Oggi inizia dicembre, ma il caldo non accenna a darci tregua. Mi trovo in Colombia, dove sono venuta a scrivere la tesi di laurea magistrale e, per caso o per destino, ho conosciuto M.: un soldato dell’esercito nazionale che si è congedato dopo sei anni di servizio. Da quell’incontro casuale in piscina lui si è dimostrato subito incuriosito nei confronti della mia palese provenienza europea. Da allora è venuto spesso nell’appartamento che condivido con altri studenti, per farci assaggiare i piatti tipici cucinati alla perfezione, per insegnarci a ballare la salsa e la cumbia in salotto, per condividere con sincero orgoglio le tradizioni del suo Paese.
La condivisione è un tratto che contraddistingue i colombiani, e M. sembra voler condividere il più possibile con noi, specialmente il suo passato travagliato, la storia del suo Paese che tanto ama. Da quando gli ho spiegato che sto analizzando i contenuti dell’accordo di pace tra il governo e la guerriglia FARC, i suoi occhi si sono illuminati e mi ha confessato di essere stato un soldato dell’esercito proprio in quel conflitto che per più di 50 anni ha dilaniato la Colombia e che nel 2016 sembra aver raggiunto una tregua. Oggi è qui per raccontarmelo. Si siede vicino a me e mi versa un bicchiere di aguapanela appena preparata. Iniziamo.
LM: “Perché hai deciso di diventare un soldato dell’Esercito Nazionale della Colombia?”
M: “A 17 anni mi sono diplomato e mi sono ritrovato di fronte a un bivio. L’idea di poter scegliere la carriera militare mi è stata data da mia zia quando mi ha parlato del suo compagno, che era un sottufficiale dell’esercito. Mi ha spiegato che chi fa parte dell’istituzione gode di diversi benefici: uno stipendio fisso, la possibilità di studiare, l’assicurazione sanitaria, la pensione dopo 25 anni di lavoro. Inoltre, a me è sempre piaciuta l’attività fisica, infatti inizialmente mi sono iscritto all’università, alla facoltà di educazione fisica.
Il giorno in cui reclutavano per entrare nell’esercito ho dovuto prendere la prima decisione: andare a fare il test militare o andare a dare un esame all’università. In realtà la scelta neanche c’era: se fossi andato all’università non avrei potuto essere stabile economicamente perché non avevo il sostegno dei miei genitori poiché mia madre non aveva un lavoro in quel momento, quindi ho deciso di arruolarmi. Sono entrato nell’esercito e ho fatto esami medici, psicologici, fisici e sono andati molto bene.”
“Sono stato il primo in graduatoria di tutti coloro che li hanno sostenuti nella mia area. Ero anche uno dei più giovani.“
“La prima volta che sono arrivato nell’accademia militare la sensazione che ho provato è stato di voler tornare a casa. Abbiamo viaggiato in due autobus grandi, pieni di ragazzi. Dopo più di 2 ore di viaggio, erano le 4.30 di mattina, siamo arrivati e come siamo scesi dai bus un soldato ci ha ordinato di metterci a raccogliere tutte le foglie secche dal terreno. Non sono tornato a casa allora, avevo molti occhi puntati su di me: i miei amici del quartiere, la mia famiglia che diceva in giro: «M. se n’è andato»… Mi stavo mettendo alla prova, ma se queste aspettative non ci fossero state penso che sarei tornato subito a casa. In quel momento è iniziata una delle avventure che penso non potrò mai dimenticare nella vita, che è stato l’Esercito Nazionale.”
L’accademia militare: come si diventa un soldato dell’Esercito Nazionale della Colombia
M: “Sono stato nella scuola militare per 18 mesi. Il periodo si divide in tre semestri: prima sei una recluta, poi brigadiere e infine un dragone. Nell’ultimo semestre segui un corso di controguerriglia e ci sono prove che sono molto difficili, sono sfide. Lì le percepisci come sfide, ma quando esci e vedi la realtà dei fatti, ti accorgi che sono veri e propri abusi. Ti mettono moltissima pressione psicologica, fisica e alimentare, ti colpiscono con le doghe del letto se fai qualche errore, usano la violenza per insegnare.
Ad un certo punto del mio secondo semestre ho reagito contro un capitano che era appena arrivato nella scuola. Noi dormivamo pochissimo, 3-4 ore al giorno, quando riuscivamo a dormire. La sera dovevamo fare le pulizie, e quel giorno stavamo pulendo i bagni il più velocemente possibile per poi andare a dormire. Il capitano è entrato nella stanza e ci ha ordinato di fare esercizi a terra mentre lui passava tra di noi e ci prendeva a calci. Si stava avvicinando a me quando gli ho detto che se mi avesse toccato mi sarei dimenticato che lui è il comandante e io uno studente. Mi ha messo comunque un piede addosso, allora io mi sono alzato, l’ho spinto via e me ne sono andato.
Ho fatto rapporto al comandante della scuola. In quel periodo stavano uscendo notizie da tutta la Colombia che nell’esercito i superiori approfittavano del loro potere per maltrattarci, nessun soldato veniva risparmiato dall’abuso. Non succedeva solo da noi, ma in tutti i battaglioni era qualcosa di molto comune.”
“La prima volta che ho sentito la storia del conflitto contro la guerriglia me l’hanno raccontata lì ma, dato che mi è sempre piaciuto approfondire per conto mio, mi sono informato sulla realtà del Paese.“
“L’impressione che ne ho tratto è che i ribelli della guerriglia si erano armati per rivendicare i loro diritti di essere ascoltati dallo Stato, e che avevano un modo diverso di pensare. Ma nell’accademia quello che ti insegnano è che devi odiarli, li devi uccidere e che deve scorrere sangue. Ci sono canzoni militari che dicono: «Voglio nuotare in una piscina piena di sangue, sangue di guerrigliero. Sangue! Sangue! Rosso! Rosso! Denso! Denso! Sangue di guerrigliero!» queste canzoni lavorano la mente di tutti gli studenti della scuola e molti ne escono con quel desiderio, con quella sete di sangue. Grazie alla vita, grazie a Dio, io non sono uscito con quella sete di uccidere, perché non mi piace fare del male ad altre persone.”
Il conflitto in Colombia: il debutto di M. come soldato regolare
M: “Quando ho finito i tre semestri nella scuola sono uscito come comandante di squadra. Mi hanno mandato in Antioquia, un dipartimento della Colombia, a controllare un tratto dell’autostrada Medellín-Bogotá e lì mi è successa la prima cosa insolita da quando sono diventato un soldato. C’era un Maggiore che era un ufficiale “hechizo” (incantato, maledetto). Sono chiamati ufficiali “hechizos” quelli che non sono andati all’accademia specifica per ufficiali, ma che lo sono diventati tramite un concorso per sottufficiali che vogliono salire di grado. Solitamente c’è una certa avversione tra gli ufficiali “hechizos” e i sottufficiali come me.
Il Maggiore un giorno è arrivato nel suo Hummer da me e mi ha fatto una proposta: «M. le devo parlare. Lei darà… un “risultato”. Deve solo salire sulla collina e non deve fare altro.» Queste sono state le sue parole. Non è stato esplicito, ma era un linguaggio conosciuto. “Salire sulla collina e tutto era pronto” significava che dovevo solo recarmi in un punto dove ci sarebbe stato un civile. “Dare risultato” significava uccidere.”
“Al tempo non si sapeva molto del fenomeno dei falsi positivi, ma la mia risposta fu un no categorico, e quel no fu una persecuzione per me come non ti puoi neanche immaginare.”
“Nessuno dei miei compagni si prestò a quella richiesta.
Ero un soldato regolare, finché non mi hanno trasferito con i soldati professionisti, che stavano in zone della Colombia dove… Volgarmente si dice che mangi più merda. Passavamo 3-4 mesi senza avere contatti con la popolazione civile, solo camminando in montagna. Là è molto difficile avanzare contro i guerriglieri delle FARC ed avere “risultati”, perché i guerriglieri conoscono la loro zona, noi no. Siamo persone che vengono dalle città, che si muovono a stento nella selva; loro no, loro vivono lì. Quindi era molto strano vedere compagnie di soldati regolari con sei mesi di esperienza che potevano contare più di dieci uccisioni. Soldati che venivano dalle campagne, con poco addestramento, ragazzi di 19-20 anni. I soldati con cui stavo io avevano più di dieci anni di esperienza nell’esercito, ed erano increduli. È qui che si è iniziato a sospettare che qualcosa di molto sbagliato stesse accadendo.”

“Nel periodo in cui ero con i soldati professionisti è successa una cosa che è stato per me il primo colpo forte e che ha iniziato a farmi chiedere se fosse il caso di restare o se dovessi andarmene subito. Un giorno stavamo guadando un fiume dove la corrente era molto forte. Per attraversare il fiume abbiamo utilizzato un “bejuco”, che è una corda molto resistente che si trova in natura, che viene dagli alberi stessi, perché non avevamo le corde con noi.
Quel giorno era con noi un soldato che con affetto chiamavamo Cookie. Soldato Cookie, nell’attraversare il fiume, ha bagnato tutto il suo kit. Quando siamo risaliti sulla sponda mi ha detto: «Porca puttana! Stanotte mi tocca dormire tutto bagnato!» e io gli ho detto: «Tranquillo, ti darò dei vestiti asciutti». Dovevamo arrampicarci su una collina molto ripida, erano circa un migliaio di metri ma non c’era un sentiero, era solo fango, pioveva a dirotto ed era molto scivoloso. Era sera e stava già facendo buio. Cookie a quel punto mi disse che potevo lasciarlo indietro perché la mia squadra era già in cima, molto più in alto, mentre la squadra del comandante della controguerriglia era più indietro.”
“In Colombia se dici a qualche soldato la verità dei fatti o pensi in modo diverso, diventi un nemico e tentano sempre di fregarti.“
“In autunno era arrivato uno di questi soldati, una recluta, che stava gestendo la mensa del battaglione. È stato mandato nella nostra unità per punizione e non aveva idea di dove fosse. Quella notte, intorno alle 11:30, mi stavo preparando una cioccolata calda mentre continuava a piovere forte. Io ero con la mia squadra mentre il soldato era rimasto più a valle con la squadra del tenente. Mi stavo preparando questa bevanda quando ho sentito degli spari. Era buio, completamente buio, si vedeva qualcosa soltanto quando cadeva un fulmine. La mia reazione è stata di coprirmi la testa con la borsa, ho afferrato il fucile e ho aspettato in silenzio perché non sapevo cosa fosse, fino a quando non iniziano a urlare il mio nome: «M.! M.! Corra! infermiere! Infermiere! M.!». Mi sono infilato gli stivali e sono corso subito giù con una piccola torcia che avevamo, che illuminava appena.
Sono arrivato a corsa dov’era Cookie e l’ho visto dare il suo ultimo respiro di vita. Quando ho messo la mano sotto ho sentito un buco molto grande nella parte posteriore della testa. Il tenente mi stava dicendo: «M. faccia qualcosa, faccia qualcosa!» ma gli ho detto: «Non si può fare niente, ha la testa completamente fracassata.» Avevo la mano piena di sangue e dei suoi resti, l’ho visto quando ha mosso la sua mano, l’ha lasciata cadere e gli occhi sono andati via, e lì abbiamo iniziato tutti a piangere. Quello è stato uno dei momenti più forti che ho vissuto. Ho pianto, ho chiamato mia madre più tardi, le ho detto che volevo andarmene, che non volevo restare lì.”
LM: “Come hanno sparato al soldato Cookie?”
M: “Il soldato nuovo, quello che gestiva la mensa, era una persona molto nervosa, forse perché ci trovavamo in una zona della Colombia che era in mano alla guerriglia. Quella sera stava facendo la sentinella, eravamo in un’operazione contro la “Negra Karina”, una combattente delle più agguerrite che è sopravvissuta al conflitto e oggi è ambasciatrice di pace per le Nazioni Unite. Il soldato nervoso era di guardia quando Cookie è uscito dalla tenda per andare in mensa, facendo rumore. Il soldato si è spaventato e ha sparato: il proiettile è entrato dalla gola ed è uscito da dietro attraverso il cervelletto, distruggendo tutto. Ma non finisce qui, è toccato a me passare la notte con il soldato che accidentalmente ha ucciso l’altro. Dovevamo stare senza armi perché il ragazzo voleva suicidarsi dopo quello che era successo. Ho passato tutta la notte a parlargli, a dargli consigli, ad ascoltarlo.
È stata una notte eterna, una di quelle notti in cui vorresti che uscisse presto il sole. Siamo dovuti restare tre giorni con Cookie, prendendoci cura del cadavere, perché gli elicotteri non potevano volare per maltempo. In quei tre giorni ho provato un dolore molto forte perché mi rendevo conto che la vita non dipende da niente, non è affatto stabile, in qualsiasi momento se ne va e ne avevo la certezza lì di fronte a me. Mi ha sconvolto anche sapere come se ne va una persona che ha indossato l’uniforme, che è andato a combattere per le cause del Paese. Lo hanno messo in un sacco, lo hanno legato con una corda e lo hanno portato via appeso a un elicottero. È stato fatto un processo sull’accaduto e ho dovuto testimoniare. Hanno aperto un’indagine e documentato tutto ciò che è successo, così come è stato.”
Una guerra sporca
Dopo quel traumatico evento, M. si è fatto forza e ha continuato la sua carriera militare per far fede all’impegno finanziario che aveva preso. Ma questo era solo l’inizio della sua esperienza. Prosegue il suo racconto menzionando alcune occasioni in cui ha preso decisioni autonome andando contro il volere dei suoi superiori per mantenere saldi i suoi valori. Mi rivela di aver bruciato molti campi e laboratori illeciti di cocaina in Antioquia. Uno di questi coltivatori aveva investito tutti i suoi risparmi nel suo campo, e dopo che gli è stato distrutto tutto in una sola notte da altri soldati, l’unità di M. ha organizzato una colletta per dargli qualcosa. “Il signore era disperato, mi ha fatto pena perché mi ricordava mio nonno,” mi confessa.
In un’altra occasione, invece, si è rifiutato di insabbiare la verità su di un soldato disertore, anche se a dare l’ordine era stato un sergente del suo plotone. E non solo ha raccontato la verità ai suoi soldati, ma ha anche distribuito loro le parti dell’armamento che il soldato fuggito aveva abbandonato.
M: “Tutte queste cose che ho fatto contro ciò che era già stato stabilito hanno sporcato la mia reputazione. Sono diventato un soldato che non esegue gli ordini, che va contro corrente. Da lì, sempre sulla scia del castigo per essermi rifiutato di assecondare la proposta del Maggiore, sono stato mandato nel sud del Paese. Qui c’era un altro tipo di guerra: nella giungla più fitta, contro molti più guerriglieri.
Un giorno, mentre pattugliavamo una zona lungo il fiume Caquetà, abbiamo trovato una fossa comune. Immaginati un’area più grande di un campo da calcio, nella giungla con alberi e piante, cosparsa di fosse. In ogni buca c’erano due o tre cadaveri, di donne e uomini guerriglieri. Lo abbiamo segnalato e, in attesa di una risposta, ci siamo accampati lì. Abbiamo dormito lì, ma nessuno è mai arrivato. La risposta è stata «andatevene da lì» e basta. Non so se oggigiorno qualche soldato, qualcuno sia andato a cercare i corpi, perché qui in Colombia le persone muoiono, scompaiono e nessuno sa nulla. Io non ho avuto l’accortezza di annotare le coordinate o di tenere un diario, ma penso che potrei arrivarci con ciò che mi ricordo del tragitto.”
Per un momento la mente di M. si assenta totalmente e torna ad essere un soldato che ripercorre quel sentiero in mezzo alla giungla, attraverso fiumi e su per le montagne della Colombia, fino a quel cimitero a cielo aperto senza nomi né bare. È un vero e proprio business della morte quello che si nasconde dietro al conflitto colombiano. I battaglioni dell’esercito arrivano a competere tra di loro per ricevere dei giorni di permesso, e la gara consiste nel maggior numero di morti: un “risultato” equivale a 5 giorni di permesso, per due ricevi 10 giorni e così via. Il battaglione che vince alla fine dell’anno si guadagna le vacanze nel mese di dicembre.
E non solo: qui le regole di guerra sono carta straccia. Secondo i diritti umani prima di sparare devi annunciare ad alta voce: «Fermi, siamo l’Esercito Nazionale, consegnate le armi e la vostra vita verrà rispettata». Questo è solo su carta. Non viene mai fatto: il preavviso che viene dato dai soldati è un proiettile che se colpisce il bersaglio, è molto meglio.
M. a quel punto mi menziona un suo sergente che è stato sotto processo. Dopo esser stato nel dipartimento di Arauca, in una zona dove i combattimenti si protraevano fino a due settimane senza fermarsi neanche per dormire, il sergente era stato assegnato alla sua unità. Il processo è stato avviato perché, quando si sono imbattuti in una casa dove c’erano cinque presunti guerriglieri, il sergente ha preso un RPG, una specie di bazooka che può disintegrare un Hummer blindato, e ha sparato alla casa. Tra queste persone c’erano due donne incinte. Sono morti tutti.
M: “Il sergente ci raccontava di queste esperienze che ha avuto e che non lo lasciavano dormire, infatti stava tutta la notte a bere caffè e fumare sigarette. È chiaro che una persona che porta tutto questo nella testa, quando gli si presenta una tale occasione cerca di coglierla. Non lo sto giustificando, sto cercando di analizzare la situazione!” Mi dice M., mettendo subito in chiaro le sue parole. “Ti trovi in quel momento, lo vedi molto facile, prendi quest’arma e li uccidi tutti. Ma il sergente soffriva, sapeva che sarebbe stato catturato perché la sua coscienza non lo lasciava dormire. E quindi stava lì, tutta la notte a fumare e bere caffè.”
Il conflitto civile in Colombia: le responsabilità di un soldato specializzato
La guerra è un susseguirsi di situazioni estreme che si presentano e che M. ha dovuto affrontare. Quando era nell’accademia dell’Esercito Nazionale della Colombia ha ricevuto l’addestramento da soldato infermiere ed esperto EXDE, specializzato nel neutralizzare gli esplosivi, per questo si è spesso preso cura dei suoi compagni feriti.
Mi racconta di una volta che ha dovuto addirittura sezionare il cadavere di un ragazzo. “In città non c’era nessuno che potesse farlo, e noi rappresentavamo lo Stato in quel momento. La madre del ragazzo aveva chiamato, voleva vedere suo figlio un’ultima volta prima che lo seppellissero. Da Bogotà erano minimo sei giorni di viaggio fino a dove ci trovavamo e, sai, il corpo si decompone molto velocemente.” Mi confessa di non aver mangiato più niente per i due giorni successivi: vedere cosa abbiamo dentro gli ha tolto l’appetito. La sua formazione infermieristica, tra l’altro, era insufficiente. Sapeva come fare le iniezioni, come misurare la pressione e la temperatura, come effettuare una Rianimazione Cardiopolmonare, come applicare un laccio emostatico per fermare le emorragie. Ma rimuovere le interiora di una persona, quello non gliel’avevano insegnato.
M: “L’ho fatto quella volta, non l’ho più fatto e penso che non lo farò mai più. Sì, penso proprio di non volerlo più fare.” Mi dice con un amaro sorriso.
Segnali dalla natura
M. “Uno degli eventi che mi ha spinto a prendere la decisione di ritirarmi è capitato quando stavamo per andare in vacanza dopo quasi otto mesi che eravamo nella giungla. Stavamo in una zona montuosa e avevamo ricevuto informazioni su un gruppo di guerriglieri che si trovava vicino a noi, nella montagna adiacente. In questi percorsi stretti con strapiombi ad entrambi i lati del sentiero bisognava proseguire a turni, e solitamente quando c’erano due unità, come in quel caso, un giorno andava avanti una e il giorno dopo era il turno dell’altra. Quel giorno sarebbe toccato a me andare avanti, ma l’altro caporale mi chiese il cambio perché quando eri più esposto avevi anche più possibilità di dare “risultati”, e lui voleva altri giorni di permesso. Gliel’ho concesso perché a me non piace uccidere e non ho mai cercato il sangue.
Dopo una discesa siamo entrati in una valle, e in questa valle… Io credo molto nei segnali che a volte ti dà la natura, l’ambiente, l’universo, Dio. Abbiamo sentito una voce umana che ci chiamava, ma che non era di nessun soldato; sembrava provenire dalla natura stessa. Mi sono voltato, e mentre un soldato mi spiegava cosa poteva esser stato… PUM. Davanti, quelli che erano andati per primi, sono caduti in un campo minato. Dopo l’esplosione restava solo un PUUU (fischio nelle orecchie), e tutto andava al rallentatore, proprio come nei film.
Non era la prima volta che cadevo in un campo minato, la prima volta mi è successo in Antioquia. In quell’occasione ho capito fino a che punto la guerra ti smuove le viscere, durante l’eterno secondo dell’esplosione e dopo, quando resta solo un fischio. Quella volta un soldato venne portato via ferito e con l’udito danneggiato. Stavolta no.
Quando il silenzio è finito e la nebbia si è abbassata, ho sentito l’urlo di dolore. Un soldato è caduto, ha perso entrambe le gambe. Sono corso da lui, mi ha preso e, disperato, mi ha detto che non voleva morire. All’epoca aveva la mia stessa età, 23 anni. Non voleva morire. Gli ho detto «Non morirai», ma gli stavo mentendo perché non aveva le gambe dal ginocchio in giù, nessuna delle due, ed era molto pallido e impregnato di sangue. Ho provato ad iniettargli una soluzione salina perché stava perdendo molto sangue, ma non sono riuscito a trovare la vena. L’altro infermiere l’ha trovata, gli abbiamo fatto questa iniezione e poi gli abbiamo messo qualcosa di molto forte per il dolore. È uscito vivo da lì.
Ci fu un altro soldato ferito anche se non così grave: l’esplosione non lo aveva colpito direttamente, per fortuna. Questi ragazzi sono caduti nel campo minato dove sarei dovuto cadere io. L’elicottero si è potuto aprire uno spazio solo un’ora dopo l’esplosione; ha gettato le corde da mettere alle barelle e se li sono portati via entrambi. Alle 8:30 di sera ci hanno informati che il ragazzo era morto.
Ciò che mi fa più arrabbiare è che i guerriglieri smobilitati, che hanno abbandonato il conflitto, passano informazioni all’esercito. Indicano sulla mappa dove stanno le mine antiuomo, quindi dai ranghi superiori dovrebbero avvisare noi soldati di non camminare in quel punto. Il comandante della brigata lo sapeva. E non l’ha detto. Non lo disse perché voleva che attraversassimo il campo minato, volando o non so come, perché voleva i “risultati”, voleva i morti. Non dei nostri ma dei loro, solo che non gliene fregava niente di quello che ci poteva succedere.”
L’odissea del congedo permanente
M: “A quel punto ho deciso di ritirarmi. Anche quella è stata un’odissea perché ti rendono tutto difficile, ti ostacolano. Un colonnello mi disse che avrebbe impedito di congedarmi perché l’esercito aveva investito dei soldi per addestrarmi come esperto EXDE di esplosivi. Io gli ho risposto che quando ero tornato a casa per le vacanze avevo lasciato alcuni documenti a mio padre, in modo che potesse andare in procura nel caso si fosse verificata questa situazione. Sapevo cosa significava essere un soldato in Colombia, sapevo come funzionavano le cose. Lui mi mandò in un’altra località che stava sperduta in mezzo alla giungla per ottenere la firma di un generale.
Il viaggio per questo luogo è iniziato a bordo di un aereo che trasportava benzina, che non era per passeggeri. Una volta atterrato ho cercato qualcuno di fiducia che mi avrebbe portato a destinazione il giorno stesso perché quella era un’area piena di guerriglieri. Qui è dove Ingrid Betancourt è stata rapita. Sono partito molto presto, alle 3, 4 del mattino, e quando sono arrivato ho dovuto aspettare il generale fino a dopo pranzo perché mi ricevesse. Mi ha chiesto perché volessi congedarmi, che avrei dovuto continuare nell’istituzione e mi ha raccontato alcune storie. Io gli ho detto che volevo studiare e vivere tranquillo perché quella non è vita: sei schiavo dell’esercito, devi fare quello che ti chiedono senza fare domande. Avevo perso l’amore per l’istituzione, non volevo più stare lì. Ha provato ad insistere dicendomi che alcuni soldati studiavano con le audiolezioni, ma poi mi ha firmato il documento.
Lì è iniziata la mia attesa del congedo. Non solo non mi hanno avvisato quando è arrivato, ma mi hanno anche fatto restare nel battaglione. Una volta, quando ero al campo di addestramento, mi hanno ordinato di far esplodere le granate che erano rimaste inesplose. Erano una decina circa, le dovevo far esplodere e consegnare l’anello della sicura al mio superiore. Quindi ho iniziato a lanciarle, ma una di queste si è bloccata nel fango senza esplodere. Mi venne la grande idea di lanciare un’altra granata lì vicino, per cui ho preso la bomba, ho tolto la sicura e l’ho lanciata. Neanche questa è esplosa. Allora ho preso la terza, ho tirato via la sicura, e in quel momento è esploso tutto.
Non so come ho fatto a non ferirmi perché c’erano milioni di pezzi che volavano e, anche se avevo un elmetto in testa, il mio viso era ricoperto di fango. E davvero non so come ho fatto a non far cadere la bomba. La granata entra in azione appena togli la sicura, hai dai 3 ai 5 secondi di tempo per lanciarla. Appena mi sono ricordato di avere una granata in mano, l’ho lanciata subito in aria… BOOM. Mi è venuto un mal di testa che non riesci a immaginare, la mia faccia era piena di fango e mi mancavano ancora 3 o 4 granate da far esplodere. Quando è arrivato l’altro caporale gli ho raccontato la vicenda, che mi sono quasi ammazzato, e gli ho detto che non sarei morto da soldato dell’Esercito Nazionale della Colombia.”

M: “Dopo quello che è successo con la granata ho riunito i miei soldati e gli ho detto che me ne sarei andato. Alcuni di loro hanno preso la mia stessa decisione perché ci siamo resi conto di essere pedine nelle mani dei nostri superiori. Una volta, nella giungla, stavamo nel bel mezzo di un’operazione di controguerriglia quando all’improvviso ci hanno ordinato di retrocedere e di lasciare il campo di battaglia. Questo ci ha fatto capire che tra i ranghi alti c’erano affari di mezzo, che si erano accordati tra di loro. A noi, nel peggiore dei casi, ci uccidevano e non faceva male a nessuno, o almeno non allo Stato. Nessuno avrebbe pianto se non i nostri genitori, quelli che ci amano davvero, i nostri amici.
Quindi, prima di ritirarmi, mi sono radunato con i miei soldati e abbiamo parlato. Uno di loro mi ha detto questo: «il bene va e il male resta. Succede sempre così». Poi abbiamo pianto per un po’, ci siamo abbracciati e salutati. Loro si sono addentrati oltre nella giungla e io sono tornato a Bogotà, dove ho aspettato il mio congedo che è arrivato più di un mese dopo. Quindi ho lavorato per più di un mese senza stipendio.
In quel mese ero di guardia, ho discusso con i comandanti perché volevano mandarmi di nuovo in montagna. Mi era venuta un’ernia ombelicale e dovevano operarmi all’ospedale militare. Uno di questi comandanti voleva assolutamente che tornassi al campo di battaglia mentre aspettavo l’operazione e il congedo. Ma io, che gli piacesse o no, non ci sarei andato. Oltre a non volerlo, non sarei stato utile lì perché non riuscivo a caricare il fucile né potevo tenere l’armamento. Un soldato in Colombia trasporta tra i 35 e i 50 chili, tra armamento, zaino, divisa ed elmetto. E io avevo un’ernia”.
LM: “Dopo che ti sei ritirato il presidente e i leader delle FARC hanno iniziato i dialoghi per la pace e nel 2016 hanno firmato l’accordo di pace. Pensi che stia cambiando qualcosa?”
M: “Dunque, lì hanno creato la JEP (Giustizia Speciale per la Pace) e la Commissione per la Verità, ma non è tutto bello come sembra. Ipoteticamente, se io andassi a denunciare le cose che so, come i falsi positivi che hanno fatto in Antioquia, succederebbero due cose. La prima è che le persone che vado a denunciare lo vengono a sapere. Sono persone che fanno parte della malavita e si vendicherebbero, mi verrebbero a cercare. A me e a qualunque altro soldato in qualsiasi luogo della Colombia che vuol fare le cose per bene, che denuncia. La seconda è che una volta fatta la denuncia finisce lì: loro sono colpevoli, ma se non vogliono consegnarsi alla giustizia non è competenza della JEP.
In concreto non c’è giustizia, non c’è nessuno che li costringe ad andare a testimoniare, quindi non penso che valga la pena andare a farlo. In Colombia oggi, come allora, non ci sono protezioni né tutele, che tu sia un soldato o uno smobilitato delle FARC. Non c’è protezione per chi voglia aiutare a chiarire la verità, ad aiutare chi ha perso un parente, un amico.
Quando ero piccolo un mio vicino di casa è partito per la guerra e da allora sua sorella lo sta cercando. Non sa se è vivo, se ha perso la memoria o se è in una di quelle fosse a cielo aperto insieme ad altre centinaia di corpi. La sorella aveva 24 anni quando lui è partito, adesso ne ha più di 60. Tutti abbiamo diritto a sapere la verità, ma se vai a dire che Il Maggiore ha dato l’ordine di fare questo, quest’uomo parlerà con la sua gente. D’altronde il bandito conosce i banditi, come i professori conoscono i professori e gli avvocati si conoscono tra di loro. Contatterà le persone per chiedergli il favore, e qui in Colombia ti uccidono per 500 pesos (circa 10 centesimi di euro, ndr)”.
LM: “Quindi pensi che ci siano lacune nella JEP e nella Commissione per la Verità?”
M. “Sì, queste persone devono essere giudicate. Devono essere giudicate.”
È emozionato, a dir poco furioso. Scandisce queste ultime parole con enfasi e poi nella stanza cade il silenzio, infranto solo dal profondo sospiro che prende per calmarsi. Dopo un minuto, gli chiedo cosa farebbe se fosse dall’altro lato, nella guerriglia. Mi dice che tornerebbe alle armi, come sta facendo una parte degli smobilitati delle FARC, per sentirsi più sicuro. Lo Stato non dà sicurezza, fa gli accordi e non li rispetta. Non solo, da quando hanno consegnato le armi, gli ex-guerriglieri stanno morendo uno dopo l’altro, assassinati da sicari senza nome ma dei quali si può immaginare la provenienza. Il governo attuale non sta implementando l’accordo di pace perché il presidente è un burattino nelle mani del signore della guerra: l’ex-presidente Álvaro Uribe Vélez. Lui vuole che scorra altro sangue, ma con l’accordo questo non succederà.
Il governo si oppone alla volontà del popolo colombiano perché ci sono interessi economici e personali nella guerra.
La guerrigliera detta “Negra Karina” ha ucciso il padre di Uribe, e quindi lui ha promosso il “no” alla pace nel referendum, ha sospeso gli accordi tramite l’attuale presidente.
M: “Ora che racconto queste cose sono molto più tranquillo. È passato molto tempo, e sento che è necessario alzare la voce in modo tale che vengano diffuse. Perché si conosca la storia, si conosca la verità su ciò che è successo e su ciò che può continuare ad accadere. Se non si conoscono i fatti, questi si ripetono. La situazione odierna infatti non è nuova, è già successa in passato. Ora che ti racconto queste cose mi sento più forte. Un tempo non ci sarei riuscito perché ero molto triste, mi scendevano le lacrime solo a ripensarci. Oggi la tristezza c’è ancora perché certe cose sono irreparabili, come i ragazzi che non ci sono più. L’unica cosa che la guerra ha fatto è stato causare l’ingiusta fine delle loro vite, e questo fa male.
Tuttavia, rivedere queste cose da lontano mi fa stare bene perché so di essere rimasto forte nella mia decisione di non far parte di qualcosa di cui mi sarei pentito per tutta la vita, cioè di essere un assassino. Sarebbe stato ossessionante essere un assassino. Se la mia risposta alla proposta del Maggiore fosse stata sì, oggi non avrei la tranquillità di raccontare la mia storia. Né la pace, né il sonno.
Dopo il mio congedo ho avuto degli incubi in cui mi perseguitavano, ma ero tranquillo perché sapevo di non aver fatto una cosa che non mi piaceva fare in combattimento (dove avevo tutte le ragioni per farlo), figurati per un presunto premio, un “risultato” che alla fine di tutto era solo un inganno. La tranquillità con cui vivo oggi e su cui posso contare è stata la decisione che ho preso in quel momento. Di dire di no. Se fosse stato un sì, la storia sarebbe stata completamente diversa.”
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- Elena Di Diohttps://migrazioniontheroad.largemovements.it/author/elena-didio/
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