Zainab Salbi per i diritti delle donne sopravvissute ai conflitti armati

La piccola Zainab è nata in Iraq, e sin dalla sua nascita la sua vista è stata colpita dall’esperienza della guerra. La famiglia di Zainab era una delle più protette del paese, infatti suo padre era uno dei migliori piloti dello stato, impiegato della compagnia Boeing, mentre sua madre era un’insegnante. In compenso, nonostante l’agio in cui la sua famiglia si trovava, con la salita al potere di Saddam Hussein iniziarono a subire pesanti abusi psicologici da parte di quest’ultimo. Infatti, se la maggior parte della popolazione irachena subì violenze sia fisiche che psicologiche, alla sua famiglia furono “risparmiate” solamente quelle fisiche. D’altronde, al fine di consolidare il proprio potere, il dittatore doveva attorniarsi dell’élite di Baghdad. L’accordo fu che il padre divenne il pilota personale di Hussein in cambio della non-deportazione della moglie – di lontane origini iraniane.

La famiglia di Zainab decise, quindi, di “salvare la propria figlia” tramite un matrimonio combinato con un americano iracheno molto più anziano rispetto a lei, che all’epoca aveva solo 19 anni, e che la portò a vivere negli Stati Uniti.

Il matrimonio si rilevò subito violento, e solamente dopo tre mesi Zainab riuscì a scappare dalla casa del marito. Nel frattempo, anche se Zainab ha sempre voluto tornare in Iraq, a causa della Guerra del Golfo che scoppiò qualche mese dopo il suo arrivo in America nel 1990, non riuscì mai a ritornarci.

L’esperienza di Zainab con la guerra l’ha sensibilizzata alla difficile situazione delle donne in guerra. Infatti, quando seppe della guerra in Bosnia, pochi anni dopo il suo arrivo negli Stati Uniti, decise – a soli 23 anni – di agire fondando Women for Women International con il suo secondo marito Amjad Atallah, dedicando, dunque, la sua vita al servizio delle donne sopravvissute alle guerre. Il gruppo iniziò assistendo 33 donne croate e bosniache nel 1993.

La missione stessa dell’organizzazione è quella di offrire supporto alle donne sopravvissute alla guerra ed ai suoi postumi. Il fine ultimo è quello di includere le sopravvissute nella ricostruzione della comunità e di tutta la società stessa. Infatti, secondo Zainab, alla fine di un conflitto è proprio dalle donne che bisogna ripartire in quanto esse sono coloro che provvedono al sostentamento della famiglia e della comunità, ricostruendo in questa maniera, lo strappato tessuto sociale.

Sotto la sua leadership, dal 1993 al 2004, l’organizzazione umanitaria Women for Women International è riuscita ad aiutare più di 478.000 donne in 8 conflitti avvenuti intorno al mondo, distribuendo oltre 120 milioni di dollari in aiuti diretti e microcrediti, che hanno avuto un impatto su più di 1.7 milioni di famiglie. Zainab è sempre stata risoluta nel sostenere l’idea che l’accesso all’istruzione ed alle risorse porta ad un cambiamento duraturo nella vita delle donne.

Zainab, inoltre, ha scritto e parlato estensivamente sull’uso dello stupro e di altre forme di violenza contro le donne durante la guerra. Il suo lavoro è infatti stato presentato nei principali media. Inoltre, il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, ha onorato Zainab alla Casa Bianca per il suo lavoro umanitario in Bosnia. Zainab è stata anche identificata come una delle 100 donne più influenti al mondo in vari testate giornalistiche come il Times e il The Guardian.

Dopo 20 anni di lavoro con donne sopravvissute alla guerra – dalla Repubblica Democratica del Cogno fin all’Afghanistan – Zainab è arrivata a realizzare che la ricetta segreta per il cambiamento nella vita delle donne è l’ispirazione. Infatti, nel 2011 ha annunciato le sue dimissioni dal ruolo ricoperto in Women for Women International per esplorare il “mondo dell’ispirazione” nei media.

Zainab inoltre siede nel Consiglio di Amministrazione di Synergos e dell’International Refugee Assistance Project (IRAP).

Nel 2015, Zainab ha inoltre lanciato un talk show rivoluzionario con TLC Arabia chiamato “The Nidaa Show”, che è andato in onda in oltre 22 paesi del mondo arabo. La novità di tale show, infatti, è stata che quest’ultimo è stato dedicato al riconoscimento delle donne arabe e mussulmane, alle loro storie, le loro sfide e i loro traguardi raggiunti ed è iniziato per la prima volta con una storica intervista ad Oprah Winfrey. Il talk show ha raggiunto picchi così importanti che Zainab è stata insignita di tantissimi premi ad esso connessi, incluso la nomina come prima Donna Araba più Influente dall’ Arabian Business. Zainab si è inoltre laureata alla George Mason University con una Laurea Triennale in Studi Individualizzati in Sociologia ed in studi di genere, ed un master alla London School of Economics con un master in Studi sullo Sviluppo.

Zainab, infine, è l’autrice di vari libri, fra cui il bestseller “Una donna tra due mondi: la mia vita all’ombra di Saddam Hussein”.

Noi di Large Movements condividiamo il pensiero di Zainab e riteniamo importante condividere con voi la sua storia perché ci battiamo ogni giorno affinché il ruolo delle donne nel dibattito migratorio venga valorizzato, specialmente durante i conflitti. È infatti fondamentale non idealizzare le donne sopravvissute ai conflitti, vittimizzandole, privandole così della possibilità di partecipare attivamente al dibattito. Al contrario, è necessario ripartire proprio dalle donne, garantendogli una voce nonché un posto ai tavoli decisionali al fine di garantire la loro emancipazione e di renderle artefici della ricostruzione del tessuto sociale di appartenenza.

We have to wake up and we have to roar and we have to stand up. That’s not an activist’ job. That’s every woman’s job.”

Dobbiamo svegliarci, dobbiamo ruggire, dobbiamo rialzarci. Questo non è un lavoro da attivista. Questo è il lavoro di ogni donna.” – Zainab Salbi

Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

Avatar photo

Conoscere è resistere!

Condividi questo articolo e aiutaci a diffondere i nostri contenuti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Puoi continuare ad approfondire attraverso i nostri articoli:

Il progetto GAP. L’acqua, strumento di sviluppo o di forza?

L’acqua è indispensabile per la sopravvivenza e per lo sviluppo dell’essere umano. Sebbene la maggior parte della superficie del pianeta sia ricoperta da acque, solo l’1% di queste è fruibile all’uomo. Questa piccola percentuale basterebbe a soddisfare il fabbisogno mondiale se non fosse per la sua diseguale distribuzione. La cattiva gestione della risorsa, unita ad un insieme di altre variabili, sta portando ad una serie di problemi ambientali (carestie, siccità, desertificazioni, innalzamento delle temperature) e non, con ripercussioni sulle migrazioni e sul sottosviluppo.  Molte delle fonti d’acqua disponibili al mondo sono condivise tra vari paesi e questo conduce molto spesso all’esacerbarsi di tensioni ed a scontri diplomatico-politici. A tutto ciò si aggiunge anche il vertiginoso aumento del consumo di acqua dovuto alla crescita della popolazione mondiale ed al conseguente maggiore utilizzo in settori come quello domestico, agricolo, industriale ed energetico.  Secondo il report FAO The State of Food and Agriculture 2020, la quantità annuale di risorse di acqua dolce disponibili pro-capite è diminuita di oltre il 20% negli ultimi due decenni, fino ad arrivare anche al 30% in alcune aree. Le risorse idriche sono sempre più sotto pressione in tutto il mondo e la necessità di una gestione sostenibile che ne assicuri la disponibilità alle generazioni future non è mai stata così impellente. L’acqua sembrerebbe perciò destinata a divenire secondo molti un motivo di conflitto più importante del petrolio. Le guerre e le ripercussioni legate all’oro nero non sono nuove – il mondo è stato più volte scosso da motivazioni connesse allo sfruttamento di detta risorsa energetica – ma i conflitti legati alla gestione di risorse d’acqua, per quanto potrebbero essere percepiti come ancora lontani, sono più attuali che mai. L’acqua, oltre ad essere fondamentale per la sopravvivenza ed il benessere dell’essere umano, è anche funzionale allo sviluppo socioeconomico degli Stati ed è per questo che l’accesso alle risorse idriche è divenuto fondamentale. Ed è soprattutto in un’area come quella del Medio Oriente – dove la disponibilità e l’accesso a fonti di acqua è limitata – che il controllo delle risorse idriche sta divenendo un’arma geopolitica molto importante sullo scacchiere delle potenze, come il caso del Tigri e dell’Eufrate ci dimostra. Il Tigri, l’Eufrate e il progetto GAP La Mesopotamia ha favorito per millenni lo sviluppo di civiltà grazie alla fertilità donata dall’inondazione dei fiumi Tigri ed Eufrate e dalle opere di irrigazione create dall’uomo. Entrambi i fiumi si originano nei territori dell’attuale Turchia, proseguono in Siria per poi congiungersi in Iraq e sfociare nel Golfo Persico. Essi costituiscono un’importante risorsa d’acqua per tutti i paesi rivieraschi che attraversano: di fatto, molti grandi interventi sono stati realizzati per il loro utilizzo strategico, soprattutto negli ultimi anni.  In questo quadro si inserisce l’enorme progetto turco nel sud-est dell’Anatolia, il GAP (Güneydoğu Anadolu Projesi). Questo progetto prevede la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche per la riqualificazione di un territorio caratterizzato da: rigide condizioni territoriali e climatiche, risorse idriche mal distribuite, terre aride, insufficienti servizi sociali, bassi livelli di reddito pro capite e modelli di migrazione “inusuali”.  La Turchia negli ultimi decenni è stata interessata da un forte sviluppo economico e sociale che ha generato un incremento del benessere della sua popolazione e, conseguentemente, del fabbisogno di energia.  È sorto così il progetto del GAP che, da un lato, doveva rispondere alla rapida crescita economica e demografica dell’intero paese e, dall’altro, doveva migliorare gli standard socioeconomici della regione interessata dalla sua presenza, attraverso la riduzione delle disparità e delle disuguaglianze con le altre regioni della Turchia.  Il GAP, quindi, potrebbe portare ad un miglioramento delle condizioni di vita e del benessere dell’area e ad una maggiore efficienza in termini di produzione energetica prodotta a basso costo ed a basse emissioni. A tutti questi benefici per il territorio e per la popolazione turca, tuttavia, si aggiunge una serie di risvolti sociali, politici, ambientali e culturali negativi. Il GAP come motivo di tensione tra Stati Lo sfruttamento dei due fiumi ha portato negli anni ad una serie di problematiche politiche e diplomatiche tra la Turchia e gli altri due paesi rivieraschi, Siria ed Iraq.  Fino agli anni ’60, le relazioni tra i paesi non erano influenzate da tensioni legate all’utilizzo delle acque, poiché le dimensioni dei progetti sviluppati sui due fiumi erano contenute e non prevedevano un utilizzo intensivo della risorsa idrica. Le tensioni si inasprirono quando iniziarono i primi passi concreti verso la realizzazione di vari progetti idroelettrici in tutti e tre i paesi, come la costruzione della diga di Keban in Turchia, la diga di Tabqa in Siria – che con il riempimento del bacino del lago di Assad ha scatenato la collera dell’Iraq – ed il lancio ufficiale del GAP negli anni ’70, che vide l’inaugurazione della prima diga, Karakaya, alla fine degli anni ’80. Venne, dunque, creato un Comitato Tecnico Congiunto (JTC) per cercare di raggiungere un accordo per uno sfruttamento bilanciato di entrambi i fiumi tra i tre paesi. Inizialmente, al Comitato parteciparono solo Turchia e Iraq. La Siria si aggiunse solo in seguito, ma il lavoro del JTC non portò mai ad un risultato concreto.  Il primo accordo si ottenne solo a livello bilaterale nel 1987 tra Turchia e Siria, stabilendo un rilascio medio annuo di 16 miliardi di metri cubi di acqua alla Siria con una portata minima annua media di 500 m3/s. A questo seguirono una serie di altri accordi, tra i quali quello del 1990 tra Siria e Iraq nel quale i due paesi concordarono di ricevere rispettivamente il 42% e il 58% del flusso dell’Eufrate al confine turco-siriano. Il completamento della diga di Atatürk nel 1990, fiore all’occhiello dell’intero progetto GAP nonché una delle dighe più grandi al mondo, fece riemergere diverse tensioni tra i paesi. La Turchia, infatti, per riempire il bacino della diga deviò l’Eufrate per circa un mese, causando una notevole riduzione della quantità ed il peggioramento della qualità dell’acqua diretta verso la Siria e l’Iraq. A seguito dell’episodio, vennero inviate invano note minacciose alla Turchia per richiedere lo stop alla costruzione di altre dighe previste sul corso dei due fiumi, come quelle

Leggi Tutto »

Diritti politici in Egitto durante la presidenza di Al-Sisi

La presidenza di Al-Sisi, comincia dopo il golpe del 2013 ai danni del presidente Morsi, unico presidente eletto democraticamente nella storia del paese; fin da subito il governo di Al-Sisi si caratterizzò per un profondo e violento depauperamento dei diritti politici e sociali in Egitto. Fu immediatamente chiara la strategia con la quale Al-Sisi intendeva mantenere il potere in Egitto: soprusi, violenze ed omicidi sarebbero divenuti fatti all’ordine del giorno. Ciò che emerge con chiarezza infatti, è l’uso diffuso di varie forme di intimidazione volte a scoraggiare sia gli esponenti politici che i semplici giornalisti dal porre interrogativi sull’operato del governo e dei suoi rappresentanti. La polizia e l’esercito sovente impongono la volontà governativa attraverso varie forme di violenze, dalle intimidazioni e minacce a pestaggi, arresti arbitrari e purtroppo omicidi. Ogni persona, anche solo sospetta di volersi opporre al regime, è in pericolo. Lo scopo è palese: creare un clima politico e sociale di terrore, per impedire la formazione e la potenziale diffusione di qualsiasi forma di opposizione al regime. Il governo egiziano, quindi ritiene necessario utilizzare le forze armate come principale mezzo per il mantenimento del potere. Al centro della strategia politica di Al-Sisi vi è il rafforzamento delle strutture militari e della polizia così da creare un sistema clientelare e violento che ha definitivamente contribuito a consolidare il potere presidenziale. La polizia all’interno dell’apparato di potere egiziano ha un ruolo predominante, essendo lo strumento privilegiato – e perciò tutelato – con il quale il presidente impone le sue politiche alla popolazione e sopprime qualsiasi opposizione alla sua azione di governo.  La polizia gode di una quasi totale liberà nell’esercitare le sue funzioni, un’immunità di fondo che gli garantisce ampissimi margini di manovra per le operazioni che esegue, per sopprimere e disincentivare qualsiasi forma di contestazione al regime. (https://www.internazionale.it/notizie/blandine-lavignon/2020/04/22/egitto-ascesa-polizia). Lo strapotere che la polizia detiene all’interno della società si evince dalle numerose nomine dei suoi generali ai vertici dell’alta amministrazione egiziana, rendendo evidente come le violenze e le atrocità commesse da questa siano riconducibili direttamente ed inequivocabilmente alla volontà presidenziale. Anche l’esercito gode di ampi poteri discrezionali nella scelta del proprio modus operandi che gli garantisce un’importante e diffusa pressione sulla popolazione civile. Negli anni della sua presidenza, Al-Sisi ha posto al vertice dei ministeri, o in altre ruoli chiave, esponenti delle forze armate le quali hanno la funzione di fungere da contrappeso, agli occhi del presidente, allo strapotere della polizia. Di fatto questi due centri di potere devono essere bilanciati essendo potenzialmente in competizione fra loro. Proprio per rispettare questo bilanciamento di poteri dunque, il presidente elargisce favori e garanzie di immunità ad entrambi a discapito dei diritti politici della popolazione d’Egitto, che non può far altro che subirne le gravi e continue violenze. Nello specifico si pensi che il diritto di riunione e di libertà di espressione è profondamente limitato e la polizia fa rispettare queste limitazioni perpetrando arresti arbitrari e sottoponendo i prigionieri a tortura. Le autorità accusano gli oppositori politici di terrorismo, sottoponendoli a processi iniqui e arbitrari che si concludono spesso con la condanna alla detenzione in carceri mal tenuti e in cui vigono regole medievali. Il clima è ancor più esasperato da continui interventi presidenziali volti a modificare le discipline che regolano la magistratura ed i partiti politici. Dall’agosto del 2018 infatti, il governo può sciogliere arbitrariamente partiti indipendenti, impendendo così la costruzione di qualsiasi forma di opposizione legale al regime. Inoltre, di altrettanta gravità, è l’allargamento della giurisdizione dei tribunali militari divenuti – insieme ai neo-tribunali straordinari – il vero fulcro del potere giudiziario in Egitto. Detti tribunali sono caratterizzati da procedimenti sommari e gli esiti dei processi sono fortemente influenzati da pressioni governative che consentono di ammettere come valide le testimonianze rese sotto tortura e/o altra forma di pressione psicologica. Il quadro è ancor più drammatico con riferimento all’individuazione di potenziali oppositori politici: in questo caso, polizia ed esercito non sono sottoposte ad alcun tipo di limite o controllo in fase di identificazione di questi soggetti. Al contrario, il potere giudiziario asseconda questa assenza di disciplina chiara quando si tratta di individuare gli oppositori.  Ciò che stupisce dell’attuale situazione è che vi è stato un notevole indebolimento delle garanzie afferenti i diritti politici in Egitto. Seppur vero che nemmeno la presidenza di Mubarak si distinguesse particolarmente per la tutela e la salvaguardia dei diritti civili e politici in Egitto impossibile non notare come la degenerazione sia sempre più rapida. Si pensi in effetti che i principali agitatori della Rivoluzione egiziana del 2011, quella che portò alle dimissioni di Mubarak, furono i lavoratori, i quali,  stanchi delle pressioni dei capi sindacali, quasi tutti filo-governativi,  occuparono le piazze delle principali città egiziane (https://www.internazionale.it/notizie/blandine-lavignon/2020/04/22/egitto-ascesa-polizia ); ciò oggi sarebbe impensabile sia per un fondamentale disinteresse della classe politica rispetto alle istanze della popolazione e sia perché la polizia e i vari apparati governativi rendono impossibile qualsiasi forma di manifestazione del dissenso. L’attuale governo teme ogni tipo di rivendicazione di quelle forze che hanno permesso la fine del trentennale potere di Mubarak, ogni egiziano in questo senso è un potenziale oppositore.  A ben vedere non vi sono luoghi della democrazia che non siano stati compressi o del tutto eliminati da parte del governo tramite l’azione repressiva della polizia. Sono considerati “nemici della democrazia” tutti coloro che pongono domande o direttamente contestano l’operato del governo, come le ONG (https://espresso.repubblica.it/internazionale/2017/01/16/news/human-rights-watch-in-egitto-con-al-sisi-la-societa-civile-e-a-rischio-estinzione-1.293464 ) e i giornali indipendenti che, ad oggi, non esistono più; in tal senso è emblematica la vicenda dei giornalisti della redazione del giornale Mada Masr, (https://www.internazionale.it/bloc-notes/catherine-cornet/2019/11/26/egitto-raid-mada-masr ) che era l’unico giornale egiziano con cui si potevano reperire informazioni contro il governo, i quali sono stati in gran parte picchiati e arrestati. La questione sulla libertà di stampa appare ancor più preoccupante anche se si considera che ad oggi non vi sono giornali egiziani degni di questo nome dal momento che quelli rimasti intenti solo a fungere da megafono del governo. In Egitto infatti risulta difficilissimo svolgere la professione del giornalista, a meno che non si voglia

Leggi Tutto »

KHALID ABDEL-HADI: LA VOCE LGBTQIA + DEL MEDIO ORIENTE

Khalid Abdel-Hadi è un attivista giordano per i diritti LGBTQIA+ che ha fondato nel 2007 la prima rivista queer del mondo arabo My Kali Magazine, di cui è attualmente caporedattore e curatore creativo. GIORDANIA EFFETTIVAMENTE APERTA VERSO LA COMUNITA’ LGBTQIA+? La Giordania è uno dei pochi Paesi del Medio Oriente in cui l’omosessualità è legale grazie all’abrogazione all’interno del nuovo codice penale del 1951 del reato di sodomia – presente invece nel precedente codice, promulgato nel 1936. Nonostante questo piccolo spiraglio di luce però, in Giordania non esiste ad oggi una legge che protegga i membri della comunità LGBTQIA+ da episodi di discriminazione e violenza. Come denunciato da Human Rights Watch, gli episodi di violenza e molestie, soprattutto online, ai danni di molti attivisti queer giordani da parte delle autorità sono all’ordine del giorno. Tra le più diffuse, vengono riportate: estorsioni, minacce, divulgazione di informazioni ottenute illegalmente fino ad arrivare alla chiusura di due organizzazioni che si occupano di diritti LGBTQIA+ e la conseguente detenzione di due attivisti nonché il congelamento dei loro conti bancari. Uno di loro è stato perfino costretto a lasciare la propria casa perché la polizia ha rivelato il suo orientamento sessuale ai genitori. Secondo gli esperti internazionali, la sempre più crescente escalation di violenze nei confronti della comunità queer giordana, sembrerebbe celare un preciso piano del governo: eliminare ogni discussione riguardo l’identità di genere. In questo contesto, dunque, le persone LGBTQIA+ della Giordania hanno solo due soluzioni: la repressione del proprio essere o la fuga dalla Giordania. KHALID ABDEL-HADI: TRA OUTING E LOTTA Khalid Abdel-Hadi è stato vittima di discriminazione a causa del suo orientamento sessuale sin dagli albori del suo attivismo nel 2007. Durante i lavori che hanno poi portato alla pubblicazione della rivista “My Kali” infatti, una fonte anonima ha inviato ai media giordani una copia della prima pagina della rivista contenente una foto, che non era destinata alla pubblicazione, in cui Khalid Abdel-Hadi appariva in abiti molto succinti. La pubblicazione di quella foto ed il conseguente outing forzato, fecero temere Khalid per la sua vita. Erano già iniziate a circolare infatti notizie di impiccagioni, arresti arbitrari, torture e phishing online ai danni di coloro che venivano anche solo sospettate di essere omosessuali in Paesi vicini quali l’Iran, l’Iraq, l’Egitto, la Siria. Seguendo l’onda del sensazionalismo e della disinformazione, le varie testate giornalistiche giordane iniziarono a sostenere l’esistenza di un complotto per “promuovere un’agenda LGBTQIA+ nel Paese” e non di rado apparivano interviste di persone che si professavano omosessuali e che dichiaravano che questo era uno stile di vita perverso, chiedendo di essere guariti. Dato questo clima di crescente odio ed ignoranza nei confronti della comunità LGBTQIA+, alcuni amici di Khalid Abdel-Hadi – con i quali aveva ideato il progetto di “My Kali” – tentarono di dissuaderlo nel continuare a lavorare al primo numero della rivista. Ma Khalid non ha alcuna intenzione di essere messo a tacere e, tra mille difficoltà, sono più di 10 anni che cura e gestisce la rivista “My Kali”, ancora oggi unico spazio sicuro per la comunità LGBTQIA+ del Medio Oriente. Grazie al suo impegno e alla sua dedizione, Khalid Abdel-Hadi ha realizzato e/o partecipato a diversi progetti miranti a decostruire gli stereotipi diffusi nel modo mediorientale sulla comunità LGBTQIA+. Proprio per il suo incessante attivismo, nel 2017 la testata giornalistica The Guardian ha inserito il suo nome nella lista degli eroi LGBTQIA+. In particolare, due sono i progetti che l’hanno reso maggiormente noto a livello internazionale: (i) l’essere stato uno degli autori di “This Arab is Queer. An Anthology by LGBTQ+ Arab Writers”; (ii) l’essere stato uno dei curatori della mostra “Habibi, les révolutions de l’amour”, che si è svolta presso l’Institute du Monde Arabe di Parigi. In occasione del mese del Pride Large Movements APS desidera celebrare il coraggio di Khalid Abdel-Hadi che si batte per l’autodeterminazione ed i diritti delle persone LGBTQIA+ in un contesto socio-culturale estremamente ostile. Contesto che, sotto alcuni punti di vista, è ancora più complesso rispetto ai Paesi africani che abbiamo raccontato finora, complice anche il ruolo maggiormente centrale che la religione ha con riferimento al governo dei Paesi mediorientali. Ci auguriamo dunque che le istanze della comunità queer vengano ascoltate ed accolte dal governo giordano – sull’onda di quell’apertura verso l’Occidente che ha portato all’abrogazione formale del reato di sodomia nel 1951 – nella speranza che questo Paese possa rappresentare un esempio da seguire per gli altri. Se ti è piaciuto l’articolo, CondividiCi!

Leggi Tutto »

Nadia Murad per la dignità delle vittime della tratta di esseri umani

Nadia Murad Basee Taha è una donna Yazida Irachena conosciuta per essere sopravvissuta alla prigionia ed allo stupro sistematico da parte dei militanti dell’Isis, da agosto 2014 a novembre dello stesso anno, quando è riuscita a fuggire. Nel 2015 ha portato all’attenzione delle Nazioni Unite il tema della schiavitù sessuale e delle altre atrocità praticate dall’Isis nei confronti delle minoranze religiose diverse dall’Islam, raccontando di aver assistito ad un vero e proprio sterminio, e chiedendo di portare alla Corte Internazionale questo caso come un caso di genocidio. Nel 2016 Nadia Murad ha deciso di intraprendere un’azione legale contro i comandanti dell’Isis. Nello stesso anno diventa Ambasciatrice Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani. Nel 2018 vince il premio Nobel per la Pace. La persecuzione degli Yazidi da parte dello Stato Islamico Nadia Murad è nata e cresciuta in una famiglia di Yazidi nel villaggio di Kocho, nel nord dell’Iraq, dove viveva con la madre, i suoi 8 fratelli e le sue 2 sorelle, e sognava di diventare un’insegnante. Nel suo libro, L’ultima ragazza, Nadia racconta che lo yazidismo è una delle più antiche religioni monoteistiche diffuse oralmente da sacerdoti, che tramandano le loro tradizioni e storie con questo metodo. È una religione preislamica che, nonostante abbia alcuni punti di congiunzione con le altre religioni mediorientali, si può affermare essere unica nel suo genere e spiegarne le caratteristiche e le peculiarità può risultare difficile anche per gli stessi sacerdoti che ne sono i massimi rappresentanti. Nell’agosto del 2014 l’Isis riuscì a conquistare il Sinjar senza particolari impedimenti, incontrando solo la temporanea resistenza degli yazidi stessi, che cercarono di difendere i loro villaggi con le armi e le poche munizioni che avevano a disposizione. L’opera di occupazione fu resa ancora più semplice dal fatto che gli arabi sunniti delle zone vicine non si erano ribellati, ma avevano anzi deciso di unirsi alle milizie dell’Isis, collaborando a bloccare la fuga degli yazidi. Alla caduta dei villaggi come Kocho, contribuì anche il ritiro delle truppe peshmerga – combattenti curdi del Kurdistan attivi nell’Iraq settentrionale, che avevano promesso di proteggere quelle zone dai militanti. Più tardi, questa decisione venne giustificata dal governo curdo: poiché l’esercito non sarebbe riuscito a proteggere quella zona, si era deciso di dispiegare i soldati in altre aree in cui vi erano più possibilità di vittoria. Il 15 agosto del 2014 i militanti dell’Isis radunarono l’intero villaggio di Kocho in una scuola e separarono uomini, donne e bambini. Tuttavia, lo scopo dell’Isis non era solamente quello di uccidere tutti gli Yazidi, indipendentemente dal loro genere, bensì il gruppo terroristico mirava a distruggerne integralmente la cultura. Per questo motivo quindi, le donne vennero rapite e ridotte in schiavitù. Furono torturate mediante lo stupro così da fare in modo che le stesse non sarebbero più state in grado di vivere una vita normale da quel momento in avanti. Nadia Murad, durante un suo discorso alle Nazioni Unite, raccontò di aver visto con i suoi occhi l’uccisione di tutti gli uomini, sei dei quali erano suoi fratelli. Le donne ed i bambini vennero deportati in un’altra regione, subendo ogni tipo di umiliazione durante il viaggio in autobus. Nadia e le altre arrivarono a Mosul, dove si trovavano molte altre ragazze yazide, considerate infedeli dallo stato islamico. Secondo l’interpretazione jihadista del Corano – seguita alla lettera dai militanti – violentare una schiava non era considerato un peccato. Sin dal momento in cui vennero fatte salire sugli autobus per raggiungere Mosul, Nadia e le altre donne divennero quindi vittime di tratta e schiave sessuali. Nadia venne condotta di fronte ad un tribunale jihadista, preposto a stabilire quale militante fosse il proprietario esclusivo di ciascuna ragazza yazida. La procedura formale era sempre la stessa: un giudice avrebbe attestato la “genuina” conversione all’Islam delle ragazze ed ufficializzato quindi la loro unione con il proprio carnefice. Un “matrimonio” fondato sullo stupro da parte dei militanti. Una vera e propria arma usata per annientare la dignità delle donne Yazide. “A un certo punto non resta altro che gli stupri. Diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio. Smetti di pensare alla fuga o a rivedere la tua famiglia. Il passato diventa un ricordo lontano, come un sogno. Il tuo corpo non ti appartiene e non hai le energie per parlare, per ribellarti, per pensare al mondo esterno. Ci sono solo gli stupri e l’insensibilità scaturita dall’accettazione che questa è la tua vita, adesso.” Nel suo libro, Nadia usa queste parole durissime per descrivere la sua quotidianità dopo essere stata ceduta al suo secondo proprietario, poco prima di riuscire a fuggire dal militante che avrebbe dovuto trasferirla in Siria. La fuga di Nadia Murad dallo stato islamico La fuga di Nadia fu resa possibile grazie ad un errore del suo carnefice: il militante che la teneva prigioniera l’aveva infatti lasciata da sola in casa senza chiudere a chiave la porta, credendola forse troppo debole, stanca, disperata e debilitata per tentare di fuggire. Nadia, dopo aver camminato a lungo nel buio di Mosul, decise di chiedere aiuto ed asilo bussando alla porta di una casa nella speranza che non appartenesse a simpatizzanti dello stato islamico. Nadia ebbe la fortuna di imbattersi in una famiglia sunnita che non aveva avuto i mezzi per lasciare Mosul dopo l’arrivo di Daesh, e che accettò di aiutarla. Le procurarono un documento falso, ed uno degli uomini della famiglia la accompagnò in taxi fino a Kirkuk, poi a Sulaymaniyah, ed infine ad Erbil, dove Nadia poté ricongiungersi con parte della sua famiglia, con la quale raggiunse Zakho, ed infine la Germania. Nadia Murad oggi Dopo il suo primo viaggio a Ginevra, dove tenne il suo primo discorso alle Nazioni Unite, Nadia Murad ha raccontato la sua storia molte altre volte, coinvolgendo persone di ogni provenienza professionale, come giornalisti, diplomatici e chiunque abbia dimostrato interesse nel disastro che l’Isis ha provocato in Iraq.

Leggi Tutto »

Loujain al-Hathloul

Loujain al-Hathloul è un’attivista saudita per i diritti delle donne. La sua forza di volontà e la sua resistenza l’hanno portata a fare una differenza significativa nel suo paese, ma tutto si può affermare tranne che questo sia stato per lei e per le sue compagne un viaggio semplice. Loujain è stata una delle leader del movimento Women2drive, nato negli anni ‘90 con l’obiettivo di ottenere il diritto di guidare le auto da parte delle donne. Negli ultimi 7 anni la vita di Loujain è stata scandita da periodi più o meno lunghi di prigionia. In possesso di una patente ottenuta negli Emirati Arabi Uniti, nel 2013 si era filmata mentre tornava a casa guidando, accompagnata dal marito, ma fu il video dell’anno dopo a fare scalpore e che divenne virale su You Tube, perché quella volta guidò da Abu Dhabi fino al confine con l’Arabia Saudita. Nel 2014 il suo caso finì dinanzi ad un tribunale militare in quanto accusata di aver compiuto un gesto di sfida nei confronti del divieto di guida per le donne in Arabia Saudita, unico Paese al mondo che ancora manteneva viva questa legge. Loujain venne arrestata il 1 Dicembre 2014, e insieme a lei anche la giornalista Maysaa al-Amoudi, che decise di guidare anche lei verso il confine per sostenere la sua compagna. Loujain restò reclusa per un totale di circa 70 giorni. Nel 2015, quando la monarchia saudita concesse per la prima volta il diritto di voto alle donne, Loujain decise di candidarsi alle elezioni locali. Anche se il suo nome non venne mai incluso nelle liste, la forte personalità e determinazione di Loujain venne riconosciuta, e venne inserita al terzo posto della classifica delle 100 donne arabe più potenti al mondo sul fronte culturale e sociale. Il 4 giugno 2017 Loujain venne arrestata per la seconda volta in Arabia Saudita. La ragione non fu nota, e le fu impedito di mettersi in contatto con i suoi cari. La lotta di Loujain e le sue compagne, nonostante tutte le difficoltà affrontate, ha portato il principe ereditario Mohammed bin Salman a consentire alle donne di guidare, e dal giugno del 2018 le donne poterono finalmente ottenere la patente di guida. Appena prima di questo successo politico e umanitario, nel maggio del 2018 Loujain venne nuovamente arrestata con l’accusa di terrorismo e di aver cospirato contro l’Arabia Saudita insieme a Paesi “nemici”. Il suo processe venne spostato infatti in un tribunale speciale che si occupa di casi di terrorismo, quando Loujain altro non era che un’attivista pacifica. Soltanto tre mesi dopo l’arresto venne trasferita in un carcere nella sua città natale, e fu in grado di incontrare la sua famiglia. Raccontò a loro ciò che era accaduto durante quelle settimane di carcere: fu costretta a vivere una reclusione disumanizzante, con sedute di elettroshock, frustate e abusi sessuali. Per opporsi e denunciare le violenze subite, nell’ottobre del 2020 cominciò uno sciopero della fame, ma dopo due settimane le guardie carcerarie iniziarono a privarla del sonno svegliandola ogni due ore, e dopo diverse settimane estenuanti Loujain fu costretta a interrompere a riprendere a mangiare. Il 28 dicembre venne condannata a 5 anni e 8 mesi di carcere. Il 31 luglio 2020, Loujain ha amaramente festeggiato il suo 31esimo compleanno in carcere, ed è stata rilasciata solamente a febbraio 2021, con il divieto di lasciare l’Arabia Saudita per cinque anni. Il Global Gender Gap Report del 2020 del World Economic Forum, posiziona l’Arabia Saudita al 146esimo posto su 153 Paesi: quindi lo classifica come uno degli Stati peggiori in cui una donna possa vivere ad oggi, costretta ad avere un uomo come tutore che approvi la grande maggioranza delle sue azioni quotidiane.

Leggi Tutto »