Muzoon Almellehan

“Non smettere mai di imparare e di sognare. Non perdere mai la speranza.”

La piccola Muzoon è nata l’8 aprile 1999 da Eman e Rakan Almellehan nella città di Dara’a, Siria, dove il papà lavorava come insegnante. Dara’a è stata teatro delle prime proteste contro il regime e di alcune delle prime repressioni contro la popolazione locale. Infatti, subito dopo lo scoppio della guerra civile siriana, la loro città fu assediata dalle forze governative. Due anni dopo, nel 2014, la città venne presa dalle forze islamiste, questo portò ad un inasprimento della guerra che spinse Muzoon e tutta la sua famiglia a scappare verso la Giordania.

«Anche da bambina, sapevo che l’istruzione era fondamentale per il mio futuro. Quando ho dovuto abbandonare la Siria, gli unici effetti personali che ho portato con me sono stati i miei libri di scuola» racconta.

Ciononostante, Muzoon è stata anche tra le prime – e le più giovani – rifugiate siriane a operare per realizzare un cambiamento.

Il primo campo dove arrivarono fu quello di Za’atari, nei 18 mesi trascorsi lì, la piccola Muzoon cominciò ad occuparsi del diritto all’istruzione per i bambini, ed in primo luogo per le ragazze. Infatti, Muzoon si iscrisse alle scuole all’interno del campo, ma presto si accorse che molte ragazze rifugiate – alcune di 13 e 14 anni – interrompevano le lezioni e si sposavano.

Da rifugiata, ho visto cosa succede quando i bambini sono costretti a un matrimonio precoce o al lavoro manuale. Essi restano esclusi dal percorso formativo e perdono la possibilità di avere un futuro.” Racconta. “Ero fortunata perché mi trovavo in un campo dove c’erano delle scuole e perché i miei genitori credevano nell’istruzione“.

Malgrado la sua età, Muzoon iniziò a girare di tenda in tenda per i campi, per parlare con i genitori del valore dell’istruzione e dei rischi del matrimonio precoce. In ogni occasione, esortava i genitori a rimandare le figlie a scuola.

Le ragazze devono ricevere un’istruzione”, dice Muzoon. “È la migliore protezione per loro. Se una madre non è istruita, come può aiutare i suoi figli? Se i giovani non sono istruiti, chi ricostruirà il nostro Paese?”.

Le organizzazioni umanitarie cominciarono ad interessarsi al lavoro di Muzoon, per questo divenne una Good Will Ambassador di UNICEF. E quando il premio Nobel per la pace e Asia Game Changer, Malala Yousafzai andò a visitare il campo di Za’atari, fece di tutto per trovare Muzoon. Malala aveva sentito parlare del suo lavoro e i compagni di classe di Muzoon le raccontarono di essere stati ispirati e di essere rimasti a scuola grazie a Muzoon.

Nel 2015, Muzoon e la sua famiglia, dopo aver rinunciato a vari reinsediamenti verso Canada e Svezia per motivi logistici, riuscirono finalmente a trovare rifugio nel Regno Unito nell’ambito di un piano annunciato nel mese di settembre da David Cameron con il quale il governo britannico prevedeva di accogliere 20.000 rifugiati siriani. Muzoon e la sua famiglia, riuscirono, quini a trasferirsi a Newcastle, dove tutti i figli della famiglia Almellehan frequentano la scuola di Kenton.

Oggi Muzoon ha 23 anni ha terminato la scuola secondaria, ed ha finalmente realizzato il suo sogno di entrare all’università dove studia Scienze Politiche. Ma soprattutto, continua ad impegnarsi per difendere tutte le ragazze a cui è negata l’istruzione nel mondo, in particolare le sue sorelle siriane.

Abbiamo bisogno di istruzione, perché la Siria ha bisogno di noi“, dice Muzoon. “Senza di noi, chi porterà la pace?”.

Noi di Large Movements condividiamo il pensiero di Muzoon ed abbiamo ritenuto importante condividere con voi la sua storia perché ci rendiamo conto di quanto, molto spesso diamo per scontato quello che abbiamo sotto il nostro naso. L’istruzione è una di quelle cose che molto spesso vengono date per scontato, quando, specialmente in un periodo così particolare, dovremmo tutti ricordarci che l’istruzione per tutti, ma soprattutto per tutte le donne e bambine di questo mondo sia fondamentale non solo per il raggiungimento dell’eguaglianza di genere, ma anche, e soprattutto, come dice Muzoon, per la loro stessa protezione e affinché in questo modo, anche le donne possano essere incluse come voce fondamentale all’interno delle trattative e dei processi di pace.

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Atena Daemi per i Diritti Umani in Iran

Atena Daemi sognava la fine della pena di morte nel suo paese, L’Iran, e auspicava a un rispetto maggiore dei diritti umani. Per questa ragione è stata incarcerata, picchiata e detenuta in isolamento. Oggi racconteremo la storia di questa donna coraggiosa e vedremo insieme la situazione dei diritti umani in Iran. I Diritti Umani in Iran Atena Daemi è stata incarcerata per la sua lotta a favore dei diritti umani che in Iran, suo paese natale, spesso non vengono rispettati. Secondo il più recente rapporto delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani, il paese soffre di gravi discriminazioni di genere, una percentuale troppo elevata di detenzioni arbitrarie e problematiche relative all’applicazione della pena di morte. Vediamo nello specifico quali sono i problemi. Per quanto riguarda la pena di morte e le detenzioni arbitrarie, nel paese sono state registrati numeri elevati di esecuzioni anche per crimini che non rientrano nelle categorie più gravi. Per categorie gravi la Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite intende solo quelli riguardanti omicidi intenzionali. Le esecuzioni sono state spesso il seguito di processi tenutisi in modo iniquo e con l’uso della tortura al fine di estrarre una confessione fittizia: in particolare per circostanze con connessioni alle proteste antigovernative che hanno avuto luogo nel paese negli ultimi anni. Il caso più emblematico è quello di Navid Afkari che è stato segretamente giustiziato dopo aver partecipato nell’agosto 2008 a delle proteste nella città di Shiraz. Il relatore speciale delle Nazioni Unite inviato in Iran, si è detto preoccupato dal fatto che queste esecuzioni sembrano celare una volontà, da parte del governo, di reprimere il dissenso nel paese. Il rapporto dell’ONU sottolinea l’elevato numero di esecuzioni ai danni di minorenni: tra il 1° gennaio e il 1° dicembre 2020 sono stati giustiziati 3 minorenni e più di 85 si trovano nel braccio della morte. In Iran il Codice penale prevede la pena di morte per le ragazze con più di 9 anni di età e per i ragazzi con più di 15 anni di età in caso di crimini quali l’omicidio e l’adulterio. I diritti delle donne sono fortemente ostacolati non solo dalla legge ma anche dalle abitudini e dalle convenzioni sociali. Nonostante i diritti delle donne siano codificati negli articoli 20 e 21 della costituzione, vi è discriminazione sui diritti di matrimonio, divorzio e custodia parentale. Una donna iraniana non può sposarsi senza il permesso del padre o del nonno paterno se il matrimonio in questione è il primo. È illegale il matrimonio tra una donna musulmana e un uomo non musulmano e il matrimonio con un uomo di nazionalità non-iraniana deve ricevere il consenso del governo. Le ragazze possono sposarsi legalmente fin dai 13 anni ma ci sono stati casi di bambine sposate anche in età più giovane con il consenso paterno e del giudice. Le donne sposate rimangono sotto l’autorità del marito che può proibire loro di lavorare, di avere un passaporto o di recarsi all’estero. Per quanto riguarda il divorzio, il marito ha diritto assoluto a richiedere il divorzio mentre la moglie può richiederlo sono in specifici casi. Infine, la libertà di pensiero e di manifestazione è limitata nel paese. I difensori dei diritti umani e i loro avvocati vengono quotidianamente vessati. Tra i casi più famosi quello di Golrokh Iraee Ebrahimi e della stessa Atena Daemi. Arrestate entrambe per aver condannato le esecuzioni arbitrarie dei prigionieri politici e per aver cantato una canzone commemorativa, Iraee fu rilasciata nell’aprile 2019 mentre Daemi resta in carcere. Oltre agli arresti vi è anche un dilagante fenomeno di intimidazione dei famigliari degli arrestati. L’uso eccessivo della forza e le interruzioni delle telecomunicazioni durante le manifestazioni è prassi comune. Il relatore speciale ONU riporta uno shutdown di internet senza precedenti, richiesto dal governo durante le manifestazioni del novembre 2019. In generale il governo continua a censurare i siti internet e le piattaforme di social media. Telegram, Twitter, Facebook e YouTube sono state bloccate in modo permanente e risultano attualmente inaccessibili. La storia di Atena Daemi Atena Daemi si è battuta con coraggio contro le sopramenzionate infrazioni dei diritti umani, e soprattutto contro la pena di morte, le detenzioni arbitrari e per i diritti delle donne e dei bambini. Fu arrestata il 21 ottobre 2014 e dopo 86 giorni di interrogatori fu condannata a 14 anni di reclusione per i reati di: “propaganda contro il sistema”, “adunata sediziosa e collusione contro la sicurezza nazionale”, “blasfemia e offesa al Capo Supremo” e “occultamento di prove”. Durante il processo furono usate come prove i suoi post su Facebook in cui si batteva contro la pena di morte. Il 28 settembre 2016, dopo essere stata rilasciata su cauzione, vede la sua pena ridotta a 7 anni. Viene nuovamente arrestata il 28 novembre 2016 e dopo aver presentato una denuncia contro il “Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica” (IRGC) per uso eccessivo della forza, viene processata il 19 dicembre 2016 con le accuse di: “insulto contro il leader supremo e gli ufficiali di stato”,” “propaganda contro il sistema” e “resistenza all’arresto”. Viene condannata e le vengono aggiunti 3 mesi e un giorno alla sua pena di 7 anni. Alla medesima pena vengono condannate anche le sue sorelle, Ensieh e Hanieh, che vengono però assolte 54 giorni dopo. Il 21 dicembre 2019 Daemi e altri carcerati organizzano un sit-in come protesta contro le repressioni e la risposta dello stato contro le manifestazioni del novembre 2019. In seguito a questo evento fu trasferita in isolamento il 28 dicembre 2019 e vi rimase fino al 8 gennaio 2020. Inoltre, fu condannata a 2 ulteriori anni di prigione e 74 frustrate. Oltre alla solita accusa di “propaganda contro il sistema” fu accusata di “interruzione dell’ordine carcerario” per aver ballato e festeggiato durante la festa di Ashoora. Daemi si è rifiutata di andare al processo dichiarando che tali accuse sono infondate e basate su bugie. Le condizioni di salute di Atena Daemi durante la sua permanenza in carcere sono peggiorate notevolmente. Dopo lo sciopero della fame

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Siria-accoglienza

Storia di un giovane siriano con un “cuore di pietra”

Le coste calabre continuano ad essere tra i maggiori punti di arrivo di immigrazione, motivo per cui negli ultimi anni il territorio accoglie nuove strutture per i richiedenti asilo. Tra questi, la cooperativa Jungi Mundu di Camini, dal 2000, è diventato uno SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Lo scorso agosto mi trovavo a Camini, comune di poco più di 600abitanti in provincia di Reggio Calabria, a pochi km dall’ormai nota Riace. Qui, Amnesty International già da qualche anno, organizza dei laboratori di formazione estivi per approfondire le tematiche di immigrazione e diritti di accoglienza. Appena scesa dal regionale, dopo 7 ore di viaggio e qualche grado in più intorno a me, ho subito capito che Camini non poteva che essere il luogo migliore dove parlare di immigrazione ed accoglienza. Una terra apparentemente abbandonata a sé stessa, dove l’edilizia moderna e la frenesia quotidiana sembrano appartenere ad un’altra dimensione. Una piazza. Un bar con qualche tavolino in legno, dei divanetti ed uno schermo con le partite di calcio del giorno. Cittadini dalla pelle bianca, cittadini dalla pelle nera. Anziani, giovani e bambini. Questo è lo scenario che mi trovavo davanti. Uno scenario che sembrava apparentemente normale. Eppure, nell’aria c’era qualcosa di speciale. La prima sera già mi era tutto più chiaro. Quella piazza, quel bar e quei cittadini facevano parte di un’enorme famiglia, in una piazza che riuniva più storie di vita, una diversa dall’altra. Una famiglia in cui i richiedenti asilo, per lo più provenienti dalla Siria, ed i caminesi erano entrati in perfetta armonia. Un’armonia fatta di impegno quotidiano, sacrifici e voglia di ricominciare dopo un vero e proprio viaggio della speranza, con alle spalle una vita di guerra ed ingiustizia. A “campo di accoglienza” spesso si associa l’immagine di un grande campo sperduto nel nulla con qualche baracca e sistemazione fatiscente. Di situazioni così purtroppo ne esistono ancora troppe ma questa volta vi voglio parlare di un’Italia che accoglie ed è sinonimo di rinascita e speranza per coloro che vi arrivano. Camini infatti è una vera eccezione e l’Italia è colma di borghi che hanno fatto dell’accoglienza la loro forza, dando ai rifugiati una “nuova” vita e dove loro stessi hanno ridato vita a delle realtà in cui l’unica cosa a regnare era diventata la desolazione. Erano circa le 9 di mattina quando M. decise di accompagnare me e le altre ragazze del gruppo a riempire le nostre borracce alla piccola sorgente di Camini. M. in mezzo a noi, seppure più piccolo di quasi 10 anni, sembrava già un uomo, pronto a farci scoprire la sua realtà, raccontandoci con cura la storia del paesaggio che ci circondava. Ritornando verso la piazza, ci ritrovammo lui ed io da soli. La voglia di condividere la sua storia e la sua “non infanzia” come lui stesso l’ha chiamata, trapelava da ogni poro della sua pelle. “Non smettere mai di inseguire i tuoi sogni”, mi dice M. Sono state queste parole, accompagnate da uno sguardo che non potrò mai più scordare, che mi hanno spinto a dare voce ad una storia fatta di guerra, dolore, odio ma che M. è riuscito a trasformare in una storia di vita, speranza e determinazione. M. viene dalla Siria, terra da sempre contesa fra i paesi limitrofi, e non solo. Terra la cui ricchezza delle materie prime è diventata responsabile di migliaia di vite che, in cerca di un futuro dignitoso, si imbattono in viaggi la cui destinazione e la certezza di arrivarvi sono in mano ad un destino…ancora troppo clandestino. M. arriva a Camini a giugno di 4 anni fa, quando aveva appena 9 anni, con la sua famiglia: cinque fratelli ed una sorellina che però non ce l’ha fatta di fronte ai raggi x di un’ecografia. Ora frequenta la II media, a Riace Marina, e descrive la scuola come un luogo in cui molti studenti prendono in giro i ragazzi stranieri. “Io ho tantissima forza ma non voglio usarla” inizia M. Era abituato in Siria dove tutti giravano armati e che anche per un minimo scherzo ci si poteva “rimettere la pelle”. A Camini ha trovato nuovi amici ma la sua esperienza lo ha fatto crescere con una rapidità tale che non si trova a suo agio con i bambini della sua età. Pur di non pensare e rivivere i fantasmi che sono in lui, esce comunque con i suoi coetanei per svagarsi un po’. M. poco prima dell’estate ha conosciuto un ragazzo più grande, di 25 anni e con lui riesce a parlare di “cose da adulti”. “Lui mi ha insegnato che non devo avere paura”. “Com’era vivere in Siria? Ci pensi spesso?” “Come potrei non ripensarci, ho visto tante di quelle cose che nessun bambino si può immaginare e non auguro a nessuno di vivere ciò che ho vissuto io”. Si ricorda tutto M. Mi racconta ad esempio quella volta che era uscito con il papà, aveva forse 4 anni ma aveva già una forza innaturale. C’era la guerra fuori e M. si ricorda la grotta in cui si erano nascosti. L’unica arma che possedevano erano il coraggio e la forza di sopravvivere. Il papà aveva studiato le tattiche ed i tempi di reazione delle varie armi da fuoco e quindi anche quella voltai due si erano riusciti a salvare, nonostante la loro testa fosse al centro di un mirino. La guerra persisteva, giorno e notte, anche nei momenti più inaspettati. M. si è visto più volte i proiettili sfiorargli il corpo. Un giorno ad esempio stava aggiustando l’antenna con il papà, la cui maglietta si ruppe proprio per un proiettile che gli era caduto a fianco, o quando il fratello stava pranzando fuori dal balcone di casa e si è visto cadere una bomba di fronte. M. si definisce forte, anche solo rispetto ad i suoi fratelli. Uno ha sofferto di crisi per tanto tempo, perché “certe immagini oltre a bombardarti dal vivo ti bombardano anche la testa”. Ammette che ha ancora bisogno della famiglia ma

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Diritti politici in Egitto durante la presidenza di Al-Sisi

La presidenza di Al-Sisi, comincia dopo il golpe del 2013 ai danni del presidente Morsi, unico presidente eletto democraticamente nella storia del paese; fin da subito il governo di Al-Sisi si caratterizzò per un profondo e violento depauperamento dei diritti politici e sociali in Egitto. Fu immediatamente chiara la strategia con la quale Al-Sisi intendeva mantenere il potere in Egitto: soprusi, violenze ed omicidi sarebbero divenuti fatti all’ordine del giorno. Ciò che emerge con chiarezza infatti, è l’uso diffuso di varie forme di intimidazione volte a scoraggiare sia gli esponenti politici che i semplici giornalisti dal porre interrogativi sull’operato del governo e dei suoi rappresentanti. La polizia e l’esercito sovente impongono la volontà governativa attraverso varie forme di violenze, dalle intimidazioni e minacce a pestaggi, arresti arbitrari e purtroppo omicidi. Ogni persona, anche solo sospetta di volersi opporre al regime, è in pericolo. Lo scopo è palese: creare un clima politico e sociale di terrore, per impedire la formazione e la potenziale diffusione di qualsiasi forma di opposizione al regime. Il governo egiziano, quindi ritiene necessario utilizzare le forze armate come principale mezzo per il mantenimento del potere. Al centro della strategia politica di Al-Sisi vi è il rafforzamento delle strutture militari e della polizia così da creare un sistema clientelare e violento che ha definitivamente contribuito a consolidare il potere presidenziale. La polizia all’interno dell’apparato di potere egiziano ha un ruolo predominante, essendo lo strumento privilegiato – e perciò tutelato – con il quale il presidente impone le sue politiche alla popolazione e sopprime qualsiasi opposizione alla sua azione di governo.  La polizia gode di una quasi totale liberà nell’esercitare le sue funzioni, un’immunità di fondo che gli garantisce ampissimi margini di manovra per le operazioni che esegue, per sopprimere e disincentivare qualsiasi forma di contestazione al regime. (https://www.internazionale.it/notizie/blandine-lavignon/2020/04/22/egitto-ascesa-polizia). Lo strapotere che la polizia detiene all’interno della società si evince dalle numerose nomine dei suoi generali ai vertici dell’alta amministrazione egiziana, rendendo evidente come le violenze e le atrocità commesse da questa siano riconducibili direttamente ed inequivocabilmente alla volontà presidenziale. Anche l’esercito gode di ampi poteri discrezionali nella scelta del proprio modus operandi che gli garantisce un’importante e diffusa pressione sulla popolazione civile. Negli anni della sua presidenza, Al-Sisi ha posto al vertice dei ministeri, o in altre ruoli chiave, esponenti delle forze armate le quali hanno la funzione di fungere da contrappeso, agli occhi del presidente, allo strapotere della polizia. Di fatto questi due centri di potere devono essere bilanciati essendo potenzialmente in competizione fra loro. Proprio per rispettare questo bilanciamento di poteri dunque, il presidente elargisce favori e garanzie di immunità ad entrambi a discapito dei diritti politici della popolazione d’Egitto, che non può far altro che subirne le gravi e continue violenze. Nello specifico si pensi che il diritto di riunione e di libertà di espressione è profondamente limitato e la polizia fa rispettare queste limitazioni perpetrando arresti arbitrari e sottoponendo i prigionieri a tortura. Le autorità accusano gli oppositori politici di terrorismo, sottoponendoli a processi iniqui e arbitrari che si concludono spesso con la condanna alla detenzione in carceri mal tenuti e in cui vigono regole medievali. Il clima è ancor più esasperato da continui interventi presidenziali volti a modificare le discipline che regolano la magistratura ed i partiti politici. Dall’agosto del 2018 infatti, il governo può sciogliere arbitrariamente partiti indipendenti, impendendo così la costruzione di qualsiasi forma di opposizione legale al regime. Inoltre, di altrettanta gravità, è l’allargamento della giurisdizione dei tribunali militari divenuti – insieme ai neo-tribunali straordinari – il vero fulcro del potere giudiziario in Egitto. Detti tribunali sono caratterizzati da procedimenti sommari e gli esiti dei processi sono fortemente influenzati da pressioni governative che consentono di ammettere come valide le testimonianze rese sotto tortura e/o altra forma di pressione psicologica. Il quadro è ancor più drammatico con riferimento all’individuazione di potenziali oppositori politici: in questo caso, polizia ed esercito non sono sottoposte ad alcun tipo di limite o controllo in fase di identificazione di questi soggetti. Al contrario, il potere giudiziario asseconda questa assenza di disciplina chiara quando si tratta di individuare gli oppositori.  Ciò che stupisce dell’attuale situazione è che vi è stato un notevole indebolimento delle garanzie afferenti i diritti politici in Egitto. Seppur vero che nemmeno la presidenza di Mubarak si distinguesse particolarmente per la tutela e la salvaguardia dei diritti civili e politici in Egitto impossibile non notare come la degenerazione sia sempre più rapida. Si pensi in effetti che i principali agitatori della Rivoluzione egiziana del 2011, quella che portò alle dimissioni di Mubarak, furono i lavoratori, i quali,  stanchi delle pressioni dei capi sindacali, quasi tutti filo-governativi,  occuparono le piazze delle principali città egiziane (https://www.internazionale.it/notizie/blandine-lavignon/2020/04/22/egitto-ascesa-polizia ); ciò oggi sarebbe impensabile sia per un fondamentale disinteresse della classe politica rispetto alle istanze della popolazione e sia perché la polizia e i vari apparati governativi rendono impossibile qualsiasi forma di manifestazione del dissenso. L’attuale governo teme ogni tipo di rivendicazione di quelle forze che hanno permesso la fine del trentennale potere di Mubarak, ogni egiziano in questo senso è un potenziale oppositore.  A ben vedere non vi sono luoghi della democrazia che non siano stati compressi o del tutto eliminati da parte del governo tramite l’azione repressiva della polizia. Sono considerati “nemici della democrazia” tutti coloro che pongono domande o direttamente contestano l’operato del governo, come le ONG (https://espresso.repubblica.it/internazionale/2017/01/16/news/human-rights-watch-in-egitto-con-al-sisi-la-societa-civile-e-a-rischio-estinzione-1.293464 ) e i giornali indipendenti che, ad oggi, non esistono più; in tal senso è emblematica la vicenda dei giornalisti della redazione del giornale Mada Masr, (https://www.internazionale.it/bloc-notes/catherine-cornet/2019/11/26/egitto-raid-mada-masr ) che era l’unico giornale egiziano con cui si potevano reperire informazioni contro il governo, i quali sono stati in gran parte picchiati e arrestati. La questione sulla libertà di stampa appare ancor più preoccupante anche se si considera che ad oggi non vi sono giornali egiziani degni di questo nome dal momento che quelli rimasti intenti solo a fungere da megafono del governo. In Egitto infatti risulta difficilissimo svolgere la professione del giornalista, a meno che non si voglia

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Il progetto GAP. L’acqua, strumento di sviluppo o di forza?

L’acqua è indispensabile per la sopravvivenza e per lo sviluppo dell’essere umano. Sebbene la maggior parte della superficie del pianeta sia ricoperta da acque, solo l’1% di queste è fruibile all’uomo. Questa piccola percentuale basterebbe a soddisfare il fabbisogno mondiale se non fosse per la sua diseguale distribuzione. La cattiva gestione della risorsa, unita ad un insieme di altre variabili, sta portando ad una serie di problemi ambientali (carestie, siccità, desertificazioni, innalzamento delle temperature) e non, con ripercussioni sulle migrazioni e sul sottosviluppo.  Molte delle fonti d’acqua disponibili al mondo sono condivise tra vari paesi e questo conduce molto spesso all’esacerbarsi di tensioni ed a scontri diplomatico-politici. A tutto ciò si aggiunge anche il vertiginoso aumento del consumo di acqua dovuto alla crescita della popolazione mondiale ed al conseguente maggiore utilizzo in settori come quello domestico, agricolo, industriale ed energetico.  Secondo il report FAO The State of Food and Agriculture 2020, la quantità annuale di risorse di acqua dolce disponibili pro-capite è diminuita di oltre il 20% negli ultimi due decenni, fino ad arrivare anche al 30% in alcune aree. Le risorse idriche sono sempre più sotto pressione in tutto il mondo e la necessità di una gestione sostenibile che ne assicuri la disponibilità alle generazioni future non è mai stata così impellente. L’acqua sembrerebbe perciò destinata a divenire secondo molti un motivo di conflitto più importante del petrolio. Le guerre e le ripercussioni legate all’oro nero non sono nuove – il mondo è stato più volte scosso da motivazioni connesse allo sfruttamento di detta risorsa energetica – ma i conflitti legati alla gestione di risorse d’acqua, per quanto potrebbero essere percepiti come ancora lontani, sono più attuali che mai. L’acqua, oltre ad essere fondamentale per la sopravvivenza ed il benessere dell’essere umano, è anche funzionale allo sviluppo socioeconomico degli Stati ed è per questo che l’accesso alle risorse idriche è divenuto fondamentale. Ed è soprattutto in un’area come quella del Medio Oriente – dove la disponibilità e l’accesso a fonti di acqua è limitata – che il controllo delle risorse idriche sta divenendo un’arma geopolitica molto importante sullo scacchiere delle potenze, come il caso del Tigri e dell’Eufrate ci dimostra. Il Tigri, l’Eufrate e il progetto GAP La Mesopotamia ha favorito per millenni lo sviluppo di civiltà grazie alla fertilità donata dall’inondazione dei fiumi Tigri ed Eufrate e dalle opere di irrigazione create dall’uomo. Entrambi i fiumi si originano nei territori dell’attuale Turchia, proseguono in Siria per poi congiungersi in Iraq e sfociare nel Golfo Persico. Essi costituiscono un’importante risorsa d’acqua per tutti i paesi rivieraschi che attraversano: di fatto, molti grandi interventi sono stati realizzati per il loro utilizzo strategico, soprattutto negli ultimi anni.  In questo quadro si inserisce l’enorme progetto turco nel sud-est dell’Anatolia, il GAP (Güneydoğu Anadolu Projesi). Questo progetto prevede la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche per la riqualificazione di un territorio caratterizzato da: rigide condizioni territoriali e climatiche, risorse idriche mal distribuite, terre aride, insufficienti servizi sociali, bassi livelli di reddito pro capite e modelli di migrazione “inusuali”.  La Turchia negli ultimi decenni è stata interessata da un forte sviluppo economico e sociale che ha generato un incremento del benessere della sua popolazione e, conseguentemente, del fabbisogno di energia.  È sorto così il progetto del GAP che, da un lato, doveva rispondere alla rapida crescita economica e demografica dell’intero paese e, dall’altro, doveva migliorare gli standard socioeconomici della regione interessata dalla sua presenza, attraverso la riduzione delle disparità e delle disuguaglianze con le altre regioni della Turchia.  Il GAP, quindi, potrebbe portare ad un miglioramento delle condizioni di vita e del benessere dell’area e ad una maggiore efficienza in termini di produzione energetica prodotta a basso costo ed a basse emissioni. A tutti questi benefici per il territorio e per la popolazione turca, tuttavia, si aggiunge una serie di risvolti sociali, politici, ambientali e culturali negativi. Il GAP come motivo di tensione tra Stati Lo sfruttamento dei due fiumi ha portato negli anni ad una serie di problematiche politiche e diplomatiche tra la Turchia e gli altri due paesi rivieraschi, Siria ed Iraq.  Fino agli anni ’60, le relazioni tra i paesi non erano influenzate da tensioni legate all’utilizzo delle acque, poiché le dimensioni dei progetti sviluppati sui due fiumi erano contenute e non prevedevano un utilizzo intensivo della risorsa idrica. Le tensioni si inasprirono quando iniziarono i primi passi concreti verso la realizzazione di vari progetti idroelettrici in tutti e tre i paesi, come la costruzione della diga di Keban in Turchia, la diga di Tabqa in Siria – che con il riempimento del bacino del lago di Assad ha scatenato la collera dell’Iraq – ed il lancio ufficiale del GAP negli anni ’70, che vide l’inaugurazione della prima diga, Karakaya, alla fine degli anni ’80. Venne, dunque, creato un Comitato Tecnico Congiunto (JTC) per cercare di raggiungere un accordo per uno sfruttamento bilanciato di entrambi i fiumi tra i tre paesi. Inizialmente, al Comitato parteciparono solo Turchia e Iraq. La Siria si aggiunse solo in seguito, ma il lavoro del JTC non portò mai ad un risultato concreto.  Il primo accordo si ottenne solo a livello bilaterale nel 1987 tra Turchia e Siria, stabilendo un rilascio medio annuo di 16 miliardi di metri cubi di acqua alla Siria con una portata minima annua media di 500 m3/s. A questo seguirono una serie di altri accordi, tra i quali quello del 1990 tra Siria e Iraq nel quale i due paesi concordarono di ricevere rispettivamente il 42% e il 58% del flusso dell’Eufrate al confine turco-siriano. Il completamento della diga di Atatürk nel 1990, fiore all’occhiello dell’intero progetto GAP nonché una delle dighe più grandi al mondo, fece riemergere diverse tensioni tra i paesi. La Turchia, infatti, per riempire il bacino della diga deviò l’Eufrate per circa un mese, causando una notevole riduzione della quantità ed il peggioramento della qualità dell’acqua diretta verso la Siria e l’Iraq. A seguito dell’episodio, vennero inviate invano note minacciose alla Turchia per richiedere lo stop alla costruzione di altre dighe previste sul corso dei due fiumi, come quelle

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Donna, vita, libertà: la lotta delle donne iraniane è la lotta di tutte

Risale allo scorso 16 settembre l’omicidio di Mahsa Amini, 22 anni, a causa delle percosse subite dopo un fermo da parte della Polizia Morale iraniana (in inglese Islamic Guidance Patrol). La ragazza curda, a Teheran come turista con la famiglia, era stata fermata il 13 settembre perché, a detta degli agenti, non indossava correttamente il velo. È morta tre giorni dopo. Da allora, l’Iran è scosso da proteste guidate dalla società civile, e centinaia sono state le manifestazioni attraverso il globo e le dimostrazioni di sostegno della comunità internazionale alla popolazione e alle donne iraniane. Large Movements è stata a quella di Roma, il 1° ottobre, e le foto qui riportate dimostrano la rabbia e forza che hanno guidato la marcia attraverso la capitale. A quasi due mesi dalla morte di Mahsa, la popolazione iraniana è ancora in tumulto e la repressione delle proteste non accenna ad arrestarsi. È complesso ritracciare l’ordine degli eventi accaduti nelle scorse settimane. Varie notizie sconcertanti si susseguite, tra cui la temporanea scomparsa dell’atleta Elnaz Rekabi, apparsa a Seoul senza hijab durante una gara di arrampicata – a quanto pare, per errore – e rivista a Teheran qualche giorno dopo aver interrotto ogni contatto con famiglia e amici. Questo articolo offre un riassunto della vicenda per ribadirne la rilevanza, che oltrepassa il momentum e i confini geografici, ed esprime il pieno sostenimento di Large Movements alle donne iraniane nella loro (e nostra) lotta per l’auto-determinazione. Breve storia del velo in Iran In linea con i principi della sharia già presenti in altri paesi, il governo iraniano ha reso l’hijab obbligatorio dopo la Rivoluzione Islamica del 1979. Dopo una prima fase di dichiarazioni dell’Ayatollah Khomeini ma nessuna misura a formalizzare l’imposizione, il Parlamento iraniano istituzionalizzò le raccomandazioni con un decreto emesso nel 1983. Così come altre Repubbliche Islamiche, l’Iran basa la propria posizione sul velo sui testi sacri musulmani, tra cui il Corano e gli Hadith, nonostante sia oggetto di dibattito se queste scritture prescrivano realmente, e se sì quale, un codice di abbigliamento per le donne. Questo tipo di editto, insieme a tutti gli altri che prescrivono un comportamento “appropriato” secondo la legge islamica, viene fatto applicare dalla cosiddetta “polizia morale” Gasht-e Ershad. Il corpo di polizia è nato nel 2005 formalizzando le strutture paramilitari religiose concepite in principio per combattere nella guerra in Iran. Ad oggi, gli agenti della polizia morale pattugliano le strade e solitamente rilasciano ammonizioni verbali in presenza di irregolarità – di fronte a un velo che non copre tutti i capelli, trucco troppo vistoso o gonne troppo corte. Proprio il 15 agosto scorso, il presidente iraniano Ebrahim Raisi aveva imposto nuove sanzioni più stringenti e dure punizioni per le donne che non rispettano il codice di condotta islamico, di fatto allargando ulteriormente i poteri della polizia morale. Tuttavia, spesso le donne fermate vengono prese in custodia e detenute, per poi in seguito essere inviate in “centri di ri-educazione”, dove seguono ore di lezioni sulla morale islamica. Il rilascio avviene poi in presenza di un parente stretto di sesso maschile, dopo aver firmato una dichiarazione secondo la quale, in futuro, l’offesa non sarà ripetuta. Mahsa Amini: l’ultima goccia per la società civile iraniana Apparentemente, questo è quello che sarebbe dovuto succedere anche a Mahsa: un centro di “correzione”, e poi il rilascio. Eppure non sono rare le denunce di abuso da parte degli agenti in seguito al fermo, di cui Mahsa è stata un vittima. Il 13 settembre, Mahsa Amini viene sequestrata per “uso improprio del velo”. È costretta ad entrare in un furgone della polizia morale dove viene percossa dagli agenti stessi, secondo alcuni testimoni oculari. Qualche ora dopo, alla sua famiglia viene comunicato che Mahsa è stata trasportata in ospedale in seguito ad un attacco cardiaco. Dopo tre giorni in coma, la ragazza di 22 anni è deceduta. La famiglia si è opposta da subito alla versione ufficiale della vicenda, spiegando che Mahsa non aveva alcun problema di salute che potesse spiegare un attacco di cuore improvviso. Il suo decesso ha fatto da scintilla accanto a una miccia, portando la società civile già stremata da un regime oppressivo in cui spesso attiviste subiscono ripercussioni per il proprio ruolo critico nei confronti di esso, a irrompervi contro, scatenando proteste che si sono sparse per tutto il Paese. A questo si è aggiunta l’arresto della giornalista Niloofar Hamedi dopo aver postato una foto dei genitori di Mahsa abbracciati in ospedale, dopo aver appreso del decesso della figlia. Le proteste hanno invaso le strade di Teheran e del resto del Paese qualche giorno dopo, specialmente nel Kurdistan iraniano, regione da cui proveniva Mahsa. Tantissime donne hanno manifestato il proprio dissenso togliendosi il velo o bruciandolo. Uno dei gesti più profondi e simbolici di queste proteste è stato il pubblico taglio di capelli da parte delle partecipanti, in ricordo di Mahsa e contro la Guida Suprema del Paese, Ali Khamenei. La risposta del governo iraniano è stata di reprimere violentemente i manifestanti: l’ONG Iran Human Rights, che ha seguito l’andamento degli scontri tra civili e forze dell’ordine, riporta che almeno 326 persone, di cui 43 minori, sono state uccise durante le insurrezioni. Due entità che hanno partecipato alle proteste sono particolarmente rilevanti: i corpi studenteschi, sia universitari che liceali, e il movimento delle donne del Kurdistan (KJK), mostrando l’intersezione indissolubile tra movimenti femministi, educazione e nuove generazioni come parti fondamentali e imprescindibili del cambiamento sociale contemporaneo. Al grido di Jin Jiyan Azadi, “Donna, Vita, Libertà” in kurmanci, un dialetto curdo, studenti, studentesse e donne curde hanno marciato per le strade del Paese abnegando assieme la violenta oppressione dei corpi e della libertà da parte del regime islamista iraniano. Nelle università, sono state compiute azioni indipendenti per eliminare il divario di genere tra gli studenti, ed è tutt’ora chiesta a gran voce la liberazione delle ragazze e dei ragazzi arrestati durante le contestazioni. Tra le loro file, si contano perdite drammatiche: ricordiamo tra queste Nika Shakarami, 17 anni, scomparsa dopo delle manifestazioni e

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