Muzoon Almellehan

“Non smettere mai di imparare e di sognare. Non perdere mai la speranza.”

La piccola Muzoon è nata l’8 aprile 1999 da Eman e Rakan Almellehan nella città di Dara’a, Siria, dove il papà lavorava come insegnante. Dara’a è stata teatro delle prime proteste contro il regime e di alcune delle prime repressioni contro la popolazione locale. Infatti, subito dopo lo scoppio della guerra civile siriana, la loro città fu assediata dalle forze governative. Due anni dopo, nel 2014, la città venne presa dalle forze islamiste, questo portò ad un inasprimento della guerra che spinse Muzoon e tutta la sua famiglia a scappare verso la Giordania.

«Anche da bambina, sapevo che l’istruzione era fondamentale per il mio futuro. Quando ho dovuto abbandonare la Siria, gli unici effetti personali che ho portato con me sono stati i miei libri di scuola» racconta.

Ciononostante, Muzoon è stata anche tra le prime – e le più giovani – rifugiate siriane a operare per realizzare un cambiamento.

Il primo campo dove arrivarono fu quello di Za’atari, nei 18 mesi trascorsi lì, la piccola Muzoon cominciò ad occuparsi del diritto all’istruzione per i bambini, ed in primo luogo per le ragazze. Infatti, Muzoon si iscrisse alle scuole all’interno del campo, ma presto si accorse che molte ragazze rifugiate – alcune di 13 e 14 anni – interrompevano le lezioni e si sposavano.

Da rifugiata, ho visto cosa succede quando i bambini sono costretti a un matrimonio precoce o al lavoro manuale. Essi restano esclusi dal percorso formativo e perdono la possibilità di avere un futuro.” Racconta. “Ero fortunata perché mi trovavo in un campo dove c’erano delle scuole e perché i miei genitori credevano nell’istruzione“.

Malgrado la sua età, Muzoon iniziò a girare di tenda in tenda per i campi, per parlare con i genitori del valore dell’istruzione e dei rischi del matrimonio precoce. In ogni occasione, esortava i genitori a rimandare le figlie a scuola.

Le ragazze devono ricevere un’istruzione”, dice Muzoon. “È la migliore protezione per loro. Se una madre non è istruita, come può aiutare i suoi figli? Se i giovani non sono istruiti, chi ricostruirà il nostro Paese?”.

Le organizzazioni umanitarie cominciarono ad interessarsi al lavoro di Muzoon, per questo divenne una Good Will Ambassador di UNICEF. E quando il premio Nobel per la pace e Asia Game Changer, Malala Yousafzai andò a visitare il campo di Za’atari, fece di tutto per trovare Muzoon. Malala aveva sentito parlare del suo lavoro e i compagni di classe di Muzoon le raccontarono di essere stati ispirati e di essere rimasti a scuola grazie a Muzoon.

Nel 2015, Muzoon e la sua famiglia, dopo aver rinunciato a vari reinsediamenti verso Canada e Svezia per motivi logistici, riuscirono finalmente a trovare rifugio nel Regno Unito nell’ambito di un piano annunciato nel mese di settembre da David Cameron con il quale il governo britannico prevedeva di accogliere 20.000 rifugiati siriani. Muzoon e la sua famiglia, riuscirono, quini a trasferirsi a Newcastle, dove tutti i figli della famiglia Almellehan frequentano la scuola di Kenton.

Oggi Muzoon ha 23 anni ha terminato la scuola secondaria, ed ha finalmente realizzato il suo sogno di entrare all’università dove studia Scienze Politiche. Ma soprattutto, continua ad impegnarsi per difendere tutte le ragazze a cui è negata l’istruzione nel mondo, in particolare le sue sorelle siriane.

Abbiamo bisogno di istruzione, perché la Siria ha bisogno di noi“, dice Muzoon. “Senza di noi, chi porterà la pace?”.

Noi di Large Movements condividiamo il pensiero di Muzoon ed abbiamo ritenuto importante condividere con voi la sua storia perché ci rendiamo conto di quanto, molto spesso diamo per scontato quello che abbiamo sotto il nostro naso. L’istruzione è una di quelle cose che molto spesso vengono date per scontato, quando, specialmente in un periodo così particolare, dovremmo tutti ricordarci che l’istruzione per tutti, ma soprattutto per tutte le donne e bambine di questo mondo sia fondamentale non solo per il raggiungimento dell’eguaglianza di genere, ma anche, e soprattutto, come dice Muzoon, per la loro stessa protezione e affinché in questo modo, anche le donne possano essere incluse come voce fondamentale all’interno delle trattative e dei processi di pace.

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Siria-accoglienza

Storia di un giovane siriano con un “cuore di pietra”

Le coste calabre continuano ad essere tra i maggiori punti di arrivo di immigrazione, motivo per cui negli ultimi anni il territorio accoglie nuove strutture per i richiedenti asilo. Tra questi, la cooperativa Jungi Mundu di Camini, dal 2000, è diventato uno SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Lo scorso agosto mi trovavo a Camini, comune di poco più di 600abitanti in provincia di Reggio Calabria, a pochi km dall’ormai nota Riace. Qui, Amnesty International già da qualche anno, organizza dei laboratori di formazione estivi per approfondire le tematiche di immigrazione e diritti di accoglienza. Appena scesa dal regionale, dopo 7 ore di viaggio e qualche grado in più intorno a me, ho subito capito che Camini non poteva che essere il luogo migliore dove parlare di immigrazione ed accoglienza. Una terra apparentemente abbandonata a sé stessa, dove l’edilizia moderna e la frenesia quotidiana sembrano appartenere ad un’altra dimensione. Una piazza. Un bar con qualche tavolino in legno, dei divanetti ed uno schermo con le partite di calcio del giorno. Cittadini dalla pelle bianca, cittadini dalla pelle nera. Anziani, giovani e bambini. Questo è lo scenario che mi trovavo davanti. Uno scenario che sembrava apparentemente normale. Eppure, nell’aria c’era qualcosa di speciale. La prima sera già mi era tutto più chiaro. Quella piazza, quel bar e quei cittadini facevano parte di un’enorme famiglia, in una piazza che riuniva più storie di vita, una diversa dall’altra. Una famiglia in cui i richiedenti asilo, per lo più provenienti dalla Siria, ed i caminesi erano entrati in perfetta armonia. Un’armonia fatta di impegno quotidiano, sacrifici e voglia di ricominciare dopo un vero e proprio viaggio della speranza, con alle spalle una vita di guerra ed ingiustizia. A “campo di accoglienza” spesso si associa l’immagine di un grande campo sperduto nel nulla con qualche baracca e sistemazione fatiscente. Di situazioni così purtroppo ne esistono ancora troppe ma questa volta vi voglio parlare di un’Italia che accoglie ed è sinonimo di rinascita e speranza per coloro che vi arrivano. Camini infatti è una vera eccezione e l’Italia è colma di borghi che hanno fatto dell’accoglienza la loro forza, dando ai rifugiati una “nuova” vita e dove loro stessi hanno ridato vita a delle realtà in cui l’unica cosa a regnare era diventata la desolazione. Erano circa le 9 di mattina quando M. decise di accompagnare me e le altre ragazze del gruppo a riempire le nostre borracce alla piccola sorgente di Camini. M. in mezzo a noi, seppure più piccolo di quasi 10 anni, sembrava già un uomo, pronto a farci scoprire la sua realtà, raccontandoci con cura la storia del paesaggio che ci circondava. Ritornando verso la piazza, ci ritrovammo lui ed io da soli. La voglia di condividere la sua storia e la sua “non infanzia” come lui stesso l’ha chiamata, trapelava da ogni poro della sua pelle. “Non smettere mai di inseguire i tuoi sogni”, mi dice M. Sono state queste parole, accompagnate da uno sguardo che non potrò mai più scordare, che mi hanno spinto a dare voce ad una storia fatta di guerra, dolore, odio ma che M. è riuscito a trasformare in una storia di vita, speranza e determinazione. M. viene dalla Siria, terra da sempre contesa fra i paesi limitrofi, e non solo. Terra la cui ricchezza delle materie prime è diventata responsabile di migliaia di vite che, in cerca di un futuro dignitoso, si imbattono in viaggi la cui destinazione e la certezza di arrivarvi sono in mano ad un destino…ancora troppo clandestino. M. arriva a Camini a giugno di 4 anni fa, quando aveva appena 9 anni, con la sua famiglia: cinque fratelli ed una sorellina che però non ce l’ha fatta di fronte ai raggi x di un’ecografia. Ora frequenta la II media, a Riace Marina, e descrive la scuola come un luogo in cui molti studenti prendono in giro i ragazzi stranieri. “Io ho tantissima forza ma non voglio usarla” inizia M. Era abituato in Siria dove tutti giravano armati e che anche per un minimo scherzo ci si poteva “rimettere la pelle”. A Camini ha trovato nuovi amici ma la sua esperienza lo ha fatto crescere con una rapidità tale che non si trova a suo agio con i bambini della sua età. Pur di non pensare e rivivere i fantasmi che sono in lui, esce comunque con i suoi coetanei per svagarsi un po’. M. poco prima dell’estate ha conosciuto un ragazzo più grande, di 25 anni e con lui riesce a parlare di “cose da adulti”. “Lui mi ha insegnato che non devo avere paura”. “Com’era vivere in Siria? Ci pensi spesso?” “Come potrei non ripensarci, ho visto tante di quelle cose che nessun bambino si può immaginare e non auguro a nessuno di vivere ciò che ho vissuto io”. Si ricorda tutto M. Mi racconta ad esempio quella volta che era uscito con il papà, aveva forse 4 anni ma aveva già una forza innaturale. C’era la guerra fuori e M. si ricorda la grotta in cui si erano nascosti. L’unica arma che possedevano erano il coraggio e la forza di sopravvivere. Il papà aveva studiato le tattiche ed i tempi di reazione delle varie armi da fuoco e quindi anche quella voltai due si erano riusciti a salvare, nonostante la loro testa fosse al centro di un mirino. La guerra persisteva, giorno e notte, anche nei momenti più inaspettati. M. si è visto più volte i proiettili sfiorargli il corpo. Un giorno ad esempio stava aggiustando l’antenna con il papà, la cui maglietta si ruppe proprio per un proiettile che gli era caduto a fianco, o quando il fratello stava pranzando fuori dal balcone di casa e si è visto cadere una bomba di fronte. M. si definisce forte, anche solo rispetto ad i suoi fratelli. Uno ha sofferto di crisi per tanto tempo, perché “certe immagini oltre a bombardarti dal vivo ti bombardano anche la testa”. Ammette che ha ancora bisogno della famiglia ma

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Nadia Murad per la dignità delle vittime della tratta di esseri umani

Nadia Murad Basee Taha è una donna Yazida Irachena conosciuta per essere sopravvissuta alla prigionia ed allo stupro sistematico da parte dei militanti dell’Isis, da agosto 2014 a novembre dello stesso anno, quando è riuscita a fuggire. Nel 2015 ha portato all’attenzione delle Nazioni Unite il tema della schiavitù sessuale e delle altre atrocità praticate dall’Isis nei confronti delle minoranze religiose diverse dall’Islam, raccontando di aver assistito ad un vero e proprio sterminio, e chiedendo di portare alla Corte Internazionale questo caso come un caso di genocidio. Nel 2016 Nadia Murad ha deciso di intraprendere un’azione legale contro i comandanti dell’Isis. Nello stesso anno diventa Ambasciatrice Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani. Nel 2018 vince il premio Nobel per la Pace. La persecuzione degli Yazidi da parte dello Stato Islamico Nadia Murad è nata e cresciuta in una famiglia di Yazidi nel villaggio di Kocho, nel nord dell’Iraq, dove viveva con la madre, i suoi 8 fratelli e le sue 2 sorelle, e sognava di diventare un’insegnante. Nel suo libro, L’ultima ragazza, Nadia racconta che lo yazidismo è una delle più antiche religioni monoteistiche diffuse oralmente da sacerdoti, che tramandano le loro tradizioni e storie con questo metodo. È una religione preislamica che, nonostante abbia alcuni punti di congiunzione con le altre religioni mediorientali, si può affermare essere unica nel suo genere e spiegarne le caratteristiche e le peculiarità può risultare difficile anche per gli stessi sacerdoti che ne sono i massimi rappresentanti. Nell’agosto del 2014 l’Isis riuscì a conquistare il Sinjar senza particolari impedimenti, incontrando solo la temporanea resistenza degli yazidi stessi, che cercarono di difendere i loro villaggi con le armi e le poche munizioni che avevano a disposizione. L’opera di occupazione fu resa ancora più semplice dal fatto che gli arabi sunniti delle zone vicine non si erano ribellati, ma avevano anzi deciso di unirsi alle milizie dell’Isis, collaborando a bloccare la fuga degli yazidi. Alla caduta dei villaggi come Kocho, contribuì anche il ritiro delle truppe peshmerga – combattenti curdi del Kurdistan attivi nell’Iraq settentrionale, che avevano promesso di proteggere quelle zone dai militanti. Più tardi, questa decisione venne giustificata dal governo curdo: poiché l’esercito non sarebbe riuscito a proteggere quella zona, si era deciso di dispiegare i soldati in altre aree in cui vi erano più possibilità di vittoria. Il 15 agosto del 2014 i militanti dell’Isis radunarono l’intero villaggio di Kocho in una scuola e separarono uomini, donne e bambini. Tuttavia, lo scopo dell’Isis non era solamente quello di uccidere tutti gli Yazidi, indipendentemente dal loro genere, bensì il gruppo terroristico mirava a distruggerne integralmente la cultura. Per questo motivo quindi, le donne vennero rapite e ridotte in schiavitù. Furono torturate mediante lo stupro così da fare in modo che le stesse non sarebbero più state in grado di vivere una vita normale da quel momento in avanti. Nadia Murad, durante un suo discorso alle Nazioni Unite, raccontò di aver visto con i suoi occhi l’uccisione di tutti gli uomini, sei dei quali erano suoi fratelli. Le donne ed i bambini vennero deportati in un’altra regione, subendo ogni tipo di umiliazione durante il viaggio in autobus. Nadia e le altre arrivarono a Mosul, dove si trovavano molte altre ragazze yazide, considerate infedeli dallo stato islamico. Secondo l’interpretazione jihadista del Corano – seguita alla lettera dai militanti – violentare una schiava non era considerato un peccato. Sin dal momento in cui vennero fatte salire sugli autobus per raggiungere Mosul, Nadia e le altre donne divennero quindi vittime di tratta e schiave sessuali. Nadia venne condotta di fronte ad un tribunale jihadista, preposto a stabilire quale militante fosse il proprietario esclusivo di ciascuna ragazza yazida. La procedura formale era sempre la stessa: un giudice avrebbe attestato la “genuina” conversione all’Islam delle ragazze ed ufficializzato quindi la loro unione con il proprio carnefice. Un “matrimonio” fondato sullo stupro da parte dei militanti. Una vera e propria arma usata per annientare la dignità delle donne Yazide. “A un certo punto non resta altro che gli stupri. Diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio. Smetti di pensare alla fuga o a rivedere la tua famiglia. Il passato diventa un ricordo lontano, come un sogno. Il tuo corpo non ti appartiene e non hai le energie per parlare, per ribellarti, per pensare al mondo esterno. Ci sono solo gli stupri e l’insensibilità scaturita dall’accettazione che questa è la tua vita, adesso.” Nel suo libro, Nadia usa queste parole durissime per descrivere la sua quotidianità dopo essere stata ceduta al suo secondo proprietario, poco prima di riuscire a fuggire dal militante che avrebbe dovuto trasferirla in Siria. La fuga di Nadia Murad dallo stato islamico La fuga di Nadia fu resa possibile grazie ad un errore del suo carnefice: il militante che la teneva prigioniera l’aveva infatti lasciata da sola in casa senza chiudere a chiave la porta, credendola forse troppo debole, stanca, disperata e debilitata per tentare di fuggire. Nadia, dopo aver camminato a lungo nel buio di Mosul, decise di chiedere aiuto ed asilo bussando alla porta di una casa nella speranza che non appartenesse a simpatizzanti dello stato islamico. Nadia ebbe la fortuna di imbattersi in una famiglia sunnita che non aveva avuto i mezzi per lasciare Mosul dopo l’arrivo di Daesh, e che accettò di aiutarla. Le procurarono un documento falso, ed uno degli uomini della famiglia la accompagnò in taxi fino a Kirkuk, poi a Sulaymaniyah, ed infine ad Erbil, dove Nadia poté ricongiungersi con parte della sua famiglia, con la quale raggiunse Zakho, ed infine la Germania. Nadia Murad oggi Dopo il suo primo viaggio a Ginevra, dove tenne il suo primo discorso alle Nazioni Unite, Nadia Murad ha raccontato la sua storia molte altre volte, coinvolgendo persone di ogni provenienza professionale, come giornalisti, diplomatici e chiunque abbia dimostrato interesse nel disastro che l’Isis ha provocato in Iraq.

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Zainab Salbi per i diritti delle donne sopravvissute ai conflitti armati

La piccola Zainab è nata in Iraq, e sin dalla sua nascita la sua vista è stata colpita dall’esperienza della guerra. La famiglia di Zainab era una delle più protette del paese, infatti suo padre era uno dei migliori piloti dello stato, impiegato della compagnia Boeing, mentre sua madre era un’insegnante. In compenso, nonostante l’agio in cui la sua famiglia si trovava, con la salita al potere di Saddam Hussein iniziarono a subire pesanti abusi psicologici da parte di quest’ultimo. Infatti, se la maggior parte della popolazione irachena subì violenze sia fisiche che psicologiche, alla sua famiglia furono “risparmiate” solamente quelle fisiche. D’altronde, al fine di consolidare il proprio potere, il dittatore doveva attorniarsi dell’élite di Baghdad. L’accordo fu che il padre divenne il pilota personale di Hussein in cambio della non-deportazione della moglie – di lontane origini iraniane. La famiglia di Zainab decise, quindi, di “salvare la propria figlia” tramite un matrimonio combinato con un americano iracheno molto più anziano rispetto a lei, che all’epoca aveva solo 19 anni, e che la portò a vivere negli Stati Uniti. Il matrimonio si rilevò subito violento, e solamente dopo tre mesi Zainab riuscì a scappare dalla casa del marito. Nel frattempo, anche se Zainab ha sempre voluto tornare in Iraq, a causa della Guerra del Golfo che scoppiò qualche mese dopo il suo arrivo in America nel 1990, non riuscì mai a ritornarci. L’esperienza di Zainab con la guerra l’ha sensibilizzata alla difficile situazione delle donne in guerra. Infatti, quando seppe della guerra in Bosnia, pochi anni dopo il suo arrivo negli Stati Uniti, decise – a soli 23 anni – di agire fondando Women for Women International con il suo secondo marito Amjad Atallah, dedicando, dunque, la sua vita al servizio delle donne sopravvissute alle guerre. Il gruppo iniziò assistendo 33 donne croate e bosniache nel 1993. La missione stessa dell’organizzazione è quella di offrire supporto alle donne sopravvissute alla guerra ed ai suoi postumi. Il fine ultimo è quello di includere le sopravvissute nella ricostruzione della comunità e di tutta la società stessa. Infatti, secondo Zainab, alla fine di un conflitto è proprio dalle donne che bisogna ripartire in quanto esse sono coloro che provvedono al sostentamento della famiglia e della comunità, ricostruendo in questa maniera, lo strappato tessuto sociale. Sotto la sua leadership, dal 1993 al 2004, l’organizzazione umanitaria Women for Women International è riuscita ad aiutare più di 478.000 donne in 8 conflitti avvenuti intorno al mondo, distribuendo oltre 120 milioni di dollari in aiuti diretti e microcrediti, che hanno avuto un impatto su più di 1.7 milioni di famiglie. Zainab è sempre stata risoluta nel sostenere l’idea che l’accesso all’istruzione ed alle risorse porta ad un cambiamento duraturo nella vita delle donne. Zainab, inoltre, ha scritto e parlato estensivamente sull’uso dello stupro e di altre forme di violenza contro le donne durante la guerra. Il suo lavoro è infatti stato presentato nei principali media. Inoltre, il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, ha onorato Zainab alla Casa Bianca per il suo lavoro umanitario in Bosnia. Zainab è stata anche identificata come una delle 100 donne più influenti al mondo in vari testate giornalistiche come il Times e il The Guardian. Dopo 20 anni di lavoro con donne sopravvissute alla guerra – dalla Repubblica Democratica del Cogno fin all’Afghanistan – Zainab è arrivata a realizzare che la ricetta segreta per il cambiamento nella vita delle donne è l’ispirazione. Infatti, nel 2011 ha annunciato le sue dimissioni dal ruolo ricoperto in Women for Women International per esplorare il “mondo dell’ispirazione” nei media. Zainab inoltre siede nel Consiglio di Amministrazione di Synergos e dell’International Refugee Assistance Project (IRAP). Nel 2015, Zainab ha inoltre lanciato un talk show rivoluzionario con TLC Arabia chiamato “The Nidaa Show”, che è andato in onda in oltre 22 paesi del mondo arabo. La novità di tale show, infatti, è stata che quest’ultimo è stato dedicato al riconoscimento delle donne arabe e mussulmane, alle loro storie, le loro sfide e i loro traguardi raggiunti ed è iniziato per la prima volta con una storica intervista ad Oprah Winfrey. Il talk show ha raggiunto picchi così importanti che Zainab è stata insignita di tantissimi premi ad esso connessi, incluso la nomina come prima Donna Araba più Influente dall’ Arabian Business. Zainab si è inoltre laureata alla George Mason University con una Laurea Triennale in Studi Individualizzati in Sociologia ed in studi di genere, ed un master alla London School of Economics con un master in Studi sullo Sviluppo. Zainab, infine, è l’autrice di vari libri, fra cui il bestseller “Una donna tra due mondi: la mia vita all’ombra di Saddam Hussein”. Noi di Large Movements condividiamo il pensiero di Zainab e riteniamo importante condividere con voi la sua storia perché ci battiamo ogni giorno affinché il ruolo delle donne nel dibattito migratorio venga valorizzato, specialmente durante i conflitti. È infatti fondamentale non idealizzare le donne sopravvissute ai conflitti, vittimizzandole, privandole così della possibilità di partecipare attivamente al dibattito. Al contrario, è necessario ripartire proprio dalle donne, garantendogli una voce nonché un posto ai tavoli decisionali al fine di garantire la loro emancipazione e di renderle artefici della ricostruzione del tessuto sociale di appartenenza. “We have to wake up and we have to roar and we have to stand up. That’s not an activist’ job. That’s every woman’s job.” “Dobbiamo svegliarci, dobbiamo ruggire, dobbiamo rialzarci. Questo non è un lavoro da attivista. Questo è il lavoro di ogni donna.” – Zainab Salbi Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

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Atena Daemi per i Diritti Umani in Iran

Atena Daemi sognava la fine della pena di morte nel suo paese, L’Iran, e auspicava a un rispetto maggiore dei diritti umani. Per questa ragione è stata incarcerata, picchiata e detenuta in isolamento. Oggi racconteremo la storia di questa donna coraggiosa e vedremo insieme la situazione dei diritti umani in Iran. I Diritti Umani in Iran Atena Daemi è stata incarcerata per la sua lotta a favore dei diritti umani che in Iran, suo paese natale, spesso non vengono rispettati. Secondo il più recente rapporto delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani, il paese soffre di gravi discriminazioni di genere, una percentuale troppo elevata di detenzioni arbitrarie e problematiche relative all’applicazione della pena di morte. Vediamo nello specifico quali sono i problemi. Per quanto riguarda la pena di morte e le detenzioni arbitrarie, nel paese sono state registrati numeri elevati di esecuzioni anche per crimini che non rientrano nelle categorie più gravi. Per categorie gravi la Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite intende solo quelli riguardanti omicidi intenzionali. Le esecuzioni sono state spesso il seguito di processi tenutisi in modo iniquo e con l’uso della tortura al fine di estrarre una confessione fittizia: in particolare per circostanze con connessioni alle proteste antigovernative che hanno avuto luogo nel paese negli ultimi anni. Il caso più emblematico è quello di Navid Afkari che è stato segretamente giustiziato dopo aver partecipato nell’agosto 2008 a delle proteste nella città di Shiraz. Il relatore speciale delle Nazioni Unite inviato in Iran, si è detto preoccupato dal fatto che queste esecuzioni sembrano celare una volontà, da parte del governo, di reprimere il dissenso nel paese. Il rapporto dell’ONU sottolinea l’elevato numero di esecuzioni ai danni di minorenni: tra il 1° gennaio e il 1° dicembre 2020 sono stati giustiziati 3 minorenni e più di 85 si trovano nel braccio della morte. In Iran il Codice penale prevede la pena di morte per le ragazze con più di 9 anni di età e per i ragazzi con più di 15 anni di età in caso di crimini quali l’omicidio e l’adulterio. I diritti delle donne sono fortemente ostacolati non solo dalla legge ma anche dalle abitudini e dalle convenzioni sociali. Nonostante i diritti delle donne siano codificati negli articoli 20 e 21 della costituzione, vi è discriminazione sui diritti di matrimonio, divorzio e custodia parentale. Una donna iraniana non può sposarsi senza il permesso del padre o del nonno paterno se il matrimonio in questione è il primo. È illegale il matrimonio tra una donna musulmana e un uomo non musulmano e il matrimonio con un uomo di nazionalità non-iraniana deve ricevere il consenso del governo. Le ragazze possono sposarsi legalmente fin dai 13 anni ma ci sono stati casi di bambine sposate anche in età più giovane con il consenso paterno e del giudice. Le donne sposate rimangono sotto l’autorità del marito che può proibire loro di lavorare, di avere un passaporto o di recarsi all’estero. Per quanto riguarda il divorzio, il marito ha diritto assoluto a richiedere il divorzio mentre la moglie può richiederlo sono in specifici casi. Infine, la libertà di pensiero e di manifestazione è limitata nel paese. I difensori dei diritti umani e i loro avvocati vengono quotidianamente vessati. Tra i casi più famosi quello di Golrokh Iraee Ebrahimi e della stessa Atena Daemi. Arrestate entrambe per aver condannato le esecuzioni arbitrarie dei prigionieri politici e per aver cantato una canzone commemorativa, Iraee fu rilasciata nell’aprile 2019 mentre Daemi resta in carcere. Oltre agli arresti vi è anche un dilagante fenomeno di intimidazione dei famigliari degli arrestati. L’uso eccessivo della forza e le interruzioni delle telecomunicazioni durante le manifestazioni è prassi comune. Il relatore speciale ONU riporta uno shutdown di internet senza precedenti, richiesto dal governo durante le manifestazioni del novembre 2019. In generale il governo continua a censurare i siti internet e le piattaforme di social media. Telegram, Twitter, Facebook e YouTube sono state bloccate in modo permanente e risultano attualmente inaccessibili. La storia di Atena Daemi Atena Daemi si è battuta con coraggio contro le sopramenzionate infrazioni dei diritti umani, e soprattutto contro la pena di morte, le detenzioni arbitrari e per i diritti delle donne e dei bambini. Fu arrestata il 21 ottobre 2014 e dopo 86 giorni di interrogatori fu condannata a 14 anni di reclusione per i reati di: “propaganda contro il sistema”, “adunata sediziosa e collusione contro la sicurezza nazionale”, “blasfemia e offesa al Capo Supremo” e “occultamento di prove”. Durante il processo furono usate come prove i suoi post su Facebook in cui si batteva contro la pena di morte. Il 28 settembre 2016, dopo essere stata rilasciata su cauzione, vede la sua pena ridotta a 7 anni. Viene nuovamente arrestata il 28 novembre 2016 e dopo aver presentato una denuncia contro il “Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica” (IRGC) per uso eccessivo della forza, viene processata il 19 dicembre 2016 con le accuse di: “insulto contro il leader supremo e gli ufficiali di stato”,” “propaganda contro il sistema” e “resistenza all’arresto”. Viene condannata e le vengono aggiunti 3 mesi e un giorno alla sua pena di 7 anni. Alla medesima pena vengono condannate anche le sue sorelle, Ensieh e Hanieh, che vengono però assolte 54 giorni dopo. Il 21 dicembre 2019 Daemi e altri carcerati organizzano un sit-in come protesta contro le repressioni e la risposta dello stato contro le manifestazioni del novembre 2019. In seguito a questo evento fu trasferita in isolamento il 28 dicembre 2019 e vi rimase fino al 8 gennaio 2020. Inoltre, fu condannata a 2 ulteriori anni di prigione e 74 frustrate. Oltre alla solita accusa di “propaganda contro il sistema” fu accusata di “interruzione dell’ordine carcerario” per aver ballato e festeggiato durante la festa di Ashoora. Daemi si è rifiutata di andare al processo dichiarando che tali accuse sono infondate e basate su bugie. Le condizioni di salute di Atena Daemi durante la sua permanenza in carcere sono peggiorate notevolmente. Dopo lo sciopero della fame

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