I diritti LGBTQ+ in Brasile: leggi virtuose in una società intollerante

Le persone LGBTQ+ brasiliane vivono una condizione piuttosto singolare rispetto alle loro controparti in giro per il mondo o anche semplicemente in America Latina. Se da un lato, infatti, il Brasile può essere considerato uno dei precursori delle tutele nei confronti della comunità LGBTQ+, con le prime normative in materia che risalgono addirittura al XIX secolo, dall’altro rimane un paese le cui problematiche interne mettono spesso a rischio le persone più ai margini della società, nei quali spesso si ritrovano le minoranze sessuali. Questa tendenza non ha fatto che intensificarsi con la presidenza di Jair Bolsonaro, i cui attacchi omofobi e transfobici sono ben noti all’opinione pubblica. Nello spazio che esiste fra, da un lato, un apparato di norme ed una magistratura particolarmente virtuosi nel tutelare la comunità LGBTQ+ e, dall’altro, una società civile alle volte accogliente, alle volte violenta ed intollerante, si sviluppano le vite di queste persone che conducono, nonostante tutto, un’esistenza complicata.

Quadro Legislativo e Impatto nella Società Civile

Come già anticipato, la storia delle tutele legislative nei confronti della popolazione LGBTQ+ brasiliana ha inizio nel 1800, già dalla prima metà precisamente, quando nel 1830 l’allora sovrano Pietro I del Brasile promulgò il nuovo Codice penale brasiliano. Nel testo di legge riformato fu eliminato ogni riferimento al reato di sodomia, presente nel precedente impianto penale frutto del passato regime di stampo coloniale, di fatto legalizzando i rapporti fra persone dello stesso sesso. Da quella data ad oggi, il Brasile ha fornito un chiaro esempio di legislatura virtuosa ed inclusiva, con tutta una serie di tutele e concessioni che si sono susseguite negli anni e che ci permettono di affermare che in Brasile, a livello normativo, le persone LGBTQ+ godono pressappoco degli stessi diritti e garanzie della restante della popolazione.
Se, infatti, dal 1969 non esiste più alcuna regola che vieti agli uomini omosessuali di servire nell’esercito (le donne potranno prestare servizio solo a partire dagli anni ‘80), è con la fine della dittatura militare nel 1985 e la promulgazione di una Costituzione liberale – che vieta espressamente ogni tipo di legge discriminatoria, sia a livello locale sia federale – che inizia effettivamente il processo di equiparazione fra persone LGBTQ+ e resto della popolazione cis-etero.
Nel 1999 il Consiglio Federale di Psicologia, con una decisione certamente progressista ed in anticipo di anni anche rispetto a molti paesi occidentali, vieta espressamente il ricorso a terapie di conversione per gli omosessuali (decisione estesa nel 2018 anche alle persone transessuali in aperta opposizione ad ogni pratica transfobica).
Sempre degli anni 90 (1995 nello specifico) è la prima proposta di riconoscimento delle unioni civili in Brasile che, pur non venendo approvata allora, fu seguita da diverse e numerose sentenze di tribunali locali che consentirono la registrazione di unioni civili tramite atti notarili fino al 2011, quando il Tribunale Supremo Federale legalizzò di fatto la pratica.
Nel maggio del 2013, inoltre, la sentenza è stata implementata con l’istituzione del matrimonio egualitario in tutto il Brasile. A questa decisione si accompagnava l’espresso divieto, ribadito dall’allora Presidente del Tribunale Supremo Joaquim Barbosa, di negare la registrazione di un’unione civile o la conversione di quest’ultima in un matrimonio effettivo, come ancora accadeva all’interno degli studi notarili del Paese. L’equiparazione fra unioni omosessuali ed eterosessuali, in Brasile, comprende anche la materia d’immigrazione, con le prime decisioni in quest’ambito emesse agli inizi del 2000.
Per quanto riguarda le adozioni per coppie dello stesso sesso, in aggiunta, sono consentite in quanto non esistono leggi che le vietino espressamente, ed eventuali norme in tal senso sarebbero inapplicabili poiché ritenute incostituzionali. Diverse sentenze nel corso degli anni hanno confermato questo orientamento della giurisprudenza brasiliana e la pratica è ormai largamente in uso nel paese.
Anche le persone transessuali hanno visto realizzate negli ultimi anni alcune delle loro richieste: l’operazione di riassegnazione di genere è gratuita e garantita dallo Stato, in seguito a una sentenza che afferma che l’intervento è coperto dalla clausola costituzionale che assicura ai cittadini l’assistenza medica gratuita.
Nel 2009, inoltre, la Corte Superiore di Giustizia ha stabilito che il cambio di genere legale per persone transessuali che avevano compiuto la transizione era consentito in tutto il territorio della nazione, secondo la logica per la quale permettere di sottoporsi ad un intervento di riassegnazione del genere senza poter cambiare genere e nome sulla propria documentazione costituiva una forma di pregiudizio sociale.
Il primo marzo 2018, inoltre, il Tribunale Supremo Federale ha stabilito che questo diritto è esteso anche alle persone trans che non hanno completato né hanno intenzione di iniziare un percorso di transizione, garantendo la pratica per mezzo della sola autodeterminazione dell’identità psicologica della persona interessata.
Ancora una volta il Brasile, legiferando in questo senso, si pone fra i primi paesi ad assicurare queste tutele per le minoranze sessuali.

Percezione e Status Sociale

Alla luce del quadro legislativo menzionato, si potrebbe pensare che le persone LGBTQ+ brasiliane conducano una vita tutto sommato sicura priva di pregiudizi e discriminazioni. Ma non è esattamente così.
I dati rendono l’idea dell’enorme spaccatura fra una normativa che tutela ed una società che si dimostra pericolosa e discriminatoria: secondo un sondaggio di Datafolha, la percentuale di persone che credono che l’omosessualità debba essere accettata dalla società è salita dal 64% del 2014 al 74% del 2017. Eppure, il Brasile ha il tasso più alto di uccisioni di persone LGBTQ+, con oltre 380 omicidi avvenuti nel 2017 (277 solo nei primi 9 mesi, secondo Grupo Gay da Bahia), il 30% in più rispetto all’anno precedente.
Secondo Human Rights Watch, nel 2013 le segnalazioni di violenze contro la popolazione LGBTQ+ sarebbero state oltre 3000. Inoltre, in Brasile il 68% delle persone LGBTQ+ ha sperimentato episodi d’omofobia sul posto di lavoro. Sempre nel 2013, LGBTQ Nation ha dichiarato che il 44% dei crimini d’odio contro le minoranze sessuali si sono verificati nel solo Brasile.
Tentare di comprendere una divisione così netta fra le leggi e la società che regolano non è compito semplice. Il Brasile è uno stato laico nel quale la separazione fra Stato e Chiesa è fra le più marcate. Il paese, infatti, non ha una religione ufficiale e, sebbene la presenza dei cattolici sia indubbiamente consistente, diverse confessioni religiose coesistono all’interno della società. Inoltre, parte della popolazione aderisce a tipi di credo afro-brasiliani che accolgono gli omosessuali non solo fra gli adepti ma spesso anche fra i propri sacerdoti. Individuare nella matrice religiosa l’origine della violenza contro le persone LGBTQ+ sarebbe dunque superficiale e inesatto.
Se la radice dell’intolleranza omotransfobica nel paese è difficile da ritrovare, è tuttavia chiaro cosa ha contribuito a intensificarne gli effetti sulla popolazione: la presidenza di Jair Bolsonaro. L’ex militare di estrema destra, infatti, non ha mai nascosto le sue posizioni chiaramente omofobiche, anzi, ne ha spesso fatto motivo d’orgoglio.
Durante la campagna elettorale che ha portato alla sua elezione, diverse dichiarazioni omotransfobiche fatte dal Presidente in passato sono riemerse sulle pagine dei giornali. In accordo a ciò, Bolsonaro ha condotto una campagna in aperta opposizione alla comunità LGBTQ+, con prese di posizione intolleranti verso le donne e le minoranze etniche del paese.
Come conseguenza di questo atteggiamento, i crimini d’odio e gli omicidi di persone LGBTQ+ hanno subito un notevole aumento durante il 2017 e il 2018 (fra questi, quello che ha creato più clamore nell’opinione pubblica è sicuramente l’assassinio dell’attivista e politica Marielle Franco, unica consigliera comunale di Rio de Janeiro nera e apertamente lesbica), come dichiarato da Luiz Mott, presidente di Grupo Gay da Bahia. Fra le persone più colpite da questa tendenza violenta rientrano sicuramente quelle transessuali.
Secondo l’ultimo rapporto della Associação Nacional de Travestis e Transexuais (ANTRA), da gennaio a settembre 2020, gli omicidi ai danni della popolazione transessuale avrebbero subito un aumento del 70% rispetto allo stesso periodo nel 2019. Lo studio si basa sui fatti di cronaca riportati dai mezzi di informazione, il numero dei crimini riportati dunque potrebbe essere più alto. La pandemia di COVID-19, inoltre, non ha fatto che peggiorare la situazione già delicata delle minoranze sessuali in Brasile. Un quarto delle persone omosessuali e transessuali ha perso il lavoro a causa del virus e la disoccupazione all’interno della comunità è il doppio rispetto a quella del resto della popolazione.
In un contesto così complicato e di difficile interpretazione, l’attivismo e le realtà sociali presenti sul territorio assumono un’importanza vitale nel processo di educazione e sensibilizzazione della popolazione brasiliana.
Il Paese, infatti, nonostante tutte le problematiche sopra menzionate, ha visto nascere negli anni numerose associazioni ed iniziative che portano avanti le istanze della comunità LGBTQ+. Queste ultime sono ormai ben inserite all’interno della società brasiliana e svolgono le loro attività in armonia con le altre associazioni ed organizzazioni della società civile (a tal proposito si ricordi che il Pride di San Paolo è la più grande celebrazione LGBTQ+ del mondo, con la partecipazione attiva di oltre 4 milioni di persone). Nominare tutte queste realtà territoriali sarebbe impossibile, a titolo esemplificativo dunque si segnala una delle prime realtà a rappresentanza delle minoranze sessuali, già menzionata prima più volte: il Grupo Gay da Bahia. L’organizzazione, in attività dal 1980, ha sede a Salvador, nello stato di Bahia, e si occupa della difesa dei diritti delle persone LGBTQ+, lotta all’omotransfobia, sensibilizzazione sui temi dell’HIV, dell’AIDS e di altre malattie sessualmente trasmissibili ed ospita inoltre un importante centro di documentazione sui crimini ai danni delle persone omosessuali e transessuali brasiliani con diverse pubblicazioni alle spalle.

Senza il lavoro di queste realtà forse il Brasile non sarebbe mai approdato ai risultati virtuosi raggiunti sul campo normativo. Ciò che è certo è che quando e se la società brasiliana rifletterà la sicurezza e le tutele che le leggi emanate negli anni promettono di assicurare, sarà anche e soprattutto merito del prezioso lavoro delle attiviste e degli attivisti brasiliani che ogni giorno, anche a rischio della loro stessa vita, combattono per riaffermare il diritto di ognuno ad essere se stesso.

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MARIA DA PENHA: LOTTA IN PRIMA LINEA PER I DIRITTI DELLE DONNE

Maria da Penha Maia Fernandes è una farmacista biochimica, attivista ed autrice brasiliana. Grazie a lei ed ai suoi 19 anni di lotta incessante, nel 2006 il Brasile emanò la legge federale numero 11340 che mira a ridurre la violenza di genere e quella domestica nello specifico. Maria nasce il 1° febbraio 1945 a Fortaleza, inizia i suoi studi in Farmacia e Biochimica all’Università Federale del Cearà e conclude gli studi in Parassitologia in Analisi Cliniche nella Facoltà di Scienze Farmaceutiche dell’Università di San Paolo nel 1977. Maria è oggi una leader dei movimenti femministi, vittima emblematica della violenza domestica. In questo articolo ripercorriamo i punti salienti della biografia della sua vita. IL CASO DI MARIA Nel maggio del 1983 l’ex marito di Maria da Penha, le sparò mentre lei dormiva causandole disabilità permanente agli arti inferiori e lasciandola paraplegica. Dopo due settimane di riabilitazione in ospedale, Maria, per paura di reclamare un divorzio o semplicemente una separazione legale, decise di tornare a casa dal marito, il quale questa volta tentò di ucciderla ricorrendo a delle scariche elettriche. Marco Antonio Riveras rimase libero per ben 19 anni prima che il governo brasiliano si rendesse conto della gravità dell’accaduto. Solo dopo anni di militanza continua ed incessante, che include la stesura di un romanzo autobiografico, Maria si vide riconoscere i propri diritti. Nel 2006, infatti, il governo brasiliano emanò una legge contro la violenza di genere domestica che porta il suo nome: “Lei de Maria da Penha”. Come già annunciato, Maria dovette sopportare 19 anni di vittimizzazione e violenza psicologica prima di essere in grado di rivendicare il proprio diritto ad esistere come donna libera ed autodeterminante. Il caso di Maria è emblematico di quanto la violenza domestica sia intrinseca in un sistema patriarcale ancora troppo incline a minimizzare episodi come quelli vissuti da Maria. Un sistema che regna sovrano in Brasile e che permette agli uomini di avere una condizione di vantaggio nelle proprie relazioni matrimoniali. LA LEGGE La “Lei Maria da Penha” numero 11.340, che fu emanata dal Presidente Lula il 7 agosto del 2006, non solo stabilisce sanzioni criminali contro i perpetratori di violenza di genere domestica, ma offre la possibilità di creare attività riabilitative nei loro confronti ed istituisce un personale specifico per il controllo di tali atti. Grazie a Maria da Penha ed attraverso questi cambiamenti legali, il Brasile ha iniziato a riconoscere la violenza domestica come una violazione dei diritti umani e ad evidenziare l’assenza di supporto alle donne vittime di violenza come un problema sistemico dell’ordinamento giudiziario brasiliano. I RISVOLTI POSITIVI DELLA LEGGE Questo caso è stato emblematico per riconoscere la violenza domestica come una tematica centrale all’interno dell’agenda pubblica brasiliana. Attraverso le politiche pubbliche sviluppate successivamente a tale legge, inoltre, dal 2006 al 2011 3.364.000 donne brasiliane sono state assistite e supportate ed oltre 331.000 uomini perseguiti con l’accusa di violenza domestica (UN Women 2011). La legge ha avuto dunque effetti positivi dal momento che ha permesso alle donne di identificare determinati atteggiamenti da parte di compagni/mariti/sconosciuti come problematici e/o lesivi. Nonostante il contributo della legge, però, in Brasile si registrano ancora numeri troppo elevati di violenze, stupri, minacce e femminicidi. L’ISTITUTO MARIA DA PENHA Maria, successivamente al tentato omicidio da parte di suo marito, ha fondato un’organizzazione non governativa che porta il suo nome e che ha la sede principale a Fortaleza ed una rappresentanza a Recife. La finalità dell’istituto è stata, ed è ancora oggi, quella di sensibilizzare politica e società nel rispetto della legge in questione. È necessario, infatti, che le regolamentazioni di questa legge vengano applicate anche nelle zone più profonde e rurali del Brasile perché tutte le donne hanno diritto allo stesso trattamento e Maria lo sottolinea ogni giorno attraverso il suo attivismo. GLI INSEGNAMENTI DI MARIA Dalla storia di Maria sembra chiaro che in Brasile regni incontrastata una cultura estremamente maschilista e patriarcale e Maria, attraverso numerose interviste, ci insegna che l’unico strumento veramente potente per sradicare questo tipo di problematica è l’educazione. Noi di Large Movements ci teniamo particolarmente ad evidenziare la preziosità di questi insegnamenti ed a rimarcare quanto siano importanti le parole e le azioni dell’attivista in questione, che ci fanno riflettere su quanto educazione e sensibilizzazione siano necessarie per rendere una legge davvero efficace. Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

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Marielle Franco per i diritti delle minoranze

Marielle Franco, all’anagrafe Marielle Francisco da Silva, è stata una politica, sociologa ed attivista dei diritti umaniche ha ricoperto il ruolo di consigliera del municipio di Rio de Janeiro fino al suo omicidio, nel 2018. Le sue battaglie al fianco delle categorie più emarginate della società brasiliana odierna hanno favorito la sua rapida ascesa nello scenario politico del Paese ed in quello internazionale, soprattutto grazie al suo attivismo per i diritti delle donne, delle persone di colore, degli abitanti delle favelas e della comunità LGBTQ+. Tuttavia, le idee di Marielle, inserite nelle dinamiche della politica brasiliana, devono aver minacciato profondamente coloro che, tre anni fa, hanno ordinato la sparatoria che le ha tolto la vita. Le origini di Marielle Franco Nata nel 1979 a Maré, Rio de Janeiro, da una famiglia di origini afroamericane, Marielle Franco cresce affrontando tutti gli svantaggi della sua categoria sociale. Maré è infatti un complesso, un cluster, di sedici slum (favelas) di Rio de Janeiro, che ospita decine di migliaia di persone con difficoltà economiche e sociali. Le forti disuguaglianze di ricchezza presenti in Brasile si percepiscono qui più che altrove, concretizzandosi in una forte e diffusa difficoltà di accesso ai servizi della sanità, al lavoro ed all’istruzione. Franco studia in una scuola pubblica serale fino al diploma. Impossibilitata ad accedere direttamente all’università, si iscrive quindi ad un esame di ammissione preliminare, ma è presto costretta ad abbandonare quella strada perché, come succede spesso alle ragazze delle favelas brasiliane, resta incinta a diciotto anni. Per tre anni Marielle Franco mette da parte la sua carriera accademica per dedicarsi unicamente alle cure della figlia abbandonata dal padre finché, nel 2002, non entra nella Pontifícia Universidade Católica do Rio de Janeiro. È proprio in questi anni che l’attivismo politico di Franco inizia a definirsi a favore di una società più inclusiva e giusta per tutti i brasiliani. “Lotta come Marielle” La società brasiliana di oggi, oltre a presentare un forte divario di ricchezza, è anche molto variegata. La presenza di molte etnie, tuttavia, coincide con una distribuzione della ricchezza non equa, che vede i brasiliani bianchi ai vertici dell’economia del Paese, lasciando gli afroamericani e le minoranze culturali a “gonfiare” le schiere degli svantaggiati che abitano gli estesi slum qui presenti. Questi conglomerati urbani si caratterizzano per una forte insicurezza a causa delle bande criminali che vi abitano. Spesso, in risposta a ciò, le autorità locali promuovono incursioni armate di forze di polizia che esercitano violenze e commettono arresti per mantenere l’ordine pubblico. La sicurezza delle favelas è il primo e maggiore tema affrontato nel discorso politico di Marielle Franco. Nel 2006 promuove una campagna a favore dell’istruzione dei giovani abitanti degli slum, richiedendo uno spostamento di fondi pubblici dal settore della sicurezza a quello dell’educazione. Lo stesso anno, Franco si avvicina alle idee politiche di Marcelo Freixo e del Partido Socialismo e Liberdade (PSOL), promuovendo il diritto alla vita di tutti, soprattutto degli abitanti delle favelas. Nel 2009 i due funzionari pubblici entrano a far parte della Commissione per i diritti umani dell’Assemblea Legislativa di Rio de Janeiro, e dal 2012 a Marielle Franco viene assegnato il coordinamento della Commissione stessa. La figura di Marielle Franco debutta così nella sfera politica del Brasile. Un’unica persona si faceva portavoce delle necessità di un ampio ventaglio di gruppi sociali: gli abitanti delle favelas, le donne, le minoranze etniche e le persone LGBTQ+, e le rivendicava attraverso la sua politica “gentile”. Non era una persona qualsiasi: era una giovane donna afroamericana, bisessuale ed originaria della maggiore favela della città. Come politica ed attivista, ha condotto una campagna senza sosta contro la spirale di violenza della polizia nelle favelas della città. Le sue azioni volte a favorire l’emancipazione delle donne e ad incentivare una migliore rappresentanza politica hanno ispirato i movimenti femministi che, con lo slogan “lute como Marielle Franco” (lotta come Marielle Franco), onorano il coraggio con cui questa donna ha portato avanti la battaglia per i diritti umani nel suo Paese. Uno dei suoi progetti di legge, denominato “se è legale deve essere reale”, si propose di potenziare i reparti maternità degli ospedali e dei centri di riferimento, evidenziando una scarsa applicazione della legge del 1940 che legittima l’aborto in determinati casi: Quando la donna è in rischio di vita; Se la gravidanza è conseguente ad una violenza sessuale; Quando il feto è anencefalico. L’impossibilità di abortire è infatti una delle cause dell’alta mortalità materna presente tra le donne brasiliane, in particolare tra le donne nere, con un basso reddito ed originarie della periferia. Martire di una guerra senza fine Marielle Franco è stata una leader sociale, si è battuta per la giustizia e l’uguaglianza, l’inclusione e la solidarietà, la bellezza della diversità. La sua brillante carriera si è brutalmente interrotta il 14 Marzo 2018, quando quattro colpi di pistola hanno raggiunto lei ed il suo autista, sulla strada di ritorno da un raduno di giovani attivisti neri. Finisce a 38 anni la vita di Marielle Franco, una persona le cui idee hanno appassionato il Brasile ed hanno fatto sperare la popolazione costituente gli strati svantaggiati della sua società in un futuro migliore. L’attivismo di Marielle le è valso molti nemici potenti. Ha condannato l’impunità che circonda le uccisioni extragiudiziali di giovani neri da parte delle forze di sicurezza e, due giorni prima della sua uccisione, aveva denunciato il ruolo della polizia nell’uccisione di un giovane uomo di colore di nome Matheus Melo. Era una delle principali critiche della gestione delle forze di polizia a Rio de Janeiro ed era a capo di una commissione cittadina incaricata di monitorarne gli interventi. Le indagini ancora in corso vengono svolte sotto massima riservatezza. Intanto, alla presidenza del Brasile è salito Jair Bolsonaro, personaggio politico dalle aperte idee misogine e razziste che non ha mai rilasciato dichiarazioni sul caso. Il 12 marzo 2019 due uomini accusati di aver ucciso Marielle e Anderson sono stati sottoposti a detenzione preventiva, ma da allora sembrano essere stati compiuti pochi progressi nel chiarire le

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Land Grabbing Piantagione

Il Brasile e l’Ossimoro degli Agricoltori Senza Terra: Le Nuove Frontiere del Land Grabbing.

Immagina di avere una fattoria, tua da generazioni, dove insieme ad altre famiglie coltivate la terra ed usate quei prodotti per provvedere al sostentamento tuo e della tua famiglia. Ora immagina di far parte di una popolazione indigena, vivi in Amazzonia, conosci il mondo al di fuori ma rimani legato alle tue tradizioni ed al rispetto ed alla protezione della natura intorno a te, come i tuoi antenati hanno fatto per generazioni prima di te. Consideri inoltre sacra quella terra su cui cammini perché ricolma della storia stessa dei tuoi antenati. Infine, immagina che la terra con cui provvedi al sostentamento della tua famiglia, oppure, la terra sacra per i tuoi antenati ti venga estirpata, strappata dalle tue mani in meno di ventiquattro ore. Non riesci nemmeno a difenderti a riguardo perché hanno usato degli stratagemmi legali per riuscire a rubarti la terra. Tutto ciò che rimane è la tua casa. Quella non la possono abbattere, l’unico problema è che ora non puoi più mangiare. Inoltre, i campi dove potevi coltivare, quella terra per te sacra ormai è nelle loro mani. Tutta la bellezza che trovavi su di essa, data anche dalla vasta diversità di colture che lavoravi è ormai persa. Soppiantata, al suo posto, da un immensa vastità di soia o canna da zucchero. Questa è la realtà che vivono centinaia di agricoltori in Brasile. Una realtà causata dal fenomeno del land grabbing – che potete trovare spiegato qui. Un fenomeno che da più di dieci anni ha cambiato la faccia dell’agricoltura brasiliana. La crisi finanziaria del 2008, e nello stesso anno, la crisi alimentare che ha colpito vaste regioni del mondo, ha messo in luce la posizione strategica del Brasile. La disponibilità delle risorse naturali, essenziali a soddisfare i bisogni della popolazione di tutto il mondo dal 2008 è rientrata prepotentemente all’interno dell’agenda internazionale. Quindi, paesi abbondanti di queste risorse, come il Brasile, hanno guadagnato una posizione strategica grazie alla loro capacità di fornire cibo per soddisfare la crescente domanda mondiale. Le corporazioni agroalimentari, non che un cospicuo numero di paesi, preoccupati per la loro sicurezza alimentare e per la loro dipendenza dai mercati alimentari internazionali, hanno quindi deciso di acquisire terreni agricoli in giro per il mondo per produrre cibo da esportare. Nel 2012, la Land Matrix Partnership, ha identificato oltre 1200 affari da parte di investitori stranieri per l’accaparramento della terra che coprono 83,2 milioni di ettari, ossia l’1,7% dei terreni agricoli del mondo. Oltre il 60% di questi accordi sono stati siglati in Africa. Si può quindi affermare, che il land grabbing globale è un trasferimento massiccio di risorse vitali per la produzione di cibo dalle comunità rurali ad una ricca élite globale. Tramite questi affari, famiglie ed intere comunità stanno perdendo le loro fattorie e le loro foreste, ed i loro sistemi agricoli e pastorali, che producono cibo per la popolazione locale, vengono spazzati via per far posto a vaste piantagioni industriali che producono cibo per l’esportazione. Molti di questi affari, stanno accadendo in paesi dove l’insicurezza alimentare e l’accesso alla terra, al cibo ed all’acqua sono già criticità che i paesi stanno affrontando. Inoltre, gli agricoltori a cui viene strappata la terra vengono raramente consultati, in quanto molti di questi affari vengono conclusi a porte chiuse fra gli ufficiali del governo e gli investitori stranieri. In Brasile, le corporazioni che vogliono investire nella terra ricorrono a dei processi illegali di land grabbing conosciuti come “grilagem” per acquisire le terre e stabilire le piantagioni anche nell’altopiano delle chapadas. Grilagem, che letteralmente definisce l’accaparramento illegale delle terre, implica l’uso di connessioni politiche e documenti falsi per rivendicare i titoli terrieri. Alcuni casi, definiti supergrilagem, superano addirittura il milione di ettari di terra accaparrata. Questa pratica è diffusa soprattutto nella regione del MATOPIBA – un’area che abbraccia quattro Stati, rispettivamente Maranhão, Tocantins, Piauí e Bahia, dove al suo interno troviamo il bioma del Cerrado, una grande savana tropicale ricca per la sua biodiversità. La metodologia utilizzata dai land grabbers è quella di recintare le terre delle chapadas, sfrattare i suoi abitanti, dispiegare delle forze di sicurezza privata al fine di trattenere le comunità che precedentemente abitavano al di fuori di queste terre e poi acquisire la proprietà tramite la corruzione dei notai o di qualche funzionario del governo. Infine, l’intento di questi cosiddetti grileiros è di vendere le terre che hanno accaparrato ad altri individui o corporazioni che susseguentemente vi stabiliranno delle piantagioni di soia o canna da zucchero. Per le comunità locali è molto difficoltoso rivendicare le proprie terre, in quanto la legge brasiliana non riconosce diritti di proprietà sulle terre alle comunità ancestrali. Dette terre, infatti, vengono riconosciute come suolo pubblico, proprietà dello stato sulla quale le comunità tradizionali possono risiedere. È esattamente sulla base di questa contraddizione giuridica che si giustifica legalmente il land grabbing. Inoltre, di solito, i grileiros ricorrono alla violenza verso individui che potrebbero tentare di opporre resistenza. Di fatto, ci sono numerose segnalazioni di coercizione e minacce, aggressioni e persino di decessi avvenuti per mano dei grileiros e dei loro scagnozzi. Tuttavia, la perdita di accesso alle terre che deriva dal fenomeno del land grabbing non è l’unico problema. Infatti, senza le risorse della terra delle chapadas molte piccole comunità agricole hanno perso tutti i mezzi di sostentamento e si sono dovute trasferire nelle città per cercare lavoro o nelle pericolose miniere di diamanti. Le piantagioni, infatti, garantiscono pochi posti di lavoro solo quando inizialmente è necessario sgomberare la terre, poi, la forma di produzione estremamente meccanizzata non lascia molti posti di lavoro disponibili. Inoltre, una volta espropriate le terre, le piantagioni intensive adottate e la conseguente perdita estrema di biodiversità nelle chapadas hanno l’effetto di distruggere anche le foreste e le paludi, provocando così il prosciugamento dei fiumi della regione. Questo è il quadro in cui le comunità tradizionali devono sopravvivere, ciononostante, la mancanza di cibo ed acqua non è l’unico problema. 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La condizione delle donne in Brasile sotto il governo Bolsonaro

Il Brasile è il quinto Paese al mondo per estensione territoriale e fa parte dei BRICS, quei Paesi che stanno rapidamente aumentando il loro grado di rilevanza economica a livello internazionale. Dei 210 milioni di abitanti, molti fanno parte di tribù native o sono afroamericani, e più della metà sono donne. Il boom economico degli ultimi decenni deriva dalla dittatura militare che ha governato il Paese per ben vent’anni, fino al 1989. Il regime ha significato l’apertura del mercato finanziario del Brasile verso l’economia internazionale, favorendo la logica del profitto a discapito del rispetto per i diritti umani di minoranze e popolazioni native. La costituzione del 1988 ha restituito i diritti civili alle popolazioni brasiliane, e ha disciplinato le funzioni legislative, esecutive e giudiziarie della nuova politica. Da allora, le elezioni – democraticamente svolte – hanno portato ad un susseguirsi di presidenti di centro-sinistra che tuttavia non hanno saputo fronteggiare l’inflazione e la crisi economica che hanno colpito il paese quando crollò la dittatura. A seguito dello scandalo per corruzione che investì il partito opponente, e che portò all’impeachment della prima ed unica presidentessa donna Dilma Rousseff, Jair Bolsonaro fu eletto presidente del Brasile nel 2018. Questi è il primo presidente di estrema destra che sale al potere dalla caduta del regime di dittatura militare. Bolsonaro si presentò alla popolazione come colui che risolleverà l’economia stagnante degli ultimi anni a discapito, nuovamente, dei diritti civili dei cittadini. La sua retorica fortemente misogina rischia di annullare completamente i progressi in materia di diritti delle donne brasiliane – già di per sé piccoli – raggiunti dopo decenni di lotte femministe. Vediamo nel dettaglio come. Il femminismo brasiliano: poche conquiste non mettono a tacere le rivendicazioni Nonostante le enormi difficoltà e resistenze a loro opposte dalla società civile, i movimenti femministi brasiliani hanno vinto diverse battaglie importanti. Oltre alla grande capacità di mobilitazione delle masse, le attiviste per i diritti delle donne sono state in grado di unire le lotte contro il razzismo e, più recentemente, l’omofobia, per acquisire potenza e legittimità, e creando così un femminismo intersezionale in grado di ottenere risposte. I maggiori risultati ottenuti dai movimenti per i diritti delle donne in Brasile si riassumono nelle seguenti date: 1919 – Bertha Lutz fonda la Federazione Brasiliana per il progresso delle donne; 1939 – le donne ottengono il diritto di voto; Anni ’70 – molte donne partecipano attivamente alla lotta contro la dittatura militare; 1984 – nasce il Consiglio nazionale per la condizione della donna, che promuove una campagna di successo per includere i diritti delle donne nella Carta costituzionale; 2006 – emanazione della Legge Maria da Penha contro la violenza domestica. Nel 2015 scoppiano nuovi moti di protesta in risposta al disegno di legge 5.069/2013. La proposta rappresentava una minaccia per i diritti conquistati dalle donne poiché, se approvata definitivamente, avrebbe limitato loro l’accesso all’aborto, alla pillola del giorno dopo, alla giustizia in caso di stupro. Le mobilitazioni che seguirono furono capitanate dalle donne, e la proposta finì per essere accantonata. Oggi, la disuguaglianza di genere in Brasile si concretizza in una bassa partecipazione politica delle donne ai processi decisionali, in un vasto divario salariale ed in una scarsa garanzia dei diritti quali l’aborto, l’affidamento dei figli in caso di divorzio, l’emancipazione economica. Inoltre, la violenza contro le donne è un fenomeno molto diffuso in Brasile, basti pensare agli 1.2 milioni di casi di violenza domestica registrati nel 2017. Le parole di Marielle Franco, tratte da un discorso che avrebbe dovuto pronunciare pochi giorni dopo il suo misterioso assassinio nel 2018, mettono in luce la condizione della donna brasiliana: “Parlare di uguaglianza tra donne e uomini, ragazze e ragazzi, è parlare della vita di chi è ancora incapace di difendersi dalla violenza. E questo è molto di più dei 50.377 casi registrati nel 2016, qui, a Rio. Diversamente da quanto si parla o, purtroppo, da quanto siamo abituati a vedere nelle aule legislative, non siamo la minoranza. Siamo la maggioranza della popolazione, anche se siamo sottorappresentati in politica. Anche se possiamo guadagnare stipendi più bassi, essere relegate a posizioni inferiori, lavorare tre giorni lavorativi, essere giudicate per i nostri vestiti, essere soggette a violenza sessuale, fisica, psicologica, uccise quotidianamente dai nostri partner, non saremo messe a tacere: le nostre vite contano!” Marielle Franco: simbolo della lotta per l’emancipazione Nata e cresciuta in una favela di Rio de Janeiro, Marielle Franco si afferma sulla scena politica del Brasile grazie al suo coraggio. Come attivista ha portato avanti le battaglie per la riqualificazione degli slum, per i diritti delle donne, degli afroamericani, e delle persone LGBTQI+. Ha denunciato la brutalità della polizia, le violenze razziste, misogine ed omofobe, le violenze tutte. Ha condannato le esecuzioni extragiudiziali e si è fatta portavoce degli svantaggiati. Il 14 marzo 2018 viene assassinata a sangue freddo insieme al suo autista, da 3 pallottole che le trapassano il cranio e il collo, mentre stava rientrando da un tavolo di consultazioni. Pochi giorni prima, attraverso un post su Twitter, aveva ribadito la sua condanna alla brutalità della polizia, con una frase emblematica: “quanti ancora devono morire per porre fine a questa guerra?” La morte di Marielle Franco ha causato un moto di proteste e manifestazioni a favore delle minoranze, dei più vulnerabili della società brasiliana. Le investigazioni portate avanti nei mesi successivi hanno portato all’identificazione e l’arresto di due sospettati. Tuttavia, le indagini proseguono nel silenzio dell’attuale presidente Bolsonaro, che non ha rilasciato dichiarazioni in merito all’accaduto. L’omicidio di Marielle si aggiunge alla lista di tutti quegli attivisti per i diritti umani che vengono assassinati in molti Paesi dell’America Latina a causa del loro impegno socio-politico nel denunciare soprusi ed ingiustizie che le cosiddette “minoranze” sono costrette ad affrontare su base quotidiana. La consigliera di Rio si è guadagnata il rispetto di molte di queste “minoranze”, e la sua morte non è caduta nel silenzio, nonostante le dinamiche esatte del suo omicidio restino nascoste sotto uno spesso velo di omertà. Jair Bolsonaro: l’estrema destra torna al potere

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Resistere al Covid e alle politiche di Bolsonaro: la condizione delle popolazioni indigene brasiliane

Cosa ci viene in mente quando pensiamo alla pandemia dovuta al virus COVID-19? Innanzitutto, alle migliaia di morti che ha causato in tutto il mondo e successivamente al lockdown, che ha costretto ognuno a rimanere rinchiuso nella propria abitazione, sottoposto a restrizioni della propria libertà di movimento per limitare i contagi. Questa condizione ha portato molti a concentrarsi sulla esperienza drammatica del proprio Paese, mettendo da parte ciò che accadeva (e purtroppo continua ad accadere) dall’altra parte del mondo. Infatti, la bassa attenzione rivolta alle categorie più vulnerabili ha permesso ad alcuni governi centrali di esercitare ancor più pressioni verso le stesse, come nel caso del Brasile verso le popolazioni indigene, le quali si sono ritrovate a dover affrontare delle sfide più grandi di quelle a cui erano già sottoposte. L’anno peggiore per i territori indigeni: tra lotta al Covid e interessi economici Non è un caso che il 2020 sia risultato l’anno peggiore per le Indigenous Land e Conservation Units dal 2008: ben 188 000 ettari di foresta sono stati completamente distrutti nei territori appartenenti alle popolazioni indigene del Brasile. Questa moltitudine di popolazioni (circa 170 etnie differenti) vive in vaste riserve protette che rappresentano il 13,8% del territorio nazionale, in buona parte concentrato in Amazzonia. La deforestazione è un attacco diretto da parte delle lobby verso la sopravvivenza delle popolazioni indigene, alle quali vengono sottratte tutte le terre che non rientravano sotto la loro giurisdizione o erano disputate prima del 5 ottobre del 1988, data in cui fu emanata la Costituzione brasiliana. Ciò dimostra le chiare intenzioni del governo brasiliano, seguito dal FUNAI (Fondazione nazionale dell’Indio, organo del governo brasiliano preposto all’elaborazione e all’implementazione delle politiche riguardanti i popoli indigeni) e dal Commissario della Polizia Federale a contrastare qualsiasi demarcazione di nuove terre indigene. Proprio il presidente del FUNAI, il cui ruolo dovrebbe essere quello di mappatura, protezione e prevenzione di invasioni dei territori indigeni, ha esordito: “(…) servirà smettere di incoraggiare gli indigeni a formare cooperative per sviluppare attività economiche sulle loro terre. Una delle nostre priorità sono le attività minerarie.” È quindi evidente che la visione colonialista verso persone e risorse è alla base della politica brasiliana da decenni, con un certo peggioramento negli ultimi anni in cui, con il penultimo presidente Michel Temel (2016-2019) e successivamente con l’attuale Jair Bolsonaro (2019-oggi), solamente una approvazione di terre destinate alle popolazioni indigene è stata concessa (e non durante il mandato del presidente in carica). A quanto pare gli interessi puramente economici sovrastano di gran lunga le esigenze di autonomia e tutela di popolazioni che, al contrario, si propongono come difensori della natura e dell’equilibrio degli ecosistemi. Anzi, queste persone vengono percepite come il maggiore ostacolo allo sviluppo neoliberale del paese, in preda alle logiche di deturpazione di terre, land grabbing e razzializzazione delle popolazioni autoctone. I fattori elencati influiscono negativamente sugli effetti del COVID19 su queste specifiche popolazioni, come è stato pubblicato nell’articolo scientifico del 12 aprile 2021 di “Frontiers in Psychiatry”. Lo scarso accesso ai servizi sanitari per le popolazioni indigene brasiliane La condizione di estrema vulnerabilità delle popolazioni indigene è estremizzata dalla pandemia del Coronavirus, la quale ha ridotto ulteriormente i diritti di questi individui come singoli e come comunità, soprattutto limitandone l’accesso alle cure non solo all’interno delle terre indigene ma anche escludendo dalla copertura sanitaria coloro che vivono nelle aree urbane, giustificando la scelta come a favore di cure più vicine alla tradizione culturale indigena. Tali disposizioni sono state predisposte direttamente dal Ministro della Salute e dal suo Ministero (MOH), aggravando la situazione soprattutto nella zona dell’Amazzonia, dove vive il maggior numero di etnie. Non solo, oltre alle cure negate o quasi inesistenti, il MOH ha registrato 22 127 casi e 330 morti tra le popolazioni indigene, riportando dei dati fallati come dimostrato da quelli raccolti dal COIAB (Coordinamento delle Organizzazioni Indigene dell’Amazzonia Brasiliana) dove i casi di infezione ammontano a 25 356 e quelli di morti a 670 (più del doppio). In linea con quanto appena esposto, è il caso di ricordare che, nel pieno della pandemia a gennaio 2021, con in media 1293 contagi giornalieri nel paese, Bolsonaro considerava il virus causa di un “semplice raffreddore” e ha rifiutato di applicare i protocolli consigliati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Il risultato di tali scelte è che le disuguaglianze tra le popolazioni indigene e il resto della popolazione sono state accentuate, aggravando la posizione delle prime rispetto alla seconda in quanto esposte a rischi più elevati di infezioni, morti e con limitate risorse in grado di curare i malati da COVID19. Fortunatamente il COIAB ha messo in atto l’Emergency Action Plan, una serie di azioni di prevenzione, guida e sostegno in risposta alla pandemia che sono di grande aiuto per le popolazioni indigene. In un Paese come il Brasile, le popolazioni indigene sono inquadrate come gli ultimi degli ultimi, in ogni campo, compreso quello sanitario, dove lo scopo dovrebbe essere in ogni caso la salute pubblica al fine di tutelare il benessere di una intera nazione e dell’umanità. A tal proposito, Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore dell’OMS, ha rivolto l’attenzione proprio alle popolazioni indigene, in concomitanza con l’aggravarsi della crisi sanitaria in Brasile, suggerendo di dare priorità all’applicazione di misure concrete che assicurino la protezione di queste popolazioni e la creazione di un fondo di emergenza. In Brasile, il governo ha agito controcorrente a quanto raccomandato dall’OMS, smantellando il sistema sanitario e non garantendo alcun dispositivo di sicurezza agli operatori sanitari che si sono occupati attivamente di curare le popolazioni indigene. Le notizie più recenti riguardano la fase di vaccinazione che, in tutto il Paese e in particolare in Amazzonia, non è ancora iniziata o procede a rilento, con conseguenze per tutto il mondo, poichè la mancata vaccinazione è veicolo di nuove varianti del virus. Un elemento non così evidente ma sicuramente presente e da non sottovalutare è il fatto che la pandemia ha consolidato il razzismo nei confronti delle popolazioni indigene, permettendo la violazione incontrollata di numerosi loro diritti finora garantiti

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