KHALID ABDEL-HADI: LA VOCE LGBTQIA + DEL MEDIO ORIENTE

Khalid Abdel-Hadi è un attivista giordano per i diritti LGBTQIA+ che ha fondato nel 2007 la prima rivista queer del mondo arabo My Kali Magazine, di cui è attualmente caporedattore e curatore creativo.

GIORDANIA EFFETTIVAMENTE APERTA VERSO LA COMUNITA’ LGBTQIA+?

La Giordania è uno dei pochi Paesi del Medio Oriente in cui l’omosessualità è legale grazie all’abrogazione all’interno del nuovo codice penale del 1951 del reato di sodomia – presente invece nel precedente codice, promulgato nel 1936.

Nonostante questo piccolo spiraglio di luce però, in Giordania non esiste ad oggi una legge che protegga i membri della comunità LGBTQIA+ da episodi di discriminazione e violenza. Come denunciato da Human Rights Watch, gli episodi di violenza e molestie, soprattutto online, ai danni di molti attivisti queer giordani da parte delle autorità sono all’ordine del giorno.

Tra le più diffuse, vengono riportate: estorsioni, minacce, divulgazione di informazioni ottenute illegalmente fino ad arrivare alla chiusura di due organizzazioni che si occupano di diritti LGBTQIA+ e la conseguente detenzione di due attivisti nonché il congelamento dei loro conti bancari. Uno di loro è stato perfino costretto a lasciare la propria casa perché la polizia ha rivelato il suo orientamento sessuale ai genitori.

Secondo gli esperti internazionali, la sempre più crescente escalation di violenze nei confronti della comunità queer giordana, sembrerebbe celare un preciso piano del governo: eliminare ogni discussione riguardo l’identità di genere.

In questo contesto, dunque, le persone LGBTQIA+ della Giordania hanno solo due soluzioni: la repressione del proprio essere o la fuga dalla Giordania.

KHALID ABDEL-HADI: TRA OUTING E LOTTA

Khalid Abdel-Hadi è stato vittima di discriminazione a causa del suo orientamento sessuale sin dagli albori del suo attivismo nel 2007.

Durante i lavori che hanno poi portato alla pubblicazione della rivista “My Kali” infatti, una fonte anonima ha inviato ai media giordani una copia della prima pagina della rivista contenente una foto, che non era destinata alla pubblicazione, in cui Khalid Abdel-Hadi appariva in abiti molto succinti.

La pubblicazione di quella foto ed il conseguente outing forzato, fecero temere Khalid per la sua vita. Erano già iniziate a circolare infatti notizie di impiccagioni, arresti arbitrari, torture e phishing online ai danni di coloro che venivano anche solo sospettate di essere omosessuali in Paesi vicini quali l’Iran, l’Iraq, l’Egitto, la Siria.

Seguendo l’onda del sensazionalismo e della disinformazione, le varie testate giornalistiche giordane iniziarono a sostenere l’esistenza di un complotto per “promuovere un’agenda LGBTQIA+ nel Paese” e non di rado apparivano interviste di persone che si professavano omosessuali e che dichiaravano che questo era uno stile di vita perverso, chiedendo di essere guariti.

Dato questo clima di crescente odio ed ignoranza nei confronti della comunità LGBTQIA+, alcuni amici di Khalid Abdel-Hadi – con i quali aveva ideato il progetto di “My Kali” – tentarono di dissuaderlo nel continuare a lavorare al primo numero della rivista.

Ma Khalid non ha alcuna intenzione di essere messo a tacere e, tra mille difficoltà, sono più di 10 anni che cura e gestisce la rivista “My Kali”, ancora oggi unico spazio sicuro per la comunità LGBTQIA+ del Medio Oriente.

Grazie al suo impegno e alla sua dedizione, Khalid Abdel-Hadi ha realizzato e/o partecipato a diversi progetti miranti a decostruire gli stereotipi diffusi nel modo mediorientale sulla comunità LGBTQIA+. Proprio per il suo incessante attivismo, nel 2017 la testata giornalistica The Guardian ha inserito il suo nome nella lista degli eroi LGBTQIA+.

In particolare, due sono i progetti che l’hanno reso maggiormente noto a livello internazionale: (i) l’essere stato uno degli autori di “This Arab is Queer. An Anthology by LGBTQ+ Arab Writers”; (ii) l’essere stato uno dei curatori della mostra “Habibi, les révolutions de l’amour”, che si è svolta presso l’Institute du Monde Arabe di Parigi.

In occasione del mese del Pride Large Movements APS desidera celebrare il coraggio di Khalid Abdel-Hadi che si batte per l’autodeterminazione ed i diritti delle persone LGBTQIA+ in un contesto socio-culturale estremamente ostile.

Contesto che, sotto alcuni punti di vista, è ancora più complesso rispetto ai Paesi africani che abbiamo raccontato finora, complice anche il ruolo maggiormente centrale che la religione ha con riferimento al governo dei Paesi mediorientali.

Ci auguriamo dunque che le istanze della comunità queer vengano ascoltate ed accolte dal governo giordano – sull’onda di quell’apertura verso l’Occidente che ha portato all’abrogazione formale del reato di sodomia nel 1951 – nella speranza che questo Paese possa rappresentare un esempio da seguire per gli altri.

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Donna, vita, libertà: la lotta delle donne iraniane è la lotta di tutte

Risale allo scorso 16 settembre l’omicidio di Mahsa Amini, 22 anni, a causa delle percosse subite dopo un fermo da parte della Polizia Morale iraniana (in inglese Islamic Guidance Patrol). La ragazza curda, a Teheran come turista con la famiglia, era stata fermata il 13 settembre perché, a detta degli agenti, non indossava correttamente il velo. È morta tre giorni dopo. Da allora, l’Iran è scosso da proteste guidate dalla società civile, e centinaia sono state le manifestazioni attraverso il globo e le dimostrazioni di sostegno della comunità internazionale alla popolazione e alle donne iraniane. Large Movements è stata a quella di Roma, il 1° ottobre, e le foto qui riportate dimostrano la rabbia e forza che hanno guidato la marcia attraverso la capitale. A quasi due mesi dalla morte di Mahsa, la popolazione iraniana è ancora in tumulto e la repressione delle proteste non accenna ad arrestarsi. È complesso ritracciare l’ordine degli eventi accaduti nelle scorse settimane. Varie notizie sconcertanti si susseguite, tra cui la temporanea scomparsa dell’atleta Elnaz Rekabi, apparsa a Seoul senza hijab durante una gara di arrampicata – a quanto pare, per errore – e rivista a Teheran qualche giorno dopo aver interrotto ogni contatto con famiglia e amici. Questo articolo offre un riassunto della vicenda per ribadirne la rilevanza, che oltrepassa il momentum e i confini geografici, ed esprime il pieno sostenimento di Large Movements alle donne iraniane nella loro (e nostra) lotta per l’auto-determinazione. Breve storia del velo in Iran In linea con i principi della sharia già presenti in altri paesi, il governo iraniano ha reso l’hijab obbligatorio dopo la Rivoluzione Islamica del 1979. Dopo una prima fase di dichiarazioni dell’Ayatollah Khomeini ma nessuna misura a formalizzare l’imposizione, il Parlamento iraniano istituzionalizzò le raccomandazioni con un decreto emesso nel 1983. Così come altre Repubbliche Islamiche, l’Iran basa la propria posizione sul velo sui testi sacri musulmani, tra cui il Corano e gli Hadith, nonostante sia oggetto di dibattito se queste scritture prescrivano realmente, e se sì quale, un codice di abbigliamento per le donne. Questo tipo di editto, insieme a tutti gli altri che prescrivono un comportamento “appropriato” secondo la legge islamica, viene fatto applicare dalla cosiddetta “polizia morale” Gasht-e Ershad. Il corpo di polizia è nato nel 2005 formalizzando le strutture paramilitari religiose concepite in principio per combattere nella guerra in Iran. Ad oggi, gli agenti della polizia morale pattugliano le strade e solitamente rilasciano ammonizioni verbali in presenza di irregolarità – di fronte a un velo che non copre tutti i capelli, trucco troppo vistoso o gonne troppo corte. Proprio il 15 agosto scorso, il presidente iraniano Ebrahim Raisi aveva imposto nuove sanzioni più stringenti e dure punizioni per le donne che non rispettano il codice di condotta islamico, di fatto allargando ulteriormente i poteri della polizia morale. Tuttavia, spesso le donne fermate vengono prese in custodia e detenute, per poi in seguito essere inviate in “centri di ri-educazione”, dove seguono ore di lezioni sulla morale islamica. Il rilascio avviene poi in presenza di un parente stretto di sesso maschile, dopo aver firmato una dichiarazione secondo la quale, in futuro, l’offesa non sarà ripetuta. Mahsa Amini: l’ultima goccia per la società civile iraniana Apparentemente, questo è quello che sarebbe dovuto succedere anche a Mahsa: un centro di “correzione”, e poi il rilascio. Eppure non sono rare le denunce di abuso da parte degli agenti in seguito al fermo, di cui Mahsa è stata un vittima. Il 13 settembre, Mahsa Amini viene sequestrata per “uso improprio del velo”. È costretta ad entrare in un furgone della polizia morale dove viene percossa dagli agenti stessi, secondo alcuni testimoni oculari. Qualche ora dopo, alla sua famiglia viene comunicato che Mahsa è stata trasportata in ospedale in seguito ad un attacco cardiaco. Dopo tre giorni in coma, la ragazza di 22 anni è deceduta. La famiglia si è opposta da subito alla versione ufficiale della vicenda, spiegando che Mahsa non aveva alcun problema di salute che potesse spiegare un attacco di cuore improvviso. Il suo decesso ha fatto da scintilla accanto a una miccia, portando la società civile già stremata da un regime oppressivo in cui spesso attiviste subiscono ripercussioni per il proprio ruolo critico nei confronti di esso, a irrompervi contro, scatenando proteste che si sono sparse per tutto il Paese. A questo si è aggiunta l’arresto della giornalista Niloofar Hamedi dopo aver postato una foto dei genitori di Mahsa abbracciati in ospedale, dopo aver appreso del decesso della figlia. Le proteste hanno invaso le strade di Teheran e del resto del Paese qualche giorno dopo, specialmente nel Kurdistan iraniano, regione da cui proveniva Mahsa. Tantissime donne hanno manifestato il proprio dissenso togliendosi il velo o bruciandolo. Uno dei gesti più profondi e simbolici di queste proteste è stato il pubblico taglio di capelli da parte delle partecipanti, in ricordo di Mahsa e contro la Guida Suprema del Paese, Ali Khamenei. La risposta del governo iraniano è stata di reprimere violentemente i manifestanti: l’ONG Iran Human Rights, che ha seguito l’andamento degli scontri tra civili e forze dell’ordine, riporta che almeno 326 persone, di cui 43 minori, sono state uccise durante le insurrezioni. Due entità che hanno partecipato alle proteste sono particolarmente rilevanti: i corpi studenteschi, sia universitari che liceali, e il movimento delle donne del Kurdistan (KJK), mostrando l’intersezione indissolubile tra movimenti femministi, educazione e nuove generazioni come parti fondamentali e imprescindibili del cambiamento sociale contemporaneo. Al grido di Jin Jiyan Azadi, “Donna, Vita, Libertà” in kurmanci, un dialetto curdo, studenti, studentesse e donne curde hanno marciato per le strade del Paese abnegando assieme la violenta oppressione dei corpi e della libertà da parte del regime islamista iraniano. Nelle università, sono state compiute azioni indipendenti per eliminare il divario di genere tra gli studenti, ed è tutt’ora chiesta a gran voce la liberazione delle ragazze e dei ragazzi arrestati durante le contestazioni. Tra le loro file, si contano perdite drammatiche: ricordiamo tra queste Nika Shakarami, 17 anni, scomparsa dopo delle manifestazioni e

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Sunniti e sciiti: scontro settario o conflitto per il controllo del potere?

L’inasprirsi negli ultimi decenni dei conflitti nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa ha acceso una forte attenzione verso l’Islam. Questi disordini vengono spesso erroneamente descritti solo in termini settari, adducendo la divisione tra le due correnti principali dell’Islam – sunniti e sciiti – come unica motivazione alla base del conflitto. Sebbene la convivenza tra le due correnti religiose non sia sempre stata pacifica, i motivi scatenanti le guerre sono alquanto complessi e non legati solo all’antagonismo reciproco. L’Islam nel mondo Sono molti gli errori che si commettono quando si parla di Islam, il primo fra tutti è collegare la religione all’etnia araba. Diversamente da quello che si tende a pensare, l’Islam è una realtà che non riguarda esclusivamente i paesi arabi o quelli del Medio Oriente e Nord Africa difatti solo una minoranza dei musulmani vive in questi territori.  Si stima che circa il 60% della popolazione musulmana mondiale vive in Asia, il 20% in Medio Oriente, 15% in Africa ed il restante tra Europa ed Americhe. Ad oggi il paese che ospita il maggior numero di musulmani è l’Indonesia, seguita da paesi come Pakistan, India e Bangladesh. Un altro interessante dato ci dice che mentre l’80% vive in paesi dove i musulmani costituiscono la maggioranza, il restante 20%, invece, vive come minoranza nel proprio paese. In questi ultimi le minoranze musulmane sono spesso vittime di persecuzioni e repressioni, come ci mostrano i casi degli Uiguri in Cina, i Rohingya in Myanmar finanche gli avvenimenti in India ed in Tailandia – dove i governi nazionali hanno adottato politiche discriminatorie nei confronti della comunità islamica.  Questi primi dati ci aiutano a capire come il mondo islamico non sia un universo monolitico, come siamo portati a pensare, ma che al contrario cela al suo interno numerose divisioni e diversità, alcune anche molto difficili da interpretare. La più grande divisione interna all’Islam, ma non l’unica, è quella tra sunniti e sciiti, una divisione che risale addirittura a circa 1400 anni fa.  Sunniti e sciiti: una questione di successione Per comprendere l’esatto momento che diede inizio alla più grande divisione nel mondo islamico, bisogna tornare al tempo della creazione della religione stessa, al tempo del profeta. La comunità islamica iniziò a strutturarsi al momento della grande emigrazione delle tribù dell’Arabia da Mecca a Medina sotto la guida del profeta Muhammad. Alla morte del profeta nel 632 d.C. quello che venne a crearsi all’interno della comunità fu un problema di successione e di organizzazione politica. In questo caso, la sfera religiosa ricopriva un ruolo marginale, poiché la questione della successione alla guida della ummah (comunità islamica) era di natura politica e tribale. Quest’ultima suscitò due risposte alternative: chi riteneva che il successore dovesse essere scelto all’interno della stessa tribù del profeta e chi designò come unico e legittimo successore Ali, cugino e genero di Muhammad – il nome “sciiti2 deriva proprio dall’arabo shi’at ‘Ali “la fazione di Ali”. Ad avere la meglio infine furono i primi e venne designato califfo – khalifa “vicario di Dio” – Abu Bakr, il primo di quelli che verranno chiamati dai sunniti al-rashidun cioè i “califfi ben diretti”. A lui seguiranno Umar, Uthman e solo in ultima istanza Ali, che guidò la comunità fino al 661 d.C. ponendo fine al trentennio di califfato. Secondo un racconto profetico che recita “Il califfato durerà 30 anni poi verrà il regno”, solo il periodo dei Califfi ben diretti può essere chiamato legittimamente Califfato per via della maggiore aura religiosa di cui godeva, nonostante ciò, l’appellativo Califfo continuò ad essere usato dalle dinastie che seguirono.  Al fine di ricostruire la spaccatura interna all’Islam, la battaglia di Karbala segnò definitivamente e in maniera irreversibile la lacerazione tra sunniti e sciiti. Intorno al 680 Hussein, figlio di Ali, guidò numerosi dei suoi seguaci dalla Mecca a Karbala (attuale Iraq) contro l’esercito del corrotto Califfo Omayyade di Damasco, uno scontro che assumerà per gli sciiti un’aura particolare, quasi di scontro tra bene e male. A Karbala Hussein venne ucciso e decapitato, un momento che viene ancora ricordato dai seguaci di Ali nel giorno di Ashura.  La guida politica e religiosa  I sunniti e il Califfato Il problema dell’organizzazione politica interna all’Islam è quindi la prima grande differenza tra sunniti e sciiti. Alla morte del profeta, dunque, la guida della comunità prese due strade distinte. Abbiamo visto come i sunniti abbiano concesso il comando politico della comunità al Califfato che venne detenuto da diverse dinastie, le quali si susseguirono nei secoli; tra le più importanti vediamo l’Omayyade, Abbaside e l’Ottomana. La fine dell’impero Ottomano nel 1922 e la creazione della Repubblica della Turchia porterà anche all’abolizione del Califfato nel 1924, una fine non definitiva perché nel 2014, l’ISIS ha riesumato il titolo di Califfo, proclamando il Califfato dell’ISIS.  In questo sistema di organizzazione sociale l’autorità politica, il Califfo, si confronta e si scontra con l’autorità religiosa, rappresentata ed esercitata dai giuristi. Sono i giuristi che con la loro autorevolezza riconosciuta dal popolo possono porre un argine all’eventuale prepotenza del potere politico dal quale sono indipendenti.  Un’altra particolarità dei sunniti è dettata dai diversi indirizzi interpretativi che sono emersi dopo la morte del profeta e che si sono stabilizzati e cristallizzati tra il VIII e XI sec. Nello specifico, ci si riferisce alle quattro scuole giuridiche che derivano da una diversa interpretazione delle fonti primarie del sunnismo. Questi quattro indirizzi si fondano sull’insegnamento di quattro personalità che hanno fondato le scuole e dalle quali prendono il nome: malikiti, hanafiti, shiafi’iti e hanbaliti; ognuna di queste scuole è ancora valida e caratterizza una particolare area geografica con alcune eccezioni come l’Egitto – che vede la presenza di tutte le scuole con la predominanza della scuola Hanafita – o la Siria – che risente sia della scuola shiafi’ta sia di quella hanafita. Imam: guida politica, spirituale e religiosa degli sciiti Gli sciiti non riconoscono il Califfato. Per loro, la guida della comunità spettava solo ad Ali e ai suoi discendenti ai quali venne attribuito il titolo di Imam. Per gli sciiti la differenza è dovuta al fatto che l’Imam raccoglie in sé l’intera autorità

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Il progetto GAP. Il caso della diga di Ilisu e i movimenti locali di opposizione.

Come premesso nel precedente articolo sul Southeastern Anatolian Project (GAP), gli effetti della costruzione di una rete di infrastrutture tanto imponente ha determinato una reazione da parte della popolazione locale e dell’opinione pubblica internazionale. Tra le varie dighe quella di Ilisu è probabilmente la più controversa data la compresenza di effetti devastanti sul piano sociale, ambientale e storico-culturale. Dunque, rispetto a quest’ultima si prenderanno in considerazione, in primo luogo, le caratteristiche e gli effetti principali della diga e in un secondo momento verranno analizzati i movimenti locali che si sono dati in opposizione ad essa.  Caratteristiche della diga di Ilisu Tra tutte le dighe del GAP quella di Ilisu è quella di più recente inaugurazione essendo entrata in funzione nel 2021. Allo stesso tempo si tratta della diga che ha comportato una maggiore attenzione sul piano mediatico. Il costo stimato del progetto è di circa 2 Miliardi di euro, ed è la terza diga più grande del GAP con 1200Mw di capacità installata e portando ad un allagamento di circa 300km2 nella valle del Tigri. Il progetto risale alla seconda metà del Novecento con l’approvazione di una prima bozza negli anni 90, ma il primo consorzio per la sua costruzione collassa già nel 2002 e viene ricostituito nel 2005 con il coinvolgimento di compagnie Tedesche, Svizzere e Austriache le quali si attivano per cercare delle garanzie sui finanziamenti presso le proprie Agenzie di Credito all’Esportazione (ACE). Negli anni seguenti la non volontà da parte del governo turco nel fornire tutte le garanzie richieste sul piano della tutela ambientale, sociale e culturale ha comportato un passo indietro da parte delle ACE coinvolte e di alcune compagnie, spingendo il governo ad intervenire con garanzie da parte di banche e compagnie nazionali e dunque assumendosi esso stesso i rischi finanziari dell’infrastruttura. Effetti sociali della Diga La realizzazione della diga di Ilisu ha provocato lo sfollamento di 200 villaggi circostanti, per un totale di circa 78mila persone con dimora fissa e 3mila nomadi. Il progetto avrebbe inoltre impattato negativamente su circa 400 siti archeologici dei quali solo una piccola parte sarebbero stati evacuati e tra di essi spicca il caso della città di Hasankeyf, antica 12mila anni. Sul piano sociale i programmi di ricollocamento delle popolazioni sfollate si sono dimostrati completamente inadeguati. Dei due miliardi di euro stanziati per la realizzazione del progetto solamente 800milioni sono stati destinati alla realizzazione di infrastrutture e alle procedure di esproprio e reinsediamento degli sfollati. L’assegnazione di nuove abitazioni è stata fatta solamente per le città di Hasankeyf e Ilisu mentre per le persone provenienti da altri villaggi è stato previsto solamente un indennizzo. Questo è stato spesso rifiutato dai cittadini che si sono opposti all’esproprio. Per gli abitanti che hanno aderito al piano di reinsediamento è stata realizzata una città ad hoc, New-Hasankeyf, ma anche essi non hanno avuto vita facile. I prezzi per le nuove abitazioni sono stati tre volte più alti di quelle precedenti, cifre che in molti non si sono potuti permettere. Ciò ha comportato due fenomeni, da un lato molte persone sono state costrette ad indebitarsi per potersi insediare nelle nuove abitazioni; in altri casi le candidature sono state escluse facendo si che alcune abitazioni rimanessero in vendita con la possibilità di acquisto da parte di persone più ricche provenienti da altre città. Sembrerebbe inoltre che l’80% delle compensazioni pagate siano state spese al di fuori della regione interessata, a dimostrazione del fatto che si è determinato un fenomeno migratorio verso altre regioni e che il reinsediamento nella stessa sia stato fallimentare. Nel comprendere questi fenomeni sociali e migratori è necessario tenere in considerazione l’elevato impatto ambientale dell’infrastruttura. Si parla di effetti come desertificazione, aumento di tempeste di sabbia, siccità, inondazioni, aumento di eventi metereologici estremi, e distruzione della biodiversità dell’area. Tutti cambiamenti che hanno reso parte del quadrante inospitale per lo sviluppo di una vita degna, a maggior ragione nei casi in cui le persone coinvolte sono contadini e allevatori, ovvero persone che dipendono dalla stabilità dell’ecosistema. Tutto ciò non riguarda solamente l’area circostante alla diga di Ilisu ma intere aree lungo tutto il tragitto del fiume Tigri.   La reazione della popolazione locale L’elevatissimo impatto sul piano locale, ma anche gli effetti che dighe del genere hanno generato nelle città e nei paesi circostanti, hanno inevitabilmente prodotto una reazione da parte delle vittime di questi processi. Nonostante risulti complesso ricostruire in maniera esaustiva le modalità con le quali la popolazione locale e internazionale si è opposta e ribellata a queste infrastrutture è comunque possibile provare ad individuare alcune pratiche e organizzazioni principali che tornano più spesso nelle fonti esaminate.   Di fianco a forme più spontanee, tra le iniziative organizzate sul piano locale spicca la Initiative to Keep Hasankeyf Alive (IKHA), una rete locale di 86 soggetti fondata nel 2006 che comprende “Attivisti; ONG locali per i diritti umani, ambientali, culturali e delle donne; associazioni di professionisti e sindacati; e le municipalità colpite”. L’obiettivo dichiarato della rete è di bloccare la diga di Ilisu e migliorare le condizioni socioeconomiche degli e delle abitanti dell’area, e tutelare il patrimonio culturale ed ambientale tramite processi democratici. Il tipo di azione intrapresa ha in primo luogo avuto bisogno di costruire un’informazione alternativa a quella del governo che tendeva a sminuire gli effetti delle infrastrutture. Dunque, ad una prima elaborazione di Report informativi sono seguite delle fasi di mobilitazione vera e propria. Di fianco ad un lavoro di controinformazione e mobilitazione fatta sul piano territoriale è interessante mettere in evidenza tre principali tipi di campagne condotte:  Le campagne condotte sul piano legale e amministrativo – In numerose occasioni i rappresentanti delle municipalità colpite dagli effetti della diga si sono fatti promotori assieme agli abitanti e a diverse ONG di azioni legali e amministrative che tentassero di mettere in luce le problematiche associate alla diga di Ilisu. Tra queste, per esempio, è interessante citare la decisione del Tribunale Amministrativo di Ankara di dimezzare la dimensione della diga in quanto la Relazione sulla valutazione d’impatto ambientale risultava essere

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Egitto: Crocevia di migrazioni

Paese di origine, transito e di destinazione dei migranti, l’Egitto è al centro dei processi migratori regionali in Nord Africa e in Medio Oriente. L’Egitto è il più popoloso Paese del mondo arabo, con una popolazione di circa 100 milioni di abitanti nel 2019 di cui la metà ha meno di 25 anni. Oltre ad essere paese di emigrazione, sia verso i Paesi arabi produttori di petrolio che verso l’Occidente, l’Egitto è uno stato di transito e un paese di destinazione per centinaia di migliaia di rifugiati e richiedenti asilo, provenienti soprattutto da Sudan e Sud-Sudan. Le continue violazioni dei diritti umani che si verificano nel Paese, però, non lo rendono un luogo sicuro per nessuno. L’emigrazione per motivi di lavoro L’emigrazione egiziana per motivi di lavoro, destinata per lo più ad altri paesi dell’area MENA, si può dividere in due grandi fasi. La prima si può inquadrare nel periodo che va dal XIX secolo alla metà del XX secolo e ha visto come protagonisti un numero limitato di lavoratori altamente qualificati, studiosi e professionisti che hanno contribuito allo sviluppo dei paesi limitrofi rimasti sotto il dominio ottomano o coloniale. Negli anni Cinquanta, infatti, l’ascesa al potere di Gamal Abdel Nasser, figura centrale per l’Egitto e la regione, anticolonialista e sostenitore del panarabismo e del c.d. socialismo arabo, ha dato una sfumatura politica al processo di emigrazione. Fino agli anni Sessanta, l’Egitto guidato da Nasser ha formato e inviato nei paesi arabi migliaia di professionisti egiziani quali parte integrante della strategia di soft power e posizionamento dello Stato. Questa mobilità “dall’alto”, rappresentava però un’eccezione rispetto alla politica migratoria restrittiva portata avanti da Nasser, sia per evitare l’allontanamento dal Paese degli oppositori politici, che per prevenire la “fuga di cervelli” non regolamentata. La seconda fase dell’emigrazione lavorativa egiziana è stata caratterizzata principalmente da flussi di manodopera poco o mediamente qualificata verso gli Stati arabi produttori di petrolio. Questa fase ha avuto inizio nei primi anni Settanta nel contesto della sconfitta dell’Egitto nella guerra arabo-israeliana del 1967 e del deterioramento delle finanze statali nella seconda metà degli anni Sessanta. In risposta alla crisi, Anwar Sadat, successore di Nasser, morto nel 1970, si impegnò in una strategia di liberalizzazione economica, nota come politica “a porte aperte”. Questa includeva l’eliminazione di ogni ostacolo all’emigrazione dei cittadini al fine di alleggerire lo stato di disoccupazione cronica e di sovrappopolazione in cui verteva il Paese. Altro importante incentivo all’emigrazione era rappresentato dalle rimesse economiche, che dagli anni Settanta fino ad inizio anni Novanta vennero considerate come fonte di reddito principale ed ancora oggi costituiscono una quota significativa del suo PIL. Con la caduta delle restrizioni, centinaia di migliaia di egiziani partirono nei paesi arabi limitrofi, approfittando della lingua comune e del bisogno di manodopera straniera dei paesi di destinazione. In termini di paesi di destinazione, la vicina Libia è stata per molti anni la destinazione principale per i migranti egiziani. Dalla metà degli anni Settanta in poi, con il deteriorarsi delle relazioni tra Egitto e Libia, la maggior parte dei lavoratori migranti egiziani si è diretta verso la regione del Golfo, approfittando delle sempre più forti relazioni dell’Egitto con l’Arabia Saudita, il Kuwait e l’Iraq. Tuttavia, il calo dei prezzi del petrolio dopo il 1979 ha contribuito alla costante diminuzione nel reclutamento egiziano nei Paesi produttori di petrolio. Allo stesso tempo, l’emigrazione regionale egiziana verso il Golfo ha subito un rallentamento a partire dagli anni Ottanta, a causa della preferenza accordata ai migranti asiatici. Oltre alle motivazioni di tipo economico, ad influenzare la migrazione di manodopera egiziana sono state anche motivazioni di tipo politico, ad esempio, l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq ha portato all’esodo dell’intera comunità egiziana dal Paese petrolifero nel 1990. Inoltre La Libia ha di fatto cessato di essere un importante Paese di destinazione dopo il rovesciamento del regime di Muammar al-Gheddafi nel 2011 e la conseguente discesa del Paese nella guerra civile. La diaspora egiziana in Occidente Seppur l’Arabia Saudita e la Giordania rimangono i paesi che ospitano il numero maggiore di migranti egiziani, milioni di persone sono emigrate anche nei paesi occidentali, soprattutto dopo la fine dell’era Nasser. In particolare, la rinascita dell’Islam politico in Egitto e nel Medio Oriente a partire dai primi anni Settanta, ha portato all’emigrazione di un gran numero di copti egiziani verso l’Occidente. I copti hanno creato comunità della diaspora, in particolare in Nord America, che hanno cercato di difendere gli interessi dei cristiani in Egitto. Dalla metà degli anni Settanta, a fronte di controlli sempre più severi sull’immigrazione in tutta Europa, gli egiziani hanno tentato di entrare in Europa attraverso il Mediterraneo, creando grandi comunità di migranti poco qualificati in tutta l’Europa meridionale. L’Italia è il terzo paese occidentale, dopo USA e Canada, per numero di egiziani ospitati e colpisce il fatto che l’Egitto è la seconda nazione di provenienza dei minori stranieri non accompagnati in Italia, dopo l’Albania, secondo il Rapporto della Comunità Egiziana in Italia del 2019. Un importante cambiamento si è verificato nel contesto della Rivoluzione egiziana del 2011, quando le organizzazioni della diaspora si sono moltiplicate e hanno tenuto proteste in tutto l’Occidente, cercando di contribuire al tentativo di democratizzazione dell’Egitto: Dopo la fine del regime di Mubarak, i Fratelli Musulmani hanno vinto le elezioni parlamentari e presidenziali del 2011/2012, ma il presidente Mohammed Morsi è stato destituito nel 2013 in seguito ad un golpe militare guidato, tra gli altri da Abel Fattah Al-Sisi, l’attuale presidente del Paese. Il cambio di guardia ha comportato un’altra ondata di emigrazione, questa volta dei membri dei Fratelli Musulmani che hanno cercato di evitare la persecuzione fuggendo in Turchia e Qatar. Violazioni dei diritti umani e ondate migratorie L’intervento militare del 2013 ha prodotto una profonda polarizzazione politica nel Paese, diviso sulla legittimità del regime di Al-Sisi, il quale oltre a modificare la costituzione per prolungare la sua permanenza al potere, si è macchiato negli anni di gravi accuse di violazioni dei diritti umani. Il caso più tristemente noto è quello di Giulio Regeni,

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Il progetto GAP. Il peso nella politica interna turca e il ruolo dell’Unione Europea

Il Southeastern Anatolian Project, meglio conosciuto come GAP (Güneydoğu Anadolu Projesi), è una rete di infrastrutture in costruzione sui fiumi Tigri ed Eufrate con la doppia funzione di produrre energia elettrica e realizzare dei sistemi di irrigazione per l’area circostante. Essendo l’argomento già stato preso in analisi su Large Movements, l’intento di questo articolo è di integrare alcuni elementi leggendo il progetto sotto tre lenti principali. Quella nazionale legata alla dimensione energetica e al ruolo che il progetto riveste nella politica interna turca. Quella internazionale provando ad indagare il ruolo dell’Unione Europea nel promuovere o limitare lo sviluppo del progetto. Ed infine quella locale vedendo da un lato il caso specifico della diga di Ilisu, dall’altro i movimenti di opposizione che si sono dati contro questi progetti. Questa terza componente verrà approfondita successivamente. Caratteristiche del progetto e stato di avanzamento Nonostante progetti relativi allo sfruttamento delle acque dei fiumi Tigri ed Eufrate abbiamo una storia lontana diversi decenni, il GAP è stato lanciato solamente nel 1989 non unicamente come piano per lo sfruttamento delle risorse dei due fiumi, ma come vero e proprio “progetto di sviluppo socio-economico integrato e multisettoriale”.Il progetto dunque, prevederebbe la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche e impianti di irrigazione (Figura 1) che dovrebbero accompagnare lo sviluppo socio-economico dell’area in un contesto di forte crescita economica e demografica. Alla messa in funzione della Diga di Ataturk nel 1993, è seguita la realizzazione di altre infrastrutture, ultima delle quali la diga di Ilisu inaugurata nel 2020, la terza più grande di tutto il progetto. La Tabella 1 riporta dati aggiornati al 2015 e ricostruisce in parte lo sato di avanzamento dei lavori. Incrociando queste informazioni con quelle fornite dal sito ufficiale si evince che almeno dieci impianti sono attualmente in funzione. A tal proposito è necessario mettere in evidenza un elemento di rilievo rispetto alla possibilità di reperire delle fonti in materia. Dopo una scrematura delle principali fonti accademiche, ufficiali e divulgative risulta importante prendere nota del fatto che i dati relativi ai costi di produzione, ai finanziamenti, alle aziende coinvolte e ad aspetti più tecnici dei progetti stessi sono solo parzialmente disponibili in relazione ad ogni singola infrastruttura e spesso sono estremamente frammentati e poco aggiornati. Se da un lato l’ipotesi della differenza linguistica è sicuramente valida come potenziale limite per il reperimento di questi dati, dall’altro è da evidenziare come dalle fonti governative non vengano fornite tutte le informazioni necessarie ad una comprensione complessiva del progetto. Preso atto di questa difficoltà, nel prossimo articolo si prenderà in esame il caso specifico della Diga di Ilisu per provare a fornire un quadro più dettagliato. Il ruolo dell’idroelettrico nel mix energetico turco Il bisogno da parte del governo turco di promuovere con tanta insistenza una rete di infrastrutture del genere trova origine in valutazioni e obiettivi non solamente di carattere energetico ed economico, ma anche di carattere geopolitico sia sul piano interno che internazionale. Il fiume Eufrate rappresenta più del 19.4% del potenziale nazionale di energia idroelettrica prodotta (433 GWh l’anno), mentre il Tigri corrisponde all’11.2%. Il GAP una volta completato dovrebbe essere in grado di sfruttare 27.419 GWh/y di questo potenziale, ovvero il 10.9% dell’elettricità annuale prodotta in Turchia nel 2014. Comparando queste informazioni con i dati del 2019 dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, la Turchia fa affidamento sull’energia idroelettrica per la produzione di circa il 30% dell’elettricità (Figura 2). La restate parte è coperta in larghissima misura da gas naturale e carbone, due risorse prevalentemente importate dall’estero e che dunque sul piano strategico garantiscono meno sicurezza e stabilità. La totale messa in funzione del GAP coprirebbe un terzo di questo 30%, a dimostrazione della centralità che riveste nello sviluppo economico e nella strategia politica della Turchia contemporanea. Rafforzare l’idroelettrico, in maniera indiretta vorrebbe dire diminuire parzialmente il peso delle importazioni di gas naturale e carbone, riducendo in questo modo la dipendenza da attori internazionali come Russia, Azerbaijan e Iran. Un elemento non da poco per una nazione che sta facendo di tutto per imporsi come attore egemone sul piano regionale. Allo stesso tempo, gli effetti sociali ed ambientali avrebbero ripercussioni soprattutto sulla popolazione locale dell’area, fatta prevalentemente di curdi, i quali vengono percepiti come una minaccia da parte del governo centrale. Così si raggiungerebbe l’ulteriore obiettivo di indebolire, senza l’utilizzo diretto di armi, un fronte di resistenza che soprattutto dallo scoppio della guerra in Siria ha avuto più volte la capacità di accendere i riflettori su casi di aggressione militare e violazioni dei diritti umani. Il non intervento dell’UE Per comprendere qual è stato il ruolo delle potenze Europee nella realizzazione del GAP è necessario applicare due lenti di lettura. Da un lato c’è l’elemento economico, dettato soprattutto dal voler incentivare una spinta alla crescita e allo sviluppo delle regioni più ad oriente. Dall’altro ci sono la dimensione ambientale e sociale. Nonostante tali progetti vengano promossi come “energia pulita” e infrastrutture sostenibili, gli effetti sul piano ambientale e sociale sono enormemente destabilizzanti. La realizzazione di una quantità così imponente di dighe sta determinando numerosi casi di inondazioni e desertificazioni che oltre ad avere degli effetti negativi sulla biodiversità dell’area, ne hanno anche sulle popolazioni che vi abitano spesso costrette a migrazioni forzate di massa. Per l’intero progetto si tratterebbe di circa 200.000 persone sfollate. Rimanendo sul ruolo che ha rivestito l’UE, il tutto va letto all’interno di un quadro che ha visto almeno fino al 2016 una forte pressione da parte turca per essere accettata in quanto membro dell’Unione, e dunque nel bisogno di rientrare all’interno di tutta una serie di parametri sia di carattere economico, che sociale e ambientale. Proprio in questa direzione, se si risale all’origine del progetto, nel 1996 si sono aperti tra UE e Amministrazione del GAP dei negoziati. Durante queste trattative l’Unione ha deciso di finanziare con 47 milioni di euro una parte del “Programma di sviluppo regionale del GAP”, sulla carta un progetto volto a “ridurre ineguaglianze, stimolare crescita economica, e tutelare la protezione del patrimonio ambientale e

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