Uganda: Porto Sicuro o Polvere sotto al Tappeto? Ne parliamo con Maëlle Noir

Sentiamo spesso parlare del conflitto nella Repubblica Democratica del Congo, come in Sud Sudan o delle continue violenze e rappresaglie in Repubblica Centraficana. Sappiamo gravemente poco, però, delle persone che scappano da questi conflitti, dei rifugiati, delle loro condizioni, e soprattutto delle condizioni delle donne che si ritrovano a fuggire per salvare le proprie vite e le proprie famiglie. Per questo oggi vorremmo porre l’accento su una parte spesso tralasciata nelle narrative dei conflitti: le persone che sono spinte a fuggire da questi contesti e che nella stragrande maggioranza dei casi, contrariamente a quanto spesso viene falsamente sostenuto, rimangono in Africa cercando asilo in Stati confinanti e non scelgono di affrontare il pericolossissimo viaggio verso l’Europa. Uno dei Paesi africani che accoglie una grande quantità di persone in fuga è l’Uganda.

Oggi ne parliamo con Maëlle Noir, dottoranda dell’Irish Research Council presso l’Irish Centre for Human Rights dell’Università di Galway. La sua ricerca affronta la questione della violenza nei confronti delle donne rifugiate attraverso una prospettiva femminista intersezionale e decoloniale, esplorando la rilevanza di un approccio femminista al diritto come alternativa alla prassi legale nel contesto dei rifugiati urbani ugandesi.

Maëlle ha una vasta esperienza nel campo dell’advocacy e della ricerca comunitaria, poiché negli ultimi cinque anni ha lavorato con diverse organizzazioni nazionali e locali della società civile in India, Irlanda, Francia e Uganda.  È anche assistente di ricerca part-time nell’ambito del progetto Horizon dell’Unione Europea su democrazia e politica, collaborando con ricercatori in Slovacchia, Austria, Italia e Irlanda.

Ciao Maëlle, è un piacere averti qui con noi. Innanzitutto, vorrei chiederti della popolazione rifugiata che raggiunge l’Uganda. Quali sono le principali nazionalità che chiedono asilo in Uganda, qual è la procedura per richiedere asilo nel Paese e dove sono accolti i rifugiati?

È importante iniziare dicendo che in Uganda risiedono oltre 1,5 milioni di rifugiati, cifra che ne fa la prima popolazione di rifugiati in Africa e la quarta al mondo. Ciò si spiega con la posizione geografica dell’Uganda, crocevia di diverse zone di conflitto nei Paesi vicini, tra cui la Repubblica Democratica del Congo (RDC), il Sud Sudan, la Somalia, l’Etiopia, il Burundi, l’Eritrea, il Ruanda, ecc. L’Uganda ha anche una lunga storia di “politica di porte aperte”, sostenuta finanziariamente e politicamente dal Nord globale che sostiene lo Stato nell’accogliere i rifugiati in fuga dai conflitti e dalle persecuzioni.

Per quanto riguarda la nazionalità, il Sud Sudan, la Repubblica Democratica del Congo e la Somalia sono i Paesi di origine predominanti per i rifugiati in Uganda, in quanto costituiscono rispettivamente il 57,1%, il 32% e il 4,1% della popolazione totale rifugiata. Tuttavia, quando si tratta di rifugiati urbani, solitamente localizzati nella capitale Kampala, nella parte meridionale del Paese, questi sono principalmente Somali, Congolesi, Eritrei, Sud Sudanesi, Burundiani ed Etiopi.

Il Refugee Act ugandese del 2006 amplia la definizione di rifugiato fornita dalla Convenzione sui Rifugiati del 1951 e dalla Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana del 1969 che disciplina gli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa, includendo il criterio del genere. Pertanto, chiunque si trovi al di fuori del proprio Paese d’origine, a causa di aggressioni esterne, occupazione, dominazione straniera od eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico, ed abbia il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale, opinione politica o genere, può ottenere lo status di rifugiato.

La procedura per richiedere asilo in Uganda varia a seconda che il richiedente asilo desideri stabilirsi in un campo (che spesso viene concesso sulla base dello status di rifugiato prima facie o “automatico” ossia, di gruppi di persone che provengono da uno Stato che l’UNHCR ha riconosciuto soddisfare i requisiti oggettivi che giustificano la presupposizione dello status di rifugiato. Per queste persone dunque, dovrebbe essere più semplice e veloce ottenere lo status perché l’onere probatorio della situazione nel Paese di origine è del tutto inesistente. Si sono intenzionalmente lasciate le virgolette sul termine automatico però, perché nella realtà questa presunzione non viene quasi mai applicata) o in città (rifugiato non prima facie, al contrario, individui non appartententi alla modalità “automatica”), ma in entrambi i casi rimane relativamente semplice. Per lo status di rifugiato “automatico”, i richiedenti asilo che raggiungono il confine vengono trasferiti in uno dei numerosi centri di accoglienza del Paese per un breve colloquio con un agente dell’Ufficio del Primo Ministro (OPM) prima della registrazione e dell’ottenimento dello status di rifugiato. Questo processo dura da pochi giorni ad un massimo di un paio di settimane, a meno che non ci sia un afflusso particolarmente importante di rifugiati. È più difficile ottenere lo status di rifugiato “non-automatico”, soprattutto per potersi stabilire in una città. Il richiedente asilo deve registrarsi presso l’OPM e sottoporsi a una serie di colloqui con diversi interlocutori, tra cui un ufficiale di polizia e un funzionario dell’OPM incaricato di esaminare lo status, seguiti da un esame finale del caso da parte del Comitato per l’ammissibilità del rifugiato. Secondo l’UNHCR, nel 2022 circa l’87,5% delle domande di status di rifugiato è stato accolto. A titolo di confronto, nel 2022 in Italia oltre l’80% dei richiedenti asilo si è visto negare lo status di rifugiato.

Parlando dei campi profughi ugandesi, quali sono le condizioni di accoglienza nei campi?

L’Uganda è spesso elogiata dalla comunità internazionale e dai media per le sue condizioni di accoglienza esemplari che favoriscono un “porto sicuro” o addirittura un “paradiso” per i rifugiati.

In effetti, sulla carta e in conformità con il Comprehensive Refugee Response Framework, i richiedenti asilo che hanno ottenuto lo status di rifugiato ricevono automaticamente un appezzamento di terreno da coltivare, l’accesso all’istruzione ed all’assistenza sanitaria gratuita, nonché il diritto al lavoro ed alla libertà di movimento.

Tuttavia, sappiamo che la teoria di solito differisce drasticamente dalla pratica ed è il caso anche del contesto dei rifugiati in Uganda. La politica di non confinamento (non-encampment policy), apparentemente progressista, promossa dal Comprehensive Refugee Response Framework, non è molto ben attuata in quanto la libertà di movimento rimane condizionata all’ottenimento di un permesso rilasciato dall’OPM e dall’UNHCR. Nell’insediamento, il sussidio monetario ammonta attualmente a 13.000 scellini ugandesi al mese, pari a circa 3,50 euro. I servizi sanitari e scolastici sono sottofinanziati e insufficienti, quindi non tutti hanno accesso ad un’assistenza sanitaria ed un’istruzione adeguate. Inoltre, gli insediamenti sono descritti come luoghi di violenza elevata, soprattutto contro le donne e le comunità LGBTQ+. Sono stati segnalati anche casi di violenza di genere e sfruttamento sessuale perpetrati da operatori umanitari incaricati di ripartire le risorse.

Il messaggio promosso dalla comunità internazionale sull’Uganda e sulle sue politiche di non confinamento quale “porto sicuro” per i rifugiati riflette anche un discorso coloniale e razzista perpetrato nel Nord del mondo.  Un esempio delle “eccezionali condizioni di accoglienza” in Uganda che viene spesso presentato, soprattutto dai media occidentali, è l’assegnazione gratuita ai rifugiati di un appezzamento di terra, riducendo l’unica attività professionale degli stessi all’agricoltura. 

Le informazioni fornite qui sopra non si basano sull’osservazione, poiché la mia ricerca si concentra esclusivamente sui rifugiati urbani, ma derivano da letteratura scientifica e dalle testimonianze fornite dagli intervistati della mia ricerca che sono fuggiti dagli insediamenti in cerca di una vita più pacifica e priva di violenza.

A questo proposito, puoi parlarci dell’accesso all’assistenza per i casi di violenza di genere e se e quali sono le politiche in atto nel Paese che possono ostacolare un approccio sensibile alle questioni di genere?

Sebbene le leggi e le politiche ugandesi sulla determinazione dello status di rifugiato e la sua protezione sembrino tenere conto della dimensione di genere dell’esperienza migratoria, la loro attuazione manca in modo cruciale di una sensibilità di genere e culturale. Infatti, abbiamo visto che la Legge sui Rifugiati del 2006 è particolarmente progressista, in quanto aggiunge come motivo di asilo la violazione delle pratiche discriminatorie di genere. La violenza e gli abusi di genere sono affrontati anche nel quadro del Comprehensive Refugee Response.

Nel caso dei rifugiati che si trovano negli insediamenti, le strutture che si occupano di violenza di genere sono spesso molto lontane e i rifugiati non possono permettersi di viaggiare su una boda-boda (“motocicletta” in Uganda) per denunciare un caso alla polizia. Se le sopravvissute raggiungono la stazione di polizia, molte riferiscono di non venire credute o addirittura di ricevere richieste di denaro per registrare il caso. A volte i partner attuativi dell’UNHCR sono presenti in loco, ma non dispongono di risorse sufficienti e non possono occuparsi di tutte le denunce.

Sia negli insediamenti che nel contesto urbano, la ricerca empirica dimostra che gli operatori dei servizi contro la violenza di genere non sono sufficientemente formati per adottare pratiche sensibili alla dimensione di genere. I partecipanti alla mia ricerca (sia sopravvissuti che operatori dei servizi per rifugiati) hanno riferito molti casi di ritraumatizzazione e normalizzazione della violenza, favoriti da una persistente cultura di incredulità nei confronti delle istanze dei rifugiati. Il fenomeno si spiega anche a causa della mancanza di una comprensione strutturale e intersezionale della violenza di genere contro le rifugiate. Infatti, il genere e lo status di migrante si intersecano per creare una forma unica di discriminazione che richiede a sua volta una forma unica di compensazione. Anche altri sistemi di oppressione possono contribuire al perpetrarsi della violenza e al modo in cui questa viene affrontata dagli operatori, come la transfobia, l’abilismo, il colorismo, il tribalismo, ecc.

In Uganda, inoltre, si osserva un monopolio istituzionalizzato da parte delle organizzazioni internazionali e ugandesi per la fornitura di servizi. Le organizzazioni selezionate dall’Ufficio del Primo Ministro (OPM) e registrate secondo la legge sulle ONG del 2016 sono le uniche a potersi occupare dei rifugiati. Ciò ha particolari effetti sulle questioni di genere, poiché l’OPM detiene un notevole controllo sui prestatori di servizi contro la violenza sessuale e sull’assegnazione dei fondi.

In un audit del 2018 dell’Office of Internal Oversight Services (OIOS) delle Nazioni Unite sono stati riscontrati numerosi accordi riguardanti la rappresentanza ugandese e l’OPM, tra cui la selezione di partner che si erano impegnati in attività fraudolente ed in una cattiva gestione dei finanziamenti nel 2016 ed altri che non erano stati raccomandati dalla Commissione per la gestione e l’attuazione dei partenariati istituita dalla rappresentanza UNHCR. Secondo quanto emerso dalla verifica, inoltre, il numero di rifugiati è stato gonfiato di 300.000 unità per attirare maggiori finanziamenti internazionali.

Per questo motivo, spesso le donne rifugiate vengono assistite da personale poco qualificato e alle sopravvissute può essere addirittura negato l’accesso ai servizi. In effetti, un tema ricorrente emerso durante le interviste è che gli operatori dell’UNHCR e dei partner attuativi spesso non credono alle sopravvissute, in quanto i rifugiati spesso mentono per ottenere il reinsediamento.  In effetti, i “sopravvissuti alla tortura e/o alla violenza di genere” e le “donne e le ragazze a rischio” sono categorie di riferimento per il reinsediamento. Tuttavia, solo lo 0,034% della popolazione totale dei rifugiati in Uganda è stato reinsediato nel 2022.

Pertanto, molte rifugiate sostengono che le politiche ugandesi costringerebbero le donne rifugiate in uno stato di vulnerabilità come modo per attrarre finanziamenti internazionali senza destinarli alle rifugiate stesse. Molte hanno l’impressione che le loro storie vengano utilizzate per interessi finanziari, finendo per oggettificare le sopravvissute e replicare i meccanismi di potere vigenti nel contesto della violenza interpersonale.

Ciò va analizzato alla luce di un fenomeno più ampio di esternalizzazione dei confini, in base al quale gli Stati del Nord del mondo “investono” nella cosiddetta “crisi migratoria” in modo da contenere i rifugiati nel Sud del mondo, con un impatto diretto sul diritto delle donne rifugiate di essere libere dalla violenza (tra le altre cose).

Una delle notizie principali dell’anno scorso riguardante i rifugiati urbani è stata l’enorme repressione nel quartiere di Gargaresh a Tripoli, dove la polizia libica ha fatto irruzione nelle case e nei rifugi temporanei e ha rastrellato oltre 5.000 uomini, donne e bambini provenienti dall’Africa subsahariana, trattenendoli in condizioni disumane e degradanti in cui dilagavano torture e violenze sessuali. Tuttavia, a parte questa notizia, sappiamo poco dei rifugiati urbani e delle loro condizioni nelle città. Potresti approfondire le condizioni di vita delle donne rifugiate al di fuori dei campi profughi in Uganda?

Sì, è vero che i rifugiati urbani e soprattutto le donne rifugiate che vivono in città sono i soggetti dimenticati della protezione offerta in materia di rifugiati, sia nelle leggi e nelle politiche che nella letteratura. La spiegazione è da ricercare in una visione stereotipata dei rifugiati che vivono sistematicamente in campi o insediamenti e dipendono dagli aiuti umanitari come destinatari passivi della carità.

In Uganda, circa l’8% della popolazione totale di rifugiati vive in città, principalmente a Kampala, e quasi la metà dei rifugiati urbani sono donne. I rifugiati devono dimostrare di essere economicamente autosufficienti per ottenere il permesso di trasferirsi in città, fatto che costituisce una discriminazione nei confronti dei rifugiati basata sullo status economico – forma di discriminazione che colpisce in modo particolare le donne.

Le condizioni di vita dei rifugiati in città sono particolarmente difficili a causa di un diffuso clima di fobia nei confronti dei rifugiati e di tensioni con le comunità ospitanti. In effetti, a causa della narrativa del “porto sicuro” accuratamente costruita, i rifugiati sono spesso ritenuti in una posizione privilegiata, beneficiando di un sussidio monetario, di assistenza sanitaria, di istruzione gratuita e di un terreno. Detto questo, non appena un rifugiato si stabilisce in città, non ha più diritto a tali aiuti umanitari. Molti rifugiati cercano di avviare un’attività commerciale, ma riferiscono di non sentirsi supportati dai cittadini che a loro volta lottano per vivere in condizioni dignitose. In aggiunta sono stati segnalati anche casi di sfruttamento delle difficoltà finanziarie, anche per quanto riguarda la possibilità di ottenere un alloggio o un lavoro.

In generale, tutti i partecipanti alla mia ricerca testimoniano di aver subito discriminazioni a causa della loro condizione di rifugiati, ma sono soprattutto le donne che si trovano nel mezzo di diverse forme di oppressione a causa della loro transidentità, della loro disabilità o del loro status di lavoratrici sessuali, ad esempio. Molte donne rifugiate testimoniano casi di corruzione e sfruttamento sessuale da parte delle forze di polizia e del personale medico governativo, che chiedono alle donne somme di denaro o rapporti sessuali in cambio di un servizio che non dovrebbe essere venduto.

Noi di Large Movements APS ringraziamo Maëlle per questa intervista, e ci impegnamo ad approfondire ulteriormente un tema ancora poco trattato ma – come abbiamo visto durante questa intervista – che ha un enorme impatto in termini di diritti umani e di questione di genere.

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Etiopia: un mosaico etnico alla base di una crisi umanitaria.

Il conflitto nel Tigrai ed i rapporti con l’Eritrea Con la sua posizione strategica nel Corno d’Africa, vicino al Medio Oriente ed ai suoi mercati, l’Etiopia è simbolo di autonomia e distinzione rispetto ai restanti Paesi africani. Lo Stato si è infatti dimostrato capace di resistere alla colonizzazione, ad eccezione dei 5 anni durante la guerra italo-etiope, quando fu colonia dell’Africa Orientale Italiana. Il territorio etiope è diviso in 9 regioni e caratterizzato da un mosaico composto da 80 etnie e nazionalità diverse, in cui si parlano 83 lingue e 200 dialetti. A partire dalla Costituzione del 1995 il potere viene ripartito in base alle etnie, dando vita a quello che viene definito federalismo etnico. Per comprendere lo scenario politico-strategico attuale dell’Etiopia quindi, è essenziale analizzare quali siano le principali etnie che storicamente risiedono sul territorio. I gruppi etnici maggioritari dell’Etiopia sono gli Oromo (36%), gli Amara (27%), i Somali (6%) e i Tigrini (6%). L’ Oromia è la più grande regione del Paese e gli Oromo rappresentano circa un terzo del totale degli abitanti. Derivanti da un’antica popolazione di pastori nomadi, gli Oromo iniziano ad integrarsi sul territorio etiope dal XVIII secolo. La loro lingua è stata la lingua ufficiale della Corte di Gondar, antica capitale imperiale dell’Etiopia. La regione di Amara, da cui prende il nome l’omonima etnia, ospita il secondo gruppo etnolinguistico, rappresentando quasi un terzo della popolazione. Nel corso della storia etiope gli Amara hanno dominato a lungo e la loro lingua è stata la lingua ufficiale fino agli anni ’90 e rimane tuttora la più parlata. Ù Tra il 1974 e il 1991, i rapporti tra gli Oromo e gli Amara iniziano ad inasprirsi dato che i primi rivendicano un ruolo sempre più centrale. Dopo il 1991, gli Amara si posizionano apertamente contro i Tigrini – di cui si dirà a breve. Al giorno d’oggi la situazione è tesa soprattutto nel territorio del Wolkait, distretto al confine tra le due regioni ma amministrato dal Tigrai. I Somali risiedono principalmente nella provincia dell’Ogaden, regione alquanto ambita per la sua ricchezza di giacimenti di petrolio e gas naturale, più volte oggetto di scontri tra Addis Abeba e l’Ogaden Liberation Front, forza autonomista. I Tigrini occupano la regione nord del Tigrai. Prima di scoprire questa regione e le sue complessità, una parentesi linguistica dell’utilizzo del termine Tigrai è necessaria. La regione viene ancora troppo spesso chiamata Tigrè, che è il nome con cui gli Amara chiamano dispregiativamente i Tigrini. Tigrè nella lingua locale significa “sotto il mio piede”, cioè servo. Già a partire da ciò si può comprendere la linea di tensione che separa le etnie etiopi. La minoranza etnica nel Tigrai rappresenta il 6% con i suoi quasi 6 milioni di abitanti, sui 110 totali. Per la posizione geografica la cultura tigrina è molto vicina a quelle eritrea. Tigrini ed Eritrei hanno anche combattuto insieme contro la dittatura di Mengistu, Capo di Stato etiope tra il 1977 e 1991. In tale contesto, Meles Zenawi viene ricordato per aver fondato l’Ethiopian People Revolution Democratic Front (EPRDF), partito che formò la coalizione con i partiti Oromo ed Amara. Zenawi è stato anche il fautore del federalismo etnico etiope, dividendo il territorio in 13 province. Da un lato, tale sistema ha rinforzato il potere dei partiti regionali, rappresentati dalle rispettive etnie; dall’altro, tale divisione ha creato una successiva suddivisione in classi sociali, sfociando in proteste e scontri per motivi non più etnici ma economico-politici. Uno dei maggiori partiti politici del paese è proveniente proprio da questa regione: il Tigray People’s Liberation Front (TPLF) che ha dominato il paese per ben 27 anni, dalla fine della Guerra Civile etiope (1974). A partire da questa ultima etnia, ci addentriamo nel conflitto della regione del Tigrai le cui tensioni, dallo scorso novembre 2020, stanno facendo riemergere molti dei problemi che sembravano apparentemente risolti con l’elezione dell’attuale Primo Ministro Abiy Ahmed. L’Etiopia è attualmente coinvolta in una “spirale incontrollabile di sofferenza per la sua popolazione civile”. Il 4 novembre nella regione del Tigrai è stato dichiarato lo stato d’emergenza ed il Primo Ministro ha inviato delle truppe militari federali in risposta ad un presunto attacco contro una caserma dell’esercito nazionale. A seguire, tra il 13 e il 14 novembre il partito tigrino TPLF ha lanciato dei missili contro due aeroporti nel territorio controllato dal governo federale. La risposta del governo federale si è presentata il giorno immediatamente successivo, dichiarando di aver preso il controllo di Alamata, centro abitato nella regione del Tigrai e mandando un ultimatum alle forze regionali. Dal 4 novembre si parla di una vera e propria crisi umanitaria: le Nazioni Unite, insieme all’appello di numerose organizzazioni internazionali hanno denunciato la morte di migliaia di civili e il numero di persone costrette a fuggire è aumentato in maniera esponenziale. Si è parlato di città ricoperte di cadaveri e di massacri in tutti i dipartimenti della regione, come quello della città di Mai-Kadra, dove la stima delle vittime tra il 9 ed il 10 novembre è arrivata a 600. In tale contesto, la libertà di espressione dei giornalisti eritrei e dei mezzi di informazione internazionali, è rimasta ed è tuttora silente date le minacce che incombono sulla stabilità dell’intera regione, insieme ad un improvviso blackout che ha reso tutti i supporti elettronici inutilizzabili. “Le uniche persone che hanno accesso a quello che sta succedendo sono le truppe etiopi e le milizie”. Il 7 dicembre il governo centrale ha annunciato la fine dell’offensiva militare delle sue truppe e l’amministratore provvisorio del Tigrai ha dichiarato che la pace è nuovamente tornata. Tuttavia, una crisi umanitaria non termina da un giorno all’altro, soprattutto data la dimensione di radicalizzazione regionale che caratterizza il conflitto del Tigrai e quanto riportato da quelle poche testimonianze che riportano la situazione in loco.         L’ONU si è mobilitato ed ha firmato un accordo con la regione per “consentire un accesso illimitato, sostenuto e sicuro per le forniture umanitarie”. Nell’accordo si specifica che tali aiuti saranno diretti anche alle regioni di Amara

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Talibè-Senegal

Bambini Talibè in Senegal: la vita in bilico tra abusi e accattonaggio

Per la strada di Dakar e in molte altre città del Senegal si possono osservare ragazzi impolverati, sporchi e spesso a piedi nudi che tengono in mano lattine di pomodoro vuote o ciotole di plastica per chiedere l’elemosina, nella maggior parte dei casi si tratta dei bambini Talibè. Uno studio dell’UNICEF del 2007 sull’accattonaggio dei bambini a Dakar, la capitale del Senegal , ha rilevato che oltre il 90% dei bambini sono Talibè, ad oggi però non ci sono ancora statistiche ufficiali e vengono coinvolti bambini tra gli 8 e i 15 anni. Talibè e Marabutto in Senegal Il termine Talibè nella lingua Wolof significa “discepolo” e si riferisce ai bambini che frequentano le Daara ovvero le scuole coraniche gestite dai Marabutto, coloro che insegnano i precetti dell’islam sulla base dell’apprendimento mnemonico del Corano. Le Daara in Senegal hanno garantito per secoli una buona diffusione dell’educazione islamica in tutti i segmenti della popolazione del paese dell’africa occidentale. Qui spesso però si attua la punizione fisica che per molti paesi musulmani dell’africa occidentale viene considerata una parte importante del processo educativo. Tra il Talibè e il suo Marabutto esiste un rapporto di devozione e stretta obbedienza in quanto il Marabutto offre la sua guida e la sua protezione ai propri discepoli che esprimono la propria fiducia attraverso un sostegno economico o la decima.  In Senegal la questione dei Talibè non è vista in maniera omogenea, alcuni ne promuovono la diffusione mentre altri la chiusura. A ciò si aggiunge che i genitori che decidono di mandare i figli a una Daara spesso lo fanno attraverso un affidamento di fatto, a causa delle proprie difficoltà economiche, e per offrire un futuro migliore al bambino costruendo un rapporto con la fratellanza mussulmana a cui il Marabutto appartiene e di conseguenza per preparare il bambino alla carriera di Marabutto. Occorre notare però che la formazione dei Talibè rimane essenzialmente legata ai valori dell’Africa occidentale in materia di educazione dei bambini. L’accattonaggio, le punizioni e la vita nelle Daara Originariamente l’accattonaggio dei Talibè era costituito nel chiedere cibo per integrare le scorte della Daara quando questa non poteva sostenere il proprio fabbisogno attraverso i raccolti forniti dai campi del Marabutto. Tale pratica si è evoluta dal momento in cui le Daara sono cresciute in ambiente urbano e hanno richiesto un cambiamento di reddito. In questo modo la pratica dell’elemosina ha fatto sì che i bambini dessero denaro al posto del cibo. Il problema degli abusi dei Marabutto verso i bambini Talibè in Senagal non è soggetta alla regolamentazione statale e di conseguenza alcune scuole abusano del rapporto che intercorre tra discepolo e maestro. Spesso quella che dovrebbe essere una istituzione di educazione può assumere sfaccettature negative. Alcuni Marabutto, invece di insegnare il Corano ai loro Talibè, li sfruttano per il lavoro o per l’accattonaggio forzato per le strade. In alcuni casi questo sfruttamento espone i bambini a malattie, ferite, morte, abusi fisici e sessuali all’interno o all’esterno della Daara. Human Rights Watch da un’indagine su 175 bambini Talibè in Senegal ha stimato una media di poco meno di 8 ore al giorno, ogni giorno, di accattonaggio per poter richiedere una cifra tra i 373 CFA (0,56 €) e i 445 CFA (0,67 $) nei giorni di festa. Somma difficile da raggiungere in quanto poco meno del 30% della popolazione senegalese vive con meno di 593 CFA (0,90 €) al giorno e dove il 55% vive con meno di 949 CFA (1,44 €). Oltre al denaro spesso vengono richieste quote alimentari come lo zucchero e il riso. Se tale quota non viene rispettata il rischio e quello di subire abusi fisici e ad esempio molti ragazzi mostrano cicatrici e lividi spesso dovuti all’applicazione di cavi elettrici o bastoni. Spesso però il Talibè più anziano, che diviene l’assistente del marabutto, è il responsabile per la punizione dei Talibè più giovani che non restituiscono la loro quota giornaliera o che ritornano in ritardo. Nei casi in cui il Marabutto non sorveglia i bambini, il Talibè più anziano ha potere assoluto su di questi in quanto potrà derubarli o abusare di loro fisicamente o sessualmente. In generale i bambini rischiano percosse, abusi sessuali, incatenamento, incarcerazione e numerose forme di abbandono e di pericolo in almeno 8 delle 14 regioni amministrative del Senegal. A ciò si aggiungono i rischi connessi al traffico e alla migrazione dei bambini Talibè in Africa, tra cui il trasporto illecito di gruppi di Talibè e attraverso regioni e confini nazionali. I Talibè senegalesi spesso sono sprovvisti di beni di prima necessità e alloggio, dovendo sostenere ore più lunghe di accattonaggio o dormire per strada. Le condizioni nelle stesse Daara urbane, inoltre, sono spesso caratterizzate da malnutrizione, mancanza di abbigliamento, esposizione a malattie e scarse cure igieniche. Spesso centinaia di bambini Talibè vivono in condizioni di estrema sporcizia e squallore in edifici incompiuti e privi di pareti, pavimento o finestre. Qui spazzatura, fognature e mosche intasano il terreno e l’aria e spesso i bambini dormono stipati a decine in una stanza all’aperto, la maggior parte di queste senza zanzariere e quindi a rischio di infezioni o malattie. La situazione viene aggravata dal fatto che se i bambini si ammalano, questi sono costretti a mendicare per pagarsi le proprie cure. I numerosi diritti violati Dal punto di vista del diritto vi sono numerose questioni relative ai diritti umani e ai diritti dell’infanzia, pertanto la questione dei bambini Talibè in Senegal chiama in causa diverse convenzioni internazionali. Quando parliamo dei Talibè possiamo trovarci davanti a casi di schiavitù, lavoro forzato e traffico di esseri umani. Alcune ONG sostengono che quando un Marabutto acquisisce la custodia di un Talibè per costringerlo a mendicare, questo corrisponde alla definizione di una “pratica affine alla schiavitù” come definita dalla Convenzione supplementare sull’abolizione della schiavitù (1956). Inoltre la Convenzione sul lavoro forzato e obbligatorio (1930) descrive il lavoro forzato come “un lavoro che viene esercitato da qualsiasi persona sotto minaccia di qualsiasi sanzione e per la quale la persona in questione non si

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L’espropriazione dei diritti delle donne in Etiopia

In Etiopia, come in altre società tradizionali, il valore delle donne è misurato in base al loro ruolo di madri e mogli. Nelle città come nelle campagne, la divisione dei ruoli tra uomo e donna è ben definita, affidando al primo un controllo completo sulla vita della moglie che, costretta alla sfera domestica, raramente partecipa alla vita comunitaria. Nelle situazioni più estreme l’uomo esercita un controllo sul corpo stesso della donna, che troppo spesso viene sottoposto a tremende violazioni. Questa sottomissione istituzionalizzata del genere femminile risale ai tempi dell’occupazione italiana del Paese. I coloni bianchi hanno infatti giocato un ruolo importante nel fortificare il sistema patriarcale all’interno dei diversi gruppi etnici che popolano il Paese. Soprattutto a partire dal 1940, gli occupanti stranieri usavano le donne locali come concubine per fini di sfruttamento sessuale, usando la forza e la violenza quando queste si opponevano. Della donna etiope si parlava largamente anche in Italia, poiché veniva menzionata come uno dei motivi per cui era giusto emigrare nei territori di nuova occupazione. Il sessismo si è fatto così strada nella società etiope e rimane tutt’oggi una grave piaga da abbattere per permettere uno sviluppo realmente sostenibile in questo Paese. Oggi, Large Movements cercherà di far luce sulle caratteristiche che accomunano le donne etiopi, segnalando le maggiori difficoltà verso la parità di genere e le più gravi violazioni dei loro diritti umani che, come purtroppo succede in molti Paesi, restano saldamente ancorate alla società attraverso leggi, usanze e tradizioni che scoraggiano l’emancipazione della donna. I diversi livelli della discriminazione di genere Secondo il Global Gender Gap Report, pubblicato nel 2018 dal Global Economic Forum, l’Etiopia si classifica al 117° posto su 149 paesi, evidenziando uno stallo rispetto all’anno precedente sulla riduzione del divario di genere, già ampio in maniera allarmante. Il report analizza le disparità di genere utilizzando indicatori quantitativi in quattro contesti sociali utili a misurare la possibilità per le donne di auto-determinarsi e di rendersi indipendenti: 1. L’accesso al lavoro (indipendenza economica); 2. L’accesso all’educazione elementare, media e superiore, compresa l’università; 3. L’accesso alle cure sanitarie ed all’aborto; 4. La partecipazione attiva nella vita politica del Paese. Vediamo adesso le maggiori difficoltà che le donne affrontano negli ambiti sopraelencati, evidenziando anche le peggiori violazioni di diritti umani perpetrate ai loro danni all’interno della società odierna dell’Etiopia. 1. L’accesso al lavoro Le immense difficoltà di accesso alla professione riscontrate dalle donne etiopi vengono evidenziate dal tasso di occupazione femminile, che oscilla tra il 40 ed il 50%. Di questa percentuale, la grande maggioranza dei lavori corrisponde all’agricoltura ed all’allevamento, se non ad attività informali di scarsa rilevanza per l’economia famigliare. Inoltre, il restante della popolazione femminile si occupa delle attività di cura della casa e della famiglia – che vengono omesse dal conteggio perché non remunerate – ma non per questo non altrettanto faticose e degradanti. Tra queste, riteniamo opportuno menzionare il trasporto di carichi pesanti come le taniche d’acqua per decine di chilometri. Il divario di genere nel mercato del lavoro etiope è dunque elevatissimo, e questa condizione viene denunciata dal Report sull’Etiopia realizzato dalla Convenzione sull’Eliminazione di tutte le forme di Discriminazione contro le Donne (CEDAW), che condanna il controllo e lo sfruttamento delle donne compiuto secondo l’ideologia dominante in Etiopia. Questo risulta dunque determinante nell’impedire che la donna raggiunga uno status di indipendenza ed auto-determinazione. Le cause principali vengono identificate nelle pratiche di distribuzione delle risorse e delle opportunità e nella divisione del lavoro che non rispondono ai bisogni delle donne, bensì vanno ad alimentare il divario di genere. Il ruolo di subordinazione delle donne viene accentuato da politiche sociali, culturali ed educative che non garantiscono la loro tutela o che non vengono effettivamente attuate, andando peraltro a peggiorare la situazione di povertà nazionale. Nonostante la legge federale garantisca il diritto di pari accesso alla terra per uomini e donne, nella realtà dei fatti questa non viene applicata poiché le donne sono escluse dalla proprietà terriera, di fatto ostacolata anche per gli uomini a causa della nazionalizzazione della terra avvenuta nei primi anni ‘90. Infatti, il 70% delle donne sposate non ha possibilità di gestire i frutti del proprio lavoro agricolo poiché questo spetta al marito. La percentuale acquista rilievo se contestualizzata nella presenza schiacciante di lavori rurali del settore primario, rispetto agli altri settori, che da impiego a più del 65% della popolazione totale etiope. La difficoltà di accesso alle risorse è concreta: il livello di povertà e sottosviluppo della maggioranza delle famiglie è originato dalla carenza di risorse idriche derivanti anche dalle frequenti siccità; l’acqua viene recuperata e trasportata come possibile, pur significando viaggi lunghi e faticosi affrontati, spesso, dalle donne e dai bambini. 2. L’accesso all’istruzione In Etiopia quasi metà della popolazione è analfabeta. In un contesto fortemente rurale in cui i bambini abbandonano gli studi per poter portare un aiuto economico in casa, le donne sono i soggetti più colpiti dalla rinuncia all’istruzione. La scuola è frequentata in prevalenza da ragazzi soprattutto a partire dal livello secondario: la durata media di un percorso di studi di una studentessa in Etiopia è infatti di soli 8 anni, sempre secondo quanto evidenziato dal Report della CEDAW. La causa dell’abbandono scolastico della bambina a volte corrisponde con il matrimonio, spesso con un uomo di età molto più avanzata. I matrimoni precoci – o matrimoni forzati – sono un fenomeno largamente diffuso in Etiopia, a discapito della legge che stabilisce a 18 l’età minima per le nozze. A volte a questo segue una gravidanza precoce e l’impossibilità di varcare le mura domestiche per iniziare la carriera professionale. Secondo the World Factbook nel 2020 il tasso di fertilità è di oltre 4 figli per donna – in confronto, in Italia ammonta a 1.3 figli per donna -, dato comunque in miglioramento rispetto alla media di 7 figli registrata quaranta anni fa. Recentemente il Dipartimento di Genere del Ministero dell’Istruzione, in collaborazione con il Forum for African Women’s Education, ha introdotto una serie di programmi ed iniziative volte a scoraggiare

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MINORANZE RELIGIOSE CRISTIANE IN ALGERIA: tra normative limitanti e migrazioni

Quanto avvenuto ad inizio anno 2020 in Algeria è stato un vero e proprio “campanello di allarme” per la comunità internazionale. Un ingente flusso migratorio è stato registrato in Italia, in particolare sulle coste della Sardegna meridionale, proveniente proprio dal territorio algerino.   A renderlo noto alla comunità internazionale ed europea sono state delle interrogazioni parlamentari (in particolare: E-002954/202; E-004214/2020), provenienti da differenti partiti.   Andando a ritroso ed analizzando la situazione politica e sociale interna dell’Algeria, la questione relativa alla libertà di religione o credo ed alla protezione delle minoranze religiose è diventata, con il passare del tempo, insostenibile per la popolazione.   Cosa è successo negli ultimi anni in Algeria, in particolare alle minoranze religiose?  QUADRO POLITICO E SOCIALE  In Algeria, se si parla di situazione politica e sociale, è evidente come la volontà generale della comunità internazionale sia quella di creare uno Stato più inclusivo. Il fine è quello di cambiare ed adattare le prassi nazionali in materia di libertà fondamentali agli standard internazionali, ma il governo algerino non è della stessa opinione.  Nel 2019 movimenti di protesta hanno tentato di rovesciare l’ordine precedente riuscendo ad eleggere un nuovo presidente, Abdelmadjid Tebboune, ed a promulgare una nuova costituzione. Nonostante questo passo avanti nello sviluppo democratico e sociale del paese, le tutele e le garanzie di rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti politici sono ancora lontane dall’essere definite e protette.  Tra le libertà fondamentali più violate ci sono la libertà di religione o credo e la protezione delle minoranze religiose.  I cristiani algerini da sempre convivono con la popolazione musulmana pacificamente. Ma il governo nazionale non considera invece altrettanto pacificamente la presenza cattolica sul territorio algerino.  I cristiani – principalmente coloro di credo protestante – parte dell’Evangelical Protestant Association (EPA), si trovano in affanno, a causa della privazione dei loro diritti fondamentali connessi al credo religioso, come evidenziato dal Religious Freedom Institute, nel Cornerstone Forum circa Algeria’s Opportunity for Freedom.   Il governo locale, infatti, ha da sempre esercitato una sorta di potere coercitivo sulle chiese cristiane di tutto il Paese, arrivando ad imprigionare i fedeli.   QUADRO NORMATIVO  Il Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR), che l’Algeria ha ratificato, istituisce un obbligo in capo ai governi di garantire la libertà di religione, di pensiero e di coscienza di ogni persona sul territorio nazionale. Vale la pena sottolineare che gli articoli 18 e 27 del ICCPR statuiscono che queste libertà trovano applicazione anche nei confronti delle minoranze religiose, spesso abbandonate.   In altre parole, quindi, le disposizioni del patto mirano a garantire a tutti la possibilità di esercitare liberamente la propria religione o credo in ambienti pubblici e privati, singolarmente od a livello comunitario. Dette norme pertanto, si dovrebbero applicare anche ai cristiani algerini.  Nella Costituzione dell’Algeria la libertà religiosa è esplicitata e protetta, ma, allo stesso tempo, è affermato che “questa libertà deve essere esercitata nel rispetto della legge“.  La Legge 06-03 a cui si fa riferimento nella Costituzione è quella del 28 febbraio 2006, emanata dopo le numerose vicende legate alla violenta guerra civile che ha investito l’Algeria.  Il sopracitato testo legislativo tenta di controllare e limitare il culto per tutti coloro che non sono di fede musulmana, come analizzato anche da Human Rights Watch. In particolare, si riferisce a specifiche pratiche, come quella dei culti collettivi e del proselitismo.   I culti collettivi vengono limitati dalla legge ad alcuni luoghi, solo dopo aver ottenuto un via libera delle Commissioni nazionali che si occupano delle pratiche religiose. La legge statuisce inoltre che dette concessioni vengono garantite solo ad organismi religiosi giuridicamente riconosciuti dal governo algerino.  Per quanto riguarda il proselitismo cristiano, questo è considerato un vero e proprio reato penale, punito con una sanzione pecuniaria e la reclusione. Queste sono misure che vengono principalmente attuate nel momento in cui detto proselitismo viene perpetrato nei confronti di un fedele musulmano, essendo una pratica altamente condannata anche dalla religione musulmana stessa.  La legge ha creato un sistema secondo il quale le chiese locali, per ottenere l’identità legale e quindi esercitare la propria fede sul territorio, dovrebbero presentare una petizione ad un Comitato ad hoc. Il Comitato a sua volta ha facoltà di concedere o meno l’autorizzazione e di porre delle limitazioni in maniera tale da “non intaccare” in nessun modo la fede principale del Paese: l’Islam.  Nel 2012, solo sei anni dopo l’emanazione della legge sopra in commento, ne è stata emanata un’altra volta a limitare ulteriormente l’identità legale dei cristiani algerini, i quali sono stati obbligati così a doversi registrate per poter continuare a professare “liberamente” la loro fede.  La situazione non è migliorata con il passare degli anni.  Il governo, infatti, ha ostacolato e perseguitato tutti i cristiani algerini presenti sul territorio a partire dalle violentissime persecuzioni perpetrate nei loro confronti negli anni ‘90, che hanno generato instabilità nella popolazione e destato altrettanta preoccupazione nella comunità religiosa ed internazionale.  Ad oggi, come abbiamo visto, la situazione non risulta particolarmente migliorata, e sempre meno fedeli frequentano le Chiese per paura di ritorsioni da parte delle autorità locali. Ritorsioni queste, attuate soprattutto nei confronti dei cristiani protestanti, che trovano fondamento legale proprio nella legge del 2006 sopra citata.  Conseguentemente, il governo algerino ha deciso di trasformare molte di queste Chiese – ormai abbandonate – in moschee e, dal 2018, ha avviato una vera e propria campagna nazionale per invitare alla chiusura di tutte quelle protestanti.   La popolazione algerina combatte da anni questa situazione di instabilità sociale che ha portato all’oppressione alla quale si assiste al giorno d’oggi. Integrazione sociale e convivenza religiosa, infatti, potrebbero diventare i cardini dello Stato algerino, se non ci fosse un quadro normativo così categorico in materia di libertà delle minoranze religiose.   Lo sviluppo e l’adeguamento dell’Algeria nel contesto internazionale di tutela delle minoranze religiose sarebbe sicuramente un valore aggiunto per le comunità, che vedrebbero diminuire i conflitti su base religiosa, che ad oggi esistono.  SITUAZIONE ATTUALE  Come abbiamo visto, l’instabilità religiosa si riflette in instabilità sociale ed è la causa di anni di conflitti interni al Paese. Questo spinge i perseguitati alla fuga, soprattutto tramite il Mar Mediterraneo.  La violazione della libertà religiosa diventa dunque, nel contesto dell’Algeria, il motore principale delle migrazioni.   Dal fallimento della sua tutela e protezione nascono problemi non solo sociali, ma anche politici, militari, di sicurezza, ma soprattutto internazionali.   La preoccupante situazione in Algeria allarma la comunità internazionale

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Le migrazioni climatiche in Africa: una panoramica sul fenomeno

Le migrazioni climatiche e le migrazioni ambientali sono un fenomeno di cui si discute in occasione dei diversi forum sull’ambiente. Ogni contesto porta però con se differenze nelle cause e nelle conseguenze, nel frattempo diventa sempre di più urgente una risposta su entrambi i fronti mentre a livello internazionale si hanno crescenti difficolta a trovare un accordo. Migrazioni ambientali e migrazioni climatiche Le migrazioni climatiche in Africa sono un argomento sempre più al centro nel dibattito sulle migrazioni. Già nel 1990 l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), il foro scientifico delle Nazioni Unite con lo scopo di studiare il riscaldamento globale e i suoi effetti, ha osservato che il maggiore impatto potrebbe aversi sulle migrazioni umane. Pertanto occorre ricordare la sottile differenza tra le migrazioni ambientali, dovute a una azione diretta dell’uomo (per esempio causata da un danno ambientale come lo sversamento di petrolio), e le migrazioni climatiche. In altre parole le migrazioni dovute all’impatto meteorologico conseguente al cambiamento climatico. Per chiarire, occorre ricordare che già da tempo la comunità scientifica ha riconosciuto l’origine antropica del cambiamento climatico. In aggiunta occorre specificare che non è facile distinguere tra i due tipi di migrazione e che spesso si muovono in parallelo, sommandosi nei loro effetti sulla mobilità umana. D’altra parte l’impatto meteorologico del cambiamento climatico può essere diviso in due distinti fattori di migrazione: i processi climatici e i fattori non climatici. Ad esempio per processi climatici si intendono fenomeni come l’innalzamento del livello del mare, la salinizzazione dei terreni agricoli, la salinizzazione delle acque e della terra, la desertificazione e la crescente scarsità d’acqua, oltre che eventi climatici come le inondazioni e le irregolarità (oltre che la violenza) delle precipitazioni. In aggiunta abbiamo i fattori non climatici come l’instabilità politica, il governo, la crescita della popolazione e la resilienza a livello di comunità alle catastrofi naturali. In breve tutti questi fattori contribuiscono al grado di vulnerabilità che sperimentano persone e società. Gli effetti delle precipitazioni in Africa e le migrazioni climatiche Per quanto riguarda le migrazioni climatiche in Africa, si osserva una crescente irregolarità delle precipitazioni in ampie aree dell’Africa subsahariana, in particolare nelle zone aride e semi-aride. Certamente questo comporta un inizio sempre meno prevedibile e una fine anticipata della stagione delle piogge, prolungate fasi di siccità stagionale e un incremento delle precipitazioni più intense. In aggiunta la tendenza sembra essere quella di una riduzione del livello generale delle precipitazioni e un aumento delle precipitazioni occasionali di forte intensità. Vale a dire difficoltà crescenti per i sistemi agricoli dipendenti dalle piogge per l’irrigazione. Di conseguenza tali dinamiche costituiscono una minaccia persistente alla sicurezza alimentare in quanto comportano la perdita di ingenti raccolti e di alimenti base come mais e miglio. Inoltre, i cambiamenti delle precipitazioni sono accompagnati da allagamenti, esondazioni fluviali e alluvioni causate dall’attività di cicloni in aree costiere. In Africa, dal punto di vista delle migrazioni climatiche, abbiamo diversi effetti a seconda dell’area colpita. Sugli altipiani dell’Africa orientale, le alluvioni distruggono abitualmente insediamenti e campi agricoli, spesso costringendo gli agricoltori ad abbandonare le aree di coltura. Nelle pianure, esondazioni fluviali e allagamenti su larga scala colpiscono principalmente gli allevatori che operano in aree aride e semi-aride, minacciando al contempo anche i lavoratori urbani. In Africa australe, le terre in prossimità dei grandi bacini fluviali e le zone costiere (in particolare, in Africa sud-orientale e Madagascar) sono interessate da fenomeni alluvionali di forte intensità, che danno impulso a fenomeni migratori temporanei o permanenti. In conclusione occorre dire che la forte dipendenza dall’agricoltura e dall’allevamento costringe i piccoli produttori agricoli e le comunità pastorali a diversificare le fonti di reddito: ciò determina un incremento dei flussi migratori circolari e stagionali all’interno del continente africano, che rappresentano una fondamentale strategia di adattamento e resilienza. Le migrazioni climatiche e le Forme di mobilità all’interno dell’Africa In Africa si può assistere a flussi di mobilità lavorativa circolare rurale-urbana e rurale-rurale che costituiscono una reazione comune in tutte le regioni del continente. In questo caso parliamo di “migrazione come adattamento” al cambiamento climatico. In molti casi, singoli individui migrano per un certo periodo di tempo per guadagnare denaro e impiegarlo in modo da mitigare le difficoltà dei nuclei familiari. Però occorre ricordare l’esistenza delle cosiddette “popolazioni in trappola”, ovvero quei numerosi nuclei familiari colpiti dalle conseguenze del cambiamento climatico ma che non dispongono delle risorse necessarie a spostarsi. In aggiunta va quindi detto che non vi è un “automatismo” allo spostamento poiché problemi come lo sfruttamento lavorativo, l’indisponibilità di occupazione e in generale le asperità delle condizioni di vita e di lavoro per i migranti indeboliscono talora il potenziale positivo della migrazione. Le comunità più mobili dal punto di vista delle migrazioni climatiche sono le comunità pastorali e semi-pastorali. In primo luogo queste sono costrette a spostamenti forzati o riallocazioni temporanee a causa della siccità. In secondo luogo tali spostamenti possono prendere due diverse forme: processi di sedentarizzazione locale o migrazione verso i contesti urbani. D’altra parte queste due forme possono avere dei risvolti “negativi”. Spesso le comunità si insediano lungo i fiumi per permettere al bestiame di abbeverarsi e di conseguenza aumenta la loro vulnerabilità alle esondazioni. D’altra parte la migrazione verso i contesti urbani porta spesso i nuovi arrivati a vivere nelle baraccopoli delle megalopoli. Qui, oltre ai problemi igienico-sanitari in cui possono incorrere, possono essere soggetti a fenomeni di crescente violenza. Rischi ambientali e rischi politici Se i cambiamenti ambientali e le potenziali conseguenze rappresentano gli agenti chiave delle migrazioni climatiche, in aggiunta sono connessi a questi fattori politici, sociali, economici e culturali. In altre parole il rischio di migrazioni climatiche è particolarmente grave in presenza di un quadro socio-politico generalmente instabile e di conflitti armati prolungati. Facciamo un esempio di un contesto fragile con scarsità idrica causata da siccità. In questo caso ci troviamo in un contesto con un accesso limitato alle risorse. In primo luogo possiamo avere un aumento delle probabilità di conflitto per l’accesso all’acqua tra agricoltori e allevatori. In secondo luogo il concretizzarsi del conflitto

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