L’origine dell’oppressione: il ruolo della donna nell’Islam

Foto di Elena Di Dio

L’appartenenza all’Islam contraddistingue circa il 25% della popolazione mondiale odierna, ed è considerata religione di Stato in molti Paesi del Medio Oriente e dell’Africa del nord. Generalmente la religione islamica, come quella cristiana, porta in sé la sottomissione del genere femminile all’uomo. La struttura patriarcale di base religiosa si presenta in forma distinta in base al contesto in cui si trova, traducendosi in comportamenti più o meno discriminatori ed oppressivi nei confronti delle donne nelle diverse zone del mondo in cui è presente.

Alla luce delle recenti mobilitazioni contro il regime islamico scoppiate in Iran per fermare la violenza contro le donne, riteniamo importante fare una panoramica sul ruolo che la donna riveste nel contesto religioso islamico, e di come questo si traduce in normative e comportamenti oppressivi nei confronti delle libertà che tutte le donne dovrebbero avere, nella strada verso l’emancipazione.

La religione e le fonti del diritto

Un fattore che contraddistingue l’Islam dal Cristianesimo è che il libro sacro – il Corano – è attualmente considerato una fonte del diritto in quei Paesi dove vige la shari’a (la legge islamica). La Repubblica islamica dell’Iran, l’Afghanistan sotto i talebani ed altri Paesi adottano la shari’a come insieme di norme di diritto positivo, più precisamente come una combinazione di legge islamica, legislazione statale e diritto consuetudinario locale.

Gli scritti sacri che formano la legge islamica sono composti da comandamenti riguardanti le azioni dei fedeli, le quali vengono classificate come vietate, disapprovate, raccomandate od obbligatorie. Tuttavia, le norme qui trattate compongono un codice comportamentale o consuetudinario che riguarda il culto e gli obblighi rituali; considerarle norme in vigore di natura giuridica implica spesso la violazione dei diritti civili dei cittadini.

Come abbiamo già avuto modo di menzionare, i regimi religiosi che hanno adottato la shari’a si sono anche resi persecutori dei diritti e delle libertà delle donne del proprio Paese, promulgando la più rigida interpretazione delle sacre scritture come legge di stato.

Procederemo adesso ad analizzare il ruolo ricoperto dalla donna all’interno della comunità islamica secondo il Corano e le scritture che compongono la shari’a, in un tentativo di intendere le norme di controllo della donna che vengono imposte in Paesi come l’Iran.

Il valore della donna secondo la tradizione islamica

La shari’a riconosce una sostanziale uguaglianza degli uomini e delle donne di fronte a Dio. Ciononostante, nell’ordine mondano i due sessi sono considerati complementari e rivestono due ruoli diametralmente distinti. Questo spesso si traduce nel controllo della donna da parte dell’uomo poiché, mentre il primo si fa carico dell’economia famigliare e del ruolo di capo di famiglia, la donna viene segregata alla sfera domestica e si fa garante della purezza nel suo ruolo di moglie e madre.

Secondo le scritture, lo status e i diritti dell’uomo vengono accordati anche alla donna, che può ricevere educazione, possedere delle proprietà e migliorare economicamente. Il Corano, infatti, difende l’individualità della donna e le concede la libertà di difendere il proprio onore, di ricevere parte dell’eredità, di riscattarsi e di decidere della sua vita anche in materia di matrimonio.

Sebbene uomo e donna siano ugualmente importanti, essi sono stati creati per svolgere differenti ruoli nella procreazione e nella continuità della specie umana, dunque si fanno carico anche di differenti responsabilità. All’interno della famiglia la patria potestà spetta esclusivamente al padre, che ha diritto di esercitare il ta’dib’, ossia un vero e proprio potere di correzione sulla propria moglie, che lo autorizza anche all’uso della violenza.

Le facoltà accordate all’uomo musulmano nei confronti della moglie sono indubbiamente superiori, è importante però ricordare che, secondo la Rivelazione, l’essere umano viene creato da Dio in due sessi opposti con la capacità e il dovere morale di condividere amore e rispetto l’uno per l’altra.

I diritti delle donne all’interno della comunità islamica

L’autorità maschile sulle donne viene legittimata da un hadith del Profeta secondo cui la donna è imperfetta nella fede e nell’intelligenza. La posizione della donna nell’Islam può essere dunque riassunta da queste frasi coraniche: le donne agiscano con i mariti come i mariti agiscono con loro: con gentilezza. Tuttavia gli uomini sono un gradino più in alto poiché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri e perché vengono donati da loro dei beni per il mantenimento.

Sono numerosi gli ambiti in cui la donna è sottomessa all’uomo, secondo la tradizione islamica. Tra questi menzioniamo: l’obbligo di monogamia, il divieto di sposare uomini di altra fede, il divieto di ripudio, l’asimmetria di accesso al divorzio, di concessione dei figli e di eredità. In particolare, la pena per l’omicidio di una donna è metà di quella per un uomo, la testimonianza di due donne, se ammessa, equivale a quella di un uomo, e lo stesso principio vale in materia successoria. Le donne non possono essere califfo o imam, non possono esercitare la funzione di giudice né quella di tutore.

Secondo la shari’a la donna acquista limitata capacità di agire solo dopo il suo matrimonio, che rappresenta un momento chiave poiché crea la base della famiglia. Il matrimonio nell’Islam non è un sacramento, bensì un rito che ricade entro l’ordine naturalistico e viene concepito come un vero e proprio contratto tra due parti: il marito e la moglie o il suo rappresentante legale. L’uomo può sposare fino a un massimo di quattro mogli ma a condizione di trattare tutte degnamente e in maniera paritaria.

La famiglia musulmana delle origini ha dunque un forte carattere patriarcale ed è basata sulla discendenza maschile. Questo si traduce oggi nell’oggettificazione della donna in quei Paesi dove vige la shari’a, che diventa un mero oggetto della compravendita matrimoniale. Molte donne sono costrette al matrimonio ad età precoci e senza il proprio consenso, alimentando così i fenomeni delle spose bambine e del matrimonio forzato.

In linea di massima, possiamo affermare che giuridicamente nel mondo islamico due donne valgono come un uomo.

Simbolicamente la donna è vista come garante della purezza dell’ordine comunitario, ma anche come simbolo della sessualità che deve essere regolata per evitare impatti negativi sull’ordine della comunità. Questo, dunque, assegna alla donna il duplice incarico di garante dei valori familiari tradizionali e della purezza, e di simbolo della sessualità ai fini della procreazione. La sessualità non è stigmatizzata o sminuita purché dentro il contratto matrimoniale, che ha la funzione di rendere leciti i rapporti sessuali.

L’uso del velo è entrato nella società da influenze esterne come simbolo di protezione e occultamento del corpo femminile agli occhi dell’uomo. La modernizzazione del mondo occidentale ha senz’altro giocato un ruolo importante in questo cambiamento, dalla quale i governi islamici si sono voluti distanziare tramite la normalizzazione dell’uso del velo integrale e non. La separazione tra sessi punta a prevenire anche la sessualità sregolata fuori dal matrimonio, che viene severamente punita poiché rompe l’equilibrio sociale basato sulla dialettica puro/impuro. Per questo motivo l’Islam stabilisce uno stretto legame tra coesione sociale e controllo del corpo femminile, e la legislazione dei suoi paesi regola rigidamente la sfera privata delle donne.

L’analisi fin qui sviluppata ci riporta in Iran, dove le donne stanno manifestando con azioni fortemente rivoluzionarie ed un coraggio inedito, scaturito da decenni di oppressione originata dall’estremizzazione delle norme appena descritte.

La condanna delle libertà: le donne in Iran dal 1978 ad oggi

La rivoluzione in corso in Iran è frutto di decenni di politiche di controllo sul corpo della donna inaugurate nel 1979, subito dopo la Rivoluzione islamica. Prima di questa data il governo filo-occidentale dello scià Mohammad Reza Pahlavi lasciava le donne iraniane in libertà rispetto all’abbigliamento da indossare in pubblico.

Con la presa del potere da parte della frangia conservatrice, la dottrina classica dell’hisba, associata all’ingiunzione coranica di raccomandare il bene e vietare il male, è stata inserita nella Costituzione dopo la Rivoluzione del 1979 come “dovere universale e reciproco”, che spetta sia al governo che al popolo, secondo le più rigide interpretazioni della shari’a. La sua attuazione è stata portata avanti da comitati ufficiali e da forze volontarie, sia per quanto riguarda le norme sull’abbigliamento consono, che per ciò che concerne altre rigide regole di controllo della donna.

Nell’arco di poco tempo, le iraniane si sono viste revocare diritti fondamentali come quello alla sanità, all’educazione, al lavoro. La partecipazione politica non fu più permessa, come quella pubblica: le donne potevano apparire in pubblico solamente coperte ed accompagnate da una familiare maschio. La libertà di pensiero e di espressione vennero così coperte dal velo.

Fu il 7 marzo del 1979 che il leader della rivoluzione, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, decretò che l’hijab sarebbe stato obbligatorio per tutte le donne sul posto di lavoro, e che avrebbe considerato le donne scoperte come “nude”. Il decreto scatenò un’ondata di proteste pubbliche. Più di 100.000 persone, per lo più donne, si radunarono per le strade di Teheran il giorno seguente, la Giornata internazionale della donna, per protestare.

Questo non fermò le riforme dell’ayatollah, che in due anni rese obbligatorio lo chador nei luoghi pubblici per tutte le donne. Nel 1983 il Parlamento ha deciso che le donne che non si coprivano i capelli in pubblico potevano essere punite con 74 frustate. Più di recente, ha aggiunto la punizione fino a 60 giorni di carcere.

Le restrizioni e le pene inflitte in caso di violazione delle stesse sono state aggravate dai governi nel corso degli anni. Nel 2005 venne istituita la Polizia Morale, la principale polizia religiosa islamica, per imporre il codice di abbigliamento islamico e le norme di comportamento delle donne in pubblico.

Da allora, il controllo sulla donna ha raggiunto livelli estremi e contrari ad ogni libertà individuale. Tra le varie norme sul decoro pubblico, elenchiamo le più opprimenti attualmente in vigore:

  • L’istallazione ed uso di telecamere di controllo nelle strade pubbliche principali per sorvegliare le donne e multarle in caso di violazioni del codice “etico”;
  • L’introduzione di una pena detentiva a qualsiasi donna che contrasti le norme o che dimostri il proprio dissenso anche online;
  • L’obbligo, per coloro che violano le norme di controllo, di seguire un corso correttivo.

La Rivoluzione femminista

Lo scorso 16 settembre la ventiduenne Mahsa Amini si trovava in una centrale della polizia religiosa di Teheran quando, per un malore probabilmente causato dalle percosse, è deceduta. Non è la prima ragazza a perdere la vita mentre si trovava in detenzione per uso improprio dell’hijab, ma potrebbe essere una delle ultime.

La sua morte ha infatti scatenato la rabbia del popolo iraniano, e ha dato il via ad una rivoluzione guidata in gran parte da giovani donne che chiedono la fine del regime islamico. Nelle ultime settimane le manifestanti hanno affrontato la violenta repressione del governo, ma continuano imperterrite a marciare per le strade intonando il grido di battaglia curdo: “Donna. Vita. Libertà“.

زن زندگی آزادی

La protesta delle iraniane all’imposizione di un tipo di società per loro ingiusta non è però una novità. Già dalle prime proteste del 1979, come detto sopra, le donne hanno espresso il loro dissenso nei confronti delle norme imposte loro dal regime appena insediato. Nel corso degli anni la protesta è continuata con piccole azioni come, per esempio, lasciare qualche ciocca di capelli fuori dall’hijab.

Al centro del dissenso vi erano i movimenti femministi iraniani e le organizzazioni non-governative. La maggior parte di queste, contrariamente a quanto si possa pensare, non erano apertamente anti-governative, ma cercavano un graduale cambiamento all’interno del sistema.

Secondo uno studio realizzato lo scorso anno queste ONG, sebbene fornissero istruzione e formazione, servizi essenziali e attività ricreative per le donne, si astenevano dal cercare di apportare modifiche fondamentali alle leggi sui diritti delle donne. Questo approccio si basa su considerazioni di sicurezza: i membri delle ONG sono consapevoli della sensibilità dello Stato e del rischio per il loro lavoro e la loro libertà. La riluttanza delle ONG a chiedere modifiche fondamentali alle leggi sullo status delle donne riflette l’ansia palpabile tra gli attivisti per la possibilità di una ritorsione politica.

Questo era valido, almeno, fino alla morte di Mahsa Amini.

Oggi le proteste sono arrivate a noi tramite foto e video diffusi sui social network, poiché i maggiori mezzi di comunicazione risultano oscurati o censurati. Queste immagini mostrano le iraniane togliersi il velo, bruciarlo e tagliarsi i capelli. Il principale simbolo del regime di oppressione viene rimosso, e i capelli – che rappresentano la purezza ma anche la sensualità femminile – vengono tagliati. Le donne rimuovono insieme all’emblema del controllo anche il motivo che lo scatena, con un potente gesto di riappropriazione della coscienza e del proprio corpo.

In risposta a ciò, le forze di polizia e militari stanno martoriando un intero genere, un intero Paese. La ONG Iran Human Rights riporta 448 vittime dallo scoppio delle proteste alla scorsa settimana, con un impressionante numero di condanne a morte emesse anche nei confronti di minori di età, esecuzioni, detenzioni arbitrarie e violenze di genere e non.

Noi di Large Movements riteniamo legittime le richieste delle rivoluzionarie e dei rivoluzionari che stanno minando l’autorità del regime islamico in Iran. Limitare le libertà femminili in una forma così opprimente non può essere un comportamento giustificabile dal credo religioso, né tantomeno dall’aspetto fisico delle donne. Le donne che protestano non ripudiano l’Islam, bensì il regime violento che attua in suo nome.

Questo forte movimento di rivendicazione ci dimostra come un credo sentito e radicato come quello musulmano non debba per forza andare contro la modernità e l’emancipazione, ma può essere adattato ai nostri tempi odierni mantenendo intatto il suo messaggio spirituale. Quello veicolato dai regimi islamici è un’interpretazione fortemente maschilista del Corano, che non lascia spazio alla libertà femminile neanche nello studio delle letture sacre.

Non possiamo ancora conoscere le sorti della Rivoluzione femminista in corso in Iran, quello che possiamo fare è assicurarci che il grido di battaglia delle donne riecheggi in tutto il mondo, e che le azioni richieste dal movimento Woman. Life. Freedom. alla comunità internazionale vengano promosse nel modo più esteso possibile.

Fonti esterne e approfondimenti:

  • Bausani A., L’Islam: una religione, un’etica, una prassi politica, Garzanti, Milano, 1999
  • Castro F., curato da Piccinelli G.M., Sistemi Giuridici Comparati, Il modello islamico, Giappichelli Editore, Torino, 2007

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Donna, vita, libertà: la lotta delle donne iraniane è la lotta di tutte

Risale allo scorso 16 settembre l’omicidio di Mahsa Amini, 22 anni, a causa delle percosse subite dopo un fermo da parte della Polizia Morale iraniana (in inglese Islamic Guidance Patrol). La ragazza curda, a Teheran come turista con la famiglia, era stata fermata il 13 settembre perché, a detta degli agenti, non indossava correttamente il velo. È morta tre giorni dopo. Da allora, l’Iran è scosso da proteste guidate dalla società civile, e centinaia sono state le manifestazioni attraverso il globo e le dimostrazioni di sostegno della comunità internazionale alla popolazione e alle donne iraniane. Large Movements è stata a quella di Roma, il 1° ottobre, e le foto qui riportate dimostrano la rabbia e forza che hanno guidato la marcia attraverso la capitale. A quasi due mesi dalla morte di Mahsa, la popolazione iraniana è ancora in tumulto e la repressione delle proteste non accenna ad arrestarsi. È complesso ritracciare l’ordine degli eventi accaduti nelle scorse settimane. 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Così come altre Repubbliche Islamiche, l’Iran basa la propria posizione sul velo sui testi sacri musulmani, tra cui il Corano e gli Hadith, nonostante sia oggetto di dibattito se queste scritture prescrivano realmente, e se sì quale, un codice di abbigliamento per le donne. Questo tipo di editto, insieme a tutti gli altri che prescrivono un comportamento “appropriato” secondo la legge islamica, viene fatto applicare dalla cosiddetta “polizia morale” Gasht-e Ershad. Il corpo di polizia è nato nel 2005 formalizzando le strutture paramilitari religiose concepite in principio per combattere nella guerra in Iran. Ad oggi, gli agenti della polizia morale pattugliano le strade e solitamente rilasciano ammonizioni verbali in presenza di irregolarità – di fronte a un velo che non copre tutti i capelli, trucco troppo vistoso o gonne troppo corte. Proprio il 15 agosto scorso, il presidente iraniano Ebrahim Raisi aveva imposto nuove sanzioni più stringenti e dure punizioni per le donne che non rispettano il codice di condotta islamico, di fatto allargando ulteriormente i poteri della polizia morale. Tuttavia, spesso le donne fermate vengono prese in custodia e detenute, per poi in seguito essere inviate in “centri di ri-educazione”, dove seguono ore di lezioni sulla morale islamica. Il rilascio avviene poi in presenza di un parente stretto di sesso maschile, dopo aver firmato una dichiarazione secondo la quale, in futuro, l’offesa non sarà ripetuta. Mahsa Amini: l’ultima goccia per la società civile iraniana Apparentemente, questo è quello che sarebbe dovuto succedere anche a Mahsa: un centro di “correzione”, e poi il rilascio. Eppure non sono rare le denunce di abuso da parte degli agenti in seguito al fermo, di cui Mahsa è stata un vittima. Il 13 settembre, Mahsa Amini viene sequestrata per “uso improprio del velo”. È costretta ad entrare in un furgone della polizia morale dove viene percossa dagli agenti stessi, secondo alcuni testimoni oculari. Qualche ora dopo, alla sua famiglia viene comunicato che Mahsa è stata trasportata in ospedale in seguito ad un attacco cardiaco. Dopo tre giorni in coma, la ragazza di 22 anni è deceduta. La famiglia si è opposta da subito alla versione ufficiale della vicenda, spiegando che Mahsa non aveva alcun problema di salute che potesse spiegare un attacco di cuore improvviso. Il suo decesso ha fatto da scintilla accanto a una miccia, portando la società civile già stremata da un regime oppressivo in cui spesso attiviste subiscono ripercussioni per il proprio ruolo critico nei confronti di esso, a irrompervi contro, scatenando proteste che si sono sparse per tutto il Paese. A questo si è aggiunta l’arresto della giornalista Niloofar Hamedi dopo aver postato una foto dei genitori di Mahsa abbracciati in ospedale, dopo aver appreso del decesso della figlia. Le proteste hanno invaso le strade di Teheran e del resto del Paese qualche giorno dopo, specialmente nel Kurdistan iraniano, regione da cui proveniva Mahsa. Tantissime donne hanno manifestato il proprio dissenso togliendosi il velo o bruciandolo. Uno dei gesti più profondi e simbolici di queste proteste è stato il pubblico taglio di capelli da parte delle partecipanti, in ricordo di Mahsa e contro la Guida Suprema del Paese, Ali Khamenei. La risposta del governo iraniano è stata di reprimere violentemente i manifestanti: l’ONG Iran Human Rights, che ha seguito l’andamento degli scontri tra civili e forze dell’ordine, riporta che almeno 326 persone, di cui 43 minori, sono state uccise durante le insurrezioni. 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Attualmente l’Iran sta vivendo una situazione instabile per le proteste scoppiate dopo la morte di Mahsa Amini, 22enne curda in visita a Teheran con la famiglia, a causa delle percosse ricevute dalla polizia morale che l’aveva arrestata con l’accusa di uso improprio del velo. Secondo alcune indagini, le rivolte hanno portato a 530 vittime tra i manifestanti, più di 19.700 arresti e 4 condanne a morte eseguite. Molte donne arrestate dalla polizia hanno raccontato gli abusi a cui sono state sottoposte durante la detenzione e alcune hanno rivelato di essere state imbavagliate con i loro hijab. Non è la prima volta che le donne iraniane protestano contro le leggi imposte dal governo per salvaguardare i loro diritti fondamentali; già nel 1979 migliaia scesero in piazza per protestare contro la decisione di rendere l’hijab obbligatorio per tutte le donne sul luogo di lavoro. Nonostante ciò, l’ayatollah Ruhollah Khomeini procedette con le riforme che desiderava attuare e, nel corso del tempo, sia le restrizioni che le punizioni per chi violava le prime divennero più aspre. Un nuovo attacco “Inizialmente abbiamo sentito uno strano odore, poi alcune di noi hanno cominciato a sentirsi male”. Centinaia sono le testimonianze che ribadiscono le stesse parole, così come centinaia, secondo le stime del governo iraniano, sono le studentesse che frequentano le scuole colpite da episodi di avvelenamento che stanno avvenendo in Iran dalla fine di novembre 2022. Mal di testa, tosse, nausea, difficoltà respiratorie, palpitazioni, stati di sonnolenza acuta, questi sono i sintomi che le ragazze, e anche alcune insegnanti, hanno accusato dopo essere state esposte a quella che sembrerebbe una fuoriuscita di gas. 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Alcuni sostengono che questi attacchi siano da imputare ad un gruppo estremista che è concorde con la politica che i talebani hanno attuato in Afghanistan riguardo l’istruzione femminile; altri ancora sono convinti che dietro tutto ciò ci sia il governo stesso che vuole scoraggiare donne e ragazze nel partecipare alle varie manifestazioni precedentemente citate. Solo quando questi eventi hanno catalizzato l’attenzione internazionale, il presidente Ebrahim Raisi ha annunciato l’apertura di un’inchiesta che ha portato all’arresto di oltre 100 persone accusate di avere legami con gruppi ostili. Tra gli arrestati, secondo il ministero dell’interno, c’è chi è sospettato di appartenere al gruppo di opposizione in esilio Mujahedin del popolo dell’Iran o Mujahedeen-e-Khalq (MEK), considerato dal governo un’organizzazione terrorista che vuole diffondere il panico tra la popolazione. Le indagini sono ancora in corso e si auspica che vengano condotte in maniera imparziale da parte delle autorità preposte anche se, come ricorda l’organizzazione Human Rights Watch, una lunga serie di precedenti fa pensare che la polizia possa agire in modo tendenzioso. Basti pensare alle donne che vennero sfregiate con l’acido da assalitori ignoti nel 2014 nella città di Isfahan, probabilmente perché indossavano il velo in modo non conforme alle norme vigenti in Iran, infatti le indagini portarono ad un nulla di fatto e le autorità negarono ogni coinvolgimento nelle aggressioni. Noi di Large Movements desideriamo che i veri responsabili di azioni tanto inique vengano consegnati alla giustizia e che il governo iraniano garantisca la sicurezza dei propri cittadini, nonché i loro diritti fondamentali. Auspichiamo che le donne iraniane possano vivere in piena libertà e realizzarsi secondo le proprie aspirazioni. Donna. Vita. Libertà. FONTI E APPROFONDIMENTI: I casi di avvelenamento di studentesse in Iran continuano ad aumentare – Il Post Iran: oltre 100 arresti per l’avvelenamento delle studentesse – Mondo – ANSA Large Movements – Donna, vita, libertà: la lotta delle donne iraniane è la lotta di tutte Large Movements – L’Iran e il ruolo della donna nell’Islam 6 grafici per capire le proteste in Iran | ISPI (ispionline.it) What explains mysterious poisonings of schoolgirls in Iran? | News | Al Jazeera Iranian Media Reports Hundreds of Schoolgirls Poisoned | Human Rights Watch (hrw.org) Acid attacks in Isfahan have nothing to do with the hijab, say Iranian officials | Iran | The Guardian ‘They used our hijabs to gag us’: Iran protesters tell of rapes, beatings and torture by police | Iran | The Guardian Se ti è piaciuto l’articolo, Condividici!

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