La via del dolore: quando lo stupro diventa sistematico.

Sfortunatamente, le violenze di genere non sono più utilizzate solo come arma di guerra, come avvenuto per gli abusi sistematici di tanti conflitti del passato, da quelli in Jugoslavia, alla Cecenia, sino ad arrivare agli abusi sulle donne siriane, fortemente contrastati anche dalla Corte Penale Internazionale che annovera lo stupro tra i crimini di guerra. Allo stesso modo attivisti e attiviste come Zainab Salbi, fondatrice di Women for Women International si sono sempre battuti contro l’uso di questa pratica. Eppure, sempre più spesso lo stupro sta diventando sistematico anche sulle rotte migratorie. 

Come ben sappiamo, la rotta migratoria che porta, infine, ad attraversare il Mediterraneo Centrale, non è un luogo sicuro per migranti e rifugiati. Questi, soprattutto nell’ultimo paese prima dell’attraversamento del grande bacino Mediterraneo, la Libia, vengono arbitrariamente e sistematicamente sottoposti a torture, maltrattamenti, e soprattutto stupri e violenze sessuali, oltre alla detenzione per tempi indefiniti ed ai lavori forzati. Di cui abbiamo anche parlato nel comunicato stampa per la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.

Eppure, nessuno viene risparmiato in Libia. I migranti, infatti, vengono rinchiusi in centri di detenzione, legali od illegali, sotto la giurisdizione governativa oppure delle truppe armate dell’area. Tristemente famosi sono i centri di Tajoura ed Al-Mabani, noti per torture, maltrattamenti, lavori forzati, sfruttamento e decessi in circostanze sospette. Secondo il Report di Amnesty anche ad al-Zawaiya, sempre a Tripoli, le donne trasferite nel centro di detenzione riportano che “guardie di sesso maschile sottoponevano le detenute a stupri, altre forme di violenza sessuale e torture, costringendole a rapporti sessuali in cambio di cibo o della libertà e picchiando duramente chi opponeva resistenza”.

Le violenze non si fermano solo a questi centri, ma sono ormai sistematiche di tutto un regime libico contro i rifugiati ed i migranti. Il rapporto di UNHCR e del Mixed Migration Center del Danish Refugee Council, intitolato In questo viaggio, a nessuno importa se vivi o muori” sottolinea come donne e bambine, ma anche uomini e bambini, siano ad elevato rischio di diventare vittime di stupri e violenza sessuale e di genere anche presso i check-point, le aree di frontiera e le traversate del deserto. Tra il 2018  e il 2019 circa il 31% delle persone intervistate dal Mixed Migration Centre hanno assistito o sono sopravvissute a episodi di violenza sessuale e hanno subito tali aggressioni in più località. Tra i primi responsabili delle violenze in Africa settentrionale e orientale, risultano i trafficanti, come registrano i dati nel 60% e nel 90% delle rispettive rotte. In Africa occindentale, invece, i principali responsabili, con un quarto degli abusi commessi, vengono identificati nei funzionari delle forze di sicurezza, militari o di polizia. “Molte persone, inoltre, hanno riferito di essere state costrette dai trafficanti a prostituirsi o a soddisfare altre forme di sfruttamento sessuale. Tra gennaio 2017 e dicembre 2019, l’UNHCR ha registrato oltre 630 casi di tratta di rifugiati nel Sudan orientale, con quasi 200 donne o bambine che hanno denunciato di essere sopravvissute a violenza sessuale e di genere.” 

Le testimonianze delle sopravvissute raccontano proprio questo dramma, Donne Ieri Oggi e Domani, ad esempio, racconta la storia di Kibra (nome di fantasia), una ragazza Eritrea. “Avevo una gamba rotta, avevo la febbre a causa della frattura e delle ferite, ma mi violentavano lo stesso. Anche nelle condizioni precarie in cui mi trovavo, ferita e sporca, dopo mesi senza potermi lavare. Ci stupravano davanti ai nostri figli piccoli e loro non potevano neanche piangere l’orrore di cui erano vittime. Ci terrorizzavano sempre e ci dicevano che se non riuscissimo a far smettere di piangere i bambini loro li avrebbero ammazzati.”

Sebbene la Libia sia un caso molto noto, la rotta libica non è il solo posto dove le violenze sessuali sulle donne migranti sono ormai diventate sistematiche. La rotta Centro Americana, che porta al confine tra Messico e Stati Uniti passando per infauste città, come quella di Reynosa, è un’altra rotta migratoria che sta destando molte preoccupazioni a causa dell’aumento della violenza sistematica da parte delle maras –  le famose bande criminali imperanti nel Centro America – e della elevata frequenza delle violenze sessuali. Infatti, anche Medici Senza Frontiere segnala un incremento dei sequestri di persona ed un’escalation delle violenze nei confronti di migranti e rifugiati. Le testimonianze degli operatori umanitari riportano come i loro pazienti raccontino di rapimenti, torture, violenze estreme, atti di crudeltà ed abusi sessuali commessi al fine di estorsione a cui vengono sottoposti fin dalla partenza, passando per il confine con il Messico in Guatemala, e proseguendo per tutto il loro viaggio. Gli operatori si ritrovano a curare vittime di abusi sessuali e di torture, che hanno subito scosse elettriche ai genitali o all’ano, mentre molti altri testimoniano di essere stati costretti ad assistere agli stupri dei compagni di viaggio. 

Anche la foresta di Darién, al confine della Colombia verso Panama, è tristemente famosa. Nel 2021 a Panama si è registrato un aumento degli arrivi di migranti dalla Colombia, attraverso l’infausta foresta. Secondo il Servizio Nazionale della Migrazione di Panama, nei primi 5 mesi del 2021, 15.000 persone hanno percorso questa rotta, arrivando da Haiti, Cuba, paesi africani, Pakistan e Yemen. La rotta è diventata una delle più pericolose al mondo, a causa della geografia del luogo, ma anche delle violenze che sono perpetrate al suo interno. Il modus operandi ricorda pericolosamente quello di altre zone del mondo: gruppi armati che bloccano il cammino dei migranti, perquisiscono gli uomini per rubare anche fino all’ultimo centesimo, e solo dopo anche le donne che poi, successivamente, vengono violentate davanti a tutto il gruppo, senza che gli altri possano intervenire o fare niente a riguardo. Pena, la vita. 

La storia di Lucia è una di queste, scappata dal Nicaragua per non sottoporsi alla leva militare obbligatoria, perché non voleva uccidere i suoi stessi concittadini, cerca di arrivare in Messico. “Si soffre molto sulla rotta migratoria. Ho passato notti molto spaventose. Le persone approfittano della tua vulnerabilità. È stato orribile. Ci sono cose terribili che mi sono successe e che preferisco non raccontare o ricordare. Quando sei una donna sola, soffri molto.

Eppure, non dovrebbe essere così, una donna migrante o rifugiata non dovrebbe dover soffrire su una rotta migratoria solo per il fatto di essere donna. Trovare modi efficaci per rendere sicure le rotte migratorie, e non avallare tali crimini per una mera politica di contenimento della migrazione, è una necessità impellente, come è anche fondamentale che le violenze sessuali lungo le rotte migratorie – e non solamente in caso di abusi perpetrati nel paese d’origine – vengano considerate dalle Commissioni Territoriali nell’audizione per le domande d’asilo. L’immobilità e il silenzio in merito a questo argomento ci renderebbero, allo stesso modo, complici di tali delitti. 


Fonti:
https://www.globalist.it/world/2022/03/21/dalla-siria-allucraina-gli-stupri-di-massa-come-arma-di-guerra-viaggio-nellorrore/ https://d21zrvtkxtd6ae.cloudfront.net/public/uploads/2021/07/Libia-Nessuno-verr%C3%A0-a-cercarti.pdf https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/07/29/migranti-72-vittime-ogni-mese-torture-stupri-ed-esecuzioni-la-rotta-africana-e-tra-le-piu-mortali-al-mondo-libia-non-e-luogo-sicuro/5883642/ http://www.donneierioggiedomani.it/7821/Migranti-il-racconto-straziante-delle-donne-che-anno-subito-violenza https://www.meltingpot.org/2019/11/aumentano-abusi-e-sequestri-di-persona-sulla-rotta-migratoria-del-messico-del-sud/ https://www.repubblica.it/solidarieta/profughi/2021/06/17/news/panama_gli_interventi_a_sostegno_delle_persone_migranti_nella_foresta_di_darie_n_per_assisterli_in_arrivo_dalla_colombia-306468177/ https://www.msf.es/actualidad/mexico/lucia-y-hugo-dos-historias-violencia-y-huida-mexico

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La frontiera Stati Uniti – Messico: muri visibili e invisibili

In quattro anni di presidenza, Donald Trump non ha mai fatto mistero delle sue intenzioni di chiudere definitivamente la frontiera con il Messico, a sud degli Stati Uniti. La costruzione del muro che separa questi due Paesi, già iniziata negli anni ‘90, è stata infatti uno dei punti saldi della sua campagna elettorale. Questa prevedeva l’implementazione della barriera per impedire l’immigrazione dall’America Latina, con un forte impatto sulle risorse economiche e ambientali, nonché sui diritti umani. A livello mediatico la sua feroce retorica contro l’immigrazione ha suscitato scalpore. Secondo le sue dichiarazioni, non solo il muro sarebbe stato finanziato dai messicani, ma lo stesso status di immigrato sarebbe stato ridefinito legalmente tramite l’imposizione di norme più restrittive. La sua politica migratoria si sarebbe basata sul rimpatrio e l’incarcerazione di centinaia di migliaia di persone. Nell’arco del suo mandato presidenziale egli ha effettivamente rafforzato la barriera di confine, ostacolando ulteriormente l’immigrazione attraverso legislazioni e burocrazie. Questo non ha impedito a migliaia di sudamericani di avventurarsi nella traversata dell’America centrale, nel tentativo di scavalcare la barriera, mettendo a rischio la propria vita e la propria incolumità nella disperata ricerca di una protezione. Le cause della migrazione Il passato coloniale del continente americano ha plasmato la situazione sociopolitica ed economica odierna in maniera decisiva. Le popolazioni precolombiane furono infatti sterminate o confinate in zone isolate dai nuovi coloni europei del XVI secolo, i quali si incaricarono così di riscrivere da zero la storia della società americana. La nascita degli Stati Uniti come federazione di stati sovrani ha spostato l’ago della bilancia geopolitica da est a ovest. Con la sua escalation a superpotenza mondiale, l’influenza statunitense sul resto del continente è stata determinante nell’impedire lo sviluppo dei Paesi del sud. La condizione economica che ne è emersa ha visto dunque gli Stati Uniti prendere il controllo della produzione, del commercio e della manodopera del sud. Alla stessa maniera, dal punto di vista sociopolitico, l’America Latina e centrale sono sempre state soggette all’interventismo degli USA nelle questioni interne. La sua prepotente influenza sul resto del continente ha dato forma ad una società molto ineguale, con delle forti élite di imprenditori e politici benestanti che governano sulle grandi masse di popolazione svantaggiata, carente di qualsiasi tipo di assistenza sociale e relativamente povera. Queste sono le motivazioni principali che hanno destato un forte sentimento antiamericano nelle popolazioni dell’America centrale e del sud. Tuttavia – per le stesse ragioni – migliaia di persone ogni anno lasciano la propria casa e si incamminano verso nord. Il muro che divide gli Stati Uniti dal Messico è dunque un muro mentale, oltre che fisico. Questo non solo divide i due Paesi e i rispettivi continenti, ma anche due società, due ideologie di vita opposte. I privilegiati dagli svantaggiati, ed i governanti dai governati. Ed è per questo che molte persone rischiano la vita per scavalcare quel muro. La rotta verso la frontiera Stati Uniti – Messico Il muro di confine è solo il traguardo di un lungo viaggio. La rotta migratoria che interessa la regione inizia dai Paesi del centro America, prevalentemente dall’Honduras ed El Salvador, attraversa il Messico e raggiunge la frontiera. Il cammino è ricco di ostacoli e pericoli. Chi viaggia da solo rischia di essere rapinato, rapito o addirittura ucciso dalle gang criminali che militano in queste zone e che sono concausa della migrazione in sé. Al confine, poi, dove non c’è il muro c’è il deserto più caldo del Messico. La frontiera occidentale con gli Stati Uniti, infatti, si trova in mezzo al deserto di Sonora. Molti migranti terminano la loro traversata proprio qui, soccombendo al caldo, alla disidratazione, alla fame e alla stanchezza. Secondo i dati raccolti dall’associazione No More Deaths, che si occupa di soccorrere i migranti nelle zone desertiche di Sonora, in quattro anni sono stati rinvenuti 1086 cadaveri. Il conteggio, includendo solo i corpi rinvenuti dagli ufficiali della polizia di frontiera (Border Patrol) in territorio statunitense, non risulta accurato poiché taglia fuori tutti coloro che hanno perso la vita in terre messicane. L’entità della tragedia che ogni anno si abbatte su questa regione ha fatto sì che alcune organizzazioni si interessassero al fenomeno migratorio in corso. Oltre No More Deaths, anche Humane Borders si occupa di assistere i migranti in difficoltà. Più a monte del processo migratorio, in Honduras, l’associazione Pueblos Sin Fronteras organizza la partenza dell’esodo, raccogliendo e accompagnando carovane di vari popoli caraibici, da San Pedro Sula fino alla frontiera Messico – Stati Uniti. Così, migliaia di migranti marciano insieme attraverso il Guatemala e poi il Messico nel tentativo di scappare dalla violenza, dalla povertà e dalla repressione politica subìta nel proprio Paese. L’immigrazione negli Stati Uniti La presidenza di Donald Trump ha buttato benzina sul fuoco della questione dei migranti, intavolando una guerra economica e diplomatica contro il Messico. Dopo il rifiuto a contribuire al muro, il presidente messicano Enrique Peña Nieto ha ceduto alle minacce di bloccare le rimesse degli immigrati, di alzare i dazi e le tasse sulle domande di visto e di applicare tariffe commerciali sfavorevoli al Messico. Dal 2018 il presidente ha intrapreso la scelta strategica di bloccare la carovana in territorio messicano. Alcuni migranti vengono rimpatriati, altri si fermano in Messico in attesa di una risposta alla richiesta di asilo negli Stati Uniti. Altri ancora decidono di fermarsi qui in pianta stabile, accettando l’offerta di un permesso di soggiorno temporaneo che possa permettere loro di trovare un lavoro e ricevere assistenza medica. Anche chi è riuscito a scavalcare il muro spesso finisce per essere “riconsegnato” al Messico. Nel 2019 più di 60mila persone sono state espulse dal territorio statunitense. Dal 2018 il governo di Trump, tramite la politica “zero tolerance”, ha inaugurato la pratica di divisione delle famiglie di migrati alla frontiera. Questa prevede la separazione tra i clandestini adulti e i propri figli. I primi vengono incarcerati, mentre i minorenni vengono affidati in custodia a strutture apposite situate in tutto il Paese. La dichiarazione di un alto funzionario giuridico dell’entourage di Trump lascia

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Frontiera-Bangladesh-India-Large-Movements

Frontiera India-Bangladesh: il confine più pazzo del mondo

Tra India e Bangladesh sorge, con i suoi 4156 km,  il quinto confine più lungo del mondo e su cui insiste la barriera più lunga costruita. I territori che vengono separati da questa barriera sono densamente popolati e in molte zone il terreno è coltivato il più vicino possibile alla recinzione. In molti punti la barriera è a doppio strato e la tecnologia ha semplificato tutta una serie di attività che avrebbero richiesto centinaia di ore lavorative per il monitoraggio, la segnalazione e l’intervento delle autorità.  Nonostante i rischi la recinzione non scoraggia i migranti dal tentativo di attraversamento, sia per chi vuole raggiungere l’India, sia per chi vuole raggiungere il Bangladesh. Negli ultimi anni la frontiera tra Bangladesh e India è diventato il simbolo del costo umano e di sangue delle barriere. Lungo il confine si è registrato l’aumento di insicurezza dei migranti e delle violenze da loro subite nel tentativo di attraversamento, come nel caso della morte della quindicenne Felani Khatun nel 2011. Qui i problemi della cosiddetta immigrazione illegale si sono intrecciati con la questione delle enclavi, soprattutto a seguito dell’accordo del 2015. Quattro anni dopo l’accordo di semplificazione del confine, avvenuta con uno scambio di terre tra i due paesi, molti di coloro che hanno scelto di trasferirsi piuttosto che cambiare la propria cittadinanza hanno visto tradite le proprie aspettative. Secondo un censimento indiano del 2011 sono state circa 53 mila le persone travolte dagli effetti del trattato. Tali problematiche si inseriscono nel tema più ampio della lotta all’immigrazione clandestina portata avanti dall’India. La storia dei Chhit mahal tra Bangladesh e India Un aspetto particolare e problematico lungo il confine tra Bangladesh e India sono state le enclavi, conosciute come chhit mahal (briciole di terra). In generale si chiamano Enclave i territori che sono all’interno di uno stato ma sono appartenenti ad un altro stato, mentre per Exclave si intendono quei territori di uno stato che sono all’esterno di questo. La differenza delle due nozioni risiede dal punto di vista che si assume ma descrivono lo stesso fenomeno, ovvero la porzione di territorio di uno stato che però è all’interno di un altro. Per esempio se una porzione di territorio del Bangladesh è all’interno dell’India si tratterà al contempo di una Exclave Bangladina (un territorio nazionale posto al di fuori, quindi ex dai confini politici) e un Enclave Indiana (quindi una porzione di territorio all’interno della nazione indiana, En, ma non sotto la sua giurisdizione). Secondo le leggenda popolare l’origine di queste “briciole di terra” era dovuta al fatto che Maharaja e Nababbi se le giocassero a scacchi. Secondo i dati storici le Chhit Mahal erano il risultato degli effetti di un trattato del 1713 tra il regno di Cooch Behar e l’Impero Moghul, con cui i Moghul hanno posto fine a una guerra senza determinare un confine per i quali i territori fossero definiti come conquistati o persi. La questione confinaria si è consolidata a seguito dell’indipendenza dell’India, avvenuta nel 1947, con l’annessione del Cooch Behar all’India e del Rangpur al Pakistan Orientale, che divenne lo stato del Bangladesh nel 1971. L’indipendenza aveva comunque lasciato in sospeso la situazione delle enclavi, tra queste la più problematica era rappresentata da una enclave che conteneva tre contro-enclave e una contro-contro enclave nel territorio del Rangpur. In altre parole si trattava di un enclave di terzo livello: un enclave, circondata da un’enclave, circondata da un’enclave circondata da un altro stato. Questa apparteneva all’India ed era conosciuta come Dhahala Khagrabari. Abbiamo provato a rappresentare questa specifica situazione con la mappa qui sotto. Vi era un pezzo di India dalla dimensione di 0,69 ettari, nel territorio del Bangladesh che era esso stesso in un pezzo di territorio indiano dentro allo stato del Bangladesh. Per questo motivo la semplificazione del confine diventò una questione importante per entrambi i governi e nel 1958 si cercò di arrivare ad un accordo tra Jawaharlal Nehru, primo ministro indiano, e Feroz Khan Noon, primo ministro del Pakistan. L’accordo prevedeva uno scambio tra India e Pakistan senza tenere in conto la perdita o il guadagno di territorio ma la questione venne trasformata in un caso della Corte suprema Indiana che stabilì la necessità di un emendamento costituzionale per il trasferimento del territorio. A causa però del deterioramento delle relazioni tra India e Pakistan la questione rimase irrisolta. La situazione cambiò quando, dopo anni di discriminazioni da parte del Pakistan occidentale, nel 1971 i bengalesi del Pakistan orientale iniziarono a chiedere l’indipendenza. Il governo pakistano tentò di sopprimere il movimento indipendentista e milioni di persone persero la vita o cercarono rifugio in India. Fu così che a causa dei continui attriti l’India appoggiò l’indipendenza della regione bengalese e fu il primo stato a riconoscere il neonato Bangladesh, diventandone il principale interlocutore in politica estera. Nel 1974 fu firmato l’Accordo per la delimitazione dei confini terrestri tra Indira Gandhi e Mujibur Rahman, che prevedeva lo scambio di enclavi. Il Bangladesh ratificò rapidamente l’accordo nel 1974, ma l’India non riuscì a farlo. Lo scambio avrebbe dovuto interessare 111 enclavi indiani in territorio bangladino, circa 17 mila acri, e 51 enclavi bangladine in territorio indiano, circa 7 mila acri. Nel 2011 si riapre la questione confinaria con la firma da parte dell’India del Protocollo aggiuntivo per l’accordo sui confini terrestri del 1974. Entrambe le nazioni hanno annunciato l’intenzione di scambiare le 162 enclavi, dando ai residenti la possibilità di scegliere la propria nazionalità. Il passaggio successivo venne rappresentato dall’introduzione della legge costituzionale, nota come 119° emendamento, alla camera alta del parlamento indiano nel 2013. La legge ha visto la dura opposizione dei gruppi nazionalisti dell’Assam ma alla fine il disegno di legge è stata approvato dalla Commissione permanente per gli affari esterni nel 2014. Nel maggio 2015 la legge ha concluso l’iter legislativo ed è stato cosi approvato il 199° emendamento. In questo modo il 6 giugno del 2015 è stato possibile ratificare l’accordo, conosciuto come Land Boundary Agreement, che ha comportato lo scambio di territorio tra i due

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In un viaggio di viaggi. Fare volontariato a Calais.

Oggi andiamo ad esplorare il nord della Francia, a neanche tre ore dalla capitale, a Calais, una città apparentemente uguale al resto delle città francesi. Da sei anni a questa parte Calais è però diventata un porto d’arrivo per migliaia di rifugiati che sognano le coste inglesi. Le condizioni in cui vengono accolti e costretti a vivere sono uno scandalo dal punto di vista della dignità umana, denunciato a più riprese da organizzazioni umanitarie in tutta Europa. Le polemiche crescono ma le soluzioni reali sembrano ancora essere lontane. Una vasta rete di ONG francesi ed inglesi è l’unica vera fonte di salvezza per i rifugiati di Calais. Large Movements vuole promuovere un dialogo vivo e vero con i rifugiati, e ha deciso così di intraprendere un’esperienza sul campo di Calais, attivandosi con una delle principali ONG inglesi. Qui, la maggior parte dei migranti proviene dall’Afghanistan, Eritrea, Iran, Iraq e Sud Sudan. Per lo più sono uomini, tra i 16 ed i 40 anni. Questo perché i governi di provenienza impongono loro il servizio militare obbligatorio e l’unica via per sottrarsene è la fuga. Tra tutti i paesi in Europa, nonostante la Brexit e la barriera linguistica, l’Inghilterra resta tra le mete predilette e viene percepita da queste persone come la speranza per migliori condizioni di vita grazie al facile accesso al mondo del lavoro. Purtroppo, quest’ultimo, come testimoniano molti dei rifugiati, è il mondo del lavoro in nero, che non richiede tutti quei documenti e procedure burocratiche i cui tempi di attesa spesso superano quelli del viaggio per raggiungere le coste europee. Tra le ragioni che ispirano ad intraprendere un’esperienza di volontariato a Calais è proprio la posizione di questa realtà, scenario di una delle crisi umanitarie più gravi in Europa. L’espressione “crisi umanitaria” è normalmente associata a paesi lontani, a territori sperduti e contaminati dalla guerra. Eppure, la (non) gestione degli arrivi di immigrati in Francia ha fatto sì che il confine franco-inglese si sia trasformato in un luogo dove è scoppiata una profonda crisi umanitaria, violando diritti e principi fondamentali. La tristemente nota “Giungla di Calais” si trova nel dipartimento di Grand-Synthe, a Dunkerk, ad una ventina di km dal centro di Calais. Dallo smantellamento del 2016 in realtà, della Giungla rimangono soltanto delle tracce. Oggi i rifugiati si trovano in varie zone di accampamento tra il centro e fuori città, privi di una struttura di riferimento come ai tempi della Giungla. Le zone di accampamento sono infatti enormi aree che si sviluppano dove intorno non vi è assolutamente nulla oppure accanto a grandi centri commerciali, dove le ONG attive sul territorio organizzano quotidianamente la distribuzione di cibo e beni essenziali come vestiti, coperte o tende. Oltre all’ex Giungla di Calais, le distribuzioni avvengono in più punti della città: le piazzole situate sia di fronte l’ospedale principale sia nelle vicinanze del tunnel della Manica sono due tra questi. Il tunnel giunge fino in Inghilterra ed è da qui che tutte le notti molti rifugiati provano a salire su di un camion nel disperato tentativo di raggiungere la terra anglosassone. Dal 2017 il Comune ha messo a disposizione un servizio di docce per i migranti e, per i mesi più freddi, un sistema di dormitori per proteggersi dalla morsa del gelo. Tuttavia, la convivenza in stretti spazi e sotto il controllo di personale francese non è sempre la scelta prediletta dai migranti. Infatti, nel corso degli anni si sono ripetuti scontri e violente discussioni che hanno fatto chiudere o sospendere i servizi. Risale allo scorso gennaio la denuncia delle maggiori ONG circa l’attivazione di questi servizi perché, secondo la legge nazionale, spetta al prefetto decidere l’attivazione – e quindi anche l’interruzione o la sospensione – di questi servizi ma non sempre questa funzione è considerata una priorità nell’agenda amministrativa. A Calais lo stereotipo europeo del migrante – al quale la maggioranza della popolazione occidentale in qualche modo è assuefatta a causa del continuo bombardamento informatico e mediatico che lo diffonde quotidianamente – viene a cadere fin dal primo giorno. Si incontrano storie di persone che vogliono rivendicare un destino ingiusto, perché nati in paesi la cui miseria e violenza non ha permesso loro di vivere una vita degna di essere chiamata tale. I più giovani non hanno potuto frequentare la scuola ma riescono ad imparare da autodidatti l’inglese, a volte anche il francese o l’italiano, con una dizione ed una padronanza quasi perfetta. I più anziani lasciano spesso carriere brillanti nell’ambito della ristorazione o dell’estetica. È sorprendente ad esempio come i parrucchieri curino l’aspetto dei loro compagni anche sotto la neve o con il freddo che rende i campi immense distese di ghiaccio. Operare in un luogo del genere permette anche di scoprire la diversità delle nazioni di provenienza dei rifugiati e la loro organizzazione in territorio straniero. Gli Afghani, insieme agli Iracheni, Curdi ed Iraniani si “impongono” sul resto degli altri rifugiati dato il loro carattere particolarmente forte. Ad esempio, nelle attività sportive accade spesso che i Sudanesi o gli Eritrei siano esclusi o mal visti, a causa della loro esile forma fisica. Per quanto riguarda invece l’organizzazione delle comunità, gli Eritrei hanno una loro interna gerarchia: vi è un capo eletto che ogni giorno si occupa di ripartire i vari beni ricevuti. Interessante è anche capire come la popolazione di Calais percepisce e descrive lo scenario. Un primo elemento è legato allo scenario politico locale: dal 2008 Natacha Bouchart, rappresentante repubblicana, è il sindaco di Calais e fin da subito ha adottato una serie di misure per contrastare l’arrivo clandestino dei migranti, invocando un continuo scambio di informazioni con le autorità inglesi ed invocando che le stesse si assumano le proprie responsabilità in merito alla regolarizzazione dei flussi migratori. Il sindaco ha anche più volte denunciato l’operato delle organizzazioni perché “si servono dei migranti per esistere”. Al di là del discorso politico, vi è una parte dei cittadini di Calais che si lamenta della reputazione che ha ormai acquisito la loro città. “Calais viene ormai unicamente

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La rotta del Mediterraneo Occidentale

Tra il 17 e il 18 maggio 2021, in quasi 24 ore,  circa 8 mila persone sono entrate nell’enclave spagnola di Ceuta, punto finale della rotta del Mediterraneo occidentale, per richiedere asilo in Europa. Lì migliaia di migranti hanno cercato di superare l’unica frontiera che unisce l’Africa all’Europa rischiando l’ipotermia e la morte. Solo nei primi 6 mesi del 2021 sono stati registrati 13.483 arrivi lungo la rotta del Mediterraneo occidentale ma i dati, offerti da FRONTEX e dal Ministero dell’Interno spagnolo, non comprendono gli arrivi a Ceuta del 17 e del 18 maggio poiché il governo spagnolo ha schierato l’esercito e rimandato indietro quasi la metà delle persone che hanno tentato l’attraversamento. La rotta del Mediterraneo Occidentale Secondo l’Agenzia Europea per il controllo delle Frontiere Esterne (FRONTEX) sono otto le principali rotte che rifugiati e migranti percorrono nel tentativo di raggiungere l’Unione Europea: 1) la rotta orientale; 2) la rotta balcanica; 3) la rotta circolare; 4) la rotta atlantica; 5) la rotta del Mar Nero; 6) la rotta del Mediterraneo centrale; 7) la rotta del Mediterraneo orientale; 8) e la rotta del Mediterraneo occidentale. La rotta del Mediterraneo occidentale  si riferisce agli arrivi in Spagna sia attraverso il Mediterraneo verso la Spagna continentale, sia verso le enclave spagnole di Ceuta e Melilla nell’Africa settentrionale. Chi sceglie di percorrere questa rotta, transita attraverso il Marocco, il Sahara Occidentale, la Mauritania e l’Algeria per raggiungere l’Europa. La rotta del Mediterraneo occidentale nel 2018 è stata la rotta maggiormente utilizzata ma, da allora, il numero degli arrivi è costantemente diminuito a causa dei maggiori sforzi del Marocco nella lotta contro la migrazione irregolare, la cooperazione di Spagna ed Unione Europea con il Paese maghrebino e la pandemia legata al Covid-19. Le frontiere sono sorvegliate dalle autorità marocchine, per nulla toccate dalle Primavere Arabe, in cambio di finanziamenti economici da parte del Governo di Madrid, garantendo un’intensa azione di contrasto ai flussi migratori provenienti dall’Africa subsahariana. A ciò, si aggiunge il sostegno di FRONTEX al governo spagnolo attraverso il controllo delle sue frontiere esterne continentali con l’ausilio di operazioni marittime congiunte, come ad esempio l’Operazione Indalo. Dopo gli eventi del maggio 2021 e la distensione dei rapporti con la Spagna, il Marocco ha cominciato ad erigere recinzioni di filo spinato alla frontiere di Ceuta. L’entrata in massa di migranti sembrerebbe essere causato da una crisi diplomatica nata dopo che il governo spagnolo ha accolto sul proprio territorio Brahim Ghali, leader del Fronte Polisario. La questione riguarda il riconoscimento del Sahara occidentale in quanto provincia marocchina e la distensione dei rapporti tra i due Paesi è avvenuta in seguito alle dimissione del Ministro degli Affari esteri spagnola Arancha González Laya e la nomina di José Manuel Albares come nuovo Ministro. L’azione marocchina sembrerebbe quindi essere stata un vero e proprio ricatto diplomatico a spese di migliaia di esseri umani ed il nuovo filo spinato non esclude che ciò riaccada in futuro. La rotta del Mediterraneo Occidentale: le migrazioni come arma sulla questione del Sahara Occidentale La rotta del Mediterraneo Occidentale sembrerebbe essere stata usata, nonostante le smentite ufficiali, come arma diplomatica ed alle origini della crisi del maggio 2021 sembrerebbe esserci stato un allentamento dei controlli alle frontiere da parte della polizia marocchina. La mossa del governo di Rabat sembrerebbe essere una risposta alla decisione spagnola di accogliere sul suo territorio il leader del Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro, meglio noto come Fronte Polisario, ovvero del movimento indipendentista del Sahara Occidentale che ha  lo scopo di ottenere la realizzazione del diritto all’autodeterminazione per il popolo Sahrawi. La questione della sovranità sul Sahara occidentale è al centro di una disputa da molto tempo e, dopo il riconoscimento da parte dell’amministrazione Trump della sovranità marocchina sul territorio, il Marocco sta facendo sempre più pressione affinché l’Unione Europea riconosca la sua sovranità. Sahara spagnolo, province del sud, Repubblica Araba Sahrawi Democratica e Sahara occidentale sono tutti nomi che indicano la medesima porzione di territorio e ognuna traduce uno specifico “progetto politico” degli attori che hanno agito su di esso. La questione del Sahara occidentale assume un ruolo di primo piano solo recentemente, con la fine del dominio coloniale spagnolo nel 1975. Il periodo coloniale aveva visto un confronto tra gli spagnoli e la popolazione locale dei Sahrawi, un rapporto che vedeva colonizzatori e colonizzati. Negli ultimi anni della dominazione spagnola, anche a causa di questo scontro, il popolo Sahrawi ha iniziato a riconoscersi in un processo di costruzione nazionale e si sono compattati attorno al progetto indipendentista del Fronte Polisario. La fine della dominazione spagnola ha però complicato vicenda e gli attori regionali, primi tra tutti il Marocco e la Mauritania,  colsero l’occasione per far valere le proprie rivendicazioni sul territorio Sahariano. Nel 1975 si giunse a una situazione di compromesso e venne sottoscritto l’accordo tripartito Ispano-Marocchino-Mauritano che di fatto spartì i domini spagnoli tra il Marocco e la Mauritania, suscitando il contrasto con le Nazioni Unite in quanto non si era data la possibilità al popolo Sahrawi di far valere il proprio diritto all’autodeterminazione come garantito dalla Risoluzione n.1514 del 1960. Dopo la spartizione, il Fronte Polisario decise di proseguire l’obiettivo indipendentista con una strategia più strutturata dal punto di vista politico e militare. Nel 1976 venne proclamata la Repubblica Araba Sahrawi Democratica, si costituì un governo in esilio presso il campo profughi di Tindouf in Algeria e si riorganizzò l’assetto militare con lo scopo di effettuare azioni di guerriglia contro i due Paesi del Maghreb. Presto la Mauritania ebbe problemi a mantenere l’occupazione a causa delle proprie fragilità politiche ed economiche  e nel 1979 optò per il ritiro dal territorio. Il Marocco di risposta annesse repentinamente tutto il territorio e lo denominò “Province del Sud”. Da allora la questione del Sahara Occidentale si è identificata nello scontro tra il Marocco, che vuole vedere riconosciuta la sovranità sulle province del Sud, e i Sahrawi, che vogliono vedersi riconosciuto il diritto all’autodeterminazione ed alla propria indipendenza. I motivi dietro

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Frontiera greco turca

LA FRONTIERA GRECO-TURCA: genesi di una nuova crisi migratoria

La crisi che vede come disperati protagonisti i rifugiati bloccati alla frontiera tra la Turchia e la Grecia dimostra ancora una volta il divario esistente tra il diritto internazionale ed europeo in materia di asilo e la sua effettiva implementazione. Il 27 febbraio 2020, il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato che le frontiere erano aperte e che i rifugiati non sarebbero più stati fermati nel loro tentativo di raggiungere l’Europa. In risposta al provvedimento turco, tra le 10.000 e le 20.000 persone, perlopiù profughi siriani, ma anche afghani, iraniani e iracheni, hanno quindi raggiunto la frontiera nord-est della Turchia, dove il fiume Evros crea un confine naturale con la Grecia, e dunque con l’Unione europea (Ue). Ad aspettarli le forze di sicurezza greche determinate a non farli passare, anche a costo di attuare misure durissime. Sono presenti ovviamente soggetti vulnerabili quali bambini/e ed anziani/e o semplicemente persone scappate da aree di conflitto e costrette a vivere lontano da casa in condizioni di indeterminatezza e povertà. Ma facciamo un passo indietro per sintetizzare il contesto geopolitico che ha portato a questa situazione, partendo proprio dal ruolo della Turchia. La Turchia: avamposto d’Europa Dall’inizio del conflitto siriano, ormai nove anni fa, la Turchia è il paese che più di tutti ha accolto i profughi in fuga dalla guerra, al momento ospita circa 4 milioni di migranti, di cui 3,6 milioni di siriani. Infatti, nonostante la Turchia non sia nota per il rispetto dei diritti umani, il Paese ha applicato, fino alla chiusura della frontiera nel 2015, una politica di “porta aperta” rispetto ai profughi provenienti dalla Siria. È necessario spiegare perché in questo caso non sia corretto, almeno formalmente, parlare di rifugiati. La Turchia, infatti, pur avendo ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, lo ha fatto con una clausola che ne limita l’applicazione alle persone provenienti dall’Europa, portando i milioni di profughi di guerra a non usufruire ufficialmente dello status di rifugiato, seppur acquisendo altri tipi di protezione. Questo è uno dei motivi che denota la poca credibilità dell’accordo del 2016 stipulato tra l’Unione europea e la Turchia. In seguito al grande flusso migratorio che ha interessato l’Europa nel 2015, l’Ue ha proposto alla Turchia di fungere da barriera per l’arrivo dei migranti, soprattutto siriani. In cambio di 6 miliardi di euro e di passi avanti nel processo di adesione all’Ue, la Turchia ha accettato di far rientrare i richiedenti asilo presenti soprattutto sulle isole greche. D’altro canto l’accordo prevedeva per ogni profugo siriano rimandato in Turchia dalla Grecia, il trasferimento di un altro siriano dalla Turchia all’Unione europea attraverso dei canali umanitari. L’accordo Ue – Turchia non è stato rispettato del tutto da parte di entrambi gli attori coinvolti. Se l’Unione aveva promesso il reinsediamento di circa 70.000 profughi siriani presenti in Turchia, risulta che quelli effettivi siano stati 25.000. Anche la Turchia d’altra parte non sembra aver portato avanti i rientri in Turchia dei siriani presenti in Grecia. Questo delicato quadro ha subito uno svolta in seguito alle conseguenze della tragica situazione che sta vivendo la provincia siriana di Idlib, a ridosso del sud della Turchia, ultimo territorio ribelle rimasto fuori dal regime di Assad. La Turchia, dal 2016, è in parte coinvolta nel conflitto siriano tramite operazioni militari nel nord del Paese le quali, se da una parte hanno come obiettivo il rientro dei profughi siriani, dall’altro celano la volontà di contrastare i territori a maggioranza curda e le Unità di protezione popolare (Ypg). L’esercito turco è presente anche nella provincia di Idlib per monitorare l’area. Qui, dal dicembre 2019, l’esercito di Assad, supportato dalla Russia, sta bombardando indiscriminatamente colpendo soprattutto civili che non hanno alternativa se non fuggire verso i confini turchi. In questo contesto sono rimasti uccisi a fine febbraio 2020 ad Idlib, da parte dell’aviazione siriana, più di trenta soldati turchi. Di fronte a questa escalation di tensione, il governo turco si è ritrovato, isolato a livello internazionale e con un calo di consenso dovuto in parte alla questione migratoria e alle ricadute sociali ed economiche che ne conseguono, ad affrontare l’arrivo di una nuova ondata di sfollati dall’area di Idlib. Erdoğan ha deciso così di utilizzare i profughi presenti nel suo territorio per attirare l’attenzione dell’Unione europea. Quale modo migliore se non aprire unilateralmente il confine con la Grecia nell’era delle frontiere chiuse? Confini violenti Ad accogliere i profughi, che si sono precipitati dalla Turchia al confine con la Grecia dopo aver saputo dell’apertura della frontiera, è stato il filo spinato e le guardie frontaliere greche, armate di gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Oltre al confine terrestre, rappresentato dal fiume Evros, migliaia di migranti si sono diretti sulle isole greche di fronte alle coste turche, in particolare Lesbo, Kos e Samos, e anche in mare le forze di sicurezza greche hanno adottato misure inaccettabili, speronando i gommoni dei migranti e sparando proiettili in acqua rivolti verso di essi. Nel frattempo la tensione sulle isole è diventata altissima, poiché la nuova ondata di arrivi si inserisce in una situazione preesistente di sovraffollamento e di disagio. Basti pensare al campo d’accoglienza di Lesbo, pensato per tremila persone, ma che ne accoglie al momento 21mila.  Sulle isole greche stanno aumentando, inoltre, attacchi violenti a migranti, attivisti ed operatori umanitari da parte dei militanti del partito di estrema destra Alba Dorata e non solo. In ultimo l’incendio, probabilmente doloso, della scuola dell’ong svizzera One Happy Family, un centro che ogni giorno accoglieva fino a 800 migranti. La risposta europea In risposta all’apertura della frontiera da parte della Turchia, il 1° marzo il Primo Ministro greco, Mītsotakī, ha annunciato la sospensione della presa in carico delle domande di asilo per un mese e ha dichiarato l’espulsione di chiunque entri irregolarmente nel Paese. L’Ue ha appoggiato la Grecia, e durante la sua visita al confine con la Turchia, Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione europea, ha definito la Grecia “lo scudo d’Europa”. L’Unione si è impegnata a sostenere la Grecia con un finanziamento di 700

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