Nei nostri articoli precedenti abbiamo parlato delle condizioni della comunità LGBTQ+ in Kenya e delle violazioni dei diritti umani che avvengono all’interno del campo profughi di Kakuma.
Abbiamo poi raccolto la testimonianza di J, il primo caso del nostro approfondimento sulle violazioni di diritti umani all’interno di Kakuma.
Proseguendo, dunque, l’inchiesta che Large Movements APS sta portando avanti insieme ad International Support Human Rights, in questo articolo analizzeremo la situazione specifica di A., nome di fantasia di una donna lesbica ospite di Kakuma con la quale abbiamo avuto modo di parlare.
Come tanti altri che vivono a Kakuma, A. è fuggita dal suo Paese d’origine a causa delle discriminazioni subite da amici e familiari in ragione della sua omosessualità ed ha cercato rifugio nel vicino Kenya. La possibilità di sfuggire ai maltrattamenti e le discriminazioni subite e la speranza di costruirsi una vita migliore sono stati i motori che l’hanno spinta lontano da casa, ma la realtà con cui si è scontrata è stata tanto dura con lei quanto quella da cui è scappata.
La testimonianza di A.
Attraverso la Word Cloud estrapolata dalle interviste agli ospiti queer di Kakuma è possibile intuire la natura della loro permanenza all’interno del campo.
Parole come “violence”, “assault”, “forced” tracciano un’immagine chiara e poco rassicurante sulla situazione dentro Kakuma per le persone LGBTQ+ come A.
L’arrivo a Kakuma
A. è una cittadina ugandese. È fuggita dal suo Paese quando la sua famiglia ha scoperto della sua omosessualità. A. infatti, è stata fortemente discriminata ed ha subito gravi attacchi omofobi di varia natura, a tal punto che la sua famiglia, prima che lei riuscisse a fuggire per il Kenya, stava per costringerla a sposarsi. È arrivata a Kakuma nel novembre del 2019 e vi risiede tuttora.
Le violenze e le denunce inascoltate
Non appena arrivata, A. si è trovata di fronte a delle condizioni di vita molto difficili per la comunità LGBTQ+ residente a Kakuma. La convivenza tra le persone queer e gli altri rifugiati, infatti, ha portato a diversi attacchi ed aggressioni a discapito degli ospiti LGBTQ+ del campo. Per questo motivo, ci riporta A., sia lei che gli altri membri della comunità queer residenti a Kakuma sono profondamente spaventati per la loro vita. Nel luglio del 2020, quella che era stata la casa di A. nel campo è stata data alle fiamme da altri ospiti e lei ha perso nell’incendio quasi tutti i suoi averi, inclusi beni di prima necessità come vestiti e medicinali. Dopo tutto, il resto dei residenti del campo ha più volte riferito che le persone queer come A. non sono benvenute, definendole “una maledizione” o minacciandole di morte con percosse, aggressioni sessuali ed attacchi incendiari.
La situazione è stata ripetutamente denunciata all’UNHCR ed alle autorità, ma entrambi hanno sempre respinto A. e non sono stati in grado di fornire tutela e protezione dalle violenze gravi subite da A. e dagli altri residenti LGBTQ+. Quando nel luglio 2020 la casa di A. è stata colpita da un incendio doloso, pur se ha riportato immediatamente il fatto allo staff di UNHCR presente nel campo, la donna ha ricevuto supporto solo dagli altri ospiti queer del campo, che le hanno fornito i beni di prima necessità di cui aveva bisogno e che erano andati distrutti nell’incendio.
I ricollocamenti
Uno dei problemi principali che impedisce di fornire servizi puntuali e garantire efficacemente i diritti umani fondamentali è rappresentato dall’estrema difficoltà nell’ottenere informazioni, in particolare sui ricollocamenti. Il personale di UNHCR presente nel campo ed i componenti del RAS, il dipartimento governativo kenyota che gestisce l’intera procedura di ricollocamento e di concessione dello status di rifugiato, infatti, non forniscono informazioni chiare o non le forniscono affatto. A. stessa non ha mai fatto domanda di reinsediamento non solo perché è molto difficile ottenere informazioni sulle procedure necessarie (tutte le volte che ci ha provato non è stata assistita, proprio dalle persone direttamente responsabili dell’informativa in merito) ma anche a causa del suo status. Non si può accedere al programma di reinsediamento, infatti, se non è stato riconosciuto lo status di rifugiato. Status che, secondo la legge kenyota, deve essere concesso o diniegato entro 6 mesi dall’esame della domanda. Nonostante A. si trovi a Kakuma da quasi 3 anni però, non ha ancora notizie circa l’esito della sua richiesta di asilo.
Il fatto che non abbia presentato domanda per il ricollocamento, dunque, non significa che A. non ne riconosca l’importanza. Tanto è vero che A. ci ha detto che ritiene quella del ricollocamento l’unica opzione in grado di ridare speranza alle persone LGTBQ+ ospiti in Kenya dato che nel contesto in cui si trovano attualmente non possono muoversi liberamente, non vengono forniti loro beni di prima necessità, come gli assorbenti, e vivono nella paura di essere nuovamente attaccati.
Per di più, lei e tutte le altre persone LGBTQ+ di Kakuma sono traumatizzate dal trattamento ricevuto nel campo. Soprattutto, si sentono come se la loro vita fosse rimasta bloccata all’interno di Kakuma, dove ogni giorno è uguale al precedente, e sono molto spaventati dall’idea di invecchiare nel campo. A. vuole tornare a scuola e finire gli studi. Vuole trovare un lavoro per potersi mantenere. Vuole un futuro migliore per i bambini del campo, affinché possano tornare a scuola come dovrebbero, perché, come dice giustamente, l’istruzione è un diritto umano.
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