Uganda: Porto Sicuro o Polvere sotto al Tappeto? Ne parliamo con Maëlle Noir

Sentiamo spesso parlare del conflitto nella Repubblica Democratica del Congo, come in Sud Sudan o delle continue violenze e rappresaglie in Repubblica Centraficana. Sappiamo gravemente poco, però, delle persone che scappano da questi conflitti, dei rifugiati, delle loro condizioni, e soprattutto delle condizioni delle donne che si ritrovano a fuggire per salvare le proprie vite e le proprie famiglie. Per questo oggi vorremmo porre l’accento su una parte spesso tralasciata nelle narrative dei conflitti: le persone che sono spinte a fuggire da questi contesti e che nella stragrande maggioranza dei casi, contrariamente a quanto spesso viene falsamente sostenuto, rimangono in Africa cercando asilo in Stati confinanti e non scelgono di affrontare il pericolossissimo viaggio verso l’Europa. Uno dei Paesi africani che accoglie una grande quantità di persone in fuga è l’Uganda.

Oggi ne parliamo con Maëlle Noir, dottoranda dell’Irish Research Council presso l’Irish Centre for Human Rights dell’Università di Galway. La sua ricerca affronta la questione della violenza nei confronti delle donne rifugiate attraverso una prospettiva femminista intersezionale e decoloniale, esplorando la rilevanza di un approccio femminista al diritto come alternativa alla prassi legale nel contesto dei rifugiati urbani ugandesi.

Maëlle ha una vasta esperienza nel campo dell’advocacy e della ricerca comunitaria, poiché negli ultimi cinque anni ha lavorato con diverse organizzazioni nazionali e locali della società civile in India, Irlanda, Francia e Uganda.  È anche assistente di ricerca part-time nell’ambito del progetto Horizon dell’Unione Europea su democrazia e politica, collaborando con ricercatori in Slovacchia, Austria, Italia e Irlanda.

Ciao Maëlle, è un piacere averti qui con noi. Innanzitutto, vorrei chiederti della popolazione rifugiata che raggiunge l’Uganda. Quali sono le principali nazionalità che chiedono asilo in Uganda, qual è la procedura per richiedere asilo nel Paese e dove sono accolti i rifugiati?

È importante iniziare dicendo che in Uganda risiedono oltre 1,5 milioni di rifugiati, cifra che ne fa la prima popolazione di rifugiati in Africa e la quarta al mondo. Ciò si spiega con la posizione geografica dell’Uganda, crocevia di diverse zone di conflitto nei Paesi vicini, tra cui la Repubblica Democratica del Congo (RDC), il Sud Sudan, la Somalia, l’Etiopia, il Burundi, l’Eritrea, il Ruanda, ecc. L’Uganda ha anche una lunga storia di “politica di porte aperte”, sostenuta finanziariamente e politicamente dal Nord globale che sostiene lo Stato nell’accogliere i rifugiati in fuga dai conflitti e dalle persecuzioni.

Per quanto riguarda la nazionalità, il Sud Sudan, la Repubblica Democratica del Congo e la Somalia sono i Paesi di origine predominanti per i rifugiati in Uganda, in quanto costituiscono rispettivamente il 57,1%, il 32% e il 4,1% della popolazione totale rifugiata. Tuttavia, quando si tratta di rifugiati urbani, solitamente localizzati nella capitale Kampala, nella parte meridionale del Paese, questi sono principalmente Somali, Congolesi, Eritrei, Sud Sudanesi, Burundiani ed Etiopi.

Il Refugee Act ugandese del 2006 amplia la definizione di rifugiato fornita dalla Convenzione sui Rifugiati del 1951 e dalla Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana del 1969 che disciplina gli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa, includendo il criterio del genere. Pertanto, chiunque si trovi al di fuori del proprio Paese d’origine, a causa di aggressioni esterne, occupazione, dominazione straniera od eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico, ed abbia il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale, opinione politica o genere, può ottenere lo status di rifugiato.

La procedura per richiedere asilo in Uganda varia a seconda che il richiedente asilo desideri stabilirsi in un campo (che spesso viene concesso sulla base dello status di rifugiato prima facie o “automatico” ossia, di gruppi di persone che provengono da uno Stato che l’UNHCR ha riconosciuto soddisfare i requisiti oggettivi che giustificano la presupposizione dello status di rifugiato. Per queste persone dunque, dovrebbe essere più semplice e veloce ottenere lo status perché l’onere probatorio della situazione nel Paese di origine è del tutto inesistente. Si sono intenzionalmente lasciate le virgolette sul termine automatico però, perché nella realtà questa presunzione non viene quasi mai applicata) o in città (rifugiato non prima facie, al contrario, individui non appartententi alla modalità “automatica”), ma in entrambi i casi rimane relativamente semplice. Per lo status di rifugiato “automatico”, i richiedenti asilo che raggiungono il confine vengono trasferiti in uno dei numerosi centri di accoglienza del Paese per un breve colloquio con un agente dell’Ufficio del Primo Ministro (OPM) prima della registrazione e dell’ottenimento dello status di rifugiato. Questo processo dura da pochi giorni ad un massimo di un paio di settimane, a meno che non ci sia un afflusso particolarmente importante di rifugiati. È più difficile ottenere lo status di rifugiato “non-automatico”, soprattutto per potersi stabilire in una città. Il richiedente asilo deve registrarsi presso l’OPM e sottoporsi a una serie di colloqui con diversi interlocutori, tra cui un ufficiale di polizia e un funzionario dell’OPM incaricato di esaminare lo status, seguiti da un esame finale del caso da parte del Comitato per l’ammissibilità del rifugiato. Secondo l’UNHCR, nel 2022 circa l’87,5% delle domande di status di rifugiato è stato accolto. A titolo di confronto, nel 2022 in Italia oltre l’80% dei richiedenti asilo si è visto negare lo status di rifugiato.

Parlando dei campi profughi ugandesi, quali sono le condizioni di accoglienza nei campi?

L’Uganda è spesso elogiata dalla comunità internazionale e dai media per le sue condizioni di accoglienza esemplari che favoriscono un “porto sicuro” o addirittura un “paradiso” per i rifugiati.

In effetti, sulla carta e in conformità con il Comprehensive Refugee Response Framework, i richiedenti asilo che hanno ottenuto lo status di rifugiato ricevono automaticamente un appezzamento di terreno da coltivare, l’accesso all’istruzione ed all’assistenza sanitaria gratuita, nonché il diritto al lavoro ed alla libertà di movimento.

Tuttavia, sappiamo che la teoria di solito differisce drasticamente dalla pratica ed è il caso anche del contesto dei rifugiati in Uganda. La politica di non confinamento (non-encampment policy), apparentemente progressista, promossa dal Comprehensive Refugee Response Framework, non è molto ben attuata in quanto la libertà di movimento rimane condizionata all’ottenimento di un permesso rilasciato dall’OPM e dall’UNHCR. Nell’insediamento, il sussidio monetario ammonta attualmente a 13.000 scellini ugandesi al mese, pari a circa 3,50 euro. I servizi sanitari e scolastici sono sottofinanziati e insufficienti, quindi non tutti hanno accesso ad un’assistenza sanitaria ed un’istruzione adeguate. Inoltre, gli insediamenti sono descritti come luoghi di violenza elevata, soprattutto contro le donne e le comunità LGBTQ+. Sono stati segnalati anche casi di violenza di genere e sfruttamento sessuale perpetrati da operatori umanitari incaricati di ripartire le risorse.

Il messaggio promosso dalla comunità internazionale sull’Uganda e sulle sue politiche di non confinamento quale “porto sicuro” per i rifugiati riflette anche un discorso coloniale e razzista perpetrato nel Nord del mondo.  Un esempio delle “eccezionali condizioni di accoglienza” in Uganda che viene spesso presentato, soprattutto dai media occidentali, è l’assegnazione gratuita ai rifugiati di un appezzamento di terra, riducendo l’unica attività professionale degli stessi all’agricoltura. 

Le informazioni fornite qui sopra non si basano sull’osservazione, poiché la mia ricerca si concentra esclusivamente sui rifugiati urbani, ma derivano da letteratura scientifica e dalle testimonianze fornite dagli intervistati della mia ricerca che sono fuggiti dagli insediamenti in cerca di una vita più pacifica e priva di violenza.

A questo proposito, puoi parlarci dell’accesso all’assistenza per i casi di violenza di genere e se e quali sono le politiche in atto nel Paese che possono ostacolare un approccio sensibile alle questioni di genere?

Sebbene le leggi e le politiche ugandesi sulla determinazione dello status di rifugiato e la sua protezione sembrino tenere conto della dimensione di genere dell’esperienza migratoria, la loro attuazione manca in modo cruciale di una sensibilità di genere e culturale. Infatti, abbiamo visto che la Legge sui Rifugiati del 2006 è particolarmente progressista, in quanto aggiunge come motivo di asilo la violazione delle pratiche discriminatorie di genere. La violenza e gli abusi di genere sono affrontati anche nel quadro del Comprehensive Refugee Response.

Nel caso dei rifugiati che si trovano negli insediamenti, le strutture che si occupano di violenza di genere sono spesso molto lontane e i rifugiati non possono permettersi di viaggiare su una boda-boda (“motocicletta” in Uganda) per denunciare un caso alla polizia. Se le sopravvissute raggiungono la stazione di polizia, molte riferiscono di non venire credute o addirittura di ricevere richieste di denaro per registrare il caso. A volte i partner attuativi dell’UNHCR sono presenti in loco, ma non dispongono di risorse sufficienti e non possono occuparsi di tutte le denunce.

Sia negli insediamenti che nel contesto urbano, la ricerca empirica dimostra che gli operatori dei servizi contro la violenza di genere non sono sufficientemente formati per adottare pratiche sensibili alla dimensione di genere. I partecipanti alla mia ricerca (sia sopravvissuti che operatori dei servizi per rifugiati) hanno riferito molti casi di ritraumatizzazione e normalizzazione della violenza, favoriti da una persistente cultura di incredulità nei confronti delle istanze dei rifugiati. Il fenomeno si spiega anche a causa della mancanza di una comprensione strutturale e intersezionale della violenza di genere contro le rifugiate. Infatti, il genere e lo status di migrante si intersecano per creare una forma unica di discriminazione che richiede a sua volta una forma unica di compensazione. Anche altri sistemi di oppressione possono contribuire al perpetrarsi della violenza e al modo in cui questa viene affrontata dagli operatori, come la transfobia, l’abilismo, il colorismo, il tribalismo, ecc.

In Uganda, inoltre, si osserva un monopolio istituzionalizzato da parte delle organizzazioni internazionali e ugandesi per la fornitura di servizi. Le organizzazioni selezionate dall’Ufficio del Primo Ministro (OPM) e registrate secondo la legge sulle ONG del 2016 sono le uniche a potersi occupare dei rifugiati. Ciò ha particolari effetti sulle questioni di genere, poiché l’OPM detiene un notevole controllo sui prestatori di servizi contro la violenza sessuale e sull’assegnazione dei fondi.

In un audit del 2018 dell’Office of Internal Oversight Services (OIOS) delle Nazioni Unite sono stati riscontrati numerosi accordi riguardanti la rappresentanza ugandese e l’OPM, tra cui la selezione di partner che si erano impegnati in attività fraudolente ed in una cattiva gestione dei finanziamenti nel 2016 ed altri che non erano stati raccomandati dalla Commissione per la gestione e l’attuazione dei partenariati istituita dalla rappresentanza UNHCR. Secondo quanto emerso dalla verifica, inoltre, il numero di rifugiati è stato gonfiato di 300.000 unità per attirare maggiori finanziamenti internazionali.

Per questo motivo, spesso le donne rifugiate vengono assistite da personale poco qualificato e alle sopravvissute può essere addirittura negato l’accesso ai servizi. In effetti, un tema ricorrente emerso durante le interviste è che gli operatori dell’UNHCR e dei partner attuativi spesso non credono alle sopravvissute, in quanto i rifugiati spesso mentono per ottenere il reinsediamento.  In effetti, i “sopravvissuti alla tortura e/o alla violenza di genere” e le “donne e le ragazze a rischio” sono categorie di riferimento per il reinsediamento. Tuttavia, solo lo 0,034% della popolazione totale dei rifugiati in Uganda è stato reinsediato nel 2022.

Pertanto, molte rifugiate sostengono che le politiche ugandesi costringerebbero le donne rifugiate in uno stato di vulnerabilità come modo per attrarre finanziamenti internazionali senza destinarli alle rifugiate stesse. Molte hanno l’impressione che le loro storie vengano utilizzate per interessi finanziari, finendo per oggettificare le sopravvissute e replicare i meccanismi di potere vigenti nel contesto della violenza interpersonale.

Ciò va analizzato alla luce di un fenomeno più ampio di esternalizzazione dei confini, in base al quale gli Stati del Nord del mondo “investono” nella cosiddetta “crisi migratoria” in modo da contenere i rifugiati nel Sud del mondo, con un impatto diretto sul diritto delle donne rifugiate di essere libere dalla violenza (tra le altre cose).

Una delle notizie principali dell’anno scorso riguardante i rifugiati urbani è stata l’enorme repressione nel quartiere di Gargaresh a Tripoli, dove la polizia libica ha fatto irruzione nelle case e nei rifugi temporanei e ha rastrellato oltre 5.000 uomini, donne e bambini provenienti dall’Africa subsahariana, trattenendoli in condizioni disumane e degradanti in cui dilagavano torture e violenze sessuali. Tuttavia, a parte questa notizia, sappiamo poco dei rifugiati urbani e delle loro condizioni nelle città. Potresti approfondire le condizioni di vita delle donne rifugiate al di fuori dei campi profughi in Uganda?

Sì, è vero che i rifugiati urbani e soprattutto le donne rifugiate che vivono in città sono i soggetti dimenticati della protezione offerta in materia di rifugiati, sia nelle leggi e nelle politiche che nella letteratura. La spiegazione è da ricercare in una visione stereotipata dei rifugiati che vivono sistematicamente in campi o insediamenti e dipendono dagli aiuti umanitari come destinatari passivi della carità.

In Uganda, circa l’8% della popolazione totale di rifugiati vive in città, principalmente a Kampala, e quasi la metà dei rifugiati urbani sono donne. I rifugiati devono dimostrare di essere economicamente autosufficienti per ottenere il permesso di trasferirsi in città, fatto che costituisce una discriminazione nei confronti dei rifugiati basata sullo status economico – forma di discriminazione che colpisce in modo particolare le donne.

Le condizioni di vita dei rifugiati in città sono particolarmente difficili a causa di un diffuso clima di fobia nei confronti dei rifugiati e di tensioni con le comunità ospitanti. In effetti, a causa della narrativa del “porto sicuro” accuratamente costruita, i rifugiati sono spesso ritenuti in una posizione privilegiata, beneficiando di un sussidio monetario, di assistenza sanitaria, di istruzione gratuita e di un terreno. Detto questo, non appena un rifugiato si stabilisce in città, non ha più diritto a tali aiuti umanitari. Molti rifugiati cercano di avviare un’attività commerciale, ma riferiscono di non sentirsi supportati dai cittadini che a loro volta lottano per vivere in condizioni dignitose. In aggiunta sono stati segnalati anche casi di sfruttamento delle difficoltà finanziarie, anche per quanto riguarda la possibilità di ottenere un alloggio o un lavoro.

In generale, tutti i partecipanti alla mia ricerca testimoniano di aver subito discriminazioni a causa della loro condizione di rifugiati, ma sono soprattutto le donne che si trovano nel mezzo di diverse forme di oppressione a causa della loro transidentità, della loro disabilità o del loro status di lavoratrici sessuali, ad esempio. Molte donne rifugiate testimoniano casi di corruzione e sfruttamento sessuale da parte delle forze di polizia e del personale medico governativo, che chiedono alle donne somme di denaro o rapporti sessuali in cambio di un servizio che non dovrebbe essere venduto.

Noi di Large Movements APS ringraziamo Maëlle per questa intervista, e ci impegnamo ad approfondire ulteriormente un tema ancora poco trattato ma – come abbiamo visto durante questa intervista – che ha un enorme impatto in termini di diritti umani e di questione di genere.

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Ilaria-Alpi-Miran-Hrovatin-Somalia

L’omicidio di Ilaria Alpi e l’inchiesta sul traffico di rifiuti tossici in Somalia

Il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia, è stata assassinata, insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin, Ilaria Alpi. La giornalista dal 1992 effettuò diverse missioni per conto del TG3 per raccontare la missione di pace delle Nazioni Unite “Restore Hope” e il contesto somalo della guerra civile scoppiata a seguito della caduta del regime di Siad Barre nel 1991. Le indagini del Caso Alpi-Hrovatin si sono concentrate sull’ultimo reportage della giornalista che sarebbe dovuto andare in onda la sera del 20 marzo. Di quel reportage rimangono solo frammenti e filmati incompleti in quanto la versione integrale non arrivò mai in Italia. Di quell’omicidio ancora non è chiaro né il movente, né il mandante, né gli esecutori. Tra i principali protagonisti del Caso Alpi-Hrovatin si ricorda Giancarlo Marocchino, traportatore piemontese che per anni è stato un influente imprenditore di Mogadiscio. Per il SISMI, secondo una delle note declassificate, era “un imprenditore abile e furbo” in grado di lavorare per tutti e di districarsi nella Somalia sconvolta dalla guerra civile. Secondo il SISMI si occupava di logistica ed era sospettato di trafficare in armi e rifiuti tossici e radioattivi, sospetti che al momento non trovano un riscontro giudiziario. Sullo sfondo dell’indagine occorre inoltre tenere a mente il contesto somalo e in particolar modo il coinvolgimento Italiano in Somalia. La relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, approvata nel febbraio del 2006, ha analizzato diverse causali dell’omicidio tenendo in conto anche il fondamentalismo e la criminalità nel paese. Grazie ad un’analisi dei taccuini di Ilaria Alpi si è cercato di ricostruire i temi dell’ultimo reportage in modo da proseguire su tre linee di indagine: il traffico di armi, il traffico di rifiuti tossici e gli effetti della cooperazione italiana in Somalia. La cooperazione Italiana in Somalia Prima dell’inizio della guerra civile in Somalia l’Italia fu una stretta alleata del governo di Siad Barre, presidente-dittatore somalo fino al 1991, a cui vendeva armi che sono state accumulate in diversi magazzini del paese e che sono stati oggetto di interesse delle milizie e dei signori della guerra a seguito della caduta del regime. In generale si riconosce che l’Italia ha sostenuto economicamente e politicamente Siad Barre anche nel momento in cui il regime appariva completamente screditato agli occhi dell’opinione pubblica internazionale e alla maggioranza del popolo somalo. Tra le linee di indagine della Alpi rientrava la cooperazione dell’Italia con i paesi in via di sviluppo e in particolar modo con la Somalia. La giornalista era interessata al fenomeno degli aiuti in generale ed alla modalità di distribuzione degli stessi, oltre al fatto che essi potessero essere stati utilizzati per arricchimenti illeciti anziché per lo scopo per cui erano stati erogati. In particolar modo la Alpi era interessata alla strada Garoe-Bosaso e al progetto di pesca della Shifco. La cooperazione allo sviluppo in favore della Somalia fu voluta dal parlamento italiano nel 1979 con l’elargizione di ingenti finanziamenti. In particolar modo durante il periodo 1986-1989 il volume degli investimenti italiani in Somalia e nel corno d’Africa è aumentato in modo esponenziale per poi interrompersi con l’esplosione della guerra civile nel 1992. La relazione conclusiva della commissione parlamentare sostiene che nel decennio 1981-1990 l’80% dei fondi è stato destinato alla realizzazione di progetti definiti “fisici”. Di questi il 49% è stato destinato alla costruzione di grandi infrastrutture, il 21% alla realizzazione di investimenti produttivi e il 15% a investimenti definiti “socio-comunitari” (progetti che possono essere considerati a beneficio della popolazione). Tale assetto della cooperazione italiana è stato segnato da difetti di programmazione e mancanza di coordinamento con le iniziative multilaterali e internazionali. L’effettiva riuscita di queste iniziative di cooperazione, inoltre, è stata pesantemente minata dalla prerogativa alla tutela di interessi particolari che aziende, lobbies e gruppi di pressione italiane avevano in Somali e che non tenevano in conto i bisogni reali del paese. L’analisi di queste politiche di cooperazione internazionale è stata condotta durante la stagione di Tangentopoli. In questo quadro alcune inchieste fecero emergere una realtà nella quale gli stanziamenti per la Cooperazione con i Paesi in via di sviluppo erano una parte non trascurabile di tutto il sistema tangentizio italiano. Le indagini permisero di scoprire progetti costosi e inutili, stanziamenti multimiliardari, tangenti e traffici di ogni genere tra cui quello di armi verso la Somalia. A tal proposito la Commissione parlamentare di inchiesta sulla cooperazione con i Paesi in via di sviluppo del 1994 si recò in missione a Gibuti, in Somalia e in Kenya dal 29 gennaio al 31 gennaio del 1996. Il resoconto dei lavori sottolineò che ci furono molti errori di gestione e che molti soldi erano andati nelle mani sbagliate. Tra le opere più controverse finanziate dal governo italiano pertanto rientrano la strada Garoe-Bosaso e il porto di Bosaso, nonché il progetto di pesca oceanica e la relativa società di pesca “Shifco”. Per quanto riguarda la strada, il costo medio per chilometro è stato pari a 605 milioni, sproporzionato rispetto alle medie di spesa sul territorio italiano ma anche rispetto alle altre strade realizzate con i fondi della cooperazione allo sviluppo nel corno d’africa. Dall’altra parte all’inizio del 1979 si provò ad intraprendere un progetto di pesca oceanica che fu segnato da disastri e insuccessi. Venne così creata la società “Shifco” che dispose il trasferimento dei pescherecci dopo la guerra anti-Barre del ’90 nelle acque del golfo di Aden. Vi è un sospetto che tale iniziativa, caratterizzata da errori di progettazione gravi, sia servita soprattutto ad arricchire, non necessariamente per vie illecite, gruppi privati italiani e somali. La pista del Traffico di Armi in Somalia Ilaria Alpi prima di intraprendere il suo ultimo viaggio aveva individuato la zona di Bosaso, città portuale nel nord della Somalia, come una zona “giornalisticamente interessante” ed aveva intenzione di approfondire i temi legati al traffico di armi e l’intreccio con la “mala cooperazione” e il traffico di rifiuti tossici. Perseguendo questo obiettivo, la Alpi condusse indagini sulle navi della Shifco alla ricerca di riscontri. In particolar

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Leymah Gbowee per i diritti delle donne liberiane

Nell’Ottobre 2011 Leymah Gbowee, Ellen Johnson Sirleaf e Tawakkul Karman ricevettero il Premio Nobel per la Pace in conseguenza de “la loro lotta non violenta in favore della sicurezza delle donne e del loro diritto a partecipare al processo di pace”. Oggi parliamo di Leymah Gbowee e del suo perpetuo impegno per i diritti delle donne. La guerra civile in Liberia: Gbowee inizia il suo lavoro come attivista insieme al gruppo “Liberia Mass Action for Peace (LMAP)” nell’aprile 2003. La Liberia, suo paese natale era in uno stato di guerra civile da ormai 14 anni. Tutto era iniziato, nel 1989 quando Charles Taylor era entrato in Liberia e, aiutato dalle forze ribelli del Fronte Nazionale Patriottico per la Libertà, aveva minacciato la capitale, Mongrovia, e il governo di Samuel Doe. Dopo nove mesi, Doe fu ucciso e Taylor prese il potere. Questo non fermò le ostilità e nonostante Taylor vinse le elezioni presidenziali del 1997 con il 75% dei voti, quello stesso anno scoppiò una nuova guerra civile. Tra il 1989 e il 2003 morirono più di 270.000 persone, la mortalità neonatale era di 157 morti ogni 1000 nati e la mortalità infantile nei bambini minori di 5 anni era di 235 su 1000. Come conseguenza de conflitto e dell’alto tasso di mortalià infantile, l’80% della popolazione rurale fu costretto alla migrazione. Il conflitto fu purtroppo caratterizzato dall’uso indiscriminato dello stupro da parte di tutte le parti coinvolte, comprese le truppe internazionali intervenute per ristabilire la pace. Gbowee e le altre attiviste del LMAP iniziarono quindi a protestare per le violenze: la loro retorica era basata su motivazioni concernenti il benessere dei bambini e il futuro del paese. Usarono in particolare tre tattiche: organizzarono manifestazioni pubbliche per rimarcare che le vere vittime del conflitto erano le donne e i bambini, minacciarono di spogliarsi in pubblico e costituirono un’agenda politica per la difesa dei diritti delle donne sia a livello nazionale che internazionale. Taylor si dimise nell’Agosto 2003 e fu costretto all’esilio in Nigeria. Un accordo di pace fu firmato e nel 2005 furono tenute le elezioni presidenziali che videro la vittoria di Ellen Johnson Sirleaf: prima donna ad essere eletta presidente in uno Stato africano.  Il ruolo delle donne nei negoziati di pace: Decisive per la pace furono le azioni di Gobwee e del LMAP. Vediamo insieme perché queste donne furono così influenti. Per prima cosa le donne evidenziarono il fatto che la guerra aveva portato solo morte e distruzione. Non era una guerra per la terra, il denaro o il potere politico: era una guerra che sterminava madri e bambini. Dopodiché Gbowee e le altre attiviste misero l’accento sul loro status di madri e donne e dunque di “custodi della società”. Misero in risalto il loro ruolo di madri e sorelle degli uomini convolti nel conflitto e sottolinearono l’importanza dell’unità nazionale basata sulla famiglia. Questa retorica funzionò in quanto in Libera il ruolo delle donne, come madri, è molto forte e vi è un senso di rispetto verso coloro che sono viste come creatrici e sostenitrici della comunità e della nazione. Gli uomini decisero dunque di presenziare ai negoziati di pace perché le loro “madri” lo avevano richiesto. Nonostante ciò, le parole da sole non furono abbastanza per portare ad un vero e proprio accordo di pace, e allora le donne passarono all’azione usando un atto ad elevato valore simbolico: si spogliarono deliberatamente in pubblico. Il 21 luglio Gbowee e le altre attiviste entrarono nell’edifico dove si svolgevano i negoziati e si sedettero fuori dalla stanza dove gli uomini stavano discutendo. Quando furono minacciate di arresto, Gbowee dichiarò che non si sarebbe opposta ma che prima si sarebbe spogliata e si sarebbe mostrata all’assemblea nuda. Successivamente spiegò che in Africa è considerata una terribile maledizione il vedere una donna, sposata e anziana, spogliarsi deliberatamente in pubblico: quell’azione avrebbe evidenziato in modo incontestabile la profonda disperazione delle donne Liberiane. Inoltre, spogliandosi, avrebbe privato gli uomini della loro “mascolinità” e della forza che avevano usato impunemente durante tutto il conflitto, stuprando e uccidendo senza ritegno. Così facendo, Gbowee si stava riappropriando della sua vita e del suo corpo, e nel frattempo smetteva di essere una vittima inerme e diventava politicamente potente e influente. Le attiviste dichiararono che avrebbero lasciato l’edifico solo quando Taylor e le altre parti coinvolte avrebbero preso attivamente parte ai negoziati. I negoziati, dunque, ripresero e infine fu trovato un accordo. L’importanza del lavoro di Leymah Gbowee nel mondo: Dopo la firma degli accordi di pace e la fine della guerra, Gbowee continuò i suoi sforzi politici anche fuori dai confini Liberiani. Nel 2006 fondò il Women Peace and Security Network Africa (WIPSEN-Africa) che si occupa di promuovere “la partecipazione strategica delle donne e la loro leadership nelle politiche di pace e sicurezza in Africa”. In tutti i suoi discorsi e le sue azioni Gbowee sottolinea il potere delle donne comuni e il valore simbolico del corpo femminile. Per combattere il patriarcato e promuovere il potere delle donne come agenti di cambiamento politico, è fondamentale unirsi come donne, madri, sorelle ed esigere l’uguaglianza di genere. Noi di Large Movements condividiamo questo pensiero e abbiamo ritenuto importante condividere con voi la storia di Leymah Gbowee che ha dimostrato al mondo l’influenza che possono avere le donne nei processi di pace ed il vero potere del pacifismo. Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

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ALEX KOFI DONKOR: LA RESISTENZA LGBTQIA+ GHANESE

Alex Kofi Donkor è un attivista ghanese per i diritti LGBTQIA+ e fondatore dell’associazione LGBT+ Rights Ghana, nata nel 2018 a sostegno della libertà della comunità queer. IL GHANA: PAESE OSTILE ALLA COMUNITA’ LGBTQIA+ Come abbiamo parlato anche nel nostro podcast “Oltre l’Arcobaleno”, in Ghana la società non è mai stata tollerante nei confronti degli omosessuali. Nel corso degli anni sono stati registrati atti di discriminazione e violenza inaudite ai danni di attivisti per i diritti della comunità LGBTQIA+ e persone sospettate di essere omosessuali da parte della popolazione. Molto spesso, come denunciato già nel 2017 dalla Commissione per i diritti umani e la giustizia amministrativa del Ghana, partecipavano alle violenze anche gli stessi giornalisti accorsi a documentare gli abusi e l’indifferenza della polizia. Alex Kofi Donkor denuncia, inoltre, che nel 2021 il clima di omofobia diffusa si è ulteriormente inasprito ed è culminato con la promulgazione di un disegno di legge denominata “Promotion of Proper Human Sexual Rights and Ghanaian Family Values Bill” che ha ricevuto il supporto di autorità sia politiche che religiose. Sebbene detto disegno di legge sia incostituzionale poiché viola l’articolo 15 della Costituzione ghanese, che sancisce l’inviolabilità della dignità umana, il 28 febbraio 2024 è stato approvato per la terza volta in Parlamento. Affinché questo disegno di legge lesivo dei diritti fondamentali di una parte della popolazione del Ghana diventi legge, si attende l’approvazione da parte del Presidente Nana Akufo-Addo. Qualora la legge dovesse diventare esecutiva, oltre ad aumentare la pena detentiva già prevista nel Codice Penale per attivisti e membri della comunità LGBTQIA+, condanna e di fatto elimina la possibilità di sottoporsi ad interventi riguardanti l’identità di genere. Inoltre, il testo in esame introduce anche le terapie di conversione, che causano profondi danni fisici e psicologici a chi vi si sottopone. La nuova proposta di legge ha già colpito anche il mondo dell’arte. Ne è un esempio il film Nyame Mma (Figli di Dio), che racconta la storia di un uomo omosessuale che ritorna nella sua città natale per il funerale del padre e scopre che il suo ex amante sta per sposare una donna a causa delle pressioni sociali. Dal momento che il disegno introduce una norma secondo la quale chiunque promuova o sostenga l’attività della comunità LGBTQIA+ rischia una pena detentiva, il regista Joewackle J Kusi è stato costretto a ridurne fortemente la diffusione e la pubblicizzazione. UNA STRADA ANCORA LUNGA PER L’AFFERMAZIONE DEI DIRITTI LGBTQIA+ Crescendo in Ghana, Alex Kofi Donkor è stato costretto a nascondere il proprio orientamento sessuale per la sua intera adolescenza a causa di credenze religiose e norme sociali fortemente omofobe, grandemente diffuse nel Paese. E’ stato poi negli anni dell’Università che Alex ha sviluppato l’esigenza di avere uno spazio sicuro in cui poter discutere ed informare in merito alle tematiche LGBTQIA+. Ed è proprio a questo scopo che Alex Kofi Donkor ha creato LGBT+ Rights Ghana che, pur nascendo come piattaforma online, con il tempo è diventata il primo centro della comunità LGBTQIA+ ghanese e da allora si è espansa fino ad arrivare ad inaugurarne la prima sede fisica nel 2021. Dal momento che la costruzione del centro è stata finanziata con i soldi dell’Unione Europea, all’inaugurazione erano presenti alcuni alti rappresentanti UE. Questa presenza ha suscitato l’ira della Chiesa Cattolica ghanese, secondo a quale l’occidente non dovrebbe imporre delle convinzioni che sono contrarie allo stile di vita ghanese. Tanto è bastato per dare il via ad un’ondata di estreme violenze ai danni dei membri della comunità LGBTQIA+, conducendo Alex Kofi Donkor a chiudere temporaneamente il centro a sole tre settimane dall’apertura per proteggere lo staff. Nonostante questa momentanea battuta d’arresto, il lavoro di Alex Kofi Donkor e del resto del team non si è mai fermato, concentrando gli sforzi su attività di advocacy come ad esempio: (i) la Gay Blackmail List, una lista di tutti coloro che hanno posto in essere atti discriminatori nei confronti di persone LGBTQIA+ ; (ii) la campagna Ghana: Reject the Anti-LGBT+ Bill, una raccolta firme volta ad impedire l’entrata in vigore del disegno di legge sopra citato. Alex Kofi Donkor è perfettamente consapevole che in un Paese come il Ghana, una volta che ci si è dichiarati membri della comunità LGBTQIA+ non si può più tornare indietro: la propria sicurezza sarà per sempre compromessa. Ciononostante, a coloro che gli chiedono perché continua a battersi e non scappa verso un Paese sicuro, Alex Kofi Donkor risponde che spera che il suo lavoro possa contribuire a creare un futuro migliore per le nuove generazioni e che soprattutto, venga rotto il silenzio sulle ingiustizie perpetrate dalle autorità dello Stato ai danni della comunità. In occasione del Pride Month Large Movements APS ha deciso di raccontare la realtà in cui vive Alex Kofi Donkor, che porta avanti la sua battaglia per l’affermazione dei diritti LGBTQIA+ con coraggio e determinazione in un Paese profondamente omofobo. Ci uniamo inoltre, al coro delle voci che negli anni si sono levate all’interno della comunità internazionale nel tentativo di dissuadere il Presidente ghanese ad approvare un disegno di legge che, laddove promulgato, inaugurerebbe un nuovo periodo di terrore e violenza nel Paese. Per aumentare le possibilità che questa campagna raggiunga il suo obiettivo, invitiamo tutti i nostri lettori a siglare la petizione che Alex Kofi Donkor ed il suo team hanno elaborato e di cui trovate tutti i dettagli a questo link: All Out – S.O.S. from Ghana Se ti è piaciuto l’articolo, condividiCi!

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La voce queer di Kakuma: la storia di G.

Nei nostri articoli precedenti abbiamo parlato delle condizioni della comunità LGBTQ+ in Kenya e delle violazioni dei diritti umani che avvengono all’interno del campo profughi di Kakuma.  Abbiamo poi raccolto la testimonianza di J, il primo caso del nostro approfondimento sulle violazioni di diritti umani all’interno di Kakuma, e la testimonianza di A, donna lesbica ospite di Kakuma. Proseguendo, dunque, l’inchiesta che Large Movements APS sta portando avanti insieme ad International Support Human Rights, in questo articolo analizzeremo la situazione specifica di G., nome di fantasia di un ragazzo LGBTQ+ di Kakuma con il quale abbiamo avuto modo di parlare.  Come riportato nei casi precedenti, anche G. ha dichiarato di aver lasciato il suo Paese d’origine in seguito alle diverse aggressioni subite a causa della sua sessualità e di aver cercato rifugio nel vicino Kenya. La speranza di poter vivere lontano dalla paura e dalle violenze subite in quella che un tempo chiamava “casa”, è stata la sua bussola che lo ha guidato lungo il suo viaggio, ma la vita a Kakuma si è rivelata molto più terribile di quanto potesse immaginarsi.  La breve permanenza a Kakuma  G. è un cittadino ugandese. È fuggito dal suo Paese quando la vita in patria era diventata insopportabile dopo diverse aggressioni subite a causa della sua sessualità. È arrivato a Kakuma nell’aprile 2020 ed è ripartito un anno dopo, nell’aprile 2021, quando le condizioni di vita all’interno del campo erano diventate molto rischiose, essendosi trovato a vivere numerosi attacchi violenti, insieme a tutta la comunità LGBTQ+ di Kakuma: è stato quasi dato alle fiamme nel maggio del 2020 ed hanno cercato di avvelenarlo due volte. Non sorprende quindi che G. descriva le condizioni all’interno del campo di Kakuma come “orribili”. La negligenza della polizia e dello staff UNHCR  G. ha dichiarato di aver denunciato alla polizia e al personale dell’UNHCR ogni volta che è stato oggetto di un’aggressione. Tuttavia, tutte le e-mail che ha scritto sono state ignorate al punto che nell’aprile 2021 è stato costretto a fuggire per salvarsi la vita dopo essere sopravvissuto all’ennesima aggressione.  Ci ha inoltre riferito che al suo arrivo è stato scelto come portavoce delle persone LGBTQ+ a Kakuma. Ed è proprio per questo suo stretto contatto con le altre persone all’interno del campo che può assicurare che ogni persona queer che conosce ha sperimentato la stessa negligenza da parte delle autorità e del personale dell’UNHCR. Intimidazioni, minacce e detenzioni arbitrarie sono mezzi spesso usati per opprimere la comunità LGBTQ+ a Kakuma e costringerla al silenzio, tanto che G. afferma che molti rapporti dell’UNHCR dal Kenya condividono informazioni e dati che non sono affatto affidabili né vicini alla verità del campo, perché tali informazioni sono il risultato dell’uso della forza sui rifugiati LGBTQ+, confermando che Kakuma non è un luogo sicuro per le persone queer e che queste hanno bisogno e meritano protezione internazionale e di essere trasferite il prima possibile. La discutibilità della gestione dei ricollocamenti Anche la gestione dei ricollocamenti è discutibile. I ricollocamenti sono così importanti per le persone LGBTQ+ di Kakuma perché, innanzitutto, danno loro speranza. La speranza di vivere e amare liberamente, di essere la persona che sono e di diventare membri produttivi della società. Soprattutto, il ricollocamento significa libertà e sicurezza per G. e per coloro che a Kakuma vivono ancora oggi nella paura, incapaci di muoversi liberamente anche quando vengono attaccati. Anche se G. non ne ha mai fatto richiesta, in quanto secondo lui un trasferimento era implicito nella sua domanda di asilo, dato che il Kenya è un Paese ostile per le persone queer, ci ha raccontato come è stata gestita la situazione dei ricollocamenti mentre si trovava nel campo: all’inizio, l’UNHCR ha detto loro che c’erano pochi posti disponibili per il reinsediamento e che non erano in grado di trasferirli tutti. Poi, col pretesto dell’emergenza sanitaria da Covid-19, hanno ritardato i trasferimenti ma dallo scoppio della pandemia i ricollocamenti non sono ancora avvenuti. Inoltre, i ricollocamenti sono stati usati come arma dal governo keniota e talvolta dal personale dell’UNHCR contro i membri più attivi e vocali della comunità LGBTQ+ che hanno cercato di denunciare le violazioni che avvenivano nel campo. Sostanzialmente, coloro che cercavano di denunciare le condotte gravissime a Kakuma, come G., sono stati minacciati di non essere mai trasferiti. Nel giugno 2021, dopo la morte dell’attivista 22enne Chriton Atuhwera nel campo di Kakuma avvenuta due mesi prima, G. e le persone LGBTQ+ all’interno del campo hanno lanciato una petizione all’UNHCR chiedendo protezione e di essere trasferiti. Gli agenti dell’UNHCR hanno risposto con intimidazioni a coloro che volevano aderire alla petizione, dicendo che sarebbero stati rimpatriati se avessero firmato. “Non si tratta solo di stare zitti, ma loro sono stati proattivi nel mettere a tacere la comunità LGBTQ+”, ha affermato in merito G. Se ti è piaciuto l’articolo, condividi!

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Cos'è Boko Haram - Large Movements

Essere donne in Nigeria: la violenza di Boko Haram

L’intensificarsi della violenza e delle atrocità dell’organizzazione terroristica Boko Haram in Nigeria si è abbattuta più ferocemente sulle donne del paese. I rapimenti e la conseguente schiavitù delle donne da parte di Boko Haram sono costanti e solo il rapimento di quasi 300 studentesse nella città di Chibok nel 2014 ha finalmente attirato l’attenzione dei media internazionali sull’organizzazione terroristica. #BringBackOurGirls: Boko Haram e i rapimenti di donne Nel 2014 Boko Haram controllava la maggior parte dei territori della Nigeria nordorientale. L’organizzazione terroristica ha attaccato e, in alcuni casi, ”governato” più di 130 villaggi e città, dove ha imposto la sua interpretazione della Shari’a. I miliziani di Boko Haram hanno perpetrato uccisioni, raso al suolo e saccheggiato case, imprese, scuole, chiese, mercati e strutture sanitarie negli Stati federati di Borno, Yobe e Adamawa. Dal 2009 al 2014 l’organizzazione terroristica ha distrutto almeno 211 scuole nel solo Stato di Borno e rapito più di 500 donne e ragazze, di queste almeno 100 sono fuggite. Alcune delle donne rapite hanno subito diversi abusi: violenze sessuali, matrimoni forzati e conversioni forzate.  Il 14 aprile del 2014 l’organizzazione ha messo in atto il più grande rapimento di ragazze avvenuto finora: Boko Haram ha catturato 276 studentesse di una scuola secondaria gestita dal governo a Chibok, nello Stato di Borno. La notizia del rapimento ha avuto una rapida diffusione suscitando la campagna social media #BringBackOurGirls, un grido internazionale per il rilascio delle studentesse. L’atteggiamento del governo, verso il rapimento ed il movimento, viene esemplificato dall’arresto nel maggio 2014 di due donne che avevano guidato le proteste di Abuja, la capitale nigeriana. Gli attivisti sostengono che sia accaduto per il volere della moglie dell’allora presidente Goodluck Jonathan. Patience Jonathan ha infatti accusato le donne di aver messo in cattiva luce il governo del marito. Il rapimento di Chibok ha rappresentato uno spartiacque importante: prima del rapimento i funzionari del governo del nord-est della Nigeria negavano l’esistenza dell’insurrezione di Boko Haram e dei rapimenti delle donne. Purtroppo queste non sono state né le prime, né le ultime ragazze rapite da Boko Haram. Nonostante l’indignazione internazionale seguita alla campagna #BringBackOurGirls, i rapimenti non si sono fermati. Un caso analogo a quello della scuola di Chibok è accaduto il 19 febbraio 2018: i miliziani di Boko Haram hanno rapito 110 ragazze tra gli 11 e i 19 anni in una scuola femminile di Dapchi, nei pressi del confine Nord-Est tra Nigeria e Niger. L’obiettivo dell’organizzazione, in questo caso, erano le ragazze più piccole in quanto nella scuole di Dapchi erano presenti classi inferiori rispetto alla scuola di Chibok. La ragione è da ritrovare nel fatto che Boko Haram “seleziona” ragazze molte giovani e donne anziane per usarle negli attentati terroristici, mentre le ragazze in età da concepimento, tra i 14 e i 19 anni, vengono ritenute più utili per la procreazione. Il destino delle ragazze catturate da Boko Haram può assumere due tragiche alternative: diventare delle bambine kamikaze o essere usate per la procreazione. Vivere sotto Boko Haram: le testimonianze delle donne rapite Le donne rapite da Boko Haram sono state costrette a vivere al fianco dei miliziani per giorni o mesi prima di riuscire a fuggire. Spesso alle ragazze rapite sono stati assegnati compiti domestici, come cucinare, mentre altre sono state costrette a sposarsi ed a fare sesso con i membri di Boko Haram. Si ritiene quindi che Boko Haram stia cercando di “sostituire” le famiglie che i combattenti hanno dovuto lasciare quando l’esercito nigeriano ha costretto i miliziani a lasciare i villaggi ed a rifugiarsi nella boscaglia. Le ragazze di fede cristiana, inoltre, sono state costrette a convertirsi all’Islam mentre, in alcune occasioni, le donne musulmane sono state lasciate andare. Ciò sta avendo effetti sulle tensioni storiche che vi sono in Nigeria tra le comunità cristiane e quelle musulmane in quanto le azioni di Boko Haram stanno aggravando la situazione. Una delle testimonianze delle donne rapite da Boko Haram vede protagonista una giovane donna di 19 anni che è stata rapita poco dopo gli eventi di Chibok insieme al suo bambino e ad altre 5 ragazze. La donna è stata costretta a dormire sotto un albero ma una notte venne svegliata da uno dei miliziani che l’ha condotta in un cespuglio buio. Il miliziano l’ha fatta sdraiare per terra con il suo bambino al lato. Lei ha cominciato a piangere ed a pregare di non farle del male. Lui disse: “O ti uccido o faccio a modo mio”. Poi la violentò. Il giorno dopo i miliziani la liberarono dopo che lei finse di convertirsi dal cristianesimo all’Islam. Un’altra ragazza che ha avuto il coraggio di raccontare la sua esperienza aveva 18 anni  quando è stata rapita e tenuta prigioniera per tre mesi. La ragazza ha interagito direttamente con il leader di una cellula di Boko Haram ed aveva informazioni dettagliate su come funzionava il campo, sul fatto che si trovava a Gwoza e sul rapporto con il principale campo di Boko Haram nella foresta di Sambisa. Aveva anche informazioni su come Boko Haram controllava i gruppi di sicurezza. Uno dei peggiori ricordi della ragazza è stato il momento in cui l’organizzazione terroristica l’ha usata come esca per attirare nuovi combattenti o vittime. Boko Haram le chiese di trovare uomini cristiani e di portarli nella boscaglia in modo da poterli rapire. Una volta tornati al campo hanno chiesto loro di rinunciare al cristianesimo, di accettare l’Islam e di diventare membri di Boko Haram. Quando si rifiutarono, i miliziani cominciarono a tagliare le gole spargendo sangue dappertutto. La ragazza è scappata, ma il suo calvario è tutt’altro che finito. Secondo altre ragazze sfuggite a Boko Haram, i ribelli la stanno cercando. Credono che sia incinta del figlio del loro capo e vogliono il bambino. Si sposta di casa in casa quasi ogni notte, sperando che i miliziani non la trovino. A queste testimonianze si aggiungono quelle delle ex-prigioniere che hanno riconosciuto i volti delle compagne di prigionia tra gli attentatori. Ciò ha confermato che Boko Haram ha costretto alcune

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Guerra di confine Eritrea-Etiopia

Le tensioni fra Eritrea ed Etiopia hanno origine alla fine della Seconda guerra mondiale e si sono protratte per tutto il successivo processo di decolonizzazione. All’indomani della Seconda guerra mondiale, a Parigi, nel 1947 le potenze vincitrici optarono per unire le due ricche ex colonie italiane in un’unica federazione a prevalenza etiope. Si cercò di lasciare comunque ampi spazi di autonomia al territorio eritreo attraverso la creazione di un’Assemblea legislativa indipendente. A ben vedere, l’annessione dell’Eritrea all’Impero etiope fu avvallata dalla presenza di un considerevole numero di eritrei di etnia tigrina e di fede cristiana, molto vicino culturalmente al popolo etiope-tigrino abitante la regione del Tigrè al confine con l’Eritrea. Fin da subito il governo etiope, superando gli accordi presi a Parigi, cominciò ad intromettersi negli affari eritrei, delegittimando l’Assemblea eritrea sino a renderla un mero organo amministrativo. La genesi effettiva del conflitto può essere formalmente fatta risalire all’acquisizione totale del territorio eritreo da parte dell’Imperatore etiope Hailè Selassiè, il quale, con un colpo di mano, riuscì a sottomettere l’intera popolazione eritrea al controllo di Addis Abeba – capitale dell’Etiopia. Con questa mossa, l’Imperatore aveva di fatto oltrepassato i margini, seppur effimeri, di autonomia promessi ad Asmara. Parallelamente a tali acquisizioni etiopi al Cairo si formò il Fronte di Liberazione Eritreo (ELF)che aveva come suo obiettivo principale il raggiungimento dell’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia; indipendenza da raggiungersi attraverso la lotta armata e guerra aperta. Originariamente infatti, il partito aveva una forte matrice islamica ma ben presto, parallelamente all’aumento dei consensi, raccolse fra le sue fila esponenti delle più varie fazioni etnico-religiose. Negli anni Settanta l’ELF, ormai divenuto un contenitore politico troppo grande per racchiudere le numerose anime presenti al suo interno, vide distaccarsi l’ala di etnia cristiana ma di ispirazione leninista-socialista, che diede vita al Fronte di Liberazione Popolo Eritreo (EFPF). I rapporti fra i due principali fronti non furono mai sereni tanto da rendersi spesso protagonisti di scontri armati per l’egemonizzazione politica del movimento di autonomia. La guerra di confine si protrasse per decenni causando migliaia di morti e di sfollati, fino al raggiungimento dell’agognata indipendenza eritrea dall’Etiopia nel 1993. Fondamentale per la vittoria eritrea fu l’alleanza di ELF ed EFPF con il Fronte di Liberazione del Popolo Tigrino – movimento politico di etnia tigrina che si opponeva al Governo Militare Provvisorio (DREG) salito al poter spodestando l’imperatore Selassiè. Grazie a detta alleanza infatti, il nuovo fronte indipendentista iniziò prima a conquistare ampie fette di territorio eritreo e, successivamente, ad allontanare le forze etiopi dal confine.   La pace si ritiene formalmente raggiunta nel 1993 con il referendum sull’Indipendenza che sancì la definitiva nascita dello stato dell’Eritrea. Gli osservatori internazionali guardarono alla formazione del nuovo stato nel corno d’Africa come di buon auspicio per la pacificazione della regione. Sfortunatamente nuove dispute territoriali e commerciali si innescarono fra Asmara e Addis Abeba. La pace fra i due stati confinanti infatti, durò ben poco. Nel 1998 il governo etiope attaccò la città di Badammé – piccolo insediamento al confine nord dello stato – riaprendo quindi le ostilità fra i due popoli. Il conflitto fra i due stati del corno d’Africa fu innescato dalla maggioranza tigrina – come si è visto, gli ex alleati etiopi dei movimenti indipendentisti eritrei – gruppo divenuto egemone in Etiopia a discapito delle altre etnie maggioritarie sul territorio, in primis quella Oromo ed Amara. Il conflitto dunque, vedeva contrapporsi popoli appartenenti alla stessa etnia, quella tigrina – più della metà della popolazione eritrea infatti, rivendica l’appartenenza a detta etnia. Se ciò è vero, i motivi scatenanti la guerra di confine non possono trovare fondamento nel conflitto etnico. Se il Fronte di liberazione del popolo tigrino ed il EPLF furono fieramente alleati contro i DERG, in questa nuova fase, l’elitè tigrina etiope voleva imporsi sulla componente tigrina eritrea allo scopo principale di poter dotare nuovamente l’Etiopia di una sua flotta attraverso l’accesso al mare indipendente da Asmara. La guerra si concluse nel 2000 con la pace di Algeri, ritenuta dai maggiori osservatori per i diritti umani una “non-pace” per via del costante stato di conflitto fra i due paesi e anche per la persistenza di azioni militari lungo il confine, di solito scatenate dall’Etiopia. Elemento fondamentale dell’Accordo di Algeri era la creazione di una Commissione per la demarcazione dei confini dei due stati, commissione che sfortunatamente non ebbe mai la legittimità necessaria per dare seguito ai propri lavori. Il clima di conflitto e le battaglie di confine venivano scatenate per lo più dall’etnia tigrina-etiope, confinante appunto con l’Eritrea. La gran parte delle storiche contese territoriali fra i due stati infatti riguardavano propriamente i confini fra l’Eritrea e lo stato federale etiope del Tigrè – a maggioranza tigrina -. Il Fronte di Liberazione del Popolo Tigrino – per decenni al vertice del governo presidenziale – non aveva mai accennato alla possibilità di discutere dei confini con l’Eritrea, poiché, nel caso, l’etnia tigrina avrebbe messo in discussione la sovranità dei territori etiopi che controllava direttamente essendo questi all’interno dello stato federale del Tigrè. Quanto statuito sopra è confermato in materia di politica estera, dall’ascesa al potere dell’attuale presidente della federazione etiope Abiy Ahmed Ali di origine Oromo. Da subito, per limitare l’influenza della storica etnia egemone – quella tigrina appunto – ha voluto fortemente lavorare per una pace con Asmara, da sempre osteggiata dai movimenti politici di estrazione tigrina. Il motivo appare chiaro: attraverso una pace con gli eritrei l’influenza dell’elité tigrnia verrebbe scemando non potendo più contare su una solida rivendicazione territoriale. La ritrovata pace ha da subito generato significativi effetti: numerosi sono stati gli spostamenti delle popolazioni residenti sulla linea di confine per motivi familiari; le merci hanno ricominciato velocemente a circolare fra le due nazioni – in particolare, i commercianti etiopi hanno potuto vendere svariati prodotti alla popolazione eritrea. Il processo di pace e di riavvicinamento però, si è frettolosamente interrotto. Dopo i primi mesi di euforia e speranza per i nuovi pacifici rapporti fra i due stati, le questioni di confine sono tornate a dominare il dibattito

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