Sunniti e sciiti: scontro settario o conflitto per il controllo del potere?

L’inasprirsi negli ultimi decenni dei conflitti nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa ha acceso una forte attenzione verso l’Islam. Questi disordini vengono spesso erroneamente descritti solo in termini settari, adducendo la divisione tra le due correnti principali dell’Islam – sunniti e sciiti – come unica motivazione alla base del conflitto. Sebbene la convivenza tra le due correnti religiose non sia sempre stata pacifica, i motivi scatenanti le guerre sono alquanto complessi e non legati solo all’antagonismo reciproco.

L’Islam nel mondo

Sono molti gli errori che si commettono quando si parla di Islam, il primo fra tutti è collegare la religione all’etnia araba. Diversamente da quello che si tende a pensare, l’Islam è una realtà che non riguarda esclusivamente i paesi arabi o quelli del Medio Oriente e Nord Africa difatti solo una minoranza dei musulmani vive in questi territori. 

Si stima che circa il 60% della popolazione musulmana mondiale vive in Asia, il 20% in Medio Oriente, 15% in Africa ed il restante tra Europa ed Americhe. Ad oggi il paese che ospita il maggior numero di musulmani è l’Indonesia, seguita da paesi come Pakistan, India e Bangladesh.

Un altro interessante dato ci dice che mentre l’80% vive in paesi dove i musulmani costituiscono la maggioranza, il restante 20%, invece, vive come minoranza nel proprio paese. In questi ultimi le minoranze musulmane sono spesso vittime di persecuzioni e repressioni, come ci mostrano i casi degli Uiguri in Cina, i Rohingya in Myanmar finanche gli avvenimenti in India ed in Tailandia – dove i governi nazionali hanno adottato politiche discriminatorie nei confronti della comunità islamica. 

Questi primi dati ci aiutano a capire come il mondo islamico non sia un universo monolitico, come siamo portati a pensare, ma che al contrario cela al suo interno numerose divisioni e diversità, alcune anche molto difficili da interpretare. La più grande divisione interna all’Islam, ma non l’unica, è quella tra sunniti e sciiti, una divisione che risale addirittura a circa 1400 anni fa. 

Sunniti e sciiti: una questione di successione

Per comprendere l’esatto momento che diede inizio alla più grande divisione nel mondo islamico, bisogna tornare al tempo della creazione della religione stessa, al tempo del profeta. La comunità islamica iniziò a strutturarsi al momento della grande emigrazione delle tribù dell’Arabia da Mecca a Medina sotto la guida del profeta Muhammad. Alla morte del profeta nel 632 d.C. quello che venne a crearsi all’interno della comunità fu un problema di successione e di organizzazione politica. In questo caso, la sfera religiosa ricopriva un ruolo marginale, poiché la questione della successione alla guida della ummah (comunità islamica) era di natura politica e tribale. Quest’ultima suscitò due risposte alternative: chi riteneva che il successore dovesse essere scelto all’interno della stessa tribù del profeta e chi designò come unico e legittimo successore Ali, cugino e genero di Muhammad – il nome “sciiti2 deriva proprio dall’arabo shi’at ‘Ali “la fazione di Ali”.

Ad avere la meglio infine furono i primi e venne designato califfo – khalifa “vicario di Dio” – Abu Bakr, il primo di quelli che verranno chiamati dai sunniti al-rashidun cioè i “califfi ben diretti”. A lui seguiranno Umar, Uthman e solo in ultima istanza Ali, che guidò la comunità fino al 661 d.C. ponendo fine al trentennio di califfato. Secondo un racconto profetico che recita “Il califfato durerà 30 anni poi verrà il regno”, solo il periodo dei Califfi ben diretti può essere chiamato legittimamente Califfato per via della maggiore aura religiosa di cui godeva, nonostante ciò, l’appellativo Califfo continuò ad essere usato dalle dinastie che seguirono. 

Al fine di ricostruire la spaccatura interna all’Islam, la battaglia di Karbala segnò definitivamente e in maniera irreversibile la lacerazione tra sunniti e sciiti. Intorno al 680 Hussein, figlio di Ali, guidò numerosi dei suoi seguaci dalla Mecca a Karbala (attuale Iraq) contro l’esercito del corrotto Califfo Omayyade di Damasco, uno scontro che assumerà per gli sciiti un’aura particolare, quasi di scontro tra bene e male. A Karbala Hussein venne ucciso e decapitato, un momento che viene ancora ricordato dai seguaci di Ali nel giorno di Ashura

La guida politica e religiosa 

I sunniti e il Califfato

Il problema dell’organizzazione politica interna all’Islam è quindi la prima grande differenza tra sunniti e sciiti. Alla morte del profeta, dunque, la guida della comunità prese due strade distinte. Abbiamo visto come i sunniti abbiano concesso il comando politico della comunità al Califfato che venne detenuto da diverse dinastie, le quali si susseguirono nei secoli; tra le più importanti vediamo l’Omayyade, Abbaside e l’Ottomana. La fine dell’impero Ottomano nel 1922 e la creazione della Repubblica della Turchia porterà anche all’abolizione del Califfato nel 1924, una fine non definitiva perché nel 2014, l’ISIS ha riesumato il titolo di Califfo, proclamando il Califfato dell’ISIS. 

In questo sistema di organizzazione sociale l’autorità politica, il Califfo, si confronta e si scontra con l’autorità religiosa, rappresentata ed esercitata dai giuristi. Sono i giuristi che con la loro autorevolezza riconosciuta dal popolo possono porre un argine all’eventuale prepotenza del potere politico dal quale sono indipendenti. 

Un’altra particolarità dei sunniti è dettata dai diversi indirizzi interpretativi che sono emersi dopo la morte del profeta e che si sono stabilizzati e cristallizzati tra il VIII e XI sec. Nello specifico, ci si riferisce alle quattro scuole giuridiche che derivano da una diversa interpretazione delle fonti primarie del sunnismo. Questi quattro indirizzi si fondano sull’insegnamento di quattro personalità che hanno fondato le scuole e dalle quali prendono il nome: malikiti, hanafiti, shiafi’iti e hanbaliti; ognuna di queste scuole è ancora valida e caratterizza una particolare area geografica con alcune eccezioni come l’Egitto – che vede la presenza di tutte le scuole con la predominanza della scuola Hanafita – o la Siria – che risente sia della scuola shiafi’ta sia di quella hanafita.

Imam: guida politica, spirituale e religiosa degli sciiti

Gli sciiti non riconoscono il Califfato. Per loro, la guida della comunità spettava solo ad Ali e ai suoi discendenti ai quali venne attribuito il titolo di Imam. Per gli sciiti la differenza è dovuta al fatto che l’Imam raccoglie in sé l’intera autorità politica, religiosa e spirituale mentre i sunniti per queste autorità prevedono mani diverse. L’Imam è perciò una figura permeata di una grande importanza e la questione della sua successione ha portato alla creazione di ulteriori diversità interne allo sciismo. In totale, le principali correnti sciite sono tre. La prima è definita imamita (anche detto sciismo duodecimano) e rappresenta la maggioranza degli sciiti ed è caratteristica anche della dinastia Safavide che riunificò territorialmente la Persia e dichiarò lo sciismo duodecimano religione ufficiale sui propri territori, dove rimane tuttora dominante. La loro particolarità è dovuta al fatto che la catena delle discendenze si interrompe al dodicesimo Imam che è entrato in “occultamento”. La seconda corrente è chiamata sciismo ismailita o settimano proprio perché, a differenza della prima, interrompe la catena al settimo Imam. Questo gruppo è caratterizzato da ulteriori diversità interne, anche molto distanti tra loro, il che ha reso il ricorso all’appellativo “settimani” ad essere incorretto dal momento che lo stesso era rappresentativo solo di una corrente degli ismailiti. La scomparsa dell’Imam ha avuto delle profonde conseguenze sulla comunità sciita poiché, in linea teorica, solo esso è in grado di detenere la guida politica e religiosa e, nell’attesa di un suo ritorno, tutto è sospeso.

Il terzo ramo sciita è costituito dagli zayditi, principalmente stanziati in Yemen. Essi sostengono che la discendenza non è il valore più importante che l’Imam deve avere, al contrario le qualità morali sono imprescindibili. A differenza dei primi due, gli zayditi non credono nella dottrina dell’occultamento. 

Esiste, inoltre, un altro gruppo ricondotto allo sciismo e di cui ultimamente si parla molto poiché vi appartiene l’attuale presidente della Siria, Bashar Al Assad: gli alawiti. Nonostante storicamente questo gruppo confessionale da molti non veniva attribuito allo sciismo in senso lato, oggi essi rappresentano una forma particolare di sciismo stanziata in Siria, della quale costituiscono, tuttavia, una minoranza della popolazione totale.

Il confine geografico tra sunniti e sciiti

Negli ultimi anni si sente sempre di più parlare di scontro tra il cosiddetto “blocco sunnita” e quello sciita. Sebbene l’interpretazione settaria degli scontri, delle violenze e delle disuguaglianze esistenti nelle società islamiche appaia la più evidente, questa rimane molto distante dalla realtà effettiva. Prima di approfondire questo tema, appare innanzitutto utile cercare di capire la distribuzione geografica di sunniti e sciiti. 

I sunniti rappresentano circa l’80-85% dei musulmani, appare perciò ovvia la loro predominanza geografica. Una grande fetta dei paesi vede quindi i sunniti come maggioranza, nel particolare la quasi totalità dei paesi del Golfo, l’Egitto, la Turchia, l’Algeria, il Pakistan, ecc. 

Gli sciiti rappresentano, invece, il 10-15% dei musulmani – appartenenti a diversi gruppi etnici – e le loro comunità si presentano stanziate a macchia di leopardo. Sono pochi i paesi dove rappresentano la maggioranza, infatti, il 70% degli sciiti vive in soli quattro paesi: Iran, Iraq, Azerbaigian e Bahrein. Rilevanti comunità di sciiti sono presenti anche in Libano – stanziati prevalentemente nel sud del paese – Siria – presenti soprattutto nelle zone di Aleppo e Damasco – Turchia – rappresentati dalla comunità azera e stanziati principalmente nelle grandi città del paese e nelle zone di frontiera nell’Anatolia orientale – e nello Yemen – nella parte ovest del paese. Altri gruppi minoritari di sciiti sono presenti nei paesi del Golfo, in Afghanistan, in Georgia, nei paesi dell’Asia. La loro presenza arriva anche in Europa, Nord America e Australia, dove molti membri della comunità giunsero durante la diaspora avvenuta dagli anni 80. 

Uno sguardo approfondito sulla visione occidentale dell’Islam

Molti eventi cruciali hanno modellato la nostra visione del Medio Oriente, dell’Islam e dello scontro tra le potenze regionali, descritto spesso come “settario” ma che, come vedremo, è ben lontano da questa semplificazione. Il primo di questi eventi è la politicizzazione dell’Islam fenomeno al quale si guarda spesso con paura ma che invece è rappresentativo di un maggiore attivismo da parte di movimenti intellettuali e riformisti e che non riguarda quindi solo l’ala più radicale dell’Islam politico. Molti studiosi riconducono questo fenomeno – che in prima battuta ha riguardato principalmente i sunniti ed in un secondo momento ha interessato anche gli sciiti – alla colonizzazione ed ai cambiamenti che stavano avvenendo a livello internazionale, i quali hanno avuto un effetto impattante sulla comunità musulmana. Un altro evento che ha avuto una grande influenza sia nella regione che fuori è la rivoluzione khomeinista in Iran con la creazione del primo “Stato islamico contemporaneo”. Questo evento rappresentò soprattutto uno spartiacque nelle relazioni tra le potenze regionali il quale diede vita ad una serie di dinamiche e scontri che videro spesso la contrapposizione tra sunniti e sciiti. Ciononostante, le guerre mascherate dai motivi religiosi ben presto mostrarono la loro vera natura di lotta geopolitica per il potere della Regione tra Arabia Saudita, Iran e i loro alleati. Ma sono soprattutto gli eventi del 2003 in Iraq e del 2011, inizio della guerra in Siria, ad aver alimentato una lettura sempre più settaria degli scontri. L’uso strumentale della religione ha fatto perno su una divisione come quella tra sunniti e sciiti che ben si presta a questo gioco e che maschera bene i più realistici motivi politici, economici e di controllo delle risorse energetiche. 

Certo bisogna comunque ricordare che la convivenza tra sunniti e sciiti non è sempre stata pacifica e che dunque un’incongruenza religiosa di fondo esiste. L’esacerbarsi dell’intolleranza anche interna alla società tuttavia, è più il risultato dell’enfatizzazione della figura del diverso da parte degli Stati e dei poteri. 

Il problema della lettura degli eventi che stanno avvenendo nel Medio Oriente è dunque che il settarismo è passato da essere strumento di osservazioni dei fenomeni a essere l’unica, o quasi, spiegazione delle relazioni tra Stati e società. Questo ha portato, e porta tuttora, ad un’erronea lettura degli avvenimenti in cui il principale problema che alimenta i conflitti è la religione. 

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Loujain al-Hathloul

Loujain al-Hathloul è un’attivista saudita per i diritti delle donne. La sua forza di volontà e la sua resistenza l’hanno portata a fare una differenza significativa nel suo paese, ma tutto si può affermare tranne che questo sia stato per lei e per le sue compagne un viaggio semplice. Loujain è stata una delle leader del movimento Women2drive, nato negli anni ‘90 con l’obiettivo di ottenere il diritto di guidare le auto da parte delle donne. Negli ultimi 7 anni la vita di Loujain è stata scandita da periodi più o meno lunghi di prigionia. In possesso di una patente ottenuta negli Emirati Arabi Uniti, nel 2013 si era filmata mentre tornava a casa guidando, accompagnata dal marito, ma fu il video dell’anno dopo a fare scalpore e che divenne virale su You Tube, perché quella volta guidò da Abu Dhabi fino al confine con l’Arabia Saudita. Nel 2014 il suo caso finì dinanzi ad un tribunale militare in quanto accusata di aver compiuto un gesto di sfida nei confronti del divieto di guida per le donne in Arabia Saudita, unico Paese al mondo che ancora manteneva viva questa legge. Loujain venne arrestata il 1 Dicembre 2014, e insieme a lei anche la giornalista Maysaa al-Amoudi, che decise di guidare anche lei verso il confine per sostenere la sua compagna. Loujain restò reclusa per un totale di circa 70 giorni. Nel 2015, quando la monarchia saudita concesse per la prima volta il diritto di voto alle donne, Loujain decise di candidarsi alle elezioni locali. Anche se il suo nome non venne mai incluso nelle liste, la forte personalità e determinazione di Loujain venne riconosciuta, e venne inserita al terzo posto della classifica delle 100 donne arabe più potenti al mondo sul fronte culturale e sociale. Il 4 giugno 2017 Loujain venne arrestata per la seconda volta in Arabia Saudita. La ragione non fu nota, e le fu impedito di mettersi in contatto con i suoi cari. La lotta di Loujain e le sue compagne, nonostante tutte le difficoltà affrontate, ha portato il principe ereditario Mohammed bin Salman a consentire alle donne di guidare, e dal giugno del 2018 le donne poterono finalmente ottenere la patente di guida. Appena prima di questo successo politico e umanitario, nel maggio del 2018 Loujain venne nuovamente arrestata con l’accusa di terrorismo e di aver cospirato contro l’Arabia Saudita insieme a Paesi “nemici”. Il suo processe venne spostato infatti in un tribunale speciale che si occupa di casi di terrorismo, quando Loujain altro non era che un’attivista pacifica. Soltanto tre mesi dopo l’arresto venne trasferita in un carcere nella sua città natale, e fu in grado di incontrare la sua famiglia. Raccontò a loro ciò che era accaduto durante quelle settimane di carcere: fu costretta a vivere una reclusione disumanizzante, con sedute di elettroshock, frustate e abusi sessuali. Per opporsi e denunciare le violenze subite, nell’ottobre del 2020 cominciò uno sciopero della fame, ma dopo due settimane le guardie carcerarie iniziarono a privarla del sonno svegliandola ogni due ore, e dopo diverse settimane estenuanti Loujain fu costretta a interrompere a riprendere a mangiare. Il 28 dicembre venne condannata a 5 anni e 8 mesi di carcere. Il 31 luglio 2020, Loujain ha amaramente festeggiato il suo 31esimo compleanno in carcere, ed è stata rilasciata solamente a febbraio 2021, con il divieto di lasciare l’Arabia Saudita per cinque anni. Il Global Gender Gap Report del 2020 del World Economic Forum, posiziona l’Arabia Saudita al 146esimo posto su 153 Paesi: quindi lo classifica come uno degli Stati peggiori in cui una donna possa vivere ad oggi, costretta ad avere un uomo come tutore che approvi la grande maggioranza delle sue azioni quotidiane.

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Il progetto GAP. L’acqua, strumento di sviluppo o di forza?

L’acqua è indispensabile per la sopravvivenza e per lo sviluppo dell’essere umano. Sebbene la maggior parte della superficie del pianeta sia ricoperta da acque, solo l’1% di queste è fruibile all’uomo. Questa piccola percentuale basterebbe a soddisfare il fabbisogno mondiale se non fosse per la sua diseguale distribuzione. La cattiva gestione della risorsa, unita ad un insieme di altre variabili, sta portando ad una serie di problemi ambientali (carestie, siccità, desertificazioni, innalzamento delle temperature) e non, con ripercussioni sulle migrazioni e sul sottosviluppo.  Molte delle fonti d’acqua disponibili al mondo sono condivise tra vari paesi e questo conduce molto spesso all’esacerbarsi di tensioni ed a scontri diplomatico-politici. A tutto ciò si aggiunge anche il vertiginoso aumento del consumo di acqua dovuto alla crescita della popolazione mondiale ed al conseguente maggiore utilizzo in settori come quello domestico, agricolo, industriale ed energetico.  Secondo il report FAO The State of Food and Agriculture 2020, la quantità annuale di risorse di acqua dolce disponibili pro-capite è diminuita di oltre il 20% negli ultimi due decenni, fino ad arrivare anche al 30% in alcune aree. Le risorse idriche sono sempre più sotto pressione in tutto il mondo e la necessità di una gestione sostenibile che ne assicuri la disponibilità alle generazioni future non è mai stata così impellente. L’acqua sembrerebbe perciò destinata a divenire secondo molti un motivo di conflitto più importante del petrolio. Le guerre e le ripercussioni legate all’oro nero non sono nuove – il mondo è stato più volte scosso da motivazioni connesse allo sfruttamento di detta risorsa energetica – ma i conflitti legati alla gestione di risorse d’acqua, per quanto potrebbero essere percepiti come ancora lontani, sono più attuali che mai. L’acqua, oltre ad essere fondamentale per la sopravvivenza ed il benessere dell’essere umano, è anche funzionale allo sviluppo socioeconomico degli Stati ed è per questo che l’accesso alle risorse idriche è divenuto fondamentale. Ed è soprattutto in un’area come quella del Medio Oriente – dove la disponibilità e l’accesso a fonti di acqua è limitata – che il controllo delle risorse idriche sta divenendo un’arma geopolitica molto importante sullo scacchiere delle potenze, come il caso del Tigri e dell’Eufrate ci dimostra. Il Tigri, l’Eufrate e il progetto GAP La Mesopotamia ha favorito per millenni lo sviluppo di civiltà grazie alla fertilità donata dall’inondazione dei fiumi Tigri ed Eufrate e dalle opere di irrigazione create dall’uomo. Entrambi i fiumi si originano nei territori dell’attuale Turchia, proseguono in Siria per poi congiungersi in Iraq e sfociare nel Golfo Persico. Essi costituiscono un’importante risorsa d’acqua per tutti i paesi rivieraschi che attraversano: di fatto, molti grandi interventi sono stati realizzati per il loro utilizzo strategico, soprattutto negli ultimi anni.  In questo quadro si inserisce l’enorme progetto turco nel sud-est dell’Anatolia, il GAP (Güneydoğu Anadolu Projesi). Questo progetto prevede la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche per la riqualificazione di un territorio caratterizzato da: rigide condizioni territoriali e climatiche, risorse idriche mal distribuite, terre aride, insufficienti servizi sociali, bassi livelli di reddito pro capite e modelli di migrazione “inusuali”.  La Turchia negli ultimi decenni è stata interessata da un forte sviluppo economico e sociale che ha generato un incremento del benessere della sua popolazione e, conseguentemente, del fabbisogno di energia.  È sorto così il progetto del GAP che, da un lato, doveva rispondere alla rapida crescita economica e demografica dell’intero paese e, dall’altro, doveva migliorare gli standard socioeconomici della regione interessata dalla sua presenza, attraverso la riduzione delle disparità e delle disuguaglianze con le altre regioni della Turchia.  Il GAP, quindi, potrebbe portare ad un miglioramento delle condizioni di vita e del benessere dell’area e ad una maggiore efficienza in termini di produzione energetica prodotta a basso costo ed a basse emissioni. A tutti questi benefici per il territorio e per la popolazione turca, tuttavia, si aggiunge una serie di risvolti sociali, politici, ambientali e culturali negativi. Il GAP come motivo di tensione tra Stati Lo sfruttamento dei due fiumi ha portato negli anni ad una serie di problematiche politiche e diplomatiche tra la Turchia e gli altri due paesi rivieraschi, Siria ed Iraq.  Fino agli anni ’60, le relazioni tra i paesi non erano influenzate da tensioni legate all’utilizzo delle acque, poiché le dimensioni dei progetti sviluppati sui due fiumi erano contenute e non prevedevano un utilizzo intensivo della risorsa idrica. Le tensioni si inasprirono quando iniziarono i primi passi concreti verso la realizzazione di vari progetti idroelettrici in tutti e tre i paesi, come la costruzione della diga di Keban in Turchia, la diga di Tabqa in Siria – che con il riempimento del bacino del lago di Assad ha scatenato la collera dell’Iraq – ed il lancio ufficiale del GAP negli anni ’70, che vide l’inaugurazione della prima diga, Karakaya, alla fine degli anni ’80. Venne, dunque, creato un Comitato Tecnico Congiunto (JTC) per cercare di raggiungere un accordo per uno sfruttamento bilanciato di entrambi i fiumi tra i tre paesi. Inizialmente, al Comitato parteciparono solo Turchia e Iraq. La Siria si aggiunse solo in seguito, ma il lavoro del JTC non portò mai ad un risultato concreto.  Il primo accordo si ottenne solo a livello bilaterale nel 1987 tra Turchia e Siria, stabilendo un rilascio medio annuo di 16 miliardi di metri cubi di acqua alla Siria con una portata minima annua media di 500 m3/s. A questo seguirono una serie di altri accordi, tra i quali quello del 1990 tra Siria e Iraq nel quale i due paesi concordarono di ricevere rispettivamente il 42% e il 58% del flusso dell’Eufrate al confine turco-siriano. Il completamento della diga di Atatürk nel 1990, fiore all’occhiello dell’intero progetto GAP nonché una delle dighe più grandi al mondo, fece riemergere diverse tensioni tra i paesi. La Turchia, infatti, per riempire il bacino della diga deviò l’Eufrate per circa un mese, causando una notevole riduzione della quantità ed il peggioramento della qualità dell’acqua diretta verso la Siria e l’Iraq. A seguito dell’episodio, vennero inviate invano note minacciose alla Turchia per richiedere lo stop alla costruzione di altre dighe previste sul corso dei due fiumi, come quelle

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Donna, vita, libertà: la lotta delle donne iraniane è la lotta di tutte

Risale allo scorso 16 settembre l’omicidio di Mahsa Amini, 22 anni, a causa delle percosse subite dopo un fermo da parte della Polizia Morale iraniana (in inglese Islamic Guidance Patrol). La ragazza curda, a Teheran come turista con la famiglia, era stata fermata il 13 settembre perché, a detta degli agenti, non indossava correttamente il velo. È morta tre giorni dopo. Da allora, l’Iran è scosso da proteste guidate dalla società civile, e centinaia sono state le manifestazioni attraverso il globo e le dimostrazioni di sostegno della comunità internazionale alla popolazione e alle donne iraniane. Large Movements è stata a quella di Roma, il 1° ottobre, e le foto qui riportate dimostrano la rabbia e forza che hanno guidato la marcia attraverso la capitale. A quasi due mesi dalla morte di Mahsa, la popolazione iraniana è ancora in tumulto e la repressione delle proteste non accenna ad arrestarsi. È complesso ritracciare l’ordine degli eventi accaduti nelle scorse settimane. Varie notizie sconcertanti si susseguite, tra cui la temporanea scomparsa dell’atleta Elnaz Rekabi, apparsa a Seoul senza hijab durante una gara di arrampicata – a quanto pare, per errore – e rivista a Teheran qualche giorno dopo aver interrotto ogni contatto con famiglia e amici. Questo articolo offre un riassunto della vicenda per ribadirne la rilevanza, che oltrepassa il momentum e i confini geografici, ed esprime il pieno sostenimento di Large Movements alle donne iraniane nella loro (e nostra) lotta per l’auto-determinazione. Breve storia del velo in Iran In linea con i principi della sharia già presenti in altri paesi, il governo iraniano ha reso l’hijab obbligatorio dopo la Rivoluzione Islamica del 1979. Dopo una prima fase di dichiarazioni dell’Ayatollah Khomeini ma nessuna misura a formalizzare l’imposizione, il Parlamento iraniano istituzionalizzò le raccomandazioni con un decreto emesso nel 1983. Così come altre Repubbliche Islamiche, l’Iran basa la propria posizione sul velo sui testi sacri musulmani, tra cui il Corano e gli Hadith, nonostante sia oggetto di dibattito se queste scritture prescrivano realmente, e se sì quale, un codice di abbigliamento per le donne. Questo tipo di editto, insieme a tutti gli altri che prescrivono un comportamento “appropriato” secondo la legge islamica, viene fatto applicare dalla cosiddetta “polizia morale” Gasht-e Ershad. Il corpo di polizia è nato nel 2005 formalizzando le strutture paramilitari religiose concepite in principio per combattere nella guerra in Iran. Ad oggi, gli agenti della polizia morale pattugliano le strade e solitamente rilasciano ammonizioni verbali in presenza di irregolarità – di fronte a un velo che non copre tutti i capelli, trucco troppo vistoso o gonne troppo corte. Proprio il 15 agosto scorso, il presidente iraniano Ebrahim Raisi aveva imposto nuove sanzioni più stringenti e dure punizioni per le donne che non rispettano il codice di condotta islamico, di fatto allargando ulteriormente i poteri della polizia morale. Tuttavia, spesso le donne fermate vengono prese in custodia e detenute, per poi in seguito essere inviate in “centri di ri-educazione”, dove seguono ore di lezioni sulla morale islamica. Il rilascio avviene poi in presenza di un parente stretto di sesso maschile, dopo aver firmato una dichiarazione secondo la quale, in futuro, l’offesa non sarà ripetuta. Mahsa Amini: l’ultima goccia per la società civile iraniana Apparentemente, questo è quello che sarebbe dovuto succedere anche a Mahsa: un centro di “correzione”, e poi il rilascio. Eppure non sono rare le denunce di abuso da parte degli agenti in seguito al fermo, di cui Mahsa è stata un vittima. Il 13 settembre, Mahsa Amini viene sequestrata per “uso improprio del velo”. È costretta ad entrare in un furgone della polizia morale dove viene percossa dagli agenti stessi, secondo alcuni testimoni oculari. Qualche ora dopo, alla sua famiglia viene comunicato che Mahsa è stata trasportata in ospedale in seguito ad un attacco cardiaco. Dopo tre giorni in coma, la ragazza di 22 anni è deceduta. La famiglia si è opposta da subito alla versione ufficiale della vicenda, spiegando che Mahsa non aveva alcun problema di salute che potesse spiegare un attacco di cuore improvviso. Il suo decesso ha fatto da scintilla accanto a una miccia, portando la società civile già stremata da un regime oppressivo in cui spesso attiviste subiscono ripercussioni per il proprio ruolo critico nei confronti di esso, a irrompervi contro, scatenando proteste che si sono sparse per tutto il Paese. A questo si è aggiunta l’arresto della giornalista Niloofar Hamedi dopo aver postato una foto dei genitori di Mahsa abbracciati in ospedale, dopo aver appreso del decesso della figlia. Le proteste hanno invaso le strade di Teheran e del resto del Paese qualche giorno dopo, specialmente nel Kurdistan iraniano, regione da cui proveniva Mahsa. Tantissime donne hanno manifestato il proprio dissenso togliendosi il velo o bruciandolo. Uno dei gesti più profondi e simbolici di queste proteste è stato il pubblico taglio di capelli da parte delle partecipanti, in ricordo di Mahsa e contro la Guida Suprema del Paese, Ali Khamenei. La risposta del governo iraniano è stata di reprimere violentemente i manifestanti: l’ONG Iran Human Rights, che ha seguito l’andamento degli scontri tra civili e forze dell’ordine, riporta che almeno 326 persone, di cui 43 minori, sono state uccise durante le insurrezioni. Due entità che hanno partecipato alle proteste sono particolarmente rilevanti: i corpi studenteschi, sia universitari che liceali, e il movimento delle donne del Kurdistan (KJK), mostrando l’intersezione indissolubile tra movimenti femministi, educazione e nuove generazioni come parti fondamentali e imprescindibili del cambiamento sociale contemporaneo. Al grido di Jin Jiyan Azadi, “Donna, Vita, Libertà” in kurmanci, un dialetto curdo, studenti, studentesse e donne curde hanno marciato per le strade del Paese abnegando assieme la violenta oppressione dei corpi e della libertà da parte del regime islamista iraniano. Nelle università, sono state compiute azioni indipendenti per eliminare il divario di genere tra gli studenti, ed è tutt’ora chiesta a gran voce la liberazione delle ragazze e dei ragazzi arrestati durante le contestazioni. Tra le loro file, si contano perdite drammatiche: ricordiamo tra queste Nika Shakarami, 17 anni, scomparsa dopo delle manifestazioni e

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Siria-accoglienza

Storia di un giovane siriano con un “cuore di pietra”

Le coste calabre continuano ad essere tra i maggiori punti di arrivo di immigrazione, motivo per cui negli ultimi anni il territorio accoglie nuove strutture per i richiedenti asilo. Tra questi, la cooperativa Jungi Mundu di Camini, dal 2000, è diventato uno SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Lo scorso agosto mi trovavo a Camini, comune di poco più di 600abitanti in provincia di Reggio Calabria, a pochi km dall’ormai nota Riace. Qui, Amnesty International già da qualche anno, organizza dei laboratori di formazione estivi per approfondire le tematiche di immigrazione e diritti di accoglienza. Appena scesa dal regionale, dopo 7 ore di viaggio e qualche grado in più intorno a me, ho subito capito che Camini non poteva che essere il luogo migliore dove parlare di immigrazione ed accoglienza. Una terra apparentemente abbandonata a sé stessa, dove l’edilizia moderna e la frenesia quotidiana sembrano appartenere ad un’altra dimensione. Una piazza. Un bar con qualche tavolino in legno, dei divanetti ed uno schermo con le partite di calcio del giorno. Cittadini dalla pelle bianca, cittadini dalla pelle nera. Anziani, giovani e bambini. Questo è lo scenario che mi trovavo davanti. Uno scenario che sembrava apparentemente normale. Eppure, nell’aria c’era qualcosa di speciale. La prima sera già mi era tutto più chiaro. Quella piazza, quel bar e quei cittadini facevano parte di un’enorme famiglia, in una piazza che riuniva più storie di vita, una diversa dall’altra. Una famiglia in cui i richiedenti asilo, per lo più provenienti dalla Siria, ed i caminesi erano entrati in perfetta armonia. Un’armonia fatta di impegno quotidiano, sacrifici e voglia di ricominciare dopo un vero e proprio viaggio della speranza, con alle spalle una vita di guerra ed ingiustizia. A “campo di accoglienza” spesso si associa l’immagine di un grande campo sperduto nel nulla con qualche baracca e sistemazione fatiscente. Di situazioni così purtroppo ne esistono ancora troppe ma questa volta vi voglio parlare di un’Italia che accoglie ed è sinonimo di rinascita e speranza per coloro che vi arrivano. Camini infatti è una vera eccezione e l’Italia è colma di borghi che hanno fatto dell’accoglienza la loro forza, dando ai rifugiati una “nuova” vita e dove loro stessi hanno ridato vita a delle realtà in cui l’unica cosa a regnare era diventata la desolazione. Erano circa le 9 di mattina quando M. decise di accompagnare me e le altre ragazze del gruppo a riempire le nostre borracce alla piccola sorgente di Camini. M. in mezzo a noi, seppure più piccolo di quasi 10 anni, sembrava già un uomo, pronto a farci scoprire la sua realtà, raccontandoci con cura la storia del paesaggio che ci circondava. Ritornando verso la piazza, ci ritrovammo lui ed io da soli. La voglia di condividere la sua storia e la sua “non infanzia” come lui stesso l’ha chiamata, trapelava da ogni poro della sua pelle. “Non smettere mai di inseguire i tuoi sogni”, mi dice M. Sono state queste parole, accompagnate da uno sguardo che non potrò mai più scordare, che mi hanno spinto a dare voce ad una storia fatta di guerra, dolore, odio ma che M. è riuscito a trasformare in una storia di vita, speranza e determinazione. M. viene dalla Siria, terra da sempre contesa fra i paesi limitrofi, e non solo. Terra la cui ricchezza delle materie prime è diventata responsabile di migliaia di vite che, in cerca di un futuro dignitoso, si imbattono in viaggi la cui destinazione e la certezza di arrivarvi sono in mano ad un destino…ancora troppo clandestino. M. arriva a Camini a giugno di 4 anni fa, quando aveva appena 9 anni, con la sua famiglia: cinque fratelli ed una sorellina che però non ce l’ha fatta di fronte ai raggi x di un’ecografia. Ora frequenta la II media, a Riace Marina, e descrive la scuola come un luogo in cui molti studenti prendono in giro i ragazzi stranieri. “Io ho tantissima forza ma non voglio usarla” inizia M. Era abituato in Siria dove tutti giravano armati e che anche per un minimo scherzo ci si poteva “rimettere la pelle”. A Camini ha trovato nuovi amici ma la sua esperienza lo ha fatto crescere con una rapidità tale che non si trova a suo agio con i bambini della sua età. Pur di non pensare e rivivere i fantasmi che sono in lui, esce comunque con i suoi coetanei per svagarsi un po’. M. poco prima dell’estate ha conosciuto un ragazzo più grande, di 25 anni e con lui riesce a parlare di “cose da adulti”. “Lui mi ha insegnato che non devo avere paura”. “Com’era vivere in Siria? Ci pensi spesso?” “Come potrei non ripensarci, ho visto tante di quelle cose che nessun bambino si può immaginare e non auguro a nessuno di vivere ciò che ho vissuto io”. Si ricorda tutto M. Mi racconta ad esempio quella volta che era uscito con il papà, aveva forse 4 anni ma aveva già una forza innaturale. C’era la guerra fuori e M. si ricorda la grotta in cui si erano nascosti. L’unica arma che possedevano erano il coraggio e la forza di sopravvivere. Il papà aveva studiato le tattiche ed i tempi di reazione delle varie armi da fuoco e quindi anche quella voltai due si erano riusciti a salvare, nonostante la loro testa fosse al centro di un mirino. La guerra persisteva, giorno e notte, anche nei momenti più inaspettati. M. si è visto più volte i proiettili sfiorargli il corpo. Un giorno ad esempio stava aggiustando l’antenna con il papà, la cui maglietta si ruppe proprio per un proiettile che gli era caduto a fianco, o quando il fratello stava pranzando fuori dal balcone di casa e si è visto cadere una bomba di fronte. M. si definisce forte, anche solo rispetto ad i suoi fratelli. Uno ha sofferto di crisi per tanto tempo, perché “certe immagini oltre a bombardarti dal vivo ti bombardano anche la testa”. Ammette che ha ancora bisogno della famiglia ma

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Studentesse avvelenate: sviluppi sulle proteste in Iran

Attualmente l’Iran sta vivendo una situazione instabile per le proteste scoppiate dopo la morte di Mahsa Amini, 22enne curda in visita a Teheran con la famiglia, a causa delle percosse ricevute dalla polizia morale che l’aveva arrestata con l’accusa di uso improprio del velo. Secondo alcune indagini, le rivolte hanno portato a 530 vittime tra i manifestanti, più di 19.700 arresti e 4 condanne a morte eseguite. Molte donne arrestate dalla polizia hanno raccontato gli abusi a cui sono state sottoposte durante la detenzione e alcune hanno rivelato di essere state imbavagliate con i loro hijab. Non è la prima volta che le donne iraniane protestano contro le leggi imposte dal governo per salvaguardare i loro diritti fondamentali; già nel 1979 migliaia scesero in piazza per protestare contro la decisione di rendere l’hijab obbligatorio per tutte le donne sul luogo di lavoro. Nonostante ciò, l’ayatollah Ruhollah Khomeini procedette con le riforme che desiderava attuare e, nel corso del tempo, sia le restrizioni che le punizioni per chi violava le prime divennero più aspre. Un nuovo attacco “Inizialmente abbiamo sentito uno strano odore, poi alcune di noi hanno cominciato a sentirsi male”. Centinaia sono le testimonianze che ribadiscono le stesse parole, così come centinaia, secondo le stime del governo iraniano, sono le studentesse che frequentano le scuole colpite da episodi di avvelenamento che stanno avvenendo in Iran dalla fine di novembre 2022. Mal di testa, tosse, nausea, difficoltà respiratorie, palpitazioni, stati di sonnolenza acuta, questi sono i sintomi che le ragazze, e anche alcune insegnanti, hanno accusato dopo essere state esposte a quella che sembrerebbe una fuoriuscita di gas. Tutto è iniziato nella città sacra di Qom, conosciuta per essere il centro per gli studi religiosi sciiti, adesso le scuole coinvolte sarebbero 52 – a Lorestan, a Borujerd e perfino a Teheran – distribuite in 21 province del paese, come ha affermato il ministro dell’interno Ahmad Vahidi. Per mesi il governo ha minimizzato o, addirittura, negato i fatti accaduti accusando le studentesse di isteria e di fingere dei sintomi che necessiterebbero l’ospedalizzazione, come successo a molte di loro. Dopo molto tempo, il viceministro della salute Younes Panahi è stata la prima autorità a confermare gli avvelenamenti sostenendo che siano stati causati da sostanze chimiche reperibili con facilità e ha aggiunto, senza approfondire la questione, che qualcuno desidera che le ragazze non frequentino le scuole. Chi sono i responsabili? Le ipotesi più diffuse su chi stia intossicando le studentesse sono due. Alcuni sostengono che questi attacchi siano da imputare ad un gruppo estremista che è concorde con la politica che i talebani hanno attuato in Afghanistan riguardo l’istruzione femminile; altri ancora sono convinti che dietro tutto ciò ci sia il governo stesso che vuole scoraggiare donne e ragazze nel partecipare alle varie manifestazioni precedentemente citate. Solo quando questi eventi hanno catalizzato l’attenzione internazionale, il presidente Ebrahim Raisi ha annunciato l’apertura di un’inchiesta che ha portato all’arresto di oltre 100 persone accusate di avere legami con gruppi ostili. Tra gli arrestati, secondo il ministero dell’interno, c’è chi è sospettato di appartenere al gruppo di opposizione in esilio Mujahedin del popolo dell’Iran o Mujahedeen-e-Khalq (MEK), considerato dal governo un’organizzazione terrorista che vuole diffondere il panico tra la popolazione. Le indagini sono ancora in corso e si auspica che vengano condotte in maniera imparziale da parte delle autorità preposte anche se, come ricorda l’organizzazione Human Rights Watch, una lunga serie di precedenti fa pensare che la polizia possa agire in modo tendenzioso. Basti pensare alle donne che vennero sfregiate con l’acido da assalitori ignoti nel 2014 nella città di Isfahan, probabilmente perché indossavano il velo in modo non conforme alle norme vigenti in Iran, infatti le indagini portarono ad un nulla di fatto e le autorità negarono ogni coinvolgimento nelle aggressioni. Noi di Large Movements desideriamo che i veri responsabili di azioni tanto inique vengano consegnati alla giustizia e che il governo iraniano garantisca la sicurezza dei propri cittadini, nonché i loro diritti fondamentali. Auspichiamo che le donne iraniane possano vivere in piena libertà e realizzarsi secondo le proprie aspirazioni. Donna. Vita. Libertà. FONTI E APPROFONDIMENTI: I casi di avvelenamento di studentesse in Iran continuano ad aumentare – Il Post Iran: oltre 100 arresti per l’avvelenamento delle studentesse – Mondo – ANSA Large Movements – Donna, vita, libertà: la lotta delle donne iraniane è la lotta di tutte Large Movements – L’Iran e il ruolo della donna nell’Islam 6 grafici per capire le proteste in Iran | ISPI (ispionline.it) What explains mysterious poisonings of schoolgirls in Iran? | News | Al Jazeera Iranian Media Reports Hundreds of Schoolgirls Poisoned | Human Rights Watch (hrw.org) Acid attacks in Isfahan have nothing to do with the hijab, say Iranian officials | Iran | The Guardian ‘They used our hijabs to gag us’: Iran protesters tell of rapes, beatings and torture by police | Iran | The Guardian Se ti è piaciuto l’articolo, Condividici!

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