltre che fisico. Questo non solo divide i due Paesi e i rispettivi continenti, ma anche due società, due ideologie di vita opposte. I privilegiati dagli svantaggiati, ed i governanti dai governati. Ed è per questo che molte persone rischiano la vita per scavalcare quel muro. La rotta verso la frontiera Stati Uniti – Messico Il muro di confine è solo il traguardo di un lungo viaggio. La rotta migratoria che interessa la regione inizia dai Paesi del centro America, prevalentemente dall’Honduras ed El Salvador, attraversa il Messico e raggiunge la frontiera. Il cammino è ricco di ostacoli e pericoli. Chi viaggia da solo rischia di essere rapinato, rapito o addirittura ucciso dalle gang criminali che militano in queste zone e che sono concausa della migrazione in sé. Al confine, poi, dove non c’è il muro c’è il deserto più caldo del Messico. La frontiera occidentale con gli Stati Uniti, infatti, si trova in mezzo al deserto di Sonora. Molti migranti terminano la loro traversata proprio qui, soccombendo al caldo, alla disidratazione, alla fame e alla stanchezza. Secondo i dati raccolti dall’associazione No More Deaths, che si occupa di soccorrere i migranti nelle zone desertiche di Sonora, in quattro anni sono stati rinvenuti 1086 cadaveri. Il conteggio, includendo solo i corpi rinvenuti dagli ufficiali della polizia di frontiera (Border Patrol) in territorio statunitense, non risulta accurato poiché taglia fuori tutti coloro che hanno perso la vita in terre messicane. L’entità della tragedia che ogni anno si abbatte su questa regione ha fatto sì che alcune organizzazioni si interessassero al fenomeno migratorio in corso. Oltre No More Deaths, anche Humane Borders si occupa di assistere i migranti in difficoltà. Più a monte del processo migratorio, in Honduras, l’associazione Pueblos Sin Fronteras organizza la partenza dell’esodo, raccogliendo e accompagnando carovane di vari popoli caraibici, da San Pedro Sula fino alla frontiera Messico – Stati Uniti. Così, migliaia di migranti marciano insieme attraverso il Guatemala e poi il Messico nel tentativo di scappare dalla violenza, dalla povertà e dalla repressione politica subìta nel proprio Paese. L’immigrazione negli Stati Uniti La presidenza di Donald Trump ha buttato benzina sul fuoco della questione dei migranti, intavolando una guerra economica e diplomatica contro il Messico. Dopo il rifiuto a contribuire al muro, il presidente messicano Enrique Peña Nieto ha ceduto alle minacce di bloccare le rimesse degli immigrati, di alzare i dazi e le tasse sulle domande di visto e di applicare tariffe commerciali sfavorevoli al Messico. Dal 2018 il presidente ha intrapreso la scelta strategica di bloccare la carovana in territorio messicano. Alcuni migranti vengono rimpatriati, altri si fermano in Messico in attesa di una risposta alla richiesta di asilo negli Stati Uniti. Altri ancora decidono di fermarsi qui in pianta stabile, accettando l’offerta di un permesso di soggiorno temporaneo che possa permettere loro di trovare un lavoro e ricevere assistenza medica. Anche chi è riuscito a scavalcare il muro spesso finisce per essere “riconsegnato” al Messico. Nel 2019 più di 60mila persone sono state espulse dal territorio statunitense. Dal 2018 il governo di Trump, tramite la politica “zero tolerance”, ha inaugurato la pratica di divisione delle famiglie di migrati alla frontiera. Questa prevede la separazione tra i clandestini adulti e i propri figli. I primi vengono incarcerati, mentre i minorenni vengono affidati in custodia a strutture apposite situate in tutto il Paese. La dichiarazione di un alto funzionario giuridico dell’entourage di Trump lascia

Leggi Tutto »
Frontiera greco turca

LA FRONTIERA GRECO-TURCA: genesi di una nuova crisi migratoria

La crisi che vede come disperati protagonisti i rifugiati bloccati alla frontiera tra la Turchia e la Grecia dimostra ancora una volta il divario esistente tra il diritto internazionale ed europeo in materia di asilo e la sua effettiva implementazione. Il 27 febbraio 2020, il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato che le frontiere erano aperte e che i rifugiati non sarebbero più stati fermati nel loro tentativo di raggiungere l’Europa. In risposta al provvedimento turco, tra le 10.000 e le 20.000 persone, perlopiù profughi siriani, ma anche afghani, iraniani e iracheni, hanno quindi raggiunto la frontiera nord-est della Turchia, dove il fiume Evros crea un confine naturale con la Grecia, e dunque con l’Unione europea (Ue). Ad aspettarli le forze di sicurezza greche determinate a non farli passare, anche a costo di attuare misure durissime. Sono presenti ovviamente soggetti vulnerabili quali bambini/e ed anziani/e o semplicemente persone scappate da aree di conflitto e costrette a vivere lontano da casa in condizioni di indeterminatezza e povertà. Ma facciamo un passo indietro per sintetizzare il contesto geopolitico che ha portato a questa situazione, partendo proprio dal ruolo della Turchia. La Turchia: avamposto d’Europa Dall’inizio del conflitto siriano, ormai nove anni fa, la Turchia è il paese che più di tutti ha accolto i profughi in fuga dalla guerra, al momento ospita circa 4 milioni di migranti, di cui 3,6 milioni di siriani. Infatti, nonostante la Turchia non sia nota per il rispetto dei diritti umani, il Paese ha applicato, fino alla chiusura della frontiera nel 2015, una politica di “porta aperta” rispetto ai profughi provenienti dalla Siria. È necessario spiegare perché in questo caso non sia corretto, almeno formalmente, parlare di rifugiati. La Turchia, infatti, pur avendo ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, lo ha fatto con una clausola che ne limita l’applicazione alle persone provenienti dall’Europa, portando i milioni di profughi di guerra a non usufruire ufficialmente dello status di rifugiato, seppur acquisendo altri tipi di protezione. Questo è uno dei motivi che denota la poca credibilità dell’accordo del 2016 stipulato tra l’Unione europea e la Turchia. In seguito al grande flusso migratorio che ha interessato l’Europa nel 2015, l’Ue ha proposto alla Turchia di fungere da barriera per l’arrivo dei migranti, soprattutto siriani. In cambio di 6 miliardi di euro e di passi avanti nel processo di adesione all’Ue, la Turchia ha accettato di far rientrare i richiedenti asilo presenti soprattutto sulle isole greche. D’altro canto l’accordo prevedeva per ogni profugo siriano rimandato in Turchia dalla Grecia, il trasferimento di un altro siriano dalla Turchia all’Unione europea attraverso dei canali umanitari. L’accordo Ue – Turchia non è stato rispettato del tutto da parte di entrambi gli attori coinvolti. Se l’Unione aveva promesso il reinsediamento di circa 70.000 profughi siriani presenti in Turchia, risulta che quelli effettivi siano stati 25.000. Anche la Turchia d’altra parte non sembra aver portato avanti i rientri in Turchia dei siriani presenti in Grecia. Questo delicato quadro ha subito uno svolta in seguito alle conseguenze della tragica situazione che sta vivendo la provincia siriana di Idlib, a ridosso del sud della Turchia, ultimo territorio ribelle rimasto fuori dal regime di Assad. La Turchia, dal 2016, è in parte coinvolta nel conflitto siriano tramite operazioni militari nel nord del Paese le quali, se da una parte hanno come obiettivo il rientro dei profughi siriani, dall’altro celano la volontà di contrastare i territori a maggioranza curda e le Unità di protezione popolare (Ypg). L’esercito turco è presente anche nella provincia di Idlib per monitorare l’area. Qui, dal dicembre 2019, l’esercito di Assad, supportato dalla Russia, sta bombardando indiscriminatamente colpendo soprattutto civili che non hanno alternativa se non fuggire verso i confini turchi. In questo contesto sono rimasti uccisi a fine febbraio 2020 ad Idlib, da parte dell’aviazione siriana, più di trenta soldati turchi. Di fronte a questa escalation di tensione, il governo turco si è ritrovato, isolato a livello internazionale e con un calo di consenso dovuto in parte alla questione migratoria e alle ricadute sociali ed economiche che ne conseguono, ad affrontare l’arrivo di una nuova ondata di sfollati dall’area di Idlib. Erdoğan ha deciso così di utilizzare i profughi presenti nel suo territorio per attirare l’attenzione dell’Unione europea. Quale modo migliore se non aprire unilateralmente il confine con la Grecia nell’era delle frontiere chiuse? Confini violenti Ad accogliere i profughi, che si sono precipitati dalla Turchia al confine con la Grecia dopo aver saputo dell’apertura della frontiera, è stato il filo spinato e le guardie frontaliere greche, armate di gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Oltre al confine terrestre, rappresentato dal fiume Evros, migliaia di migranti si sono diretti sulle isole greche di fronte alle coste turche, in particolare Lesbo, Kos e Samos, e anche in mare le forze di sicurezza greche hanno adottato misure inaccettabili, speronando i gommoni dei migranti e sparando proiettili in acqua rivolti verso di essi. Nel frattempo la tensione sulle isole è diventata altissima, poiché la nuova ondata di arrivi si inserisce in una situazione preesistente di sovraffollamento e di disagio. Basti pensare al campo d’accoglienza di Lesbo, pensato per tremila persone, ma che ne accoglie al momento 21mila.  Sulle isole greche stanno aumentando, inoltre, attacchi violenti a migranti, attivisti ed operatori umanitari da parte dei militanti del partito di estrema destra Alba Dorata e non solo. In ultimo l’incendio, probabilmente doloso, della scuola dell’ong svizzera One Happy Family, un centro che ogni giorno accoglieva fino a 800 migranti. La risposta europea In risposta all’apertura della frontiera da parte della Turchia, il 1° marzo il Primo Ministro greco, Mītsotakī, ha annunciato la sospensione della presa in carico delle domande di asilo per un mese e ha dichiarato l’espulsione di chiunque entri irregolarmente nel Paese. L’Ue ha appoggiato la Grecia, e durante la sua visita al confine con la Turchia, Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione europea, ha definito la Grecia “lo scudo d’Europa”. L’Unione si è impegnata a sostenere la Grecia con un finanziamento di 700

Leggi Tutto »

La rotta del Mediterraneo Occidentale

Tra il 17 e il 18 maggio 2021, in quasi 24 ore,  circa 8 mila persone sono entrate nell’enclave spagnola di Ceuta, punto finale della rotta del Mediterraneo occidentale, per richiedere asilo in Europa. Lì migliaia di migranti hanno cercato di superare l’unica frontiera che unisce l’Africa all’Europa rischiando l’ipotermia e la morte. Solo nei primi 6 mesi del 2021 sono stati registrati 13.483 arrivi lungo la rotta del Mediterraneo occidentale ma i dati, offerti da FRONTEX e dal Ministero dell’Interno spagnolo, non comprendono gli arrivi a Ceuta del 17 e del 18 maggio poiché il governo spagnolo ha schierato l’esercito e rimandato indietro quasi la metà delle persone che hanno tentato l’attraversamento. La rotta del Mediterraneo Occidentale Secondo l’Agenzia Europea per il controllo delle Frontiere Esterne (FRONTEX) sono otto le principali rotte che rifugiati e migranti percorrono nel tentativo di raggiungere l’Unione Europea: 1) la rotta orientale; 2) la rotta balcanica; 3) la rotta circolare; 4) la rotta atlantica; 5) la rotta del Mar Nero; 6) la rotta del Mediterraneo centrale; 7) la rotta del Mediterraneo orientale; 8) e la rotta del Mediterraneo occidentale. La rotta del Mediterraneo occidentale  si riferisce agli arrivi in Spagna sia attraverso il Mediterraneo verso la Spagna continentale, sia verso le enclave spagnole di Ceuta e Melilla nell’Africa settentrionale. Chi sceglie di percorrere questa rotta, transita attraverso il Marocco, il Sahara Occidentale, la Mauritania e l’Algeria per raggiungere l’Europa. La rotta del Mediterraneo occidentale nel 2018 è stata la rotta maggiormente utilizzata ma, da allora, il numero degli arrivi è costantemente diminuito a causa dei maggiori sforzi del Marocco nella lotta contro la migrazione irregolare, la cooperazione di Spagna ed Unione Europea con il Paese maghrebino e la pandemia legata al Covid-19. Le frontiere sono sorvegliate dalle autorità marocchine, per nulla toccate dalle Primavere Arabe, in cambio di finanziamenti economici da parte del Governo di Madrid, garantendo un’intensa azione di contrasto ai flussi migratori provenienti dall’Africa subsahariana. A ciò, si aggiunge il sostegno di FRONTEX al governo spagnolo attraverso il controllo delle sue frontiere esterne continentali con l’ausilio di operazioni marittime congiunte, come ad esempio l’Operazione Indalo. Dopo gli eventi del maggio 2021 e la distensione dei rapporti con la Spagna, il Marocco ha cominciato ad erigere recinzioni di filo spinato alla frontiere di Ceuta. L’entrata in massa di migranti sembrerebbe essere causato da una crisi diplomatica nata dopo che il governo spagnolo ha accolto sul proprio territorio Brahim Ghali, leader del Fronte Polisario. La questione riguarda il riconoscimento del Sahara occidentale in quanto provincia marocchina e la distensione dei rapporti tra i due Paesi è avvenuta in seguito alle dimissione del Ministro degli Affari esteri spagnola Arancha González Laya e la nomina di José Manuel Albares come nuovo Ministro. L’azione marocchina sembrerebbe quindi essere stata un vero e proprio ricatto diplomatico a spese di migliaia di esseri umani ed il nuovo filo spinato non esclude che ciò riaccada in futuro. La rotta del Mediterraneo Occidentale: le migrazioni come arma sulla questione del Sahara Occidentale La rotta del Mediterraneo Occidentale sembrerebbe essere stata usata, nonostante le smentite ufficiali, come arma diplomatica ed alle origini della crisi del maggio 2021 sembrerebbe esserci stato un allentamento dei controlli alle frontiere da parte della polizia marocchina. La mossa del governo di Rabat sembrerebbe essere una risposta alla decisione spagnola di accogliere sul suo territorio il leader del Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro, meglio noto come Fronte Polisario, ovvero del movimento indipendentista del Sahara Occidentale che ha  lo scopo di ottenere la realizzazione del diritto all’autodeterminazione per il popolo Sahrawi. La questione della sovranità sul Sahara occidentale è al centro di una disputa da molto tempo e, dopo il riconoscimento da parte dell’amministrazione Trump della sovranità marocchina sul territorio, il Marocco sta facendo sempre più pressione affinché l’Unione Europea riconosca la sua sovranità. Sahara spagnolo, province del sud, Repubblica Araba Sahrawi Democratica e Sahara occidentale sono tutti nomi che indicano la medesima porzione di territorio e ognuna traduce uno specifico “progetto politico” degli attori che hanno agito su di esso. La questione del Sahara occidentale assume un ruolo di primo piano solo recentemente, con la fine del dominio coloniale spagnolo nel 1975. Il periodo coloniale aveva visto un confronto tra gli spagnoli e la popolazione locale dei Sahrawi, un rapporto che vedeva colonizzatori e colonizzati. Negli ultimi anni della dominazione spagnola, anche a causa di questo scontro, il popolo Sahrawi ha iniziato a riconoscersi in un processo di costruzione nazionale e si sono compattati attorno al progetto indipendentista del Fronte Polisario. La fine della dominazione spagnola ha però complicato vicenda e gli attori regionali, primi tra tutti il Marocco e la Mauritania,  colsero l’occasione per far valere le proprie rivendicazioni sul territorio Sahariano. Nel 1975 si giunse a una situazione di compromesso e venne sottoscritto l’accordo tripartito Ispano-Marocchino-Mauritano che di fatto spartì i domini spagnoli tra il Marocco e la Mauritania, suscitando il contrasto con le Nazioni Unite in quanto non si era data la possibilità al popolo Sahrawi di far valere il proprio diritto all’autodeterminazione come garantito dalla Risoluzione n.1514 del 1960. Dopo la spartizione, il Fronte Polisario decise di proseguire l’obiettivo indipendentista con una strategia più strutturata dal punto di vista politico e militare. Nel 1976 venne proclamata la Repubblica Araba Sahrawi Democratica, si costituì un governo in esilio presso il campo profughi di Tindouf in Algeria e si riorganizzò l’assetto militare con lo scopo di effettuare azioni di guerriglia contro i due Paesi del Maghreb. Presto la Mauritania ebbe problemi a mantenere l’occupazione a causa delle proprie fragilità politiche ed economiche  e nel 1979 optò per il ritiro dal territorio. Il Marocco di risposta annesse repentinamente tutto il territorio e lo denominò “Province del Sud”. Da allora la questione del Sahara Occidentale si è identificata nello scontro tra il Marocco, che vuole vedere riconosciuta la sovranità sulle province del Sud, e i Sahrawi, che vogliono vedersi riconosciuto il diritto all’autodeterminazione ed alla propria indipendenza. I motivi dietro

Leggi Tutto »
Bosnia Croazia Confine

Bosnia: L’urlo disperato dalla foresta innevata

Dopo mesi di respingimenti sistematici al confine fra la Croazia e la Bosnia, migliaia di richiedenti asilo sono costretti a sopravvivere nelle gelide foreste bosniache. L’Ufficio dell’Alto Rappresentante per i Rifugiati delle Nazioni Unite ha dichiarato: “L’ufficio è allarmato per la frequenza crescente con cui i rifugiati e i richiedenti asilo vengono espulsi e respinti alle frontiere terrestri e marittime dell’Europa, e chiede agli Stati di indagare e fermare queste pratiche” Effettivamente, i numeri e gli incessanti casi che continuano ad essere raccontati sia fra le prime pagine delle testate giornalistiche, che ai tavoli delle varie organizzazioni internazionali, che sono direttamente sul campo al fine di aiutare i rifugiati e gli sfollati, confermano tali attestazioni. Fra i casi più eclatanti e terrificanti di questi mesi bisogna soffermarsi sulla Bosnia-Erzegovina. Negli ultimi anni il paese è stato prettamente “di transito”, ossia uno stato che i rifugiati e richiedenti asilo attraversano per poi raggiungere le loro destinazioni finali lungo la Rotta Balcanica. Quest’ultima consiste nel tragitto che parte dai paesi d’origine ed attraversa la Grecia e tutti i paesi balcanici per arrivare in Europa. Dal momento che la Bosnia non è stata una delle principali protagoniste della prima grande ondata migratoria – la cosiddetta “crisi migratoria del 2015” – non era molto preparata a fronteggiare un arrivo massivo di migranti e richiedenti asilo. Il Paese non ha a disposizione centri d’accoglienza e forniture di prima necessità tali da poter ospitare tutti i richiedenti asilo che si trovano sul proprio territorio in questo momento. Ad ogni modo, ancora oggi la Bosnia continua a rimanere un paese di transito, questo perché ultima meta dei richiedenti asilo – dopo essere passati per la Grecia i cui confini esterni con la Turchia rappresentano una costante minaccia per gli equilibri geopolitici tra l’Europa e lo stato di Ankara che peggiora ulteriormente le condizioni di vita dei migranti– rimane l’Europa, percepita come luogo sicuro in virtù della presenza di maggiori servizi di accoglienza e quindi di maggiore stabilità. Sfortunatamente i continui respingimenti alla frontiera con la Croazia, condotti in maniera sistematica e spesso violenta dalla polizia croata, hanno costretto migliaia di richiedenti asilo a rimanere per mesi in Bosnia, dove ora trovano rifugio in condizioni al limite dell’umano e che, molto spesso, non rispettano gli standard umanitari di base. Ma cosa sono i Respingimenti, anche detti “Push-Backs”? I respingimenti, o push-backs, sono uno dei mezzi maggiormente utilizzati dagli Stati di frontiera durante le procedure di controllo dell’immigrazione ed avvengono sulla linea di confine o al di fuori del territorio dello Stato stesso. Questa ed altre procedure, infatti prendono il nome di pratiche d’immigrazione extraterritoriale. I respingimenti possono essere di due tipi: terrestri o marittimi. In mare un respingimento avviene quando, dopo che un gommone con a bordo migranti viene riconosciuto, viene abbordato dalla guardia costiera e susseguentemente trainato dalla stessa fino a raggiungere le acque territoriali dalle quali si presume che il gommone sia partito. Lo scopo ultimo è quello di far desistere i migranti – che secondo il diritto del mare, si trovano in una situazione di “distress”, ovvero difficoltà, in quanto lo stesso gomone è così sovraffollato che il rischio di affondare è elevato– nel ritentare il viaggio che li porterebbe in un porto sicuro. Uno dei primi casi, concernenti questa forma di respingimento è stato affrontato dalla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) in Xhavara et al., dove, nel 1997, nel respingere una barca ricolma di migranti albanesi, una nave della Marina Italiana, ha tentato una manovra di respingimento che ha portato al ribaltamento della barca stessa ed alla successiva morte di 58 richiedenti asilo. La Corte CEDU, in questo caso ha condannato lo Stato italiano per la violazione dell’Articolo 2 della Convenzione – diritto alla vita – in quanto il fatale incidente era stato causato direttamente dalla nave delle Marina Militare italiana. Altro famosissimo caso in cui la nostra Marina Militare si è resa protagonista è il caso Hirsi Jammaa, concernente sempre un respingimento avvenuto nel 2009, quando un gommone con a bordo migranti provenienti dalla Libia, era stato abbordato ed i migranti che trasportava erano stati fatti salire sulla nave militare italiana. A questo punto la nave li porta forzatamente in Libia, dove di alcuni di loro si perdono completamente le tracce, altri sono caduti vittime del traffico di esseri umani, mentre altri ancora sono stati rispediti nei loro paesi d’origine. Dal momento che la giurisdizione su una nave battente bandiera italiana è dell’Italia – quindi a bordo valgono le stesse leggi che valgono sul suolo nazionale – la Corte ha condannato l’Italia che non ha applicato come avrebbe dovuto tutte quelle norme provenienti dal Dritto Internazionale, dai vari trattati sui Diritti Umani e dal Diritto Europeo. Similarmente, i respingimenti su terra avvengono proprio quando la polizia di confine di un determinato paese, controlla i richiedenti asilo e li blocca o li rispedisce all’interno dello stato confinante, senza, applicare le norme sopracitate. Ma che leggi ci sono a protezione dei richiedenti asilo? La Convenzione di Ginevra del 1951, sullo status dei rifugiati, è uno dei trattati che maggiormente impone agli stati firmatari di bilanciare la loro sovranità territoriale e quindi, il loro potere sul territorio. Potere che, per altro, permette all’autorità statale di decidere chi può o non può entrare, con alcune garanzie di protezione da riservare anche a coloro che non sono classificati come cittadini. Infatti, anche se l’Articolo 14 – sul diritto d’asilo – della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo viene considerato un “diritto vuoto” dal momento che tale concessione è comunque subordinata alla discrezionalità dello Stato, d’altra parte gli stati firmatari e ratificanti della Convenzione di Ginevra hanno il dovere di garantire l’accesso alle procedure d’asilo e su di loro vige il divieto di respingere (non refoulment) gli individui che potrebbero essere esposti ad un serio rischio di persecuzione qualora fossero costretti a rientrare nel paese dal quale sono scappati. Questa “sfida” alla sovranità statale, può essere ritrovata sia nell’articolo 31 che 33 della Convenzione sullo status dei rifugiati.

Leggi Tutto »