Il conflitto in Colombia: storia del soldato che si batte per la verità

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Oggi inizia dicembre, ma il caldo non accenna a darci tregua. Mi trovo in Colombia, dove sono venuta a scrivere la tesi di laurea magistrale e, per caso o per destino, ho conosciuto M.: un soldato dell’esercito nazionale che si è congedato dopo sei anni di servizio. Da quell’incontro casuale in piscina lui si è dimostrato subito incuriosito nei confronti della mia palese provenienza europea. Da allora è venuto spesso nell’appartamento che condivido con altri studenti, per farci assaggiare i piatti tipici cucinati alla perfezione, per insegnarci a ballare la salsa e la cumbia in salotto, per condividere con sincero orgoglio le tradizioni del suo Paese.

La condivisione è un tratto che contraddistingue i colombiani, e M. sembra voler condividere il più possibile con noi, specialmente il suo passato travagliato, la storia del suo Paese che tanto ama. Da quando gli ho spiegato che sto analizzando i contenuti dell’accordo di pace tra il governo e la guerriglia FARC, i suoi occhi si sono illuminati e mi ha confessato di essere stato un soldato dell’esercito proprio in quel conflitto che per più di 50 anni ha dilaniato la Colombia e che nel 2016 sembra aver raggiunto una tregua. Oggi è qui per raccontarmelo. Si siede vicino a me e mi versa un bicchiere di aguapanela appena preparata. Iniziamo. 

LM: “Perché hai deciso di diventare un soldato dell’Esercito Nazionale della Colombia?” 

M: “A 17 anni mi sono diplomato e mi sono ritrovato di fronte a un bivio. L’idea di poter scegliere la carriera militare mi è stata data da mia zia quando mi ha parlato del suo compagno, che era un sottufficiale dell’esercito. Mi ha spiegato che chi fa parte dell’istituzione gode di diversi benefici: uno stipendio fisso, la possibilità di studiare, l’assicurazione sanitaria, la pensione dopo 25 anni di lavoro. Inoltre, a me è sempre piaciuta l’attività fisica, infatti inizialmente mi sono iscritto all’università, alla facoltà di educazione fisica.

Il giorno in cui reclutavano per entrare nell’esercito ho dovuto prendere la prima decisione: andare a fare il test militare o andare a dare un esame all’università. In realtà la scelta neanche c’era: se fossi andato all’università non avrei potuto essere stabile economicamente perché non avevo il sostegno dei miei genitori poiché mia madre non aveva un lavoro in quel momento, quindi ho deciso di arruolarmi. Sono entrato nell’esercito e ho fatto esami medici, psicologici, fisici e sono andati molto bene.”

Sono stato il primo in graduatoria di tutti coloro che li hanno sostenuti nella mia area. Ero anche uno dei più giovani.

“La prima volta che sono arrivato nell’accademia militare la sensazione che ho provato è stato di voler tornare a casa. Abbiamo viaggiato in due autobus grandi, pieni di ragazzi. Dopo più di 2 ore di viaggio, erano le 4.30 di mattina, siamo arrivati e come siamo scesi dai bus un soldato ci ha ordinato di metterci a raccogliere tutte le foglie secche dal terreno. Non sono tornato a casa allora, avevo molti occhi puntati su di me: i miei amici del quartiere, la mia famiglia che diceva in giro: «M. se n’è andato»… Mi stavo mettendo alla prova, ma se queste aspettative non ci fossero state penso che sarei tornato subito a casa. In quel momento è iniziata una delle avventure che penso non potrò mai dimenticare nella vita, che è stato l’Esercito Nazionale.” 

L’accademia militare: come si diventa un soldato dell’Esercito Nazionale della Colombia 

M: “Sono stato nella scuola militare per 18 mesi. Il periodo si divide in tre semestri: prima sei una recluta, poi brigadiere e infine un dragone. Nell’ultimo semestre segui un corso di controguerriglia e ci sono prove che sono molto difficili, sono sfide. Lì le percepisci come sfide, ma quando esci e vedi la realtà dei fatti, ti accorgi che sono veri e propri abusi. Ti mettono moltissima pressione psicologica, fisica e alimentare, ti colpiscono con le doghe del letto se fai qualche errore, usano la violenza per insegnare.

Ad un certo punto del mio secondo semestre ho reagito contro un capitano che era appena arrivato nella scuola. Noi dormivamo pochissimo, 3-4 ore al giorno, quando riuscivamo a dormire. La sera dovevamo fare le pulizie, e quel giorno stavamo pulendo i bagni il più velocemente possibile per poi andare a dormire. Il capitano è entrato nella stanza e ci ha ordinato di fare esercizi a terra mentre lui passava tra di noi e ci prendeva a calci. Si stava avvicinando a me quando gli ho detto che se mi avesse toccato mi sarei dimenticato che lui è il comandante e io uno studente. Mi ha messo comunque un piede addosso, allora io mi sono alzato, l’ho spinto via e me ne sono andato.

Ho fatto rapporto al comandante della scuola. In quel periodo stavano uscendo notizie da tutta la Colombia che nell’esercito i superiori approfittavano del loro potere per maltrattarci, nessun soldato veniva risparmiato dall’abuso. Non succedeva solo da noi, ma in tutti i battaglioni era qualcosa di molto comune.”

La prima volta che ho sentito la storia del conflitto contro la guerriglia me l’hanno raccontata lì ma, dato che mi è sempre piaciuto approfondire per conto mio, mi sono informato sulla realtà del Paese.

“L’impressione che ne ho tratto è che i ribelli della guerriglia si erano armati per rivendicare i loro diritti di essere ascoltati dallo Stato, e che avevano un modo diverso di pensare. Ma nell’accademia quello che ti insegnano è che devi odiarli, li devi uccidere e che deve scorrere sangue. Ci sono canzoni militari che dicono: «Voglio nuotare in una piscina piena di sangue, sangue di guerrigliero. Sangue! Sangue! Rosso! Rosso! Denso! Denso! Sangue di guerrigliero!» queste canzoni lavorano la mente di tutti gli studenti della scuola e molti ne escono con quel desiderio, con quella sete di sangue. Grazie alla vita, grazie a Dio, io non sono uscito con quella sete di uccidere, perché non mi piace fare del male ad altre persone.”

Il conflitto in Colombia: il debutto di M. come soldato regolare

M: “Quando ho finito i tre semestri nella scuola sono uscito come comandante di squadra. Mi hanno mandato in Antioquia, un dipartimento della Colombia, a controllare un tratto dell’autostrada Medellín-Bogotá e lì mi è successa la prima cosa insolita da quando sono diventato un soldato. C’era un Maggiore che era un ufficiale “hechizo” (incantato, maledetto). Sono chiamati ufficiali “hechizos” quelli che non sono andati all’accademia specifica per ufficiali, ma che lo sono diventati tramite un concorso per sottufficiali che vogliono salire di grado. Solitamente c’è una certa avversione tra gli ufficiali “hechizos” e i sottufficiali come me.

Il Maggiore un giorno è arrivato nel suo Hummer da me e mi ha fatto una proposta: «M. le devo parlare. Lei darà… un “risultato”. Deve solo salire sulla collina e non deve fare altro.» Queste sono state le sue parole. Non è stato esplicito, ma era un linguaggio conosciuto. “Salire sulla collina e tutto era pronto” significava che dovevo solo recarmi in un punto dove ci sarebbe stato un civile. “Dare risultato” significava uccidere.”

“Al tempo non si sapeva molto del fenomeno dei falsi positivi, ma la mia risposta fu un no categorico, e quel no fu una persecuzione per me come non ti puoi neanche immaginare.”

“Nessuno dei miei compagni si prestò a quella richiesta.

Ero un soldato regolare, finché non mi hanno trasferito con i soldati professionisti, che stavano in zone della Colombia dove… Volgarmente si dice che mangi più merda. Passavamo 3-4 mesi senza avere contatti con la popolazione civile, solo camminando in montagna. Là è molto difficile avanzare contro i guerriglieri delle FARC ed avere “risultati”, perché i guerriglieri conoscono la loro zona, noi no. Siamo persone che vengono dalle città, che si muovono a stento nella selva; loro no, loro vivono lì. Quindi era molto strano vedere compagnie di soldati regolari con sei mesi di esperienza che potevano contare più di dieci uccisioni. Soldati che venivano dalle campagne, con poco addestramento, ragazzi di 19-20 anni. I soldati con cui stavo io avevano più di dieci anni di esperienza nell’esercito, ed erano increduli. È qui che si è iniziato a sospettare che qualcosa di molto sbagliato stesse accadendo.”

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“Nel periodo in cui ero con i soldati professionisti è successa una cosa che è stato per me il primo colpo forte e che ha iniziato a farmi chiedere se fosse il caso di restare o se dovessi andarmene subito. Un giorno stavamo guadando un fiume dove la corrente era molto forte. Per attraversare il fiume abbiamo utilizzato un “bejuco”, che è una corda molto resistente che si trova in natura, che viene dagli alberi stessi, perché non avevamo le corde con noi.

Quel giorno era con noi un soldato che con affetto chiamavamo Cookie. Soldato Cookie, nell’attraversare il fiume, ha bagnato tutto il suo kit. Quando siamo risaliti sulla sponda mi ha detto: «Porca puttana! Stanotte mi tocca dormire tutto bagnato!» e io gli ho detto: «Tranquillo, ti darò dei vestiti asciutti». Dovevamo arrampicarci su una collina molto ripida, erano circa un migliaio di metri ma non c’era un sentiero, era solo fango, pioveva a dirotto ed era molto scivoloso. Era sera e stava già facendo buio. Cookie a quel punto mi disse che potevo lasciarlo indietro perché la mia squadra era già in cima, molto più in alto, mentre la squadra del comandante della controguerriglia era più indietro.”

In Colombia se dici a qualche soldato la verità dei fatti o pensi in modo diverso, diventi un nemico e tentano sempre di fregarti.

“In autunno era arrivato uno di questi soldati, una recluta, che stava gestendo la mensa del battaglione. È stato mandato nella nostra unità per punizione e non aveva idea di dove fosse. Quella notte, intorno alle 11:30, mi stavo preparando una cioccolata calda mentre continuava a piovere forte. Io ero con la mia squadra mentre il soldato era rimasto più a valle con la squadra del tenente. Mi stavo preparando questa bevanda quando ho sentito degli spari. Era buio, completamente buio, si vedeva qualcosa soltanto quando cadeva un fulmine. La mia reazione è stata di coprirmi la testa con la borsa, ho afferrato il fucile e ho aspettato in silenzio perché non sapevo cosa fosse, fino a quando non iniziano a urlare il mio nome: «M.! M.! Corra! infermiere! Infermiere! M.!». Mi sono infilato gli stivali e sono corso subito giù con una piccola torcia che avevamo, che illuminava appena.

Sono arrivato a corsa dov’era Cookie e l’ho visto dare il suo ultimo respiro di vita. Quando ho messo la mano sotto ho sentito un buco molto grande nella parte posteriore della testa. Il tenente mi stava dicendo: «M. faccia qualcosa, faccia qualcosa!» ma gli ho detto: «Non si può fare niente, ha la testa completamente fracassata.» Avevo la mano piena di sangue e dei suoi resti, l’ho visto quando ha mosso la sua mano, l’ha lasciata cadere e gli occhi sono andati via, e lì abbiamo iniziato tutti a piangere. Quello è stato uno dei momenti più forti che ho vissuto. Ho pianto, ho chiamato mia madre più tardi, le ho detto che volevo andarmene, che non volevo restare lì.”  

LM: “Come hanno sparato al soldato Cookie?” 

M: “Il soldato nuovo, quello che gestiva la mensa, era una persona molto nervosa, forse perché ci trovavamo in una zona della Colombia che era in mano alla guerriglia. Quella sera stava facendo la sentinella, eravamo in un’operazione contro la “Negra Karina”, una combattente delle più agguerrite che è sopravvissuta al conflitto e oggi è ambasciatrice di pace per le Nazioni Unite. Il soldato nervoso era di guardia quando Cookie è uscito dalla tenda per andare in mensa, facendo rumore. Il soldato si è spaventato e ha sparato: il proiettile è entrato dalla gola ed è uscito da dietro attraverso il cervelletto, distruggendo tutto. Ma non finisce qui, è toccato a me passare la notte con il soldato che accidentalmente ha ucciso l’altro. Dovevamo stare senza armi perché il ragazzo voleva suicidarsi dopo quello che era successo. Ho passato tutta la notte a parlargli, a dargli consigli, ad ascoltarlo.

È stata una notte eterna, una di quelle notti in cui vorresti che uscisse presto il sole. Siamo dovuti restare tre giorni con Cookie, prendendoci cura del cadavere, perché gli elicotteri non potevano volare per maltempo. In quei tre giorni ho provato un dolore molto forte perché mi rendevo conto che la vita non dipende da niente, non è affatto stabile, in qualsiasi momento se ne va e ne avevo la certezza lì di fronte a me. Mi ha sconvolto anche sapere come se ne va una persona che ha indossato l’uniforme, che è andato a combattere per le cause del Paese. Lo hanno messo in un sacco, lo hanno legato con una corda e lo hanno portato via appeso a un elicottero. È stato fatto un processo sull’accaduto e ho dovuto testimoniare. Hanno aperto un’indagine e documentato tutto ciò che è successo, così come è stato.” 

Una guerra sporca 

Dopo quel traumatico evento, M. si è fatto forza e ha continuato la sua carriera militare per far fede all’impegno finanziario che aveva preso. Ma questo era solo l’inizio della sua esperienza. Prosegue il suo racconto menzionando alcune occasioni in cui ha preso decisioni autonome andando contro il volere dei suoi superiori per mantenere saldi i suoi valori. Mi rivela di aver bruciato molti campi e laboratori illeciti di cocaina in Antioquia. Uno di questi coltivatori aveva investito tutti i suoi risparmi nel suo campo, e dopo che gli è stato distrutto tutto in una sola notte da altri soldati, l’unità di M. ha organizzato una colletta per dargli qualcosa. “Il signore era disperato, mi ha fatto pena perché mi ricordava mio nonno,” mi confessa.

In un’altra occasione, invece, si è rifiutato di insabbiare la verità su di un soldato disertore, anche se a dare l’ordine era stato un sergente del suo plotone. E non solo ha raccontato la verità ai suoi soldati, ma ha anche distribuito loro le parti dell’armamento che il soldato fuggito aveva abbandonato.

M: “Tutte queste cose che ho fatto contro ciò che era già stato stabilito hanno sporcato la mia reputazione. Sono diventato un soldato che non esegue gli ordini, che va contro corrente. Da lì, sempre sulla scia del castigo per essermi rifiutato di assecondare la proposta del Maggiore, sono stato mandato nel sud del Paese. Qui c’era un altro tipo di guerra: nella giungla più fitta, contro molti più guerriglieri.

Un giorno, mentre pattugliavamo una zona lungo il fiume Caquetà, abbiamo trovato una fossa comune. Immaginati un’area più grande di un campo da calcio, nella giungla con alberi e piante, cosparsa di fosseIn ogni buca c’erano due o tre cadaveri, di donne e uomini guerriglieri. Lo abbiamo segnalato e, in attesa di una risposta, ci siamo accampati lì. Abbiamo dormito lì, ma nessuno è mai arrivato. La risposta è stata «andatevene da lì» e basta. Non so se oggigiorno qualche soldato, qualcuno sia andato a cercare i corpi, perché qui in Colombia le persone muoiono, scompaiono e nessuno sa nulla. Io non ho avuto l’accortezza di annotare le coordinate o di tenere un diario, ma penso che potrei arrivarci con ciò che mi ricordo del tragitto.” 

Per un momento la mente di M. si assenta totalmente e torna ad essere un soldato che ripercorre quel sentiero in mezzo alla giungla, attraverso fiumi e su per le montagne della Colombia, fino a quel cimitero a cielo aperto senza nomi né bare. È un vero e proprio business della morte quello che si nasconde dietro al conflitto colombiano. I battaglioni dell’esercito arrivano a competere tra di loro per ricevere dei giorni di permesso, e la gara consiste nel maggior numero di morti: un “risultato” equivale a 5 giorni di permesso, per due ricevi 10 giorni e così via. Il battaglione che vince alla fine dell’anno si guadagna le vacanze nel mese di dicembre.

E non solo: qui le regole di guerra sono carta straccia. Secondo i diritti umani prima di sparare devi annunciare ad alta voce: «Fermi, siamo l’Esercito Nazionale, consegnate le armi e la vostra vita verrà rispettata». Questo è solo su carta. Non viene mai fatto: il preavviso che viene dato dai soldati è un proiettile che se colpisce il bersaglio, è molto meglio.

M. a quel punto mi menziona un suo sergente che è stato sotto processo. Dopo esser stato nel dipartimento di Arauca, in una zona dove i combattimenti si protraevano fino a due settimane senza fermarsi neanche per dormire, il sergente era stato assegnato alla sua unità. Il processo è stato avviato perché, quando si sono imbattuti in una casa dove c’erano cinque presunti guerriglieri, il sergente ha preso un RPG, una specie di bazooka che può disintegrare un Hummer blindato, e ha sparato alla casa. Tra queste persone c’erano due donne incinte. Sono morti tutti.

M: “Il sergente ci raccontava di queste esperienze che ha avuto e che non lo lasciavano dormire, infatti stava tutta la notte a bere caffè e fumare sigarette. È chiaro che una persona che porta tutto questo nella testa, quando gli si presenta una tale occasione cerca di coglierla. Non lo sto giustificando, sto cercando di analizzare la situazione!” Mi dice M., mettendo subito in chiaro le sue parole. “Ti trovi in quel momento, lo vedi molto facile, prendi quest’arma e li uccidi tutti. Ma il sergente soffriva, sapeva che sarebbe stato catturato perché la sua coscienza non lo lasciava dormire. E quindi stava lì, tutta la notte a fumare e bere caffè.” 

Il conflitto civile in Colombia: le responsabilità di un soldato specializzato

La guerra è un susseguirsi di situazioni estreme che si presentano e che M. ha dovuto affrontare. Quando era nell’accademia dell’Esercito Nazionale della Colombia ha ricevuto l’addestramento da soldato infermiere ed esperto EXDE, specializzato nel neutralizzare gli esplosivi, per questo si è spesso preso cura dei suoi compagni feriti.

Mi racconta di una volta che ha dovuto addirittura sezionare il cadavere di un ragazzo. “In città non c’era nessuno che potesse farlo, e noi rappresentavamo lo Stato in quel momento. La madre del ragazzo aveva chiamato, voleva vedere suo figlio un’ultima volta prima che lo seppellissero. Da Bogotà erano minimo sei giorni di viaggio fino a dove ci trovavamo e, sai, il corpo si decompone molto velocemente.” Mi confessa di non aver mangiato più niente per i due giorni successivi: vedere cosa abbiamo dentro gli ha tolto l’appetito. La sua formazione infermieristica, tra l’altro, era insufficiente. Sapeva come fare le iniezioni, come misurare la pressione e la temperatura, come effettuare una Rianimazione Cardiopolmonare, come applicare un laccio emostatico per fermare le emorragie. Ma rimuovere le interiora di una persona, quello non gliel’avevano insegnato.

M: “L’ho fatto quella volta, non l’ho più fatto e penso che non lo farò mai più. Sì, penso proprio di non volerlo più fare.” Mi dice con un amaro sorriso. 

Segnali dalla natura 

M. “Uno degli eventi che mi ha spinto a prendere la decisione di ritirarmi è capitato quando stavamo per andare in vacanza dopo quasi otto mesi che eravamo nella giungla. Stavamo in una zona montuosa e avevamo ricevuto informazioni su un gruppo di guerriglieri che si trovava vicino a noi, nella montagna adiacente. In questi percorsi stretti con strapiombi ad entrambi i lati del sentiero bisognava proseguire a turni, e solitamente quando c’erano due unità, come in quel caso, un giorno andava avanti una e il giorno dopo era il turno dell’altra. Quel giorno sarebbe toccato a me andare avanti, ma l’altro caporale mi chiese il cambio perché quando eri più esposto avevi anche più possibilità di dare “risultati”, e lui voleva altri giorni di permesso. Gliel’ho concesso perché a me non piace uccidere e non ho mai cercato il sangue.

Dopo una discesa siamo entrati in una valle, e in questa valle… Io credo molto nei segnali che a volte ti dà la natura, l’ambiente, l’universo, Dio. Abbiamo sentito una voce umana che ci chiamava, ma che non era di nessun soldato; sembrava provenire dalla natura stessa. Mi sono voltato, e mentre un soldato mi spiegava cosa poteva esser stato… PUM. Davanti, quelli che erano andati per primi, sono caduti in un campo minato. Dopo l’esplosione restava solo un PUUU (fischio nelle orecchie), e tutto andava al rallentatore, proprio come nei film.

Non era la prima volta che cadevo in un campo minato, la prima volta mi è successo in Antioquia. In quell’occasione ho capito fino a che punto la guerra ti smuove le viscere, durante l’eterno secondo dell’esplosione e dopo, quando resta solo un fischio. Quella volta un soldato venne portato via ferito e con l’udito danneggiato. Stavolta no.

Quando il silenzio è finito e la nebbia si è abbassata, ho sentito l’urlo di dolore. Un soldato è caduto, ha perso entrambe le gambe. Sono corso da lui, mi ha preso e, disperato, mi ha detto che non voleva morire. All’epoca aveva la mia stessa età, 23 anni. Non voleva morire. Gli ho detto «Non morirai», ma gli stavo mentendo perché non aveva le gambe dal ginocchio in giù, nessuna delle due, ed era molto pallido e impregnato di sangue. Ho provato ad iniettargli una soluzione salina perché stava perdendo molto sangue, ma non sono riuscito a trovare la vena. L’altro infermiere l’ha trovata, gli abbiamo fatto questa iniezione e poi gli abbiamo messo qualcosa di molto forte per il dolore. È uscito vivo da lì.

Ci fu un altro soldato ferito anche se non così grave: l’esplosione non lo aveva colpito direttamente, per fortuna. Questi ragazzi sono caduti nel campo minato dove sarei dovuto cadere io. L’elicottero si è potuto aprire uno spazio solo un’ora dopo l’esplosione; ha gettato le corde da mettere alle barelle e se li sono portati via entrambi. Alle 8:30 di sera ci hanno informati che il ragazzo era morto.

Ciò che mi fa più arrabbiare è che i guerriglieri smobilitati, che hanno abbandonato il conflitto, passano informazioni all’esercito. Indicano sulla mappa dove stanno le mine antiuomo, quindi dai ranghi superiori dovrebbero avvisare noi soldati di non camminare in quel punto. Il comandante della brigata lo sapeva. E non l’ha detto. Non lo disse perché voleva che attraversassimo il campo minato, volando o non so come, perché voleva i “risultati”, voleva i morti. Non dei nostri ma dei loro, solo che non gliene fregava niente di quello che ci poteva succedere.” 

L’odissea del congedo permanente 

M: “A quel punto ho deciso di ritirarmi. Anche quella è stata un’odissea perché ti rendono tutto difficile, ti ostacolano. Un colonnello mi disse che avrebbe impedito di congedarmi perché l’esercito aveva investito dei soldi per addestrarmi come esperto EXDE di esplosivi. Io gli ho risposto che quando ero tornato a casa per le vacanze avevo lasciato alcuni documenti a mio padre, in modo che potesse andare in procura nel caso si fosse verificata questa situazione. Sapevo cosa significava essere un soldato in Colombia, sapevo come funzionavano le cose. Lui mi mandò in un’altra località che stava sperduta in mezzo alla giungla per ottenere la firma di un generale.

Il viaggio per questo luogo è iniziato a bordo di un aereo che trasportava benzina, che non era per passeggeri. Una volta atterrato ho cercato qualcuno di fiducia che mi avrebbe portato a destinazione il giorno stesso perché quella era un’area piena di guerriglieri. Qui è dove Ingrid Betancourt è stata rapita. Sono partito molto presto, alle 3, 4 del mattino, e quando sono arrivato ho dovuto aspettare il generale fino a dopo pranzo perché mi ricevesse. Mi ha chiesto perché volessi congedarmi, che avrei dovuto continuare nell’istituzione e mi ha raccontato alcune storie. Io gli ho detto che volevo studiare e vivere tranquillo perché quella non è vita: sei schiavo dell’esercito, devi fare quello che ti chiedono senza fare domande. Avevo perso l’amore per l’istituzione, non volevo più stare lì. Ha provato ad insistere dicendomi che alcuni soldati studiavano con le audiolezioni, ma poi mi ha firmato il documento.

Lì è iniziata la mia attesa del congedo. Non solo non mi hanno avvisato quando è arrivato, ma mi hanno anche fatto restare nel battaglione. Una volta, quando ero al campo di addestramento, mi hanno ordinato di far esplodere le granate che erano rimaste inesplose. Erano una decina circa, le dovevo far esplodere e consegnare l’anello della sicura al mio superiore. Quindi ho iniziato a lanciarle, ma una di queste si è bloccata nel fango senza esplodere. Mi venne la grande idea di lanciare un’altra granata lì vicino, per cui ho preso la bomba, ho tolto la sicura e l’ho lanciata. Neanche questa è esplosa. Allora ho preso la terza, ho tirato via la sicura, e in quel momento è esploso tutto.

Non so come ho fatto a non ferirmi perché c’erano milioni di pezzi che volavano e, anche se avevo un elmetto in testa, il mio viso era ricoperto di fango. E davvero non so come ho fatto a non far cadere la bomba. La granata entra in azione appena togli la sicura, hai dai 3 ai 5 secondi di tempo per lanciarla. Appena mi sono ricordato di avere una granata in mano, l’ho lanciata subito in aria… BOOM. Mi è venuto un mal di testa che non riesci a immaginare, la mia faccia era piena di fango e mi mancavano ancora 3 o 4 granate da far esplodere. Quando è arrivato l’altro caporale gli ho raccontato la vicenda, che mi sono quasi ammazzato, e gli ho detto che non sarei morto da soldato dell’Esercito Nazionale della Colombia.”

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M: “Dopo quello che è successo con la granata ho riunito i miei soldati e gli ho detto che me ne sarei andato. Alcuni di loro hanno preso la mia stessa decisione perché ci siamo resi conto di essere pedine nelle mani dei nostri superiori. Una volta, nella giungla, stavamo nel bel mezzo di un’operazione di controguerriglia quando all’improvviso ci hanno ordinato di retrocedere e di lasciare il campo di battaglia. Questo ci ha fatto capire che tra i ranghi alti c’erano affari di mezzo, che si erano accordati tra di loro. A noi, nel peggiore dei casi, ci uccidevano e non faceva male a nessuno, o almeno non allo Stato. Nessuno avrebbe pianto se non i nostri genitori, quelli che ci amano davvero, i nostri amici.

Quindi, prima di ritirarmi, mi sono radunato con i miei soldati e abbiamo parlato. Uno di loro mi ha detto questo: «il bene va e il male resta. Succede sempre così». Poi abbiamo pianto per un po’, ci siamo abbracciati e salutati. Loro si sono addentrati oltre nella giungla e io sono tornato a Bogotà, dove ho aspettato il mio congedo che è arrivato più di un mese dopo. Quindi ho lavorato per più di un mese senza stipendio.

In quel mese ero di guardia, ho discusso con i comandanti perché volevano mandarmi di nuovo in montagna. Mi era venuta un’ernia ombelicale e dovevano operarmi all’ospedale militare. Uno di questi comandanti voleva assolutamente che tornassi al campo di battaglia mentre aspettavo l’operazione e il congedo. Ma io, che gli piacesse o no, non ci sarei andato. Oltre a non volerlo, non sarei stato utile lì perché non riuscivo a caricare il fucile né potevo tenere l’armamento. Un soldato in Colombia trasporta tra i 35 e i 50 chili, tra armamento, zaino, divisa ed elmetto. E io avevo un’ernia”. 

LM: “Dopo che ti sei ritirato il presidente e i leader delle FARC hanno iniziato i dialoghi per la pace e nel 2016 hanno firmato l’accordo di pace. Pensi che stia cambiando qualcosa?” 

M: “Dunque, lì hanno creato la JEP (Giustizia Speciale per la Pace) e la Commissione per la Verità, ma non è tutto bello come sembra. Ipoteticamente, se io andassi a denunciare le cose che so, come i falsi positivi che hanno fatto in Antioquia, succederebbero due cose. La prima è che le persone che vado a denunciare lo vengono a sapere. Sono persone che fanno parte della malavita e si vendicherebbero, mi verrebbero a cercare. A me e a qualunque altro soldato in qualsiasi luogo della Colombia che vuol fare le cose per bene, che denuncia. La seconda è che una volta fatta la denuncia finisce lì: loro sono colpevoli, ma se non vogliono consegnarsi alla giustizia non è competenza della JEP.

In concreto non c’è giustizia, non c’è nessuno che li costringe ad andare a testimoniare, quindi non penso che valga la pena andare a farlo. In Colombia oggi, come allora, non ci sono protezioni né tutele, che tu sia un soldato o uno smobilitato delle FARC. Non c’è protezione per chi voglia aiutare a chiarire la verità, ad aiutare chi ha perso un parente, un amico.

Quando ero piccolo un mio vicino di casa è partito per la guerra e da allora sua sorella lo sta cercando. Non sa se è vivo, se ha perso la memoria o se è in una di quelle fosse a cielo aperto insieme ad altre centinaia di corpi. La sorella aveva 24 anni quando lui è partito, adesso ne ha più di 60. Tutti abbiamo diritto a sapere la verità, ma se vai a dire che Il Maggiore ha dato l’ordine di fare questo, quest’uomo parlerà con la sua gente. D’altronde il bandito conosce i banditi, come i professori conoscono i professori e gli avvocati si conoscono tra di loro. Contatterà le persone per chiedergli il favore, e qui in Colombia ti uccidono per 500 pesos (circa 10 centesimi di euro, ndr)”. 

LM: “Quindi pensi che ci siano lacune nella JEP e nella Commissione per la Verità?” 

M. “Sì, queste persone devono essere giudicate. Devono essere giudicate.”  

È emozionato, a dir poco furioso. Scandisce queste ultime parole con enfasi e poi nella stanza cade il silenzio, infranto solo dal profondo sospiro che prende per calmarsi. Dopo un minuto, gli chiedo cosa farebbe se fosse dall’altro lato, nella guerriglia. Mi dice che tornerebbe alle armi, come sta facendo una parte degli smobilitati delle FARC, per sentirsi più sicuro. Lo Stato non dà sicurezza, fa gli accordi e non li rispetta. Non solo, da quando hanno consegnato le armi, gli ex-guerriglieri stanno morendo uno dopo l’altro, assassinati da sicari senza nome ma dei quali si può immaginare la provenienza. Il governo attuale non sta implementando l’accordo di pace perché il presidente è un burattino nelle mani del signore della guerra: l’ex-presidente Álvaro Uribe Vélez. Lui vuole che scorra altro sangue, ma con l’accordo questo non succederà.

Il governo si oppone alla volontà del popolo colombiano perché ci sono interessi economici e personali nella guerra.

La guerrigliera detta “Negra Karina” ha ucciso il padre di Uribe, e quindi lui ha promosso il “no” alla pace nel referendum, ha sospeso gli accordi tramite l’attuale presidente. 

M: “Ora che racconto queste cose sono molto più tranquillo. È passato molto tempo, e sento che è necessario alzare la voce in modo tale che vengano diffuse. Perché si conosca la storia, si conosca la verità su ciò che è successo e su ciò che può continuare ad accadere. Se non si conoscono i fatti, questi si ripetono. La situazione odierna infatti non è nuova, è già successa in passato. Ora che ti racconto queste cose mi sento più forte. Un tempo non ci sarei riuscito perché ero molto triste, mi scendevano le lacrime solo a ripensarci. Oggi la tristezza c’è ancora perché certe cose sono irreparabili, come i ragazzi che non ci sono più. L’unica cosa che la guerra ha fatto è stato causare l’ingiusta fine delle loro vite, e questo fa male.

Tuttavia, rivedere queste cose da lontano mi fa stare bene perché so di essere rimasto forte nella mia decisione di non far parte di qualcosa di cui mi sarei pentito per tutta la vita, cioè di essere un assassino. Sarebbe stato ossessionante essere un assassino. Se la mia risposta alla proposta del Maggiore fosse stata sì, oggi non avrei la tranquillità di raccontare la mia storia. Né la pace, né il sonno.

Dopo il mio congedo ho avuto degli incubi in cui mi perseguitavano, ma ero tranquillo perché sapevo di non aver fatto una cosa che non mi piaceva fare in combattimento (dove avevo tutte le ragioni per farlo), figurati per un presunto premio, un “risultato” che alla fine di tutto era solo un inganno. La tranquillità con cui vivo oggi e su cui posso contare è stata la decisione che ho preso in quel momento. Di dire di no. Se fosse stato un sì, la storia sarebbe stata completamente diversa.”

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“SOS Colombia”: la repressione silenziosa di un popolo stanco

SOS Colombia è lo slogan intonato dai manifestanti silenziati con la forza dalla polizia in occasione delle proteste contro il governo. Il 28 aprile scorso, infatti, centinaia di migliaia di cittadini colombiani sono scesi nelle piazze e nelle strade delle città per protestare contro le nuove riforme proposte dal governo di Iván Duque. Dopo pochi giorni dall’inizio delle manifestazioni pacifiche, le forze di polizia e le forze speciali hanno attaccato i civili, dando il via ad una repressione violenta che è proseguita indomita per oltre due mesi. Dove eravamo rimasti Con Large Movements abbiamo ampiamente parlato della Colombia, evidenziando luci ed ombre dell’attualità socio-politica ed economica di questo Paese posizionato al nord dell’America Latina, in un luogo strategico per le connessioni tra il continente e la superpotenza statunitense. Oggi riprendiamo il discorso perché la tregua tra il governo e la guerriglia FARC-EP siglata nel 2016 rischia di rivelarsi uno specchio per le allodole per tutti coloro che vogliono vivere in pace in un Paese che da oltre 60 anni si fa la guerra. Ed è proprio dalla narrazione sulla pace e sulla guerra, per noi raccontata da M., che l’ha vissuta sulla sua pelle, che riprendiamo a parlare della Colombia, perché mai come adesso è necessario farlo. Nel 2018 sale alla presidenza colombiana Iván Duque Márquez, personaggio asceso dalle fila di Uribe, il “Signore della Guerra”. La politica di Duque si dimostra da subito in contrasto con quella di Santos, suo predecessore e fautore degli accordi di pace di due anni prima. La tensione interna al Paese torna presto a salire, e dal novembre del 2019 i cittadini dimostrano il loro malcontento con le prime manifestazioni pubbliche contro il governo. Il Covid in Colombia: la risposta del governo Lo scoppio della pandemia da COVID-19 ha significato un collasso del sistema sanitario colombiano, ed una gestione dell’emergenza sanitaria poco efficiente a livello nazionale. Nonostante i tentativi di arginarne la diffusione portati avanti dai singoli comuni, il virus ha colpito ad oggi quasi 5 milioni di persone, causando oltre 120 mila vittime e facendo della Colombia il terzo Paese del continente per numero di decessi associati al nuovo virus. Sicuramente la responsabilità del fallimento del sistema sanitario ricade sul governo e sui poteri politici, ma parte della colpa è attribuibile ai cittadini che non hanno rispettato le norme di sicurezza messe in atto dai poteri centrali, in segno di forte sfiducia nei confronti di questi. I numeri associati alla crisi economica conseguente al lockdown sono spaventosi: a maggio 2020 il livello di disoccupazione ha raggiunto il 21,4%, con oltre 5 milioni di persone che hanno perso il lavoro in un solo mese. Lo stop di gran parte delle attività commerciali ha colpito maggiormente la classe medio-bassa, andando a gravare sul divario di ricchezza già imponente in Colombia. Per fronteggiare l’emergenza il governo centrale ha investito il 4.1% del PIL in aiuti e forme di finanziamento per le categorie più vulnerabili della popolazione, ampliando così il debito pubblico del 15% circa (dati aggiornati ad aprile 2021, secondo il Fondo Monetario Internazionale). L’aumento vertiginoso del debito pubblico costituisce un grande problema per un Paese che negli ultimi decenni ha faticato molto per migliorare la propria presenza nel quadro economico e finanziario internazionale. L’aumento del divario nelle finanze del governo mette a repentaglio la fiducia che le agenzie di rating hanno nella capacità della Colombia di pagare il suo debito, con un crollo dei finanziamenti esteri che ne potrebbe conseguire. La proposta di riforma del sistema tributario Per far fronte alla situazione allarmante, a distanza di appena un anno dal dilagare della prima ondata di pandemia nel Paese, il presidente Duque ha presentato un progetto di riforma del settore tributario (la terza del suo mandato), stavolta accompagnata da una proposta di cambiamento del servizio sanitario nazionale. L’obiettivo prefisso – da molto considerato ambizioso – è di recuperare il 2% del PIL e di privatizzare il settore sanitario, lasciando esclusi i più poveri da un servizio di qualità. Le modifiche alle imposte si articolerebbero in due modalità: da una parte ampliando la base dei contribuenti in base al reddito ed a partire da chi guadagna circa 700 dollari americani al mese; dall’altra estendendo l’imposta sul valore aggiunto (IVA) di alcune categorie di prodotti, tra cui quelli elettronici e del trasporto. Tra le varie proposte, il Ministero delle Finanze presenta quella di inserire una “tassa temporanea e di solidarietà” per chi possiede un patrimonio superiore a 1,3 milioni di dollari, dell’1% o del 2% in base alla portata del patrimonio stesso. Se da un lato si vuole tassare la ricchezza, dall’altro si avanza la proposta di creare un reddito di cittadinanza come ammortizzatore sociale, nonché di rendere permanenti i programmi sociali creati con la pandemia. Per quanto, all’apparenza, la riforma andrebbe a gravare maggiormente sulla classe medio-alta, il ceto più povero non ne resterebbe immune. Questo, costituito in gran parte da persone che vivono alla giornata ed appena in grado di procurarsi di che mangiare, si è letteralmente ridotto alla fame con la chiusura delle attività e l’imposizione della quarantena nazionale. Pertanto, il progetto di riforma presentato da Duque è stato interpretato dalla popolazione come un altro colpo alla povertà del Paese. Ma non solo: questa terza riforma fiscale rappresenterebbe l’ennesima promessa non mantenuta dal presidente, che in campagna elettorale aveva dichiarato che non avrebbe aumentato la pressione fiscale, ma anzi che avrebbe potuto addirittura diminuirla. SOS Colombia: proteste pacifiche e repressioni violente Dopo la presentazione pubblica del progetto di riforme, la popolazione ha reagito. Sull’onda delle prime proteste contro il governo del 2019, i cittadini si sono organizzati in marce di dissenso e manifestazioni pacifiche nelle città della Colombia. Precisamente il 28 aprile del 2021, i cittadini si sono riversati nelle strade, chiedendo la revoca dei progetti di riforma e piuttosto dell’istituzione di un reddito di base universale al livello del salario minimo nazionale; aiuti aggiuntivi alle piccole imprese e la proibizione dell’utilizzo del glifosato negli erbicidi, che sta impoverendo il terreno e mettendo sul

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I migranti venezuelani in Colombia

Con 4,6 milioni di persone che hanno lasciato il Venezuela in seguito alla crisi politica ed economica degli ultimi anni, in America Latina è in corso una crisi migratoria senza precedenti. In un’epoca di ostilità, chiusura e innalzamento di muri, la vicina Colombia ha assorbito circa 1,8 milioni di migranti venezuelani, praticando finora una politica di solidarietà, ovviamente non senza contraddizioni. La crisi venezuelana Sono finiti gli anni del boom economico venezuelano, quando il paese caraibico rappresentava, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), una delle destinazioni preferite dai migranti interni latinoamericani. La situazione si è rovesciata, ora dalla Repubblica Bolivariana del Venezuela si parte. Lo hanno fatto circa 4,6 milioni di persone in pochi anni e l’UNHCR stima che arriveranno a 6,5 milioni entro fine 2020, quasi il 20% della popolazione venezuelana. Le ragioni dell’esodo, secondo nel mondo solo a quello siriano, sembrano evidenti se si pensa che l’economia venezuelana si è ridotta di due terzi dal 2013 al 2019 e che il Paese è entrato da qualche anno in un periodo di profonda instabilità politica, oltre che economica. Significativo il fatto che il presidente venezuelano, Nicolás Maduro, prosecutore del c.d. socialismo bolivariano di Hugo Chávez, non sia riconosciuto dalla maggior parte della comunità internazionale e che lo scorso anno il principale leader dell’opposizione Juan Guaidó si sia autoproclamato presidente, in un tentativo fallito di prendere il potere. Le cause dell’attuale situazione venezuelana sono complesse e molteplici: l’iperinflazione, le sanzioni dettate dagli Stati Uniti, il debito accumulato negli anni, la mancanza di democrazia nelle politiche governative, un sistema economico basato da lungo tempo quasi esclusivamente sulla produzione di petrolio, fortuna e condanna del Paese. Le radici geopolitiche di una crisi non sono mai semplici da rintracciare in America Latina, forse il maggior terreno di scontro ideologico tra capitalismo e socialismo, storicamente dilaniata da accaparramenti, corruzione ed ingerenze esterne. Ciò che è certo sono i fatti, la crisi politico-economica ha costretto il Venezuela a condizioni di estrema povertà e di mancanza di beni di prima necessità, come cibo e medicinali e la popolazione sta abbandonando in massa il Paese. La migrazione in Colombia Quasi l’80% dei migranti venezuelani si trovano in America Latina e il Paese che ne ha assorbiti di più è la vicina Colombia, al confine ovest del paese caraibico, seguita da Perù, Cile, Ecuador, Brasile e Argentina. Secondo i dati ufficiali di Migración Colombia, a dicembre 2019 erano più di 1.771.000 i venezuelani presenti nel Paese, di cui circa 220.000 minori. A differenza di altri paesi sudamericani, la Colombia non era abituata a ricevere migranti, al contrario erano i colombiani ad emigrare in cerca di una vita migliore, lontana dalla guerra civile che ha dilaniato il Paese per decenni. Proprio il Venezuela più di tutti ha accolto i rifugiati colombiani, attirati anche dalla sua passata prosperità economica. Nonostante un rapporto dell’UNHCR del 2019 mostri come, negli ultimi anni, i rientri in patria dei colombiani espatriati in Venezuela siano aumentati sostanzialmente, la memoria storica colombiana non ha dimenticato l’accoglienza ricevuta. L’idea di ricambiare il favore, legata forse alla presa di coscienza dell’inevitabilità del fenomeno migratorio venezuelano, ha portato la Colombia ad adottare politiche migratorie abbastanza aperte. Nel 2016, ad esempio, sono stati istituiti i Permessi speciali di permanenza (Pep), che permettono ai migranti venezuelani di godere di diritti fondamentali, quali l’accesso a lavoro, sanità e istruzione. Tali permessi sono risultati ancora più utili in ragione dell’impossibilità per i venezuelani di rinnovare i propri documenti, dato il congelamento dei rapporti diplomatici tra Colombia e Venezuela e la conseguente chiusura delle ambasciate. Risale all’estate 2019 un altro provvedimento del governo colombiano elogiato dalle organizzazioni umanitarie, ovvero la concessione della cittadinanza a 24mila bambini nati in Colombia da donne venezuelane, con effetto ex-post anche sulle nascite che avverranno nei prossimi due anni. Le cifre che la Colombia sta investendo per gestire il recente fenomeno migratorio sono alte, e difficili da sostenere per un paese che deve affrontare le conseguenze di un conflitto duro a morire. Ciononostante a livello regionale sono stati instituiti dei meccanismi per coordinare e facilitare l’inclusione legale, sociale ed economica dei cittadini venezuelani. I governi dei paesi latinoamericani maggiormente interessati dall’arrivo dei venezuelani, hanno infatti congiuntamente lanciato il Piano di risposta regionale umanitaria per rifugiati e migranti 2020 (RMRP), uno strumento che intende coordinare e raccogliere i fondi per gestire il flusso migratorio. Un delicato equilibrio La popolazione colombiana ha inizialmente reagito positivamente all’accoglienza dei migranti venezuelani, ma sembra che negli ultimi mesi siano aumentati i casi di xenofobia e stigmatizzazione. In una società come quella colombiana, fortemente provata dal conflitto armato e da una crescente stratificazione sociale, i migranti venezuelani si sono andati ad aggiungere alla fascia di popolazione più marginalizzata, quella che popola le periferie delle grandi città.  In particolare, secondo le autorità colombiane, il 90% dei venezuelani in Colombia lavora nell’economia informale. D’altronde, secondo il Dipartimento amministrativo nazionale di statistica, il 47,2% degli stessi colombiani lavora nell’informalità e nella precarietà. La nuova situazione emergenziale creatasi con la pandemia di COVID-19 ha ulteriormente complicato la situazione dei migranti venezuelani. Il presidente colombiano Ivàn Duque il 13 marzo 2020 ha temporaneamente chiuso le frontiere per arginare il diffondersi del nuovo coronavirus, ma gli oltre duemila chilometri di confine che separano i due paesi, in parte zone isolate ed interessate dal conflitto armato, sono difficili da controllare. Il rischio è maggiore per i migranti non legalmente registrati in Colombia, circa la metà dei quasi due milioni presenti sul territorio, secondo una stima di Migración Colombia. Questi ultimi non hanno quindi accesso alle prestazioni sanitarie, oltre ad essere costantemente a rischio di violenza, sfruttamento, lavoro minorile, reclutamento da parte dei gruppi armati e tratta. In ultimo, una conseguenza del COVID-19, riguarda gruppi di migranti venezuelani che stanno cercando di tornare in patria nelle ultime settimane. Le misure di quarantena adottate dal governo colombiano, per il momento previste fino al 27 aprile, hanno bloccato l’economia informale e alcuni migranti, ormai senza lavoro, preferiscono tornare a casa, seppur nelle disastrose

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Politiche estrattive in Colombia: quali ricadute su ambiente e diritti umani?

In Colombia cosi come in tutta l’America Latina, l’intensificarsi dello sfruttamento dei territori, tramite politiche di tipo estrattivista, impatta negativamente sull’ambiente e sui diritti umani, in particolar modo quelli dei popoli indigeni, mettendo in evidenza le carenze di un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile. Il modello estrattivista Il concetto di estrattivismo è largamente utilizzato in America Latina per riferirsi ad una modalità di accumulazione cominciata con la colonizzazione del subcontinente americano, la quale prevede che alcune regioni del mondo siano specializzate nell’estrazione e nell’esportazione di materie prime, mentre altre regioni siano dedite al loro consumo. In questo senso, le attività considerate estrattiviste sono quelle che comprendono lo sfruttamento di grandi quantità di risorse naturali, come i minerali, il petrolio, i prodotti agricoli e forestali.  I paesi latinoamericani dipendono fortemente dall’estrazione delle loro risorse naturali e dalla loro esportazione all’estero, seguendo un modello di export-led growth che non permette di diversificare l’economia e la fa dipendere pericolosamente dal valore che le materie prime in questione hanno sul mercato internazionale, esemplificativo in questo senso è il caso del Venezuela. Le critiche al modello estrattivista si muovono tuttavia soprattutto riguardo agli effetti che questo ha sull’ambiente. Se l’ambiente e le sue risorse vengono considerati esclusivamente in quanto beni economici da vendere al miglior offerente e mezzi per accrescere lo sviluppo, e se quest’ultimo è inteso come mero aumento del prodotto interno lordo, va da sé la mancata protezione e la degradazione ambientale che i paesi latinoamericani stanno vivendo. La concezione ambientale degli indigeni di Abya Yala L’America Latina o Abya Yala, come chiamata dai popoli indigeni, è un’area esemplificativa di come lo sfruttamento incondizionato delle risorse naturali non abbia conseguenze solo a livello ambientale, ma anche relativamente ai diritti di quei popoli strettamente interconnessi con la natura, i popoli indigeni, i cui componenti sono stimati in circa 42 milioni sul territorio sudamericano. Il contributo dei popoli indigeni alla gestione e alla protezione dell’ambiente è ormai riconosciuto a livello internazionale, basti pensare che i c. d. “protettori della Terra” preservano circa l’80% della biodiversità del pianeta. Il territorio costituisce per i popoli indigeni una base spirituale e materiale indissolubilmente legata alla loro identità passata e futura. Dagli anni Novanta in poi è iniziato un recupero della visione indigena ambientale, a partire dalla diffusione dei concetti andini di Pacha Mama e Buen vivire della loro inclusione in alcune costituzioni latinoamericane, come quelle di Bolivia e Ecuador. Il concetto di buen vivir, sumak kawsay in lingua quechua, implica una vita in armonia tra individui, comunità e natura ed è presente con diversi termini in tutte le culture indigene latinoamericane. Nella cosmovisione indigena il benessere è possibile solo all’interno della comunità e nel rispetto della Pacha Mama, dunque l’elemento essenziale del buen vivir è la protezione della natura. In questo senso risulta essere un’ottima alternativa rispetto alle moderne sfide ambientali e di sviluppo. Dato il legame imprescindibile che i popoli indigeni hanno con l’ambiente e il territorio, da un lato per le loro caratteristiche spirituali e culturali, dall’altro perché la maggior parte di essi dipende materialmente dalle risorse naturali, si può affermare che la loro sopravvivenza in quanto popoli indigeni dipenda dalla conservazione e dalla tutela dell’ambiente in cui vivono. D’altro canto, fin dalla colonizzazione questi popoli hanno affrontato appropriazioni illecite delle loro terre ancestrali, trasferimenti forzati delle comunità, inquinamento delle risorse naturali da cui dipendono. Per fortuna i movimenti indigeni latinoamericani sono caratterizzati da una storica solidità e forza che li ha portati a resistere, per quanto possibile, ai numerosi tentativi di sterminio e di assimilazione sin dal periodo della colonizzazione europea.  In nome dello “sviluppo”, vengono realizzati sui territori indigeni attività estrattive, progetti idroelettrici e megaprogetti energetici, inclusi quelli di energia rinnovabile, che portano al dislocamento forzato dei popoli indigeni, spesso senza un’adeguata compensazione. L’elezione di leader politici, come Jair Bolsonaro in Brasile, che supportano l’accaparramento delle terre da parte delle multinazionali non può che peggiorare la situazione. L’industria mineraria, in particolare, ha effetti devastanti sulle comunità indigene, poiché questi perdurano anche quando i progetti di estrazione si concludono. In particolare i progetti estrattivi hanno conseguenze negative nella coesione dei popoli indigeni del territorio dove hanno luogo, a causa degli spostamenti forzati e delle divisioni delle comunità, e spesso impediscono lo svolgersi delle attività agro-pastorali tradizionali. La convergenza tra protezione dell’ambiente e tutela dei diritti dei popoli indigeni è emblematica nella regione amazzonica, eppure, proprio in quei territori sono molteplici i progetti di estrazione mineraria e di estrazione petrolifera. L’impatto delle politiche estrattive in Colombia Anche la Colombia subisce le conseguenze dell’aumento crescente di politiche di tipo estrattivo, che ricadono in primis sull’ambiente. Nonostante la Colombia faccia parte dei c.d. paesi “megadiversi”, i più ricchi di biodiversità del pianeta e conti infatti ben 311 ecosistemi, quella che dovrebbe essere la principale ricchezza da preservare diventa spesso merce di scambio per perseguire politiche neo-liberiste. Il Paese è per questo caratterizzato da un’alta incidenza di conflitti ambientali che coinvolgono soprattutto i popoli indigeni, che rappresentano circa il 3,4 % della popolazione. Negli ultimi decenni in Colombia sono aumentate le politiche di sviluppo statali tese ad attività di tipo estrattivo e allo sviluppo megaprogetti ad alto impatto ambientale e sociale. In dipartimenti come il Chocó, La Guajira e Amazzonia, ciò ha provocato il trasferimento forzato di comunità indigene, l’inquinamento ambientale dei territori e situazioni di violenza ed insicurezza. Parallelamente sono state inoltre approvate delle normative che favoriscono i grandi investimenti transnazionali. Tra questi vi è la legge n. 685 del 2001, il c.d. Código de minas, che favorisce la partecipazione di imprese private nei processi di esplorazione e sfruttamento di minerali e idrocarburi e una sentenza del 2019 della Corte Costituzionale colombiana, la quale sopprime l’obbligatorietà delle consultazioni popolari nei casi di progetti minerari che minaccino di trasformare profondamente l’uso del suolo di un determinato territorio. In ultimo, lo scorso autunno il ricorso del presidente Duque contro la sospensione dell’uso della tecnica invasiva di estrazione petrolifera, il frackinge il conseguente avvio di progetti pilota di perforazione

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Il ruolo delle donne nel processo di pace in Colombia

Nel contesto della guerra civile e della conseguente transizione verso la pace che sta avendo luogo in Colombia, le donne hanno assunto un ruolo tutt’altro che marginale. Sia come protagoniste che come vittime delle violenze, le colombiane hanno certamente influenzato l’andamento del conflitto, e dunque si sono attivamente ritagliate uno spazio al tavolo dei negoziati di pace. Questo risultato è stato raggiunto soprattutto grazie al contributo di decenni di dibattiti e analisi dell’argomento portati avanti a livello globale in seno all’Organizzazione delle Nazioni Unite.  Donne, pace e sicurezza  La questione di genere si è fatta strada nei dibattiti sui diritti umani e, più in generale, sullo sviluppo sostenibile delle nazioni negli ultimi decenni. Le principali organizzazioni internazionali hanno deciso di adottare un approccio di genere in relazione agli ambiti più vari, che fino ad allora non avevano mai avuto specifiche menzioni sulla donna. Recenti studi hanno evidenziato come, nel contesto della ricostruzione post-bellica, la partecipazione femminile risulta significativa nel rendere la pace più stabile e duratura. Anche il recupero economico e sociale della comunità trae beneficio dall’integrazione della donna e dalla sua partecipazione politica. A supporto di ciò, vengono creati strumenti come il “Women, Peace, and Security (WPS) Index” che misura e classifica il benessere della donna in ciascun Paese.  Anche il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel 2000, ha riconosciuto la centralità del ruolo delle donne per la ricostruzione delle società post-conflitto. Con l’istituzione e l’approvazione di sette risoluzioni sulle donne (che trattano della pace e della sicurezza) e la stesura delle raccomandazioni del Comitato Cedaw, si crea il quadro di riferimento che i Paesi devono consultare e adottare per poter raggiungere una pace sostenibile e inclusiva. La partecipazione femminile non solo assicura alle donne la restituzione dei diritti violati durante il conflitto, ma contribuisce alla trasformazione strutturale della società verso la democrazia partecipativa e la sicurezza di tutti i cittadini.  L’approccio di genere nell’accordo di pace in Colombia: il ruolo delle donne Durante il conflitto che per decenni è intercorso tra il governo colombiano e il gruppo di guerriglia FARC-EP, le donne sono state protagoniste in vari modi. Esse hanno combattuto tra le fila del gruppo rivoluzionario (basti pensare alla guerrigliera “Negra Karina”, considerata una delle più agguerrite combattenti e che adesso partecipa attivamente al processo di pace). Ma soprattutto le donne colombiane hanno subito il conflitto sulla loro pelle, tramite le violenze sessuali, o vedendosi costrette a fuggire dalle proprie case con i figli a carico. La questione di genere nel conflitto non è stata un evento isolato. Si stima infatti che tra il 1958 e il 2016, il 54% delle vittime e più della metà degli sfollati a causa del conflitto siano state donne, mentre tra le 25 e le 26 mila abbiano subito violenze sessuali.   In linea con le raccomandazioni del Comitato Cedaw, la fine del conflitto in Colombia è diventata un’opportunità per le donne vittime di diventare costruttrici di pace. Nel 2014, durante i negoziati, viene così inaugurata la prima sottocommissione di genere in un processo di pace. Questo specifico ramo della commissione si occupa di integrare misure specifiche per migliorare la vita delle donne in tutti i punti all’ordine del giorno. Formata da rappresentanti del governo nazionale e delle FARC, la sottocommissione inserisce la prospettiva delle donne dentro l’accordo stesso, tramite la gestione di 18 organizzazioni specializzate nei diritti delle donne e della comunità LGBT+, nonché da 10 ex guerrigliere di varie nazionalità e 10 esperte di violenze sessuali. Come risultato, dal 2014 il 60% delle vittime che ha presentato testimonianza alla commissione a L’Avana, dove si sono svolti i negoziati, sono state donne.  L’approccio di genere, quindi, viene attuato in tutte le parti dell’accordo di pace, attraverso più di cento misure specifiche e andando a delineare otto assi tematici. La parità di accesso alla proprietà rurale tra uomini e donne e la garanzia dei diritti dei lavoratori agricoli con diverso orientamento sessuale e/o identità di genere vanno ad inserirsi nella Riforma Rurale Integrale. La partecipazione politica e rappresentativa delle donne è garantita tramite misure di prevenzione dei rischi specifici che queste possono incontrare nel loro operato all’interno degli organi decisionali creati dagli accordi. L’accesso alla verità, alla giustizia e alla riparazione dei crimini commessi durante il conflitto è consentito anche e soprattutto alle donne, che più di tutti hanno fatto ricorso alla Commissione della Verità. La vittimizzazione di genere è stata riconosciuta pubblicamente in tutte le sue modalità tramite il rafforzamento delle organizzazioni femminili e del loro operato verso la partecipazione politica e sociale.  L’accordo di pace, nel suo approccio di genere, ricerca dunque la parità e l’universalità come caratteristiche della transizione verso la pace e della società colombiana post-conflitto. La sottocommissione agisce concretamente nel processo di pace tramite l’allocazione di risorse e la regolamentazione del principio di alternanza all’interno di partiti ed organi autonomi. Per quanto riguarda la violenza di genere, vengono instaurate diverse forme di prevenzione e protezione della donna, oltre a misure contro l’impunità dei crimini di guerra. Tramite questi interventi, l’accordo e la commissione ambiscono allo sviluppo di una pace sostenibile, stabile e duratura.  La donna colombiana oggi  Nonostante questo notevole passo in avanti contro la discriminazione di genere, la donna in Colombia non è ancora considerata al pari dell’uomo. Nel sopracitato WPS Index, nel 2019 la Colombia ha totalizzato un punteggio di 0.691 su una scala da 0 a 1 (dove 1 rappresenta il massimo livello di inclusione), classificandosi 104esima al mondo. La partecipazione politica femminile, ostacolata da vincoli economici insormontabili per molte, è scarsa a tutti i livelli: dal municipio delle singole città al Congresso. Le stime ancora troppo alte di violenza di genere fanno luce su una società che, nonostante i buoni propositi, fatica a distaccarsi dalla patriarcalità (o machismo) radicata al suo interno.   Soprattutto nelle aree rurali i livelli di insicurezza di genere restano elevatissimi, superati solo da quelli affrontati dalle difenditrici dei diritti umani, i quali tassi di vittimizzazione crescono ulteriormente durante la quarantena imposta dal propagarsi del nuovo coronavirus. In questo contesto è preoccupante la normalizzazione di questo tipo di violenza: in Colombia la testimonianza di una donna contro il suo aggressore non è considerata legittima. Sull’impunità di genere l’attivista locale Francy L. Jaramillo Piedrahita sostiene che “qui è più probabile che un uomo venga processato per aver rubato un pollo che per aver stuprato una donna.”   Inoltre, l’implementazione dell’accordo di pace sta proseguendo a rilento, con solamente la metà delle disposizioni di genere che si sono attivate. La minaccia di regressione alle armi rischia di vanificare l’importanza istituzionale del

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Le vicende del 2019 e il loro impatto sulla guerra in Colombia

In Colombia, la fase di transizione che vede l’incessante guerra civile acquietarsi verso la pace conosce una brusca frenata nel corso del 2019, dopo appena tre anni dalla firma dell’accordo bilaterale. Quali sono i nuovi ostacoli che si stanno frapponendo alla pace tra il governo e il gruppo armato rivoluzionario FARC – EP? Per rispondere alla domanda dobbiamo fare un passo indietro. La Colombia si è affacciata al nuovo millennio in una situazione di grande instabilità. I gruppi di guerriglia che si sono ribellati allo Stato, considerato inesistente in ampie zone rurali del Paese, avevano raggiunto l’apice della loro potenza. Il principale tra questi gruppi armati erano le FARC-EP (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – Ejército del Pueblo). Con la presidenza di Álvaro Uribe Vélez (non a caso soprannominato “il signore della guerra”), la situazione si è rapidamente capovolta. Le sue discusse strategie di controffensiva, nel corso dei suoi due mandati, hanno portato notevoli risultati tra cui l’inizio del declino delle FARC. Dalla sua elezione alla presidenza nel 2010, Juan Manuel Santos ha iniziato a discostarsi dalle idee politiche del suo predecessore promuovendo il dialogo con le forze rivoluzionare, fino al raggiungimento di un accordo di pace. Il trattato bilaterale affronta numerose questioni considerate le cause fondamentali di più di 50 anni di conflitto interno. Il documento elenca le varie misure che, in comune accordo, devono essere prese da entrambe le parti per stabilire la pace tra il governo il gruppo FARC. Tuttavia, pochi mesi dopo, la fine del mandato di Santos mette in discussione tutti gli sforzi effettuati fino ad allora. L’elezione di Iván Duque Márquez, stretto alleato di Uribe, e la sua manifesta intenzione di modificare l’accordo, mettono in guardia gli ex-combattenti delle FARC. Inoltre, gli avvenimenti che dal 2019 rendono la situazione in Colombia ancor più tesa, lasciano trapelare una concreta minaccia di ritorno alla guerra. Le FARC: da lotta armata a lotta politica e viceversa Innanzitutto, il disarmo della guerriglia, supervisionato da una commissione dell’ONU creata ad hoc, viene portato a termine dalla maggioranza dei membri delle FARC, ma non dalla totalità di essi. Alcune migliaia di combattenti, infatti, si sono rifiutati di scendere a patti con il governo. Gli smobilitati non sono mai usciti dalla giungla e non hanno mai abbandonato la lotta armata. Le loro azioni si sono ridimensionate, parallelamente al numero dei loro membri, ma la loro esistenza resiste al processo di pace. Le più recenti informazioni a riguardo sostengono che questi gruppi abbiano cercato riparo in Venezuela, mentre c’è chi ipotizza che possano affiliarsi ad altri gruppi di guerriglia come l’Ejército de Liberación Nacional (ELN). Ciò che è certo è che, a causa delle circostanze attuali di politica colombiana, il gruppo degli smobilitati si sta rafforzando con coloro che, dopo aver abbracciato la vita civile, hanno deciso di tornare a vivere nella selva come combattenti clandestini. Le criticità del processo di pace Se implementato, il trattato potrebbe andare incontro alle richieste dei gruppi rivoluzionari ed evitare altre vittime. Tuttavia, l’implementazione dello stesso sta incontrando numerosi ostacoli, come già accaduto in passato nella storia del conflitto colombiano. Prima tra tutti, la partecipazione politica degli ex-membri delle FARC non è stata assicurata nelle scorse elezioni. Il nuovo partito politico ha avuto uno scarsissimo rilievo, forse per la cattiva fama che il gruppo si è guadagnato attraverso i decenni. Ma soprattutto, dal momento in cui hanno abbracciato la vita civile, molti pentiti hanno visto la morte per mano di sicari. Pratica ormai molto diffusa in Colombia, gli omicidi sistematici dell’opposizione politica hanno causato la morte a circa 200 membri delle FARC e a più di 600 tra leader sociali, membri di tribù indigene e attivisti per i diritti umani, dalla firma del trattato ad oggi. La coltivazione delle terre e la gestione delle proprietà è stata la questione principale che ha causato lo scoppio e il prolungamento del conflitto nei decenni. La Riforma Rurale Integrale e la riconversione delle terre precedentemente impiegate per le coltivazioni della cocaina sono quindi il nocciolo centrale del trattato di pace. Ciononostante, l’esecuzione ed il finanziamento della stessa stanno andando a rilento, ed i contadini non si trovano affatto avvantaggiati dalle nuove condizioni. I difetti dei tribunali della Verità La questione delle vittime del conflitto non viene affrontata in maniera soddisfacente. Le spaventose cifre restano azzardate e si ipotizza che i numeri effettivi siano molto più alti. La Commissione per la Verità, non avendo carattere imperativo con le sue sanzioni, fatica a svolgere i suoi doveri. E così le vittime restano senza giustizia, i colpevoli impuniti e i cadaveri senza nome. Ma non solo, il maggior difetto del Sistema Integrale di Giustizia che si viene a costituire dalla firma dell’accordo, si identifica nel non garantire nessun tipo di protezione a coloro che vogliono testimoniare per la verità, e la triste tradizione di omicidi in Colombia fa sembrare questo sistema una trappola per chi vuole contribuire alla pace e alla giustizia. Le circostanze fin qui elencate fanno sembrare il periodo di dialogo e di concessioni reciproche che ha caratterizzato il doppio mandato del ex presidente Santos uno strappo alla violenta regola colombiana. Invece di rafforzare le basi della pace, il successore e attuale presidente Duque le mina direttamente, indirizzando la sua propaganda politica contro l’accordo con le FARC e finanziando la stessa con il Fondo per la Pace, facendo quindi uso dei fondi internazionali per fini elettorali e personali. La minaccia di un ritorno alla guerra civile in Colombia si fa dunque sempre più concreto nell’arco del 2019. Alcuni segni incoraggianti Ciononostante, non può essere ignorato l’appoggio della sfera internazionale che ha ricevuto l’accordo di pace con le FARC. Oltre all’ONU e al suo Consiglio di Sicurezza, anche singoli Stati si sono fatti promotori della pace in Colombia, impegnandosi nel cessate il fuoco bilaterale e come membri della Commissione per la Verità. Inoltre, ci sono i cittadini che dimostrano di essersi stancati della violenza, dell’assassinio sistematico dell’opposizione politica, che porta inevitabilmente alla morte della democrazia. Questa parte della popolazione con

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