La condizione delle persone LGBTQ+ in Bangladesh è parte di un mosaico più ampio, eterogeneo e complicato. Infatti, se è indubbio che la comunità sia oggetto di oppressione ed i suoi diritti vengano continuamente negati, è anche vero che la società civile si rivela lievemente più aperta al dialogo rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare. Inoltre, un certo tasso di rappresentazione delle istanze della comunità LGBTQ+ è presente grazie alla copertura della stampa e dei media nazionali. Lo stesso governo bengalese negli ultimi anni, ha riconosciuto piccole concessioni nei confronti delle persone transessuali, sebbene queste ultime siano arrivate più per rispetto di tradizioni storico-culturali proprie del patrimonio bengalese che per desiderio di integrazione e uguaglianza nei confronti delle minoranze sessuali. Nonostante queste premesse va comunque chiarito che le persone LGBTQ+ in Bangladesh non hanno vita facile: discriminazione, intimidazioni, repressione delle libertà fondamentali sono solo alcune delle minacce, nemmeno le più gravi, che affliggono la comunità del Bangladesh. Sebbene l’attivismo all’interno del paese abbia permesso di raggiungere importanti traguardi, vivere a pieno la propria identità e la propria sessualità non è ancora del tutto possibile in Bangladesh.
Quadro Legislativo e Impatto nella Società Civile
Il Codice Penale bengalese legifera in materia nella Sezione 377, “crimini non naturali”. Secondo quanto stabilito, chiunque intrattenga “rapporti carnali contro l’ordine naturale con uomo, donna o animale sarà punito con l’imprigionamento a vita…”. L’articolo citato chiarisce anche che la sola penetrazione è da considerarsi sufficiente a costituire il rapporto carnale menzionato. In questo modo la legge è applicabile anche a relazioni consensuali eterosessuali che non abbiano fini prettamente riproduttivi (come la penetrazione anale o la fellatio).
Il Codice Penale bengalese è un testo risalente al 1860 basato sul Codice Penale dell’Impero Anglo-Indiano di cui il Bangladesh rappresentava una delle province. È stato emendato più volte nel corso degli anni, l’ultima volta nel 2004, tuttavia la Sezione 377 – che contiene la norma sopracitata – ancora resiste all’interno del testo nonostante le richieste di abrogazione avanzate negli anni (le ultime nel 2009 e nel 2013) e respinte dal Parlamento bengalese. Inoltre, nel 2018 il Bangladesh ha respinto le raccomandazioni provenienti da molti paesi, fra i quali l’Italia, di rimuovere la Sezione 377 dal Codice e garantire una protezione effettiva contro le discriminazioni per le persone LGBTQ+.
Sebbene negli anni il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti abbia verificato come la norma non sia applicata direttamente, la Sezione 377 viene spesso usata come mezzo di intimidazione e molestia nei confronti delle persone LGBTQ+ e per scoraggiare l’adesione della popolazione ad organizzazioni LGBTQ+. Vi sono inoltre segnalazioni per le quali la legge verrebbe applicata come mezzo di oppressione sulla base dell’orientamento sessuale non solo reale ma anche di quello presupposto. In altri termini, una persona può rischiare di essere condannata per il mero sospetto che la stessa sia omosessuale. La Sezione 377 non è la sola fonte invocata dalle forze dell’ordine a giustificazione degli arresti arbitrali e degli abusi di potere. Secondo quanto riportato da diverse ONG bengalesi, infatti, anche la Sezione 54 del Codice di Procedura Penale, che attesta che se sospettati di attività criminale è possibile essere arrestati senza l’ordine di un giudice o senza mandato, verrebbe usata come pretesto dalle forze di polizia, le quali la applicherebbero arbitrariamente sia per ragioni politiche sia per la riscossione di mazzette e tangenti. Le violenze e le discriminazioni subite sarebbero superiori a quelle riportate, considerando che le vittime spesso non denunciano per paura di ripercussioni o anche semplicemente per eccesso di riservatezza, una conseguenza del grande stigma sociale che grava sulla popolazione LGBTQ+.
Percezione e Status Sociale
L’opinione pubblica in Bangladesh, infatti, è apertamente avversa alle istanze delle minoranze sessuali, un’avversione che deriva in parte dal substrato religioso che permea la società bengalese (la stragrande maggioranza del paese, circa il 90%, è di fede Islamica) ed in parte dalla condizione di effettiva ignoranza in cui versa la popolazione. Nonostante gli sforzi di attivist* ed associazioni LGBTQ+ i quali, soprattutto negli ultimi anni, hanno portato e continuano a portare avanti le istanze della comunità, le campagne di sensibilizzazione non hanno ancora fatto breccia del tutto nel muro di pregiudizio che circonda i cittadini bengalesi. In Bangladesh, infatti, l’omosessualità, così come le altre minoranze sessuali, oltre a godere di uno scarsissimo tasso di rappresentazione nei media (libri, film, televisione), è perlopiù sconosciuta dalla popolazione. Questa infatti è identificata col solo atto della sodomia mentre tutti i risvolti relazionali, emotivi e romantici che ne derivano sono automaticamente esclusi dall’equazione. In questa ottica è dunque scontato, per i bengalesi, considerare l’omosessualità un atto immorale, anormale e addirittura pericoloso per la società.
Eppure, il Bangladesh non è totalmente nuovo alle rivendicazioni delle minoranze sessuali. Infatti, l’11 novembre 2013 l’allora Prima Ministra Sheikh Hasina annunciò la decisione del Governo di riconoscere le hijra, un’identità di genere tipica del Sud Asia, come terzo sesso sui documenti ufficiali come il passaporto. Le persone hijra rientrano nello spettro della transessualità ed accolgono fra le loro fila individui intersex ma non solo. Non si tratta semplicemente di persone alla nascita uomini che si identificano come donne: la loro esistenza infatti sfida la concezione standard del genere ed è attestata fin da tempi antichissimi nel subcontinente indiano grazie a fonti come il Kama Sutra. Nel 2019, per la prima volta nella storia del Bangladesh, una persona hijra vince l’elezione ad una carica pubblica. Pinki Khatun, hijra di 37 anni, viene eletta consigliera del sottodistretto (upazila) di Kotchandpur battendo il suo avversario con migliaia di voti di scarto a seguito di una campagna elettorale condotta porta a porta, i cui punti fondamentali erano: difesa dei diritti delle persone trans, emancipazione femminile, sviluppo economico e lotta alla droga. La storia di Pinki Khatun ci mostra il volto più inclusivo ed aperto del Bangladesh: avviata all’attivismo politico dalla famiglia, che l’ha sempre accettata e sostenuta, Pinki è stata sostenuta dalla comunità che l’ha vista crescere e nella quale è molto ben voluta. La vittoria di Pinki rappresenta tuttavia un’eccezione e vivere in Bangladesh per le persone hijra, così come per le altre minoranze sessuali, spesso significa rimanere una parte marginalizzata e discriminata della popolazione. Dopo lo storico riconoscimento da parte del Governo non molto è stato fatto per l’effettiva integrazione della comunità hijra. Dal 2013, infatti, non molte iniziative sono state avviate dalle autorità bengalesi per capire come identificare una hijra né per chiarire quale sia la procedura da seguire per modificare legalmente il proprio genere sui documenti ufficiali. Inoltre, altri progetti inizialmente lanciati per favorire l’occupazione fra le hijra sono diventati un pretesto per opprimere ulteriormente questa comunità attraverso colloqui estremamente inopportuni ed “esami medici” umilianti atti a valutare la loro transessualità, come denunciato da Human Rights Watch.
Un contesto così avverso si è riversato anche all’interno della storia del movimento LGBTQ+ bengalese: dai primi tentativi di costituire spazi online per persone omosessuali risalenti al 1999, passando per le manifestazioni di orgoglio del 2014 (che prendevano il nome di Rainbow Rally), per finire, sempre nel 2014, con la pubblicazione del primo magazine bengalese apertamente LGBTQ+, Roopbaan, la comunità LGBTQ+ in Bangladesh sembrava intenzionata a rivendicare il proprio posto all’interno della società bengalese.
Una tendenza che ha subito un’importante battuta d’arresto a causa del clima di terrore e intimidazione, instaurato da alcune associazioni fondamentaliste islamiche, che ha raggiunto il culmine con l’omicidio di Mahbub Rabbi Tonoy, attivista, e Xulhaz Mannan, fondatore della rivista Roopbaan e organizzatore dei Rainbow Rally. La loro morte ha avuto un effetto “sedante” per le iniziative in seno alla comunità. Le dimostrazioni pubbliche si sono nel tempo azzerate, i bar ed i ristoranti apertamente “gay-friendly” hanno revocato la loro solidarietà alla causa, persino le stesse associazioni sono state costrette ad “assumere un basso profilo” per non mettere in pericolo la vita dei loro membri. Le stesse manifestazioni di protesta per la morte di Tonoy e Mannan non si sono tenute per paura di ripercussioni.
Alla luce di tutto questo, una menzione speciale va fatta a Boys of Bangladesh, una delle prime realtà associative LGBTQ+ del paese, che ancora oggi, nonostante un ambiente del tutto ostile e le continue minacce di morte, porta avanti la lotta alla discriminazione per l’accettazione di ogni orientamento sessuale ed identità di genere, un ideale molto nobile il cui raggiungimento è ancora molto lontano e per il quale è stato già versato fin troppo sangue.
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