Afghanistan: libertà di stampa e Covid-19

Nella classifica mondiale sulla libertà di stampa di Reporter Senza Frontiere, l’Afghanistan è al 122° posto tra 180 Paesi e nella mappa globale di Freedom House è classificato come un Paese non libero. Leggi restrittive, minacce e attacchi terroristici minano gravemente la libertà d’informazione, in una situazione d’instabilità politica ed economica peggiorata dalla pandemia di Covid-19. Da un’unica stazione radio talebana, Shariat Ghag (Voce della Sharī’a), attualmente in Afghanistan si è passati a 163 stazioni radiofoniche, 74 emittenti televisive e 85 organi di stampa tra quotidiani, riviste e siti web. Nonostante ciò, la libertà di parola e la libertà di opinione rimangono diritti fondamentali continuamente minacciati.

La legge sui mezzi d’informazione e la segretezza delle fonti in Afghanistan

In un comunicato stampa del giugno scorso, Audrey Azoulay (Direttore generale dell’UNESCO) condannava l’uccisione del giornalista economico Mir Wahed Shah e dell’operatore Shafiq Amiri, entrambi dipendenti dell’emittente televisiva afghana Khurshid Tv. Sono le uniche due vittime in Afghanistan nel corso di quest’anno, ma solo le ultime di una lunga lista di 68 persone dal 2001 al 2020, tra giornalisti e operatori dei mezzi d’informazione. Secondo il bilancio annuale di Reporter Senza Frontiere, nel 2018 l’Afghanistan è risultato il Paese più pericoloso al mondo, con 16 morti e un’ondata di violenza senza precedenti. Inoltre, la minaccia proviene sia dai Talebani sia dallo Stato Islamico, responsabili certi della morte di almeno 30 giornalisti dalla caduta del governo degli studenti coranici agli accordi di pace e i negoziati di Doha. A questo proposito, Abdul Mujeeb Khalvatgar, direttore di Nai Supporting Open Media un’organizzazione non governativa che supporta i giornalisti afghani e promuove la libertà di stampa, denuncia che la sicurezza dei giornalisti peggiora giorno dopo giorno e, soprattutto, nel totale disinteresse delle autorità afghane.

Intimidazioni, violenze e pressioni minano, ovviamente, sia la sicurezza sia la libertà di chi opera nei media afghani e non consentono un dibattito pubblico pienamente informato su questioni politiche, sociali e sanitarie d’interesse generale. Ma non solo questo, lo scorso giugno, il Governo di Ashraf Ghani si è visto costretto a sospendere l’iter parlamentare relativo alle proposte di modifica della legge sui mezzi d’informazione afghani, ma solo dopo una serie di fortissime proteste da parte delle associazioni di categoria. Tra le varie modifiche proposte, la più allarmante era quella dell’obbligo da parte dei giornalisti di rivelare le proprie fonti agli ufficiali governativi e ai servizi di sicurezza, qualora fosse stato richiesto. Inutile dire che la segretezza delle fonti rappresenta uno strumento fondamentale e primario di tutela sia dalle ingerenze dell’autorità sia dal giustificato timore di ritorsioni. Colpisce il paradosso del Governo afghano che continua a dichiararsi impegnato a difendere la libertà di stampa quando, purtroppo, la realtà dei fatti è molto distante dai proclami pubblici.

La crisi alimentare e la pandemia di Covid-19

Situazioni di corruzione, clientelismi e mancanza di controlli sono endemiche nel Paese e sono state la causa indiretta della morte di un giovane giornalista volontario di Radio Voice of Ghor. Ahmad Khan Nawid è stato ucciso durante una protesta anti-governativa in cui le forze di sicurezza afghane sono ricorse alle armi da fuoco contro i manifestanti. La protesta è nata a causa dell’iniqua distribuzione degli aiuti alimentari previsti per sostenere la popolazione durante la pandemia di Covid-19. La crisi alimentare, infatti, è stata aggravata dall’impatto pandemico e più di un terzo della popolazione afghana è in una condizione d’insicurezza alimentare acuta. Si stima che il prezzo dei generi di sussistenza sia aumentato dal 10 al 20% e tra le cause principali c’è la parziale chiusura delle frontiere con il Pakistan e l’Iran. L’interruzione delle rotte di approvvigionamento ha comportato gravi conseguenze e questo, principalmente, a causa della scarsa produzione locale che non riesce a coprire la domanda interna.

Tra l’altro il brusco aumento dei prezzi dei generi primari, come olio, farina, legumi ha avuto un maggiore impatto nelle aree urbane. La causa è l’assenza di autoproduzione o riserve, ma principalmente dell’incremento del livello di disoccupazione, dovuto alle inevitabili misure di lockdown, che hanno peggiorato la già grave situazione d’incertezza economica. Un’economia, quella afghana, fortemente dipendente dagli aiuti esteri cui si aggiunge l’inevitabile riduzione del flusso di rimesse che, maggiormente, nei Paesi in via di sviluppo svolge il fondamentale ruolo di strumento di resilienza e stabilizzatore economico. Per dare un ordine di grandezza, dalle stime IFAD (International Fund for Agricultural Development), nel 2017, il valore delle rimesse ammontava a 410 milioni di dollari che corrispondono ad almeno il 2% del PIL nazionale. A completare il quadro di una crisi multidimensionale, come quella afghana, si aggiunge l’aspetto umanitario. Nel 2020 i conflitti armati e le continue violenze hanno portato all’incremento del numero di sfollati interni, 65 mila persone in più costrette ad abbandonare le proprie case e le varie attività produttive.

Il giornalismo investigativo e l’accesso alle informazioni durante il Covid-19

La libertà di espressione in Afghanistan è, quindi, influenzata da attori statali e non statali, ma anche da attori intangibili come il Covid-19. La crisi sanitaria e le sue implicazioni economiche, minano, infatti, la sostenibilità finanziaria di un giornalismo pluralista, indipendente e di qualità, che cerca comunque di difendere un ruolo di vigilanza. Ad esempio, la più importante agenzia di stampa indipendente afghana, Pajhwok Afghan News, nel giugno scorso ha pubblicato un’inchiesta sul contrabbando, con il vicino Pakistan, di almeno 32 ventilatori polmonari donati al Ministero della Salute afghano (MoPH) e destinati ai reparti di terapia intensiva. Il giornalismo investigativo e indipendente, che non si limita alla semplice selezione d’informazioni, è fondamentale per la comprensione di fenomeni e realtà così complesse e, in Afghanistan, assume talvolta una dimensione eroica. Danish Karokhel, direttore di Pajhwok Afghan News, inizialmente convocato dalla Commissione cultura del Parlamento, è stato in realtà, poi, intimidito e sottoposto a un regolare interrogatorio con l’accusa di aver agito contro la sicurezza nazionale.

L’articolo 34 della Costituzione afghana dichiara che la libertà di espressione è inviolabile e la libertà di parola e di opinione sono un diritto di ogni afghano. Nel febbraio scorso, però, trenta organi di stampa hanno rilasciato una dichiarazione congiunta per denunciare la carenza d’accesso alle informazioni, rispetto a tutte le istituzioni governative. Un accesso sostanzialmente negato dalla Corte Suprema, dalla Procura Generale, dalla Direzione dei Servizi di Sicurezza, dai Ministeri della Difesa e delle Finanze e dalla Banca Centrale. La possibilità di accedere alle informazioni e a informazioni attendibili e verificabili è, ovviamente, il prerequisito e l’elemento chiave di uno standard minimo per la libertà di stampa. Purtroppo però, le restrizioni all’accesso alle informazioni, utilizzate dal Governo come censura preventiva e strumento di controllo del dissenso pubblico, non favoriscono lo sviluppo di un processo politico democratico.

Le giornaliste in Afghanistan e l’alfabetizzazione

Un sistema democratico instabile, per il quale Deborah Lyons, coordinatrice della Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA), esprime la sua preoccupazione a causa della mancata condivisione d’informazioni e, soprattutto, della diffusione di disinformazione, fatto che assume una particolare pericolosità durante la crisi pandemica. Ma il Covid-19 ha avuto effetti dannosi anche sullo svantaggio sistemico del giornalismo femminile afghano. Solo ad Aprile circa il 20% delle giornaliste donne ha perso il proprio lavoro, come rileva il Centro per la Protezione delle Donne Giornaliste Afghane (CPAWJ), mentre altre sono in aspettativa non retribuita o nella migliore delle ipotesi hanno subito la sola riduzione dello stipendio. Inoltre, il solo ruolo professionale e l’appartenenza di genere possono comportare rischi per la propria incolumità fisica. Esemplare il caso della giornalista economica dell’emittente televisiva TOLOnews, Nargis Mosavi, che racconta in un’intervista la sua esperienza di continue minacce di morte e di attacchi con l’acido, sia da parte dei Talebani che dello Stato Islamico, e il tentativo di rapimento del 2015. La risposta emblematica delle istituzioni, quando ha presentato la sua denuncia alla polizia, è stata “quello che ti è successo è perfettamente normale, visto che sei una giornalista e sei una donna”

Nargis Mosavi, parlando delle sue difficoltà di essere una giornalista in Afghanistan, sintetizza l’attuale situazione affermando che il rischio per le donne sia, ancora oggi, quello della negazione sia dell’istruzione che di un’occupazione Se il governo dei Talebani ha rubato cinque anni di vita alle donne afghane, la situazione attuale rischia, comunque, di comprometterne il futuro. Human Rights Watch stima che due terzi delle ragazze non vanno a scuola e hanno meno probabilità dei ragazzi di completare il ciclo di nove anni d’istruzione obbligatoria. Oltre all’insicurezza generalizzata, con attacchi mirati dei Talebani alle scuole femminili, anche la mancanza d’infrastrutture e la lontananza degli edifici scolastici penalizzano principalmente le ragazze, che continuano a subire rigide norme di genere anche in famiglia.

Malala Yousafzai e la serie d’animazione “Burka Avenger”

Sebbene la discriminazione di genere rimanga una costante nella società afghana, esistono comunque tentativi significativi di cambiare una realtà così opprimente e la serie d’animazione per bambine Burka Avenger ne è un esempio. La serie racconta la storia di un’eroina che si batte contro la chiusura di una scuola per ragazze e i cui antagonisti principali sono un uomo dalla lunga barba e un politico corrotto. La serie è stata ideata in Pakistan dall’artista musicale Haroon Rashid ed è uscita, non casualmente, un anno dopo l’aggressione talebana a Malala Yousafzai, premio Nobel per la Pace e attivista per il diritto all’istruzione, soprattutto, delle ragazze. Tolo Tv in lingua dari e Lemar TV in lingua pashto, entrambe di proprietà della Moby Media Group ovvero la più importante media company afghana con sede a Kabul, la trasmettono regolarmente tutti i pomeriggi. In un Paese in cui il livello di alfabetizzazione è ancora troppo basso e la radio e la televisione hanno una forza di comunicazione maggiore rispetto ai giornali, diventa particolarmente rilevante che contenuti così importanti siano accessibili a tutti.

La partecipazione delle donne ai processi di pace

Il 29 febbraio 2020, dopo diciannove anni di conflitto, è stato firmato a Doha (Qatar) lo storico accordo di pace tra Stati Uniti e Talebani. Una pace asimmetrica, tra attori statali e non statali, che ha escluso dal tavolo delle trattative il Governo di Ashraf Ghani e che, soprattutto, ha legittimato politicamente il movimento talebano. Principalmente, l’accordo prevede che in cambio del ritiro della presenza militare straniera nel Paese, gli studenti coranici rinuncino a ogni legame con il jihadismo transnazionale, si impegnino a contrastare i gruppi locali dello Stato Islamico e aprano un dialogo negoziale intra-afghano con il Governo ufficiale di Kabul. Dialoghi intra-afghani che si sono aperti a Doha il 12 settembre scorso, con una cerimonia ufficiale e alla presenza di una delegazione di trenta giornalisti. Solo a dieci di loro, di cui tre donne, è stato concesso di rimanere in Qatar per riferire sull’andamento delle trattative di riconciliazione nazionale. Il rischio di contagio da Covid-19 è stata la motivazione ufficiale fornita per giustificare la grave limitazione alla libertà d’informazione.

Se la pandemia globale ha avuto l’effetto di peggiorare le situazioni di tutela debole dagli abusi di potere, allarma, anche, l’esclusione delle donne da una partecipazione significativa ai processi di pace del Paese. Il rapporto Oxfam (Oxford Committee for Famine Relief) sul processo di pace afghano rileva che anche quando le donne sono incluse hanno una rappresentatività troppo omogenea che non restituisce le varie realtà sociali, politiche ed economiche. Il più delle volte non sono coinvolte in ogni fase e livello dei negoziati e la loro partecipazione è limitata ai temi relativi alla discriminazione di genere, finendo per non avere una reale influenza. Oxfam riporta, anche, le conclusioni di uno studio recente su 182 accordi di pace firmati tra i 1989 e il 2011, dal cui risulta che la partecipazione attiva delle donne comporta una maggiore probabilità che l’accordo stesso venga raggiunto e abbia un 35% in più di probabilità di durare oltre i quindici anni.

Il ritorno dei Talebani

Sembra evidente che per una pace duratura e sostenibile sia indispensabile la reale inclusione di quella parte della società afghana che rappresenta la metà della sua popolazione. Quello che preoccupa di più, però, è che i diritti delle donne diventino il prezzo della pace. Difficile non ipotizzare che il divario tra le promesse pubbliche talebane e la realtà non sia enorme e che il disinteresse dell’opinione pubblica occidentale non comporti una ripresa della violazione dei diritti umani. Maria Grazia Cutuli, inviata speciale del Corriere della Sera e uccisa in Afghanistan il 19 novembre 2001, era profondamente in disaccordo con il concetto di guerra di civiltà, ma la sfida in Afghanistan, oggi, è far sì che quello che scriveva sulla condizione della donna, quasi vent’anni fa, non ritorni ad essere attuale:

Nascoste, invisibili, assenti: non si vedono donne a Jalalabad. La liberazione della città afghana dai talebani ha portato nelle strade migliaia di miliziani armati, bande ubriache di vittoria, pronte a contendersi il controllo del territorio sino all’ultimo vicolo o all’ultima casa. Non ci sono donne tra chi fa la guerra, gestisce il potere, decide il futuro.”

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La Shia Family Law e altre violazioni dei diritti delle donne in Afghanistan

La storia della nascita dell’Afghanistan moderno ha conosciuto, soprattutto nell’ultimo secolo, un andamento altalenante per quanto riguarda i diritti delle donne, che si sono viste concedere e revocare le libertà personali a seconda dei vari scenari politici – a tratti modernisti, a tratti tradizionalisti – che si sono instaurati nel Paese con gli anni.   In linea generale, possiamo affermare che in Afghanistan, come in altri Paesi a maggioranza musulmana, le donne sono considerate inferiori e complementari agli uomini sia nella sfera pubblica che in quella privata. Questa concezione deriva da interpretazioni del Corano e di vari scritti dal valore giuridico del Profeta Maometto detti “hadith”. Secondo la tradizione islamica di più rigida interpretazione, l’uomo vale il doppio della donna sia all’interno della società che davanti alla legge. L’equivalenza tra i sessi è valida solo nella sfera spirituale, cioè davanti a Dio.  I diritti delle donne dall’indipendenza dell’Afghanistan Nella prima metà del secolo scorso le libertà individuali della donna hanno conosciuto una prima apertura sotto il regno del re Amanullah. Dal 1919 le afghane hanno infatti potuto abbracciare la vita pubblica e ricevere un’educazione; l’obbligo di portare il velo integrale è stato temporaneamente abrogato e le leggi sul matrimonio sono state riviste. In particolare, l’obbligatorietà del matrimonio, specialmente quello precoce, è stata abolita, e le leggi sulla poligamia sono state rese più concessive per quanto riguarda la libertà delle donne.   Queste riforme liberali sono il frutto dell’influenza politica della regina Suraya, moglie di Amanullah, unica donna politica influente riconosciuta in Afghanistan fino ad oggi. L’approccio rivoluzionario nei confronti dei diritti della donna ha causato diffuse proteste all’interno del Paese, portando alla deposizione dei sovrani nel 1929.  I governi successivi hanno continuato a garantire una base di diritto individuale femminile, soprattutto negli ambiti della vita pubblica e dell’educazione. Intorno alla metà del 1900 una piccola percentuale delle donne afghane lavorava come ricercatore scientifico, insegnante, medico e dipendente pubblico.   La Costituzione dell’Afghanistan  redatta nel 1964 ha garantito il suffragio universale ed ha sancito il diritto per le donne di candidarsi alle elezioni. Tuttavia, la forte asimmetria tra la situazione nelle città e nelle zone rurali del Paese ha continuato ad escludere la maggior parte delle donne dalla vita politica dell’Afghanistan. Nelle campagne, dove abitava una grande porzione della popolazione totale, la società si strutturava sull’ordine patriarcale e tribale, e considerava la donna come mera merce del contratto matrimoniale e domestico.  RAWA e AWC  Nell’ultimo quarto del XX secolo, grazie all’incremento dell’attivismo femminile ed alla progressiva presa di coscienza alimentata dall’istruzione allargata, sono nate organizzazioni e associazioni per il diritto della donna. Tra queste, l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell’Afghanistan (RAWA) e il Consiglio delle Donne Afghane (AWC).  Il contesto storico in cui si sviluppano queste realtà coincideva con l’occupazione del Paese da parte dell’Unione Sovietica. RAWA, infatti, nacque come movimento di resistenza all’invasore, che costrinse la fondatrice Meena Keshwar Kamal a spostare la sede dell’associazione in Pakistan, dove venne assassinata dai sicari del KGB nel 1987. L’Associazione non ha tuttavia smesso di esercitare la sua attività in maniera clandestina, e continua oggigiorno a battersi tramite la gestione di ospedali e ambulatori mobili, corsi di alfabetizzazione per donne e scuole per l’infanzia.  Nel 1978 il governo ha concesso pari diritti alle donne in Afghanistan. Questo significava che potevano scegliere i loro mariti e la carriera, e il Consiglio delle Donne Afghane aveva il compito di fornire loro servizi sociali, di educarle e formarle professionalmente. L’AWC è stata la principale organizzazione attivamente impegnata nella difesa dei diritti delle donne in Afghanistan. Fino al colpo di stato da parte dei Talebani e la loro imposizione della legge islamica nel Paese, l’AWC ha permesso l’accesso all’educazione a circa 230.000 donne afghane.  I diritti delle donne sotto lo Stato Islamico dell’Afghanistan Con l’occupazione dei Talebani la situazione è rapidamente mutata. Questi hanno emanato editti per controllare letteralmente ogni aspetto del comportamento delle donne, sia nella sfera pubblica che in quella privata.   Era loro proibito: avere un impiego; apparire in pubblico senza burqa integrale e senza essere accompagnate da un parente uomo; partecipare alla vita politica o ad altri dibattiti pubblici; ricevere un’istruzione secondaria o superiore. Le donne sono state così private dei mezzi per mantenere loro stesse ed i propri figli. Solo le dottoresse e le infermiere erano autorizzate – sotto stretta osservazione della polizia – a lavorare negli ospedali o nelle cliniche private. Questi editti sono stati emanati dal Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio e applicati attraverso la punizione sommaria e arbitraria delle donne dalla polizia religiosa.  Con la revoca del diritto di ricevere istruzione, le scuole femminili furono trasformate in istituti esclusivamente maschili. In risposta alla proibizione di partecipare alla società civile, le donne afghane hanno risposto con l’apertura di scuole private. Nel 1998 venne emanato un editto che stabiliva che l’istruzione privata poteva riguardare solamente le ragazze sotto gli otto anni e doveva limitarsi agli insegnamenti del Corano.   Così facendo i Talebani hanno volontariamente escluso le donne da tutti gli aspetti della società afghana, specialmente dall’istruzione, che ha raggiunto il minimo storico nel periodo in cui hanno governato. Il tasso di partecipazione femminile infatti, era del 13% nelle zone urbane e del 3-4% nelle aree rurali del Paese. I Talebani hanno dichiarato di essere pronti a fornire opportunità di istruzione e lavoro alle donne non appena le condizioni sociali e finanziarie fossero convenienti. Tali condizioni per l’attuazione di un valido programma islamico per le donne non sono mai state attuate.  L’era post-Talebani  Nel novembre 2001 l’intervento della NATO ha cacciato i Talebani dal Paese. L’influenza straniera nella politica del Paese in ricostruzione ha fatto sperare in un miglioramento nel livello di coinvolgimento femminile nella società afghana, nonché nella politica, tramite la partecipazione femminile alla redazione della nuova Costituzione.   La rappresentanza delle donne all’interno dell’assemblea costituzionale era però limitata perché, come ha sottolineato Sighbatullah Mojadeddi, capo dell’assemblea “Loya Jirga” per la redazione della nuova Costituzione afghana nel 2003: “Dio non vi ha dato gli stessi diritti degli uomini perché, secondo la sua volontà, servono due donne per contare quanto un uomo”.   I principi più tradizionalisti dell’Islam restavano ben radicati all’interno della società afghana. Nel 2004 più della metà delle ragazze sotto i 18 anni di età risultava già sposata. Molte di queste ragazze, tra l’altro, erano state forzate ad un matrimonio di convenienza dalle loro

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Il Burqa in Afghanistan: segno di femminilità islamica o di oppressione?

Nella società contemporanea occidentale i diritti umani sono principi cardini dello stato civile che permettono ad ogni individuo di essere libero. Quello che vorremo indagare con il presente articolo è il come questi diritti siano perseguiti anche nelle società mediorientali, come in quella afghana, caratterizzate da un’organizzazione statale confessionale. Il caso dell’Afghanistan è particolarmente interessante per diverse motivazioni. Tra tutte, l’attenzione sarà concentrata sulla situazione delle donne nella società afghana, specialmente sul significato simbolico del burqa e la sua evoluzione storica. Il vero ruolo del burqa è sempre stato al centro di dibattiti molto accesi. Il Corano non ne prescrive l’obbligo di utilizzo per le donne. Sono stati il tempo e la tradizione millenaria ad imporlo come simbolo di oppressione e sottomissione ed allo stesso tempo di tradizione e religiosità delle donne musulmane. Diverse sono le interpretazioni, ma è evidente come storicamente, le pratiche relative all’obbligo dell’uso del burqa iniziano in modo particolare dall’insediamento dei talebani nel territorio afghano. Ricostruzione socio-politica della libertà di espressione delle donne afghane Nella storia dell’Afghanistan è possibile disegnare una linea netta che definisce chiaramente come siano cambiati nel corso dei secoli il ruolo della donna ed i suoi diritti nella società. Il movimento per i diritti delle donne nasce nel periodo del regno di Amir Adbur Rahan Khan, dal 1880 al 1901. Sofferenze e conversioni sono state frequenti negli anni di potere di questo sovrano, ma egli riuscì anche a portare un vento di modernizzazione in uno Stato praticamente appena nato. Riforme sociali furono adottate che hanno determinato un miglioramento della posizione delle donne nella società, tra cui: diritto al divorzio, aumento dell’età legale per il matrimonio e diritti di proprietà femminili. Nacque a questo punto, un dilemma tanto grande quanto attuale: quanto l’islam tradizionale e la modernità possono coesistere nello stesso Stato? Una delle risposte a questa domanda fu data da Mahmud Tarzi, membro del movimento dei Giovani Turchi, che riconobbe la necessità di un adattamento del mondo islamico ad un approccio riformista e progressista alla modernità. Dopo un periodo di esilio in Turchia, questi tornò in Afghanistan nel 1905 grazie ad Amir Habibullah, diffondendo le sue idee e diventando il cardine del movimento nazionalista dei Giovani Afghani. Uno dei principi portati avanti da Tarzi era basato sul ruolo centrale dell’istruzione nelle lotte per le riforme sociali. Proprio grazie alle sue battaglie, in questi anni, aprirono in Afghanistan le prime scuole femminili. Ulteriori miglioramenti avvennero durante il regno di Amanullah, figlio e successore di Amir Habibullah, tra il 1919 ed il 1929. Grazie a lui, prendendo ispirazione da Mustafa Kemal Ataturk, fu stilata una nuova costituzione che tutelasse e garantisse i diritti civili per tutti in modo equo, sia per le donne che per gli uomini. Con queste nuove direttive, lo Stato mise fuori legge i codici di abbigliamento tradizionale che erano considerati particolarmente oppressivi, specialmente per le donne, rimuovendo anche l’obbligo del velo. Inoltre, furono aperte numerose scuole, vennero aboliti i matrimoni forzati e le pratiche relative alla poligamia. Una vera e propria rivoluzione culturale che in poco meno di 20 anni investì positivamente le sorti di un Paese schiavo della tradizione e ancora acerbo in materia di democrazia e legislazione. Tutta questa innovazione portò non solo avanguardia e progresso culturale, ma anche malcontenti generali che sfociarono in rivolte tradizionaliste. Queste furono capaci di rovesciare il regime di Amanullah, portando al potere, nel 1929, il leader tradizionalista Muhammad Nadir Shah. Il nuovo sovrano fece chiudere le scuole femminili e rintrodusse tutte le limitazioni alla libertà delle donne, compreso l’obbligo del velo. L’ondata tradizionalista finì nel 1933, quando Muhammad Nadir Shah venne assassinato ed a lui subentrò Muhammad Zahir Shah, figlio del precedente. Dal 1933 al 1973, anni del regno di Zahir Shah, l’Afghanistan imboccò la strada riformista, implementando a pieno alcune delle iniziative di Amanullah. Grazie a questo ritorno ad un approccio più aperto, una nuova Costituzione introdusse uno scenario democratico e concesse alle donne afghane il diritto di voto. Anche le università e le scuole vennero aperte alle donne, rendendo così la società afghana al passo con i tempi del mondo occidentale. La florida era di modernizzazione che l’Afghanistan stava vivendo ebbe una brusca battuta d’arresto alla fine degli anni ’70. Era il 1978 quando i comunisti afghani presero il potere con un colpo di stato ed iniziarono una campagna di riforme sociali tra il tradizionalismo e la modernizzazione. Questo pericoloso equilibrio venne poi rotto nel dicembre del 1979 quando le truppe sovietiche invasero l’Afghanistan per sostenere il governo comunista. Da questo momento in poi, la resistenza afghana formata dai Mujahidin combatté lunghe battaglie contr l’esercito sovietico. Solo negli anni ’80, alcune potenze, tra cui gli Stati Uniti d’America, iniziarono a fornire loro supporto ed equipaggiamento militare. L’Afghanistan si trovava ormai al centro delle dinamiche della Guerra Fredda, dovendo però anche combattere per una stabilità interna, che stava diventando solo un ricordo lontano. Nel 1989, i sovietici annunciarono la ritirata, lasciando un Paese ferito in una guerra civile senza precedenti. In un clima conflittuale come questo, le donne si trovarono a vivere in un momento storico di degrado sociale: morte, distruzione, violenze e suicidi erano diventati la quotidianità. Nell’incertezza e nel caos, i Talebani riuscirono ad imporre la loro autorità. Si presentarono come una degna alternativa alla guerra civile che stava distruggendo il Paese, ma la realtà non corrispondeva ai fatti. Le donne afghane non smisero mai di combattere per una guerra che sembrava essere proprio contro di loro. Nel contesto nazionale che si stava creando, politiche restrittive provenienti dal codice tradizionale del popolo Pashtun, il Pashtunwali, riprendevano rigide interpretazioni della Sharia, la legge islamica, portando nella società misoginia e controllo. Il diritto all’istruzione, ad avere un lavoro, alla libertà di espressione delle proprie idee e del proprio corpo, alle cure mediche, tutto questo si presentava per le donne come un ricordo degli anni della modernizzazione. Con l’avvento del regime talebano il ruolo della donna viene minimizzato ed in molti contesti proprio eliminato. Ogni donna venne nascosta dietro il burqa

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Talebani: dalle origini ai giorni nostri

Quando sentiamo la parola talebani la prima immagine che ci viene in mente è quella degli estremisti islamici che riempiono le pagine dei giornali e le anteprime dei TG, ma il termine talebano ha tutt’altro significato. In realtà il talebano (dall’arabo ṭāleb, singolare di ṭālebān) non è nient’altro che lo studente delle scuole coraniche nell’area iranica. La cultura e tradizione talebana si contraddistinguono per essere fondate su un misto tra la Shari’a e il Pashtunwali, il codice d’onore del popolo pashtun. Quest’ultimo si ispira alla corrente sunnita deobandi (corrente religiosa del subcontinente indiano e dell’Afghanistan), fondata sui principi di solidarietà, austerità e gestione patriarcale di ogni aspetto della vita famigliare. Un’altra importante influenza è quella wahhabita, quella jihadista e quella panislamista. Come i wahhabiti e i deobandi, i talebani sono così fortemente contrari all’Islam sciita, tanto che a non riconoscono gli sciiti afghani di etnia hazara come musulmani. A differenza del pensiero wahhabita, i talebani non rinnegano le pratiche popolari, non distruggono le tombe dei pir (maestri o guide nel Sufismo) e pensano che i sogni siano rivelazioni future. Ma come nasce l’immagine del talebano che conosciamo oggi? Qual è stato il suo ruolo nel territorio e qual è oggi? L’inizio di una nuova nazione e la guerra civile Quello che può definirsi, per praticità narrativa, movimento nasce come reazione all’occupazione da parte dell’Unione Sovietica del suolo afghano. La resistenza infatti, parte proprio dalle scuole coraniche e nel 1992 si impose come forza armata capace di rispondere ai bisogni di uno stato totalmente devastato – economicamente, socialmente e politicamente. I talebani riuscirono a pareggiare i conti con i signori della guerra e ad estromettere dal conflitto tutti gli altri gruppi armati che si stavano via via creando, unificandoli tutti sotto l’egida del Corano. Per questi motivi, all’inizio, i talebani godettero di un ottimo appoggio da parte degli afghani di etnia pashtun e dei pakistani. Secondo Ahmed Rashid, storico pakistano, il governo pakistano sosteneva i talebani perché questi lasciavano che la mafia pakistana degli autotrasportatori trafficasse indisturbata sulle proprie strade. A riprova di quanto affermato infatti, vi è la ricostruzione, avviata subito dopo la fine della guerra con i sovietici ed interamente condotta da emissari pakistani, delle linee autostradali tra il Pakistan e le altre ex repubbliche sovietiche limitrofe. Anche gli Stati Uniti inizialmente appoggiarono il regime talebano, per motivi di opportunità militare e diplomatica. Da un lato, i talebani erano stati in grado di sconfiggere i sovietici e li avevano ricacciati molto all’interno dei territori dagli stessi conquistati. Dall’altro, questo movimento, sebbene giudicato eccessivamente radicale da molti attori occidentali, sembrava essere l’unico in grado di unificare e stabilizzare l’Afghanistan sulla scena geopolitica mondiale. Dal canto loro, in quel momento, priorità esclusiva dei talebani era la sicurezza del popolo afghano. Uno degli avvenimenti che meglio riassume il ruolo che i talebani avevano assunto nell’immaginario della popolazione della regione – e che, non essendo stato mai provato né smentito, assume quasi i contorni di una leggenda, facendoci ulteriormente capire il livello di “popolarità” che il movimento godeva – è quello che sarebbe avvenuto nella primavera 1994 nel villaggio di Sang Hesar, vicino Kandahar. Si dice che alcuni signori della guerra avevano rapito e stuprato due ragazze da parte del villaggio. Il mullah Muhammad ‘Omar, veterano della fazione dei mujaheddin definita Ḥarakat-i Inqilāb Islāmī (Movimento della Rivoluzione Islamica), radunò una trentina di uomini talebani ed andò a recuperare le ragazze, a rubare le armi ai signori della guerra coinvolti ed infine impiccò il comandante a una cisterna come monito per chiunque avesse pensato di farlo di nuovo. In seguito il mullah ‘Omar, intervistato in merito, dichiarò: Combattevamo contro musulmani che avevano preso la via sbagliata. Come potevamo starcene tranquilli vedendo tanti crimini commessi contro le donne e la povera gente? Il nuovo stato afghano Tra il 1995 e il 1996, dopo aver conquistato quasi tutto il territorio afghano, i talebani uscirono vincenti dalla guerra civile. Grazie ai consensi guadagnati a seguito della vittoria prima contro gli occupanti sovietici e poi contro le varie fazioni nelle quali si era divisa la resistenza e che si contendevano il governo del territorio da quando i russi avevano abbandonato la regione, i talebani poterono imporre un regime di stampo teocratico basato sulla ferrea applicazione delle leggi coraniche. Nell’inverno 1995 assediarono la capitale Kabul, bloccando tutte le vie di ingresso e bombardandola. Nel marzo 1996 il capo di stato Burhanuddin Rabbani ed il primo ministro Gulbuddin Hekmatyar tentarono di rispondere alle provocazioni, ma dovettero ammettere la resa il 26 settembre 1996, abbandonando Kabul e scappando verso nord. Il giorno successivo, per affermare il loro potere, i talebani uccisero l’ultimo presidente della Repubblica Democratica dell’Afghanistan Mohammad Najibullah che dal 1992 viveva nell’edificio delle Nazioni Unite con suo fratello per protezione. Per glorificare al massimo il nuovo stato, il potere afghano doveva essere affermato in qualsiasi forma. Emblematico è in questo senso, l’esempio dei due generali fratelli Pehlawan che il 20 maggio 1997 si ribellarono al signore della guerra uzbeko, Rashid Dostum, e chiesero aiuto ai talebani. Grazie a questo aiuto riuscirono a ricacciare Dostum in Uzbekistan. Nel 2001 persero il potere a seguito dell’intervento della NATO la quale intervenne a seguito della notizia di legami tra i talebani ed al-Qā‛ida ed altri gruppi terroristici di matrice islamica. I talebani però hanno sempre continuato la loro lotta contro le truppe della coalizione internazionale in Afghanistan e anche contro quelle governative che si stanziavano anche nelle regioni settentrionali del Pakistan. Dal 2014 ad oggi Nel 2014 si tennero le elezioni presidenziali ed i talebani cercarono di influenzarne il risultato, perché alcuni candidati avevano promesso di negoziare con loro e di rifiutarsi di firmare accordi strategici con gli Stati Uniti. Questo per l’appunto ha fatto nascere due fazioni all’interno dei talebani: una che si occupò di fare campagna antielettorale; l’altra, più estremista, contraria alla linea “morbida” rappresentata dal dialogo politico, continuò a perpetrare attacchi terroristici. Nel dicembre 2014 la missione ISAF (International Security Assistance Force) – missione della NATO, autorizzata dall’ONU,

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Vulnerabilità Socio-Ambientali in Afghanistan

L’Afghanistan è un Paese colpito da fenomeni naturali estremi, quali terremoti, frane, inondazioni, alluvioni e siccità, che hanno causato la perdita di vite umane e dei mezzi di sussistenza.  Secondo la Banca Mondiale questi fenomeni naturali, accaduti soprattutto all’inizio del 21° secolo,  hanno mostrato l’estrema vulnerabilità delle comunità afghane agli impatti del degrado ambientale. Tale vulnerabilità è stata amplificata dalle condizioni di conflitto, povertà, malnutrizione e disuguaglianza che hanno afflitto ed affliggono la popolazione. Secondo il report “Climate risk country profile. Afghanistan” della Banca Mondiale, l’Afghanistan, a causa della combinazioni di fattori politici, geografici e sociali, è la quinta Nazione al mondo più vulnerabile agli impatti dei cambiamenti climatici e del degrado ambientale.  Crisi climatica e rischi idrogeologici in Afghanistan  L’Afghanistan ha un clima continentale arido e le temperature variano notevolmente in base all’altitudine: le regioni montuose sperimentano temperature al di sotto degli 0°C, mentre le regioni meridionali sperimentano temperature superiori ai 35°C. Le condizioni meteorologiche afghane hanno una complessa interazione intra-annuale con fenomeni climatici su larga scala, in particolare con il fenomeno climatico di El Niño ed il dipolo dell’Oceano indiano, determinando la siccità in molte aree del Paese.  Il territorio è estremamente vulnerabile ai fenomeni idrogeologici, i quali aumentano di frequenza a causa degli effetti del cambiamento climatico. Nel periodo 1970-2016 a livello globale si è registrato un aumento della frequenza del numero di disastri naturali e tale tendenza è confermata anche in Afghanistan dal rapporto “Managing Natural Disasters in Afghanistan. Risks, Vulnerabilities and general guidelines” del SESRIC. Secondo il rapporto, se  i disastri naturali in Afghanistan rappresentavano lo 0,7% a livello mondiale, nel 2016 la stima è salita all’1,6%. È evidente che il Paese sperimenta sempre più disastri naturali sul proprio territorio.  Tra il 1970 e il 2016, l’Afghanistan è stato prevalentemente colpito da alluvioni (46% dei casi), terremoti (18%) e frane (12%).  Se da una parte è vero che molte regioni amministrative devono affrontare molteplici rischi, dall’altra a suscitare molte preoccupazioni è la crescente siccità nel Paese.  Alluvioni e inondazioni in Afghanistan  Le alluvioni e le inondazioni sono il pericolo naturale più frequente in Afghanistan e le province amministrative posizionate nella parte occidentale e centrale del Paese sono estremamente vulnerabili a questa tipologia di rischio naturale. Ad essere particolarmente a rischio sono le aree di Hirat, Ghor, Faryab, Jawzjan, Daykundi, Balkh, Samangan, Kunduz, Badakhshan, Uruzgan. Le inondazioni dei fiumi si verificano principalmente come risultato di forti precipitazioni e vengono rafforzate dal rapido scioglimento della neve e dei ghiacciai sulle montagne. Il 25 aprile e il 6 giugno 2015, un’inondazione ha colpito il distretto di Guzargah-e-Nur della provincia di Baghlan: migliaia di persone fuggirono, più di 100 residenti persero la vita, 4 villaggi vennero distrutti trascinando con sé più di 2.000 case ed infine si persero irrimediabilmente molti campi agricoli e migliaia di capi di bestiame.  Terremoti e frane in Afghanistan  L’Afghanistan si trova in una zona ad alta attività sismica ed il Paese è vulnerabile a terremoti di media e grande intensità, in quanto si trova lungo il confine tettonico indo-euroasiatico. Ad essere particolarmente a rischio sono le aree di Samangan, Baghlan, Takhar, Badakhshan. I terremoti negli ultimi 20 anni hanno causato circa 8.000 vittime e si stima che un grande evento sismico nella provincia di Kabul possa causare circa 8.500 morti e oltre 500 milioni di dollari di danni.   Data la natura aspra e montuosa e la posizione di villaggi, paesi e città, l’Afghanistan è un Paese altamente vulnerabile alle frane. In questo caso ad essere particolarmente a rischio sono le aree di Logar, Baghlan, Samangan, Balkh, Kunduz, Takhar, Badakhshan). Il 2 maggio 2014, una serie di forti piogge causarono molteplici frane nella zona di Nowabad del villaggio di Aab-e-Barik, nell’area di Badakhshan,  causando significative perdite di vite umane e danni diffusi alle case ed all’agricoltura.  Siccità in Afghanistan  Secondo il Rapporto della Banca Mondiale l’Afghanistan è colpito dalla siccità a causa di due deficit: 1) deficit di precipitazioni; 2) deficit nel flusso d’acqua superficiale e sotterranea. Questi due deficit si combinano con l’inadeguata gestione del terreno e delle colture, impoverendo così le produzioni agricole. La ricerca condotta da Iqbal et Al. sulla situazione delle famiglie di agricoltori nella provincia di Herat indica i numerosi impatti economici, sociali ed ambientali negativi della siccità. Lo studio evidenzia come questa abbia ridotto la disponibilità di lavoro dei lavoratori non qualificati, impattando sul loro tenore di vita e sulla loro situazione finanziaria. Ciò determina da una parte i conflitti per l’accaparramento delle risorse, dall’altro un aumento delle migrazioni.   Gli ecosistemi afghani sono gravemente degradati a causa di decenni di deforestazione e siccità da attribuirsi anche a fattori quali l’aumento della popolazione, la cattiva gestione e lo sfruttamento eccessivo delle risorse, i conflitti locali e la proprietà fondiaria incerta. Il degrado dell’ecosistema a sua volta trasforma le composizioni della flora, degrada i nutrienti del suolo e riduce la disponibilità di acqua. Ad oggi la maggior parte dei suoli dell’Afghanistan sono già degradati ed il 75% del Paese è già colpito dalla desertificazione, mentre la copertura forestale si è ridotta fino all’80%, passando da più di 3 milioni di ettari negli anni ’50 all’attuale milione di ettari.  Se non si mettono in pratica azioni concrete per la lotta al cambiamento climatico, la situazione è destinata a peggiorare. Lo studio condotto da Nauman et Al. evidenzia come la siccità in Afghanistan possa raddoppiare, se non triplicare, entro il 2050 a causa della diminuzione delle precipitazioni. Questo fenomeno è già in atto a causa della riduzione delle precipitazioni primaverili e dell’aumento dei tassi di evaporazione nelle regioni nord occidentali, centrali e nord orientali. Nel nord-est il riscaldamento globale sta avendo ripercussioni sul sistema fluviale che storicamente ha alimentato l’approvvigionamento idrico dell’Afghanistan durante i lunghi periodi di siccità. Lo studio di Naumann et. Al. prevede che la riduzione in atto della massa glaciale nella regione porterà ad una riduzione drastica delle riserve d’acqua entro il 2050 con conseguenti ripercussioni sui mezzi di sussistenza. Attualmente ad essere particolarmente a rischio sono le aree di Zabul, Kandahar, Hilmand, Nimroz, Farah, Hirat, Badghis, Faryab, Jawzjan, Balkh, Sar-e-pul, Bamyan, Daykundi, Uruzgan, Ghor.  Suscettibilità al degrado ambientale e vulnerabilità sociali della popolazione afghana  A partire dal 1970 l’Afghanistan ha dovuto far fronte alle perdite, economiche e non, dovute ai disastri naturali ed al degrado ambientale. La suscettibilità di un Paese a tali fenomeni

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Diritti LGBTQ+ in Afghanistan: vietato essere “diversi”

Guardando alla storia dell’Afghanistan l’immagine che emerge è quella di un paese spesso scisso e frammentato, sconvolto da conflitti che lo hanno reso politicamente instabile e nel quale convivono più o meno armonicamente diversi sistemi di leggi che possono fare capo a fonti anche molto diverse fra loro. È nell’Islam, la religione ufficiale di stato secondo quanto afferma la Costituzione, che il paese ha spesso ritrovato la sua unità. Se queste sono le premesse, ad ogni modo, è abbastanza scontato aspettarsi una vita molto difficile per le persone LGBTQ+. Le minoranze sessuali in Afghanistan, infatti, vivono una condizione drammatica in un paese che difficilmente tollera qualsiasi elemento che si discosti dalla morale islamica stabilita e riaffermata da autorità politiche e religiose. Senza possibilità di vivere apertamente la propria condizione, senza un dibattito pubblico che riaffermi i bisogni e le necessità delle persone che non sono per forza etero o cis, senza leggi e garanzie che tutelino le categorie più vulnerabili, essere queer in Afghanistan significa vivere al di fuori della legge e della società in uno spazio di isolamento ai margini del Paese dove il rischio e il pericolo sono sempre dietro l’angolo. Quadro Legislativo e Impatto nella Società Civile L’articolo 6 della costituzione afghana afferma l’importanza dell’impegno per il rispetto della dignità umana e dei diritti civili, tuttavia è possibile constatare che non tutte le categorie di cittadini siano ritenute degne di tali tutele. La comunità LGBTQ+, insieme ad altre minoranze,viene oppressa ogni giorno non solo dalla tradizione islamica, ma anche dal sistema giudiziario, il quale spesso ricorre alla religione senza limitazioni ben chiare.La Repubblica Afghana è infatti una repubblica islamica, che basa quindi i propri valori su tale religione, facendo riferimento alla sharia o “legge di dio”, la quale può essere applicata anche in ambito giudiziario. L’art. 130 della Costituzione infatti afferma che “in assenza di una disposizione di legge applicabile al caso specifico, le corti giudicano…in conformità con la giurisprudenza hanafita”. La sharia si basa su due fonti principali: il Corano e la Sunna, composta dall’hadith, ovvero ciò che è stato trasmesso (tramite azioni, comportamenti o parole) dal profeta Maometto, e che non è ricavato da documenti scritti, ma da testimonianze indirette e interpretazioni; tra le varie scuole giuridiche, quella hanafita è oggigiorno la più diffusa all’interno del mondo islamico ed è ritenuta la più liberale e tollerante, in quanto prevede punizioni meno frequentemente rispetto agli altri madhahib (scuole giuridiche). Ciò non è certo rassicurante poiché, con la diffusione del fondamentalismo islamico a partire dal diciannovesimo secolo, ciò che prima era generalmente tollerato, come le relazioni omosessuali, oggi è diventato passibile di hudud (punizione corporale) e sanzioni più severe, inclusa la pena capitale, in uso durante il regime dei Talebani ma in disuso a partire dalla sua caduta. Il diritto cosiddetto “laico” all’interno della repubblica afghana criminalizza l’omosessualità. Nonostante il codice penale sia stato riformato nel 2017, non sono state introdotte nuove tutele rivolte alle minoranze LGBTQ+, sono stati anzi mantenuti tutti gli articoli che puniscono comportamenti non eteroconformi. Il Codice Penale, infatti, nel Capitolo Quarto (“Crimini contro la Castità e la Pubblica Morale”) legifera in questi termini:-l’art. 398 legittima il delitto d’onore, la cui giustificazione esplicita può essere, oltre l’adulterio, la scoperta di un rapporto omosessuale, in quanto compromettente l’onore dell’intera famiglia.-le sezioni 647, 648 e 649 prevedono invece lunghe pene di reclusione per i reati di sodomia,con aggravanti in caso di differenze d’età, di potere e di violazione dell’onore della famiglia dei soggetti coinvolti.–la sezione 645 punisce chi commette “musahaqah”, ovvero chi intraprende una relazione sessuale tra due donne.–le sezioni 649 e 650 non solo criminalizzano il “tafkhiz”(relazione omosessuale senza penetrazione), ma anche chi lo favorisce, ovvero chi presenta i due soggetti l’uno all’altro o chi gli procura un posto per commettere l’atto.Oltre questi reati, dato il sistema giudiziario misto del paese, possono essere aggiunte pene derivanti, direttamente dalla sharia, a discrezione del singolo giudice, che possono culminare in gravi umiliazioni e punizioni corporali. La stessa pena capitale, cui il regime Talebano faceva abitualmente ricorso per punire reati di questa fattispecie, è una praticata per lo più abbandonata. Tuttavia non ci si deve illudere che essa non sia più universalmente applicata. La grande frammentarietà dell’Afghanistan e da un punto di vista politico e da un punto di vista giuridico contribuisce a creare tanti e diversi centri di potere, locale e centrale, laico e religioso, istituzionale ed eversivo, e può dunque accadere che chi detiene le redini del potere possa anche disporre del diritto di vita o morte sui cittadini e le cittadine che amministra. Se la netta avversione portata avanti dalle autorità giudiziarie non fosse abbastanza, la comunità LGBTQ+ in Afghanistan è ancora pesantemente oppressa anche per via dei molti ostacoli che impediscono la nascita di un dibattito pubblico sulle istanze delle minoranze sessuali; la legge infatti proibisce pubblicazioni che vadano “contro le morali del paese” e perfino gli scambi postali con “contenuti osceni” non sono permessi, il che complica di molto il lavoro degli attivisti e delle attiviste e rende di fatto illegale e pericoloso sostenere e contribuire al progresso dei diritti civili. Percezione e Status Sociale Un paese con un profondo sentimento religioso quale l’Afghanistan nel quale oltre il 99% della popolazione professa fede islamica e al cui interno convivono diversi sistemi di leggi che, pur con le loro contraddizioni e conflitti interni, sono tutti concordi nel condannare l’omosessualità e qualsiasi altra condotta giudicata difforme dalla morale derivata dall’Islam, non è sicuramente il contesto in cui la comunità LGBTQ+ può prosperare in tranquillità. Le minoranze sessuali afghane, infatti, non solo non godono di alcun tipo di garanzia o tutela (matrimonio egualitario,unioni civili, gestazione per altri, adozione per coppie dello stesso sesso sono tutte pratiche proibite dalla legge) ma sono inoltre apertamente osteggiate e dalle istituzioni governative, e dall’opinione pubblica e dalle cittadine e i cittadini che fanno il Paese Reale. Non sorprende, dunque, quel che afferma un rapporto del 2017 del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti secondo il quale in Afghanistan

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AFGHANISTAN: fotografia di un disastro militare ed umanitario tutto occidentale

In questi giorni anche i media italiani stanno seguendo l’escalation di violenze che hanno portato i Talebani nella giornata di domenica 15 agosto a prendere definitivamente Kabul e riconquistare così il pieno controllo del paese. Questo dopo 20 anni di una massiccia presenza occidentale che avrebbe dovuto favorire la costruzione di un regime democratico in un paese dilaniato da oltre 40 anni di guerra.   Qualche dato utile relativo al “processo di democratizzazione”  Spese militari pari a $ 2.000 miliardi, tra cui:  Stati Uniti: oltre $ 1.000 miliardi di dollari. Da notare che gli USA non hanno pagato direttamente con i propri fondi statali ma, come in tutte le guerre nelle quali hanno partecipato, hanno fatto ricorso al debito sovrano federale. Ciò vuol dire che le spese militari sono state pagate dai maggiori creditori degli USA, primo tra tutti la Cina che vanta un credito pari a 1180 miliardi di dollari (dato aggiornato ad agosto 2020)  Italia: circa 8 miliardi di dollari  Progetti civili di cooperazione allo sviluppo, destinati alla costruzione di scuole, strade, ospedale ed alla formazione e remunerazione di personale locale (mediatori, interpreti, operai, ingegneri): appena $ 792 milioni  Due operazioni militari in totale:   Enduring Freedom: l’obiettivo dell’operazione era uccidere Bin Laden. Il leader di Al Qaeda, infatti, si era rifugiato in territorio afghano ed i talebani si erano rifiutati di consegnarlo agli Stati Uniti. Bush, convinto che si sarebbe trattato di una guerra lampo, il 7/10/2001 ordina i primi bombardamenti su Kabul e Jalalabad.   L’obiettivo della missione fu raggiunto il 2/05/2011 ed il 28/12/2014 Barak Obama annuncia il termine formale dell’operazione.   Resolute Support Mission: missione iniziata il 1/01/2015 con il duplice obiettivo di formare e supportare sia l’esercito afghano che le istituzioni democratiche nella lotta all’estremismo dei Talebani da un lato e nell’affermazione di un sistema democratico. Obiettivi questi che, nonostante le dichiarazioni di Biden e Blinken per giustificare il ritiro delle truppe NATO dall’Afghanistan, non sono mai stati raggiunti. Ciò è reso ancor più evidente dalla rapidità con cui i Talebani sono riusciti ad arrivare a Kabul nonostante fossero numericamente molto inferiori in quanto:  b.1) militari esercito ufficiale afghano formati dalla NATO: circa 325 mila unità  b.2) Talebani combattenti: circa 65 mila unità    Presenza militare occidentale concentrata nelle città, con scarsa penetrazione nei villaggi e quasi zero contatti con i villaggi più isolati. I Talebani hanno sfruttato questa opportunità per riorganizzarsi negli anni, mimetizzandosi tra la popolazione e per alimentare l’odio della popolazione nei confronti dei contingenti occidentali – percepiti come dei veri e propri occupanti  Almeno 241.000 vittime in circa 20 anni di guerra (numero sottostimato), molti dei quali civili  La Missione di assistenza delle Nazioni Unite ha dichiarato che il numero di vittime civili nel 2021 rischia di essere il più alto mai registrato da quando l’Organizzazione è stata fondata  Sfollati interni secondo l’UNHCR: circa 600.000,00, di cui l’80% costituiti da donne e bambini  Circa 1.000 persone al giorno attraversano illegalmente il confine con la Turchia, per questo motivo Erdogan sta accelerando la costruzione di un muro al confine con l’Iran. Questo a seguito della richiesta americana dello scorso 13 agosto – giudicata ipocrita dal governo turco – di consentire ai profughi di rifugiarsi in Turchia perché temono una catastrofe umanitaria conseguente il loro rapido ritiro dal territorio  Alcuni Stati membri UE (tra cui Belgio, Austria, Danimarca e Grecia) continuano i rimpatri forzati verso l’Afghanistan nonostante paesi come la Germania, l’Olanda e la Francia li abbiano sospesi proprio perché il paese non è sicuro  Analizzando questi dati viene spontaneo quindi chiedersi se l’effettiva intenzione della coalizione NATO guidata dagli Stati Uniti fosse veramente quella di dotare il paese di strutture democratiche dal momento che quasi nulla è stato fatto in tal senso. La compravendita di armamenti ed in generale le spese militari d’altro canto, si sono rivelate un business fruttuoso in suolo afghano.  Ciò è confermato dallo scarso interesse nei confronti delle condizioni di vita dei civili, deducibile da:  scarsità dei progetti di sviluppo implementati negli anni;  cieco cinismo di alcuni Paesi UE nei confronti delle ultime notizie in arrivo dall’Afghanistan;  ineffettività del Joint Statement siglato da 60 Paesi del mondo (tra cui Italia, USA, Australia, Canada, Francia, Germania, Giappone, Korea, Qatar e Gran Bretagna) dove si chiede a “coloro nelle posizioni di potere e di autorevolezza in Afghanistan” di garantire la protezione dei diritti umani e delle proprietà dei civili, senza specificare chi siano queste persone in posizione di potere. La dichiarazione poi, chiede di lasciar partire i cittadini afghani che lo desiderano affermando che la comunità internazionale è pronta ad assisterli.   Finora però, alcun corridoio umanitario è stato creato anzi, come abbiamo visto, i respingimenti verso l’Afghanistan continuano.  Perché i militari dell’esercito ufficiale afghano non hanno opposto resistenza?  In questi giorni ci si interroga molto sul perché, nonostante la grande discrepanza di allocazione delle risorse a favore delle spese militari piuttosto che dell’implementazione di attività volte allo sviluppo reale del paese, i militari afghani si siano trovati incapaci di reagire all’avanzata talebana.   In molti villaggi e città, infatti, l’esercito ufficiale si è arreso ancor prima di ingaggiare una battaglia od al massimo hanno negoziato la resa. Nelle zone dove invece si è combattuto, l’esercito ha subito delle vere e proprie disfatte con un gran numero di persone – sia civili che militari – che hanno raggiunto le cliniche di Emergency con evidenti ferite da guerra.  Per capire il perché di questa estrema debolezza dell’esercito ufficiale dobbiamo fare un passo indietro ed analizzare più da vicino il tipo di supporto che le operazioni della NATO fornivano ai militari afghani.  Come un’analisi dettagliata e ben strutturata de Il Post sottolinea infatti, ed alla quale si rimanda per completezza, il collasso dell’esercito è da imputare a:  corruzione del governo afghano e dei comandanti dell’esercito, i quali hanno “gonfiato” i numeri dei militari effettivamente reclutati così da giustificare gli ingenti finanziamenti ricevuti dalla NATO – la cui effettiva destinazione appare dubbia;  le condizioni di vita dei soldati erano misere tanto che molti non potevano permettersi di acquistare i fucili con i quali erano equipaggiati poiché valevano molteplici mesi del loro salario. Per di più, il governo negli ultimi mesi aveva sospeso i pagamenti ed aveva bloccato l’invio di munizioni e di razioni di cibo sufficienti al sostentamento delle truppe (d’altro canto i Talebani pagano lautamente le loro milizie);  la presenza militare americana influiva positivamente sul morale dell’esercito,

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