KHALID ABDEL-HADI: LA VOCE LGBTQIA + DEL MEDIO ORIENTE

Khalid Abdel-Hadi è un attivista giordano per i diritti LGBTQIA+ che ha fondato nel 2007 la prima rivista queer del mondo arabo My Kali Magazine, di cui è attualmente caporedattore e curatore creativo.

GIORDANIA EFFETTIVAMENTE APERTA VERSO LA COMUNITA’ LGBTQIA+?

La Giordania è uno dei pochi Paesi del Medio Oriente in cui l’omosessualità è legale grazie all’abrogazione all’interno del nuovo codice penale del 1951 del reato di sodomia – presente invece nel precedente codice, promulgato nel 1936.

Nonostante questo piccolo spiraglio di luce però, in Giordania non esiste ad oggi una legge che protegga i membri della comunità LGBTQIA+ da episodi di discriminazione e violenza. Come denunciato da Human Rights Watch, gli episodi di violenza e molestie, soprattutto online, ai danni di molti attivisti queer giordani da parte delle autorità sono all’ordine del giorno.

Tra le più diffuse, vengono riportate: estorsioni, minacce, divulgazione di informazioni ottenute illegalmente fino ad arrivare alla chiusura di due organizzazioni che si occupano di diritti LGBTQIA+ e la conseguente detenzione di due attivisti nonché il congelamento dei loro conti bancari. Uno di loro è stato perfino costretto a lasciare la propria casa perché la polizia ha rivelato il suo orientamento sessuale ai genitori.

Secondo gli esperti internazionali, la sempre più crescente escalation di violenze nei confronti della comunità queer giordana, sembrerebbe celare un preciso piano del governo: eliminare ogni discussione riguardo l’identità di genere.

In questo contesto, dunque, le persone LGBTQIA+ della Giordania hanno solo due soluzioni: la repressione del proprio essere o la fuga dalla Giordania.

KHALID ABDEL-HADI: TRA OUTING E LOTTA

Khalid Abdel-Hadi è stato vittima di discriminazione a causa del suo orientamento sessuale sin dagli albori del suo attivismo nel 2007.

Durante i lavori che hanno poi portato alla pubblicazione della rivista “My Kali” infatti, una fonte anonima ha inviato ai media giordani una copia della prima pagina della rivista contenente una foto, che non era destinata alla pubblicazione, in cui Khalid Abdel-Hadi appariva in abiti molto succinti.

La pubblicazione di quella foto ed il conseguente outing forzato, fecero temere Khalid per la sua vita. Erano già iniziate a circolare infatti notizie di impiccagioni, arresti arbitrari, torture e phishing online ai danni di coloro che venivano anche solo sospettate di essere omosessuali in Paesi vicini quali l’Iran, l’Iraq, l’Egitto, la Siria.

Seguendo l’onda del sensazionalismo e della disinformazione, le varie testate giornalistiche giordane iniziarono a sostenere l’esistenza di un complotto per “promuovere un’agenda LGBTQIA+ nel Paese” e non di rado apparivano interviste di persone che si professavano omosessuali e che dichiaravano che questo era uno stile di vita perverso, chiedendo di essere guariti.

Dato questo clima di crescente odio ed ignoranza nei confronti della comunità LGBTQIA+, alcuni amici di Khalid Abdel-Hadi – con i quali aveva ideato il progetto di “My Kali” – tentarono di dissuaderlo nel continuare a lavorare al primo numero della rivista.

Ma Khalid non ha alcuna intenzione di essere messo a tacere e, tra mille difficoltà, sono più di 10 anni che cura e gestisce la rivista “My Kali”, ancora oggi unico spazio sicuro per la comunità LGBTQIA+ del Medio Oriente.

Grazie al suo impegno e alla sua dedizione, Khalid Abdel-Hadi ha realizzato e/o partecipato a diversi progetti miranti a decostruire gli stereotipi diffusi nel modo mediorientale sulla comunità LGBTQIA+. Proprio per il suo incessante attivismo, nel 2017 la testata giornalistica The Guardian ha inserito il suo nome nella lista degli eroi LGBTQIA+.

In particolare, due sono i progetti che l’hanno reso maggiormente noto a livello internazionale: (i) l’essere stato uno degli autori di “This Arab is Queer. An Anthology by LGBTQ+ Arab Writers”; (ii) l’essere stato uno dei curatori della mostra “Habibi, les révolutions de l’amour”, che si è svolta presso l’Institute du Monde Arabe di Parigi.

In occasione del mese del Pride Large Movements APS desidera celebrare il coraggio di Khalid Abdel-Hadi che si batte per l’autodeterminazione ed i diritti delle persone LGBTQIA+ in un contesto socio-culturale estremamente ostile.

Contesto che, sotto alcuni punti di vista, è ancora più complesso rispetto ai Paesi africani che abbiamo raccontato finora, complice anche il ruolo maggiormente centrale che la religione ha con riferimento al governo dei Paesi mediorientali.

Ci auguriamo dunque che le istanze della comunità queer vengano ascoltate ed accolte dal governo giordano – sull’onda di quell’apertura verso l’Occidente che ha portato all’abrogazione formale del reato di sodomia nel 1951 – nella speranza che questo Paese possa rappresentare un esempio da seguire per gli altri.

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Il progetto GAP. Il peso nella politica interna turca e il ruolo dell’Unione Europea

Il Southeastern Anatolian Project, meglio conosciuto come GAP (Güneydoğu Anadolu Projesi), è una rete di infrastrutture in costruzione sui fiumi Tigri ed Eufrate con la doppia funzione di produrre energia elettrica e realizzare dei sistemi di irrigazione per l’area circostante. Essendo l’argomento già stato preso in analisi su Large Movements, l’intento di questo articolo è di integrare alcuni elementi leggendo il progetto sotto tre lenti principali. Quella nazionale legata alla dimensione energetica e al ruolo che il progetto riveste nella politica interna turca. Quella internazionale provando ad indagare il ruolo dell’Unione Europea nel promuovere o limitare lo sviluppo del progetto. Ed infine quella locale vedendo da un lato il caso specifico della diga di Ilisu, dall’altro i movimenti di opposizione che si sono dati contro questi progetti. Questa terza componente verrà approfondita successivamente. Caratteristiche del progetto e stato di avanzamento Nonostante progetti relativi allo sfruttamento delle acque dei fiumi Tigri ed Eufrate abbiamo una storia lontana diversi decenni, il GAP è stato lanciato solamente nel 1989 non unicamente come piano per lo sfruttamento delle risorse dei due fiumi, ma come vero e proprio “progetto di sviluppo socio-economico integrato e multisettoriale”.Il progetto dunque, prevederebbe la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche e impianti di irrigazione (Figura 1) che dovrebbero accompagnare lo sviluppo socio-economico dell’area in un contesto di forte crescita economica e demografica. Alla messa in funzione della Diga di Ataturk nel 1993, è seguita la realizzazione di altre infrastrutture, ultima delle quali la diga di Ilisu inaugurata nel 2020, la terza più grande di tutto il progetto. La Tabella 1 riporta dati aggiornati al 2015 e ricostruisce in parte lo sato di avanzamento dei lavori. Incrociando queste informazioni con quelle fornite dal sito ufficiale si evince che almeno dieci impianti sono attualmente in funzione. A tal proposito è necessario mettere in evidenza un elemento di rilievo rispetto alla possibilità di reperire delle fonti in materia. Dopo una scrematura delle principali fonti accademiche, ufficiali e divulgative risulta importante prendere nota del fatto che i dati relativi ai costi di produzione, ai finanziamenti, alle aziende coinvolte e ad aspetti più tecnici dei progetti stessi sono solo parzialmente disponibili in relazione ad ogni singola infrastruttura e spesso sono estremamente frammentati e poco aggiornati. Se da un lato l’ipotesi della differenza linguistica è sicuramente valida come potenziale limite per il reperimento di questi dati, dall’altro è da evidenziare come dalle fonti governative non vengano fornite tutte le informazioni necessarie ad una comprensione complessiva del progetto. Preso atto di questa difficoltà, nel prossimo articolo si prenderà in esame il caso specifico della Diga di Ilisu per provare a fornire un quadro più dettagliato. Il ruolo dell’idroelettrico nel mix energetico turco Il bisogno da parte del governo turco di promuovere con tanta insistenza una rete di infrastrutture del genere trova origine in valutazioni e obiettivi non solamente di carattere energetico ed economico, ma anche di carattere geopolitico sia sul piano interno che internazionale. Il fiume Eufrate rappresenta più del 19.4% del potenziale nazionale di energia idroelettrica prodotta (433 GWh l’anno), mentre il Tigri corrisponde all’11.2%. Il GAP una volta completato dovrebbe essere in grado di sfruttare 27.419 GWh/y di questo potenziale, ovvero il 10.9% dell’elettricità annuale prodotta in Turchia nel 2014. Comparando queste informazioni con i dati del 2019 dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, la Turchia fa affidamento sull’energia idroelettrica per la produzione di circa il 30% dell’elettricità (Figura 2). La restate parte è coperta in larghissima misura da gas naturale e carbone, due risorse prevalentemente importate dall’estero e che dunque sul piano strategico garantiscono meno sicurezza e stabilità. La totale messa in funzione del GAP coprirebbe un terzo di questo 30%, a dimostrazione della centralità che riveste nello sviluppo economico e nella strategia politica della Turchia contemporanea. Rafforzare l’idroelettrico, in maniera indiretta vorrebbe dire diminuire parzialmente il peso delle importazioni di gas naturale e carbone, riducendo in questo modo la dipendenza da attori internazionali come Russia, Azerbaijan e Iran. Un elemento non da poco per una nazione che sta facendo di tutto per imporsi come attore egemone sul piano regionale. Allo stesso tempo, gli effetti sociali ed ambientali avrebbero ripercussioni soprattutto sulla popolazione locale dell’area, fatta prevalentemente di curdi, i quali vengono percepiti come una minaccia da parte del governo centrale. Così si raggiungerebbe l’ulteriore obiettivo di indebolire, senza l’utilizzo diretto di armi, un fronte di resistenza che soprattutto dallo scoppio della guerra in Siria ha avuto più volte la capacità di accendere i riflettori su casi di aggressione militare e violazioni dei diritti umani. Il non intervento dell’UE Per comprendere qual è stato il ruolo delle potenze Europee nella realizzazione del GAP è necessario applicare due lenti di lettura. Da un lato c’è l’elemento economico, dettato soprattutto dal voler incentivare una spinta alla crescita e allo sviluppo delle regioni più ad oriente. Dall’altro ci sono la dimensione ambientale e sociale. Nonostante tali progetti vengano promossi come “energia pulita” e infrastrutture sostenibili, gli effetti sul piano ambientale e sociale sono enormemente destabilizzanti. La realizzazione di una quantità così imponente di dighe sta determinando numerosi casi di inondazioni e desertificazioni che oltre ad avere degli effetti negativi sulla biodiversità dell’area, ne hanno anche sulle popolazioni che vi abitano spesso costrette a migrazioni forzate di massa. Per l’intero progetto si tratterebbe di circa 200.000 persone sfollate. Rimanendo sul ruolo che ha rivestito l’UE, il tutto va letto all’interno di un quadro che ha visto almeno fino al 2016 una forte pressione da parte turca per essere accettata in quanto membro dell’Unione, e dunque nel bisogno di rientrare all’interno di tutta una serie di parametri sia di carattere economico, che sociale e ambientale. Proprio in questa direzione, se si risale all’origine del progetto, nel 1996 si sono aperti tra UE e Amministrazione del GAP dei negoziati. Durante queste trattative l’Unione ha deciso di finanziare con 47 milioni di euro una parte del “Programma di sviluppo regionale del GAP”, sulla carta un progetto volto a “ridurre ineguaglianze, stimolare crescita economica, e tutelare la protezione del patrimonio ambientale e

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Donna, vita, libertà: la lotta delle donne iraniane è la lotta di tutte

Risale allo scorso 16 settembre l’omicidio di Mahsa Amini, 22 anni, a causa delle percosse subite dopo un fermo da parte della Polizia Morale iraniana (in inglese Islamic Guidance Patrol). La ragazza curda, a Teheran come turista con la famiglia, era stata fermata il 13 settembre perché, a detta degli agenti, non indossava correttamente il velo. È morta tre giorni dopo. Da allora, l’Iran è scosso da proteste guidate dalla società civile, e centinaia sono state le manifestazioni attraverso il globo e le dimostrazioni di sostegno della comunità internazionale alla popolazione e alle donne iraniane. Large Movements è stata a quella di Roma, il 1° ottobre, e le foto qui riportate dimostrano la rabbia e forza che hanno guidato la marcia attraverso la capitale. A quasi due mesi dalla morte di Mahsa, la popolazione iraniana è ancora in tumulto e la repressione delle proteste non accenna ad arrestarsi. È complesso ritracciare l’ordine degli eventi accaduti nelle scorse settimane. Varie notizie sconcertanti si susseguite, tra cui la temporanea scomparsa dell’atleta Elnaz Rekabi, apparsa a Seoul senza hijab durante una gara di arrampicata – a quanto pare, per errore – e rivista a Teheran qualche giorno dopo aver interrotto ogni contatto con famiglia e amici. Questo articolo offre un riassunto della vicenda per ribadirne la rilevanza, che oltrepassa il momentum e i confini geografici, ed esprime il pieno sostenimento di Large Movements alle donne iraniane nella loro (e nostra) lotta per l’auto-determinazione. Breve storia del velo in Iran In linea con i principi della sharia già presenti in altri paesi, il governo iraniano ha reso l’hijab obbligatorio dopo la Rivoluzione Islamica del 1979. Dopo una prima fase di dichiarazioni dell’Ayatollah Khomeini ma nessuna misura a formalizzare l’imposizione, il Parlamento iraniano istituzionalizzò le raccomandazioni con un decreto emesso nel 1983. Così come altre Repubbliche Islamiche, l’Iran basa la propria posizione sul velo sui testi sacri musulmani, tra cui il Corano e gli Hadith, nonostante sia oggetto di dibattito se queste scritture prescrivano realmente, e se sì quale, un codice di abbigliamento per le donne. Questo tipo di editto, insieme a tutti gli altri che prescrivono un comportamento “appropriato” secondo la legge islamica, viene fatto applicare dalla cosiddetta “polizia morale” Gasht-e Ershad. Il corpo di polizia è nato nel 2005 formalizzando le strutture paramilitari religiose concepite in principio per combattere nella guerra in Iran. Ad oggi, gli agenti della polizia morale pattugliano le strade e solitamente rilasciano ammonizioni verbali in presenza di irregolarità – di fronte a un velo che non copre tutti i capelli, trucco troppo vistoso o gonne troppo corte. Proprio il 15 agosto scorso, il presidente iraniano Ebrahim Raisi aveva imposto nuove sanzioni più stringenti e dure punizioni per le donne che non rispettano il codice di condotta islamico, di fatto allargando ulteriormente i poteri della polizia morale. Tuttavia, spesso le donne fermate vengono prese in custodia e detenute, per poi in seguito essere inviate in “centri di ri-educazione”, dove seguono ore di lezioni sulla morale islamica. Il rilascio avviene poi in presenza di un parente stretto di sesso maschile, dopo aver firmato una dichiarazione secondo la quale, in futuro, l’offesa non sarà ripetuta. Mahsa Amini: l’ultima goccia per la società civile iraniana Apparentemente, questo è quello che sarebbe dovuto succedere anche a Mahsa: un centro di “correzione”, e poi il rilascio. Eppure non sono rare le denunce di abuso da parte degli agenti in seguito al fermo, di cui Mahsa è stata un vittima. Il 13 settembre, Mahsa Amini viene sequestrata per “uso improprio del velo”. È costretta ad entrare in un furgone della polizia morale dove viene percossa dagli agenti stessi, secondo alcuni testimoni oculari. Qualche ora dopo, alla sua famiglia viene comunicato che Mahsa è stata trasportata in ospedale in seguito ad un attacco cardiaco. Dopo tre giorni in coma, la ragazza di 22 anni è deceduta. La famiglia si è opposta da subito alla versione ufficiale della vicenda, spiegando che Mahsa non aveva alcun problema di salute che potesse spiegare un attacco di cuore improvviso. Il suo decesso ha fatto da scintilla accanto a una miccia, portando la società civile già stremata da un regime oppressivo in cui spesso attiviste subiscono ripercussioni per il proprio ruolo critico nei confronti di esso, a irrompervi contro, scatenando proteste che si sono sparse per tutto il Paese. A questo si è aggiunta l’arresto della giornalista Niloofar Hamedi dopo aver postato una foto dei genitori di Mahsa abbracciati in ospedale, dopo aver appreso del decesso della figlia. Le proteste hanno invaso le strade di Teheran e del resto del Paese qualche giorno dopo, specialmente nel Kurdistan iraniano, regione da cui proveniva Mahsa. Tantissime donne hanno manifestato il proprio dissenso togliendosi il velo o bruciandolo. Uno dei gesti più profondi e simbolici di queste proteste è stato il pubblico taglio di capelli da parte delle partecipanti, in ricordo di Mahsa e contro la Guida Suprema del Paese, Ali Khamenei. La risposta del governo iraniano è stata di reprimere violentemente i manifestanti: l’ONG Iran Human Rights, che ha seguito l’andamento degli scontri tra civili e forze dell’ordine, riporta che almeno 326 persone, di cui 43 minori, sono state uccise durante le insurrezioni. Due entità che hanno partecipato alle proteste sono particolarmente rilevanti: i corpi studenteschi, sia universitari che liceali, e il movimento delle donne del Kurdistan (KJK), mostrando l’intersezione indissolubile tra movimenti femministi, educazione e nuove generazioni come parti fondamentali e imprescindibili del cambiamento sociale contemporaneo. Al grido di Jin Jiyan Azadi, “Donna, Vita, Libertà” in kurmanci, un dialetto curdo, studenti, studentesse e donne curde hanno marciato per le strade del Paese abnegando assieme la violenta oppressione dei corpi e della libertà da parte del regime islamista iraniano. Nelle università, sono state compiute azioni indipendenti per eliminare il divario di genere tra gli studenti, ed è tutt’ora chiesta a gran voce la liberazione delle ragazze e dei ragazzi arrestati durante le contestazioni. Tra le loro file, si contano perdite drammatiche: ricordiamo tra queste Nika Shakarami, 17 anni, scomparsa dopo delle manifestazioni e

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La condizione dei rifugiati siriani in Libano

Nell’ultimo rapporto pubblicato dall’UNHCR, si stima che circa il 73% dei rifugiati nel mondo sia ospitato da un Paese confinante o vicino. Infatti, circa il 78% dei 6,6 milioni di rifugiati siriani ha trovato ospitalità nei soli Stati confinati di Turchia, Libano e Giordania. Se la Turchia detiene il primato del Paese con il maggior numero di rifugiati al mondo, il Libano è il Paese con la più alta densità di rifugiati siriani, uno ogni quattro abitanti. La politica del “no-camp” per i rifugiati siriani in Libano Il Governo libanese stima che, su una popolazione di meno di 6 milioni, circa 1 milione e mezzo sia di origine siriana. Oltre a chi, dal 2011, è fuggito dal conflitto civile in Siria, il Libano ospita almeno 180 mila residenti palestinesi dei 470 mila, comunque, ufficialmente registrati con l’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near Est). Nel tempo, però, la presenza di rifugiati è stata percepita più come un problema sociale ed economico piuttosto che come una possibile risorsa, dando luogo, in alcuni casi, ad insofferenze e tensioni con la popolazione residente. Il Libano, tra l’altro, non è firmatario della Convenzione di Ginevra del 1951 né del Protocollo di New York del 1967 e questo ha comportato conseguenze dirette sul peggioramento delle condizioni di vita stesse dei rifugiati. Il mancato riconoscimento dello status di rifugiato – in Libano i cittadini siriani sono considerati “sfollati” o indicati con il termine generico di profughi – ha comportato un’incertezza sull’applicazione delle consuete tutele previste dal diritto internazionale. Ad esempio, secondo quella che è stata definita la politica del “no-camp”, non sono mai stati allestiti campi profughi governativi o ufficiali. Negli ultimi tre anni, purtroppo, è aumentato proprio il numero di quelle famiglie che vive al di sotto di standard accettabili d’accoglienza e sicurezza, risiedendo in insediamenti informali al limite della sopravvivenza ed alloggi di fortuna, quali, ad esempio, garage, magazzini o fienili. Inoltre, per decisione del governo libanese, dal 2015 l’UNHCR ha sospeso le registrazioni dei rifugiati e aggiornato solo l’eventuale numero in diminuzione. Secondo i dati a disposizione dell’Agenzia delle Nazioni Unite, il numero di cittadini siriani non supera di molto gli 865 mila, ma non restituisce la situazione reale. Lo smantellamento dei campi profughi in Libano La sottostima, purtroppo, ha limitato le potenzialità della protezione internazionale dei rifugiati attraverso un’adeguata fornitura dell’assistenza di base ed un reale accesso ai servizi essenziali. Proprio quei servizi essenziali, che insieme alle infrastrutture del Paese, sono stati messi a dura prova dalla forte pressione demografica, sovraccaricando un sistema che presentava già molte criticità. A luglio del 2019, ha avuto una certa risonanza internazionale la decisione di applicare la normativa vigente sull’abusivismo edilizio (Construction Law Act n. 646/2004), creando gravissime difficoltà a 4 mila famiglie siriane di Arsal e a circa 15 mila minori. Nella città della valle della Bekaa, una delle zone economicamente più arretrate del Paese e con la maggiore concentrazione di rifugiati, è stata imposta la demolizione di tutte le residenze che avessero muri oltre il metro. In una sempre più frequente strategia di pressioni dirette e indirette, mirate a incoraggiare il rimpatrio “volontario”, è stato consentito solo l’utilizzo di legno e teli di plastica per la costruzione di un rifugio, ma non l’utilizzo di materiali che conferissero all’abitazione una struttura permanente. Quella che, invece, rimane permanente è la situazione critica dei rifugiati siriani, una situazione che da emergenziale si è rivelata, poi, per essere una crisi prolungata e complessa. Il VASyR (Vulnerability Assessment of Syrian Refugees in Lebanon) conferma come sostanzialmente invariata, anche nel 2020, la percentuale del 69% di famiglie siriane senza alcuno status legale di residenza. Nel 2014 – prima che l’Agenzia per i rifugiati fosse costretta a sospendere le registrazioni – le famiglie siriane presenti legalmente in Libano erano, invece, il 58%. Il non essere legalmente residenti comporta, di fatto, una costante barriera all’accesso all’istruzione, ai servizi sanitari ed al mercato del lavoro formale. Inoltre, più della metà dei rifugiati siriani ha meno di diciotto anni e da marzo 2020, con la sospensione delle lezioni in presenza, ben più di due terzi non ha ricevuto nessun tipo di formazione scolastica. Un “coprifuoco selettivo” per i rifugiati siriani in Libano Durante la pandemia di Covid-19 è stato registrato un incremento del lavoro minorile, con un aumento del rischio di abbandono scolastico. Il lavoro minorile, tra l’altro, è molto spesso informale, dato che da stime ufficiali risulta che percentuali molto elevate della popolazione straniera rientrano in questo segmento, con picchi di oltre l’80% nei settori a basso reddito come l’edilizia, le collaborazioni domestiche e l’agricoltura. L’irregolarità nei rapporti di lavoro comporta, inoltre, anche l’assenza di qualunque forma di previdenza sociale e di copertura assicurativa che tuteli la salute dei lavoratori siriani. Un’eventualità che si aggiunge al già difficile accesso alle cure mediche per l’elevato costo dei trattamenti ospedalieri e specialistici, in un sistema sanitario fortemente privatizzato come quello libanese. Le disuguaglianze sociali si sono maggiormente evidenziate proprio durante l’attuale crisi sanitaria e le decisioni di alcune autorità locali hanno portato a misure perfino discriminatorie nei confronti dei rifugiati. Human Rights Watch (HRW) riporta che in diciotto comuni della valle della Bekaa, durante il lockdown, sia stato imposto un coprifuoco più restrittivo alla comunità siriana. La decisione è stata presa in maniera del tutto autonoma e senza alcun consenso del Governo centrale. Inoltre, l’applicazione del tutto arbitraria della legge ha previsto anche la nomina di un rappresentante che, coordinandosi con le varie municipalità, provvedesse al soddisfacimento di tutte le necessità primarie dell’intero campo profughi. Già in passato le autorità locali avevano utilizzato lo strumento del coprifuoco, in questo caso, come misura antiterrorismo. Dal 2013, infatti, contemporaneamente all’afflusso dei rifugiati siriani, si è verificata un’infiltrazione di miliziani jihadisti del cosiddetto Stato islamico (IS) e di Jabhat al-Nusra, principalmente nella regione frontaliera di Arsal. La presenza di ribelli siriani jihadisti in Libano mirava, fondamentalmente, a colpire e indebolire la formazione politica e militare sciita di Hezbollah (Partito di Dio)

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Loujain al-Hathloul

Loujain al-Hathloul è un’attivista saudita per i diritti delle donne. La sua forza di volontà e la sua resistenza l’hanno portata a fare una differenza significativa nel suo paese, ma tutto si può affermare tranne che questo sia stato per lei e per le sue compagne un viaggio semplice. Loujain è stata una delle leader del movimento Women2drive, nato negli anni ‘90 con l’obiettivo di ottenere il diritto di guidare le auto da parte delle donne. Negli ultimi 7 anni la vita di Loujain è stata scandita da periodi più o meno lunghi di prigionia. In possesso di una patente ottenuta negli Emirati Arabi Uniti, nel 2013 si era filmata mentre tornava a casa guidando, accompagnata dal marito, ma fu il video dell’anno dopo a fare scalpore e che divenne virale su You Tube, perché quella volta guidò da Abu Dhabi fino al confine con l’Arabia Saudita. Nel 2014 il suo caso finì dinanzi ad un tribunale militare in quanto accusata di aver compiuto un gesto di sfida nei confronti del divieto di guida per le donne in Arabia Saudita, unico Paese al mondo che ancora manteneva viva questa legge. Loujain venne arrestata il 1 Dicembre 2014, e insieme a lei anche la giornalista Maysaa al-Amoudi, che decise di guidare anche lei verso il confine per sostenere la sua compagna. Loujain restò reclusa per un totale di circa 70 giorni. Nel 2015, quando la monarchia saudita concesse per la prima volta il diritto di voto alle donne, Loujain decise di candidarsi alle elezioni locali. Anche se il suo nome non venne mai incluso nelle liste, la forte personalità e determinazione di Loujain venne riconosciuta, e venne inserita al terzo posto della classifica delle 100 donne arabe più potenti al mondo sul fronte culturale e sociale. Il 4 giugno 2017 Loujain venne arrestata per la seconda volta in Arabia Saudita. La ragione non fu nota, e le fu impedito di mettersi in contatto con i suoi cari. La lotta di Loujain e le sue compagne, nonostante tutte le difficoltà affrontate, ha portato il principe ereditario Mohammed bin Salman a consentire alle donne di guidare, e dal giugno del 2018 le donne poterono finalmente ottenere la patente di guida. Appena prima di questo successo politico e umanitario, nel maggio del 2018 Loujain venne nuovamente arrestata con l’accusa di terrorismo e di aver cospirato contro l’Arabia Saudita insieme a Paesi “nemici”. Il suo processe venne spostato infatti in un tribunale speciale che si occupa di casi di terrorismo, quando Loujain altro non era che un’attivista pacifica. Soltanto tre mesi dopo l’arresto venne trasferita in un carcere nella sua città natale, e fu in grado di incontrare la sua famiglia. Raccontò a loro ciò che era accaduto durante quelle settimane di carcere: fu costretta a vivere una reclusione disumanizzante, con sedute di elettroshock, frustate e abusi sessuali. Per opporsi e denunciare le violenze subite, nell’ottobre del 2020 cominciò uno sciopero della fame, ma dopo due settimane le guardie carcerarie iniziarono a privarla del sonno svegliandola ogni due ore, e dopo diverse settimane estenuanti Loujain fu costretta a interrompere a riprendere a mangiare. Il 28 dicembre venne condannata a 5 anni e 8 mesi di carcere. Il 31 luglio 2020, Loujain ha amaramente festeggiato il suo 31esimo compleanno in carcere, ed è stata rilasciata solamente a febbraio 2021, con il divieto di lasciare l’Arabia Saudita per cinque anni. Il Global Gender Gap Report del 2020 del World Economic Forum, posiziona l’Arabia Saudita al 146esimo posto su 153 Paesi: quindi lo classifica come uno degli Stati peggiori in cui una donna possa vivere ad oggi, costretta ad avere un uomo come tutore che approvi la grande maggioranza delle sue azioni quotidiane.

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Atena Daemi per i Diritti Umani in Iran

Atena Daemi sognava la fine della pena di morte nel suo paese, L’Iran, e auspicava a un rispetto maggiore dei diritti umani. Per questa ragione è stata incarcerata, picchiata e detenuta in isolamento. Oggi racconteremo la storia di questa donna coraggiosa e vedremo insieme la situazione dei diritti umani in Iran. I Diritti Umani in Iran Atena Daemi è stata incarcerata per la sua lotta a favore dei diritti umani che in Iran, suo paese natale, spesso non vengono rispettati. Secondo il più recente rapporto delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani, il paese soffre di gravi discriminazioni di genere, una percentuale troppo elevata di detenzioni arbitrarie e problematiche relative all’applicazione della pena di morte. Vediamo nello specifico quali sono i problemi. Per quanto riguarda la pena di morte e le detenzioni arbitrarie, nel paese sono state registrati numeri elevati di esecuzioni anche per crimini che non rientrano nelle categorie più gravi. Per categorie gravi la Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite intende solo quelli riguardanti omicidi intenzionali. Le esecuzioni sono state spesso il seguito di processi tenutisi in modo iniquo e con l’uso della tortura al fine di estrarre una confessione fittizia: in particolare per circostanze con connessioni alle proteste antigovernative che hanno avuto luogo nel paese negli ultimi anni. Il caso più emblematico è quello di Navid Afkari che è stato segretamente giustiziato dopo aver partecipato nell’agosto 2008 a delle proteste nella città di Shiraz. Il relatore speciale delle Nazioni Unite inviato in Iran, si è detto preoccupato dal fatto che queste esecuzioni sembrano celare una volontà, da parte del governo, di reprimere il dissenso nel paese. Il rapporto dell’ONU sottolinea l’elevato numero di esecuzioni ai danni di minorenni: tra il 1° gennaio e il 1° dicembre 2020 sono stati giustiziati 3 minorenni e più di 85 si trovano nel braccio della morte. In Iran il Codice penale prevede la pena di morte per le ragazze con più di 9 anni di età e per i ragazzi con più di 15 anni di età in caso di crimini quali l’omicidio e l’adulterio. I diritti delle donne sono fortemente ostacolati non solo dalla legge ma anche dalle abitudini e dalle convenzioni sociali. Nonostante i diritti delle donne siano codificati negli articoli 20 e 21 della costituzione, vi è discriminazione sui diritti di matrimonio, divorzio e custodia parentale. Una donna iraniana non può sposarsi senza il permesso del padre o del nonno paterno se il matrimonio in questione è il primo. È illegale il matrimonio tra una donna musulmana e un uomo non musulmano e il matrimonio con un uomo di nazionalità non-iraniana deve ricevere il consenso del governo. Le ragazze possono sposarsi legalmente fin dai 13 anni ma ci sono stati casi di bambine sposate anche in età più giovane con il consenso paterno e del giudice. Le donne sposate rimangono sotto l’autorità del marito che può proibire loro di lavorare, di avere un passaporto o di recarsi all’estero. Per quanto riguarda il divorzio, il marito ha diritto assoluto a richiedere il divorzio mentre la moglie può richiederlo sono in specifici casi. Infine, la libertà di pensiero e di manifestazione è limitata nel paese. I difensori dei diritti umani e i loro avvocati vengono quotidianamente vessati. Tra i casi più famosi quello di Golrokh Iraee Ebrahimi e della stessa Atena Daemi. Arrestate entrambe per aver condannato le esecuzioni arbitrarie dei prigionieri politici e per aver cantato una canzone commemorativa, Iraee fu rilasciata nell’aprile 2019 mentre Daemi resta in carcere. Oltre agli arresti vi è anche un dilagante fenomeno di intimidazione dei famigliari degli arrestati. L’uso eccessivo della forza e le interruzioni delle telecomunicazioni durante le manifestazioni è prassi comune. Il relatore speciale ONU riporta uno shutdown di internet senza precedenti, richiesto dal governo durante le manifestazioni del novembre 2019. In generale il governo continua a censurare i siti internet e le piattaforme di social media. Telegram, Twitter, Facebook e YouTube sono state bloccate in modo permanente e risultano attualmente inaccessibili. La storia di Atena Daemi Atena Daemi si è battuta con coraggio contro le sopramenzionate infrazioni dei diritti umani, e soprattutto contro la pena di morte, le detenzioni arbitrari e per i diritti delle donne e dei bambini. Fu arrestata il 21 ottobre 2014 e dopo 86 giorni di interrogatori fu condannata a 14 anni di reclusione per i reati di: “propaganda contro il sistema”, “adunata sediziosa e collusione contro la sicurezza nazionale”, “blasfemia e offesa al Capo Supremo” e “occultamento di prove”. Durante il processo furono usate come prove i suoi post su Facebook in cui si batteva contro la pena di morte. Il 28 settembre 2016, dopo essere stata rilasciata su cauzione, vede la sua pena ridotta a 7 anni. Viene nuovamente arrestata il 28 novembre 2016 e dopo aver presentato una denuncia contro il “Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica” (IRGC) per uso eccessivo della forza, viene processata il 19 dicembre 2016 con le accuse di: “insulto contro il leader supremo e gli ufficiali di stato”,” “propaganda contro il sistema” e “resistenza all’arresto”. Viene condannata e le vengono aggiunti 3 mesi e un giorno alla sua pena di 7 anni. Alla medesima pena vengono condannate anche le sue sorelle, Ensieh e Hanieh, che vengono però assolte 54 giorni dopo. Il 21 dicembre 2019 Daemi e altri carcerati organizzano un sit-in come protesta contro le repressioni e la risposta dello stato contro le manifestazioni del novembre 2019. In seguito a questo evento fu trasferita in isolamento il 28 dicembre 2019 e vi rimase fino al 8 gennaio 2020. Inoltre, fu condannata a 2 ulteriori anni di prigione e 74 frustrate. Oltre alla solita accusa di “propaganda contro il sistema” fu accusata di “interruzione dell’ordine carcerario” per aver ballato e festeggiato durante la festa di Ashoora. Daemi si è rifiutata di andare al processo dichiarando che tali accuse sono infondate e basate su bugie. Le condizioni di salute di Atena Daemi durante la sua permanenza in carcere sono peggiorate notevolmente. Dopo lo sciopero della fame

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Muzoon Almellehan

“Non smettere mai di imparare e di sognare. Non perdere mai la speranza.” La piccola Muzoon è nata l’8 aprile 1999 da Eman e Rakan Almellehan nella città di Dara’a, Siria, dove il papà lavorava come insegnante. Dara’a è stata teatro delle prime proteste contro il regime e di alcune delle prime repressioni contro la popolazione locale. Infatti, subito dopo lo scoppio della guerra civile siriana, la loro città fu assediata dalle forze governative. Due anni dopo, nel 2014, la città venne presa dalle forze islamiste, questo portò ad un inasprimento della guerra che spinse Muzoon e tutta la sua famiglia a scappare verso la Giordania. «Anche da bambina, sapevo che l’istruzione era fondamentale per il mio futuro. Quando ho dovuto abbandonare la Siria, gli unici effetti personali che ho portato con me sono stati i miei libri di scuola» racconta. Ciononostante, Muzoon è stata anche tra le prime – e le più giovani – rifugiate siriane a operare per realizzare un cambiamento. Il primo campo dove arrivarono fu quello di Za’atari, nei 18 mesi trascorsi lì, la piccola Muzoon cominciò ad occuparsi del diritto all’istruzione per i bambini, ed in primo luogo per le ragazze. Infatti, Muzoon si iscrisse alle scuole all’interno del campo, ma presto si accorse che molte ragazze rifugiate – alcune di 13 e 14 anni – interrompevano le lezioni e si sposavano. “Da rifugiata, ho visto cosa succede quando i bambini sono costretti a un matrimonio precoce o al lavoro manuale. Essi restano esclusi dal percorso formativo e perdono la possibilità di avere un futuro.” Racconta. “Ero fortunata perché mi trovavo in un campo dove c’erano delle scuole e perché i miei genitori credevano nell’istruzione“. Malgrado la sua età, Muzoon iniziò a girare di tenda in tenda per i campi, per parlare con i genitori del valore dell’istruzione e dei rischi del matrimonio precoce. In ogni occasione, esortava i genitori a rimandare le figlie a scuola. “Le ragazze devono ricevere un’istruzione”, dice Muzoon. “È la migliore protezione per loro. Se una madre non è istruita, come può aiutare i suoi figli? Se i giovani non sono istruiti, chi ricostruirà il nostro Paese?”. Le organizzazioni umanitarie cominciarono ad interessarsi al lavoro di Muzoon, per questo divenne una Good Will Ambassador di UNICEF. E quando il premio Nobel per la pace e Asia Game Changer, Malala Yousafzai andò a visitare il campo di Za’atari, fece di tutto per trovare Muzoon. Malala aveva sentito parlare del suo lavoro e i compagni di classe di Muzoon le raccontarono di essere stati ispirati e di essere rimasti a scuola grazie a Muzoon. Nel 2015, Muzoon e la sua famiglia, dopo aver rinunciato a vari reinsediamenti verso Canada e Svezia per motivi logistici, riuscirono finalmente a trovare rifugio nel Regno Unito nell’ambito di un piano annunciato nel mese di settembre da David Cameron con il quale il governo britannico prevedeva di accogliere 20.000 rifugiati siriani. Muzoon e la sua famiglia, riuscirono, quini a trasferirsi a Newcastle, dove tutti i figli della famiglia Almellehan frequentano la scuola di Kenton. Oggi Muzoon ha 23 anni ha terminato la scuola secondaria, ed ha finalmente realizzato il suo sogno di entrare all’università dove studia Scienze Politiche. Ma soprattutto, continua ad impegnarsi per difendere tutte le ragazze a cui è negata l’istruzione nel mondo, in particolare le sue sorelle siriane. “Abbiamo bisogno di istruzione, perché la Siria ha bisogno di noi“, dice Muzoon. “Senza di noi, chi porterà la pace?”. Noi di Large Movements condividiamo il pensiero di Muzoon ed abbiamo ritenuto importante condividere con voi la sua storia perché ci rendiamo conto di quanto, molto spesso diamo per scontato quello che abbiamo sotto il nostro naso. L’istruzione è una di quelle cose che molto spesso vengono date per scontato, quando, specialmente in un periodo così particolare, dovremmo tutti ricordarci che l’istruzione per tutti, ma soprattutto per tutte le donne e bambine di questo mondo sia fondamentale non solo per il raggiungimento dell’eguaglianza di genere, ma anche, e soprattutto, come dice Muzoon, per la loro stessa protezione e affinché in questo modo, anche le donne possano essere incluse come voce fondamentale all’interno delle trattative e dei processi di pace. Se ti è piaciuto l’articolo, CondividiCi!

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