Nella classifica mondiale sulla libertà di stampa di Reporter Senza Frontiere, l’Afghanistan è al 122° posto tra 180 Paesi e nella mappa globale di Freedom House è classificato come un Paese non libero. Leggi restrittive, minacce e attacchi terroristici minano gravemente la libertà d’informazione, in una situazione d’instabilità politica ed economica peggiorata dalla pandemia di Covid-19. Da un’unica stazione radio talebana, Shariat Ghag (Voce della Sharī’a), attualmente in Afghanistan si è passati a 163 stazioni radiofoniche, 74 emittenti televisive e 85 organi di stampa tra quotidiani, riviste e siti web. Nonostante ciò, la libertà di parola e la libertà di opinione rimangono diritti fondamentali continuamente minacciati.
La legge sui mezzi d’informazione e la segretezza delle fonti in Afghanistan
In un comunicato stampa del giugno scorso, Audrey Azoulay (Direttore generale dell’UNESCO) condannava l’uccisione del giornalista economico Mir Wahed Shah e dell’operatore Shafiq Amiri, entrambi dipendenti dell’emittente televisiva afghana Khurshid Tv. Sono le uniche due vittime in Afghanistan nel corso di quest’anno, ma solo le ultime di una lunga lista di 68 persone dal 2001 al 2020, tra giornalisti e operatori dei mezzi d’informazione. Secondo il bilancio annuale di Reporter Senza Frontiere, nel 2018 l’Afghanistan è risultato il Paese più pericoloso al mondo, con 16 morti e un’ondata di violenza senza precedenti. Inoltre, la minaccia proviene sia dai Talebani sia dallo Stato Islamico, responsabili certi della morte di almeno 30 giornalisti dalla caduta del governo degli studenti coranici agli accordi di pace e i negoziati di Doha. A questo proposito, Abdul Mujeeb Khalvatgar, direttore di Nai Supporting Open Media un’organizzazione non governativa che supporta i giornalisti afghani e promuove la libertà di stampa, denuncia che la sicurezza dei giornalisti peggiora giorno dopo giorno e, soprattutto, nel totale disinteresse delle autorità afghane.
Intimidazioni, violenze e pressioni minano, ovviamente, sia la sicurezza sia la libertà di chi opera nei media afghani e non consentono un dibattito pubblico pienamente informato su questioni politiche, sociali e sanitarie d’interesse generale. Ma non solo questo, lo scorso giugno, il Governo di Ashraf Ghani si è visto costretto a sospendere l’iter parlamentare relativo alle proposte di modifica della legge sui mezzi d’informazione afghani, ma solo dopo una serie di fortissime proteste da parte delle associazioni di categoria. Tra le varie modifiche proposte, la più allarmante era quella dell’obbligo da parte dei giornalisti di rivelare le proprie fonti agli ufficiali governativi e ai servizi di sicurezza, qualora fosse stato richiesto. Inutile dire che la segretezza delle fonti rappresenta uno strumento fondamentale e primario di tutela sia dalle ingerenze dell’autorità sia dal giustificato timore di ritorsioni. Colpisce il paradosso del Governo afghano che continua a dichiararsi impegnato a difendere la libertà di stampa quando, purtroppo, la realtà dei fatti è molto distante dai proclami pubblici.
La crisi alimentare e la pandemia di Covid-19
Situazioni di corruzione, clientelismi e mancanza di controlli sono endemiche nel Paese e sono state la causa indiretta della morte di un giovane giornalista volontario di Radio Voice of Ghor. Ahmad Khan Nawid è stato ucciso durante una protesta anti-governativa in cui le forze di sicurezza afghane sono ricorse alle armi da fuoco contro i manifestanti. La protesta è nata a causa dell’iniqua distribuzione degli aiuti alimentari previsti per sostenere la popolazione durante la pandemia di Covid-19. La crisi alimentare, infatti, è stata aggravata dall’impatto pandemico e più di un terzo della popolazione afghana è in una condizione d’insicurezza alimentare acuta. Si stima che il prezzo dei generi di sussistenza sia aumentato dal 10 al 20% e tra le cause principali c’è la parziale chiusura delle frontiere con il Pakistan e l’Iran. L’interruzione delle rotte di approvvigionamento ha comportato gravi conseguenze e questo, principalmente, a causa della scarsa produzione locale che non riesce a coprire la domanda interna.
Tra l’altro il brusco aumento dei prezzi dei generi primari, come olio, farina, legumi ha avuto un maggiore impatto nelle aree urbane. La causa è l’assenza di autoproduzione o riserve, ma principalmente dell’incremento del livello di disoccupazione, dovuto alle inevitabili misure di lockdown, che hanno peggiorato la già grave situazione d’incertezza economica. Un’economia, quella afghana, fortemente dipendente dagli aiuti esteri cui si aggiunge l’inevitabile riduzione del flusso di rimesse che, maggiormente, nei Paesi in via di sviluppo svolge il fondamentale ruolo di strumento di resilienza e stabilizzatore economico. Per dare un ordine di grandezza, dalle stime IFAD (International Fund for Agricultural Development), nel 2017, il valore delle rimesse ammontava a 410 milioni di dollari che corrispondono ad almeno il 2% del PIL nazionale. A completare il quadro di una crisi multidimensionale, come quella afghana, si aggiunge l’aspetto umanitario. Nel 2020 i conflitti armati e le continue violenze hanno portato all’incremento del numero di sfollati interni, 65 mila persone in più costrette ad abbandonare le proprie case e le varie attività produttive.
Il giornalismo investigativo e l’accesso alle informazioni durante il Covid-19
La libertà di espressione in Afghanistan è, quindi, influenzata da attori statali e non statali, ma anche da attori intangibili come il Covid-19. La crisi sanitaria e le sue implicazioni economiche, minano, infatti, la sostenibilità finanziaria di un giornalismo pluralista, indipendente e di qualità, che cerca comunque di difendere un ruolo di vigilanza. Ad esempio, la più importante agenzia di stampa indipendente afghana, Pajhwok Afghan News, nel giugno scorso ha pubblicato un’inchiesta sul contrabbando, con il vicino Pakistan, di almeno 32 ventilatori polmonari donati al Ministero della Salute afghano (MoPH) e destinati ai reparti di terapia intensiva. Il giornalismo investigativo e indipendente, che non si limita alla semplice selezione d’informazioni, è fondamentale per la comprensione di fenomeni e realtà così complesse e, in Afghanistan, assume talvolta una dimensione eroica. Danish Karokhel, direttore di Pajhwok Afghan News, inizialmente convocato dalla Commissione cultura del Parlamento, è stato in realtà, poi, intimidito e sottoposto a un regolare interrogatorio con l’accusa di aver agito contro la sicurezza nazionale.
L’articolo 34 della Costituzione afghana dichiara che la libertà di espressione è inviolabile e la libertà di parola e di opinione sono un diritto di ogni afghano. Nel febbraio scorso, però, trenta organi di stampa hanno rilasciato una dichiarazione congiunta per denunciare la carenza d’accesso alle informazioni, rispetto a tutte le istituzioni governative. Un accesso sostanzialmente negato dalla Corte Suprema, dalla Procura Generale, dalla Direzione dei Servizi di Sicurezza, dai Ministeri della Difesa e delle Finanze e dalla Banca Centrale. La possibilità di accedere alle informazioni e a informazioni attendibili e verificabili è, ovviamente, il prerequisito e l’elemento chiave di uno standard minimo per la libertà di stampa. Purtroppo però, le restrizioni all’accesso alle informazioni, utilizzate dal Governo come censura preventiva e strumento di controllo del dissenso pubblico, non favoriscono lo sviluppo di un processo politico democratico.
Le giornaliste in Afghanistan e l’alfabetizzazione
Un sistema democratico instabile, per il quale Deborah Lyons, coordinatrice della Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA), esprime la sua preoccupazione a causa della mancata condivisione d’informazioni e, soprattutto, della diffusione di disinformazione, fatto che assume una particolare pericolosità durante la crisi pandemica. Ma il Covid-19 ha avuto effetti dannosi anche sullo svantaggio sistemico del giornalismo femminile afghano. Solo ad Aprile circa il 20% delle giornaliste donne ha perso il proprio lavoro, come rileva il Centro per la Protezione delle Donne Giornaliste Afghane (CPAWJ), mentre altre sono in aspettativa non retribuita o nella migliore delle ipotesi hanno subito la sola riduzione dello stipendio. Inoltre, il solo ruolo professionale e l’appartenenza di genere possono comportare rischi per la propria incolumità fisica. Esemplare il caso della giornalista economica dell’emittente televisiva TOLOnews, Nargis Mosavi, che racconta in un’intervista la sua esperienza di continue minacce di morte e di attacchi con l’acido, sia da parte dei Talebani che dello Stato Islamico, e il tentativo di rapimento del 2015. La risposta emblematica delle istituzioni, quando ha presentato la sua denuncia alla polizia, è stata “quello che ti è successo è perfettamente normale, visto che sei una giornalista e sei una donna”
Nargis Mosavi, parlando delle sue difficoltà di essere una giornalista in Afghanistan, sintetizza l’attuale situazione affermando che il rischio per le donne sia, ancora oggi, quello della negazione sia dell’istruzione che di un’occupazione Se il governo dei Talebani ha rubato cinque anni di vita alle donne afghane, la situazione attuale rischia, comunque, di comprometterne il futuro. Human Rights Watch stima che due terzi delle ragazze non vanno a scuola e hanno meno probabilità dei ragazzi di completare il ciclo di nove anni d’istruzione obbligatoria. Oltre all’insicurezza generalizzata, con attacchi mirati dei Talebani alle scuole femminili, anche la mancanza d’infrastrutture e la lontananza degli edifici scolastici penalizzano principalmente le ragazze, che continuano a subire rigide norme di genere anche in famiglia.
Malala Yousafzai e la serie d’animazione “Burka Avenger”
Sebbene la discriminazione di genere rimanga una costante nella società afghana, esistono comunque tentativi significativi di cambiare una realtà così opprimente e la serie d’animazione per bambine Burka Avenger ne è un esempio. La serie racconta la storia di un’eroina che si batte contro la chiusura di una scuola per ragazze e i cui antagonisti principali sono un uomo dalla lunga barba e un politico corrotto. La serie è stata ideata in Pakistan dall’artista musicale Haroon Rashid ed è uscita, non casualmente, un anno dopo l’aggressione talebana a Malala Yousafzai, premio Nobel per la Pace e attivista per il diritto all’istruzione, soprattutto, delle ragazze. Tolo Tv in lingua dari e Lemar TV in lingua pashto, entrambe di proprietà della Moby Media Group ovvero la più importante media company afghana con sede a Kabul, la trasmettono regolarmente tutti i pomeriggi. In un Paese in cui il livello di alfabetizzazione è ancora troppo basso e la radio e la televisione hanno una forza di comunicazione maggiore rispetto ai giornali, diventa particolarmente rilevante che contenuti così importanti siano accessibili a tutti.
La partecipazione delle donne ai processi di pace
Il 29 febbraio 2020, dopo diciannove anni di conflitto, è stato firmato a Doha (Qatar) lo storico accordo di pace tra Stati Uniti e Talebani. Una pace asimmetrica, tra attori statali e non statali, che ha escluso dal tavolo delle trattative il Governo di Ashraf Ghani e che, soprattutto, ha legittimato politicamente il movimento talebano. Principalmente, l’accordo prevede che in cambio del ritiro della presenza militare straniera nel Paese, gli studenti coranici rinuncino a ogni legame con il jihadismo transnazionale, si impegnino a contrastare i gruppi locali dello Stato Islamico e aprano un dialogo negoziale intra-afghano con il Governo ufficiale di Kabul. Dialoghi intra-afghani che si sono aperti a Doha il 12 settembre scorso, con una cerimonia ufficiale e alla presenza di una delegazione di trenta giornalisti. Solo a dieci di loro, di cui tre donne, è stato concesso di rimanere in Qatar per riferire sull’andamento delle trattative di riconciliazione nazionale. Il rischio di contagio da Covid-19 è stata la motivazione ufficiale fornita per giustificare la grave limitazione alla libertà d’informazione.
Se la pandemia globale ha avuto l’effetto di peggiorare le situazioni di tutela debole dagli abusi di potere, allarma, anche, l’esclusione delle donne da una partecipazione significativa ai processi di pace del Paese. Il rapporto Oxfam (Oxford Committee for Famine Relief) sul processo di pace afghano rileva che anche quando le donne sono incluse hanno una rappresentatività troppo omogenea che non restituisce le varie realtà sociali, politiche ed economiche. Il più delle volte non sono coinvolte in ogni fase e livello dei negoziati e la loro partecipazione è limitata ai temi relativi alla discriminazione di genere, finendo per non avere una reale influenza. Oxfam riporta, anche, le conclusioni di uno studio recente su 182 accordi di pace firmati tra i 1989 e il 2011, dal cui risulta che la partecipazione attiva delle donne comporta una maggiore probabilità che l’accordo stesso venga raggiunto e abbia un 35% in più di probabilità di durare oltre i quindici anni.
Il ritorno dei Talebani
Sembra evidente che per una pace duratura e sostenibile sia indispensabile la reale inclusione di quella parte della società afghana che rappresenta la metà della sua popolazione. Quello che preoccupa di più, però, è che i diritti delle donne diventino il prezzo della pace. Difficile non ipotizzare che il divario tra le promesse pubbliche talebane e la realtà non sia enorme e che il disinteresse dell’opinione pubblica occidentale non comporti una ripresa della violazione dei diritti umani. Maria Grazia Cutuli, inviata speciale del Corriere della Sera e uccisa in Afghanistan il 19 novembre 2001, era profondamente in disaccordo con il concetto di guerra di civiltà, ma la sfida in Afghanistan, oggi, è far sì che quello che scriveva sulla condizione della donna, quasi vent’anni fa, non ritorni ad essere attuale:
“Nascoste, invisibili, assenti: non si vedono donne a Jalalabad. La liberazione della città afghana dai talebani ha portato nelle strade migliaia di miliziani armati, bande ubriache di vittoria, pronte a contendersi il controllo del territorio sino all’ultimo vicolo o all’ultima casa. Non ci sono donne tra chi fa la guerra, gestisce il potere, decide il futuro.”
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