Manshiet Nasser, Egitto: tra vulnerabilità e opportunità

Slum-egitto

Manshiet Nasser, il più grande slum d’Egitto, è uno dei tanti esempi di sviluppo urbanistico non sostenibile e marginalizzante. Ma la complessità e la dinamicità dei processi di urbanizzazione contemporanea si riflettono nella contraddittorietà tra economia formale e informale, tra povertà estrema e progetti di “borghesizzazione” e tra buone pratiche e rischi ambientali.

L’iper-urbanizzazione fuori controllo delle megalopoli

Manshiet Nasser (Munsha’ at Nāṣir), con il suo milione e mezzo di abitanti, è tra i più grandi slums dell’intera regione del Medio Oriente e il 4° al mondo per grandezza. La stessa Grande Cairo (Al Qāhira) è al 7° posto nella classifica delle città più popolate. La densità abitativa e il sovraffollamento del Cairo, principale motore economico del Paese, rappresentano l’essenza stessa del concetto di iper-urbanizzazione e di megalopoli in continua trasformazione. UN-Habitat riferisce che il 56% dell’intera popolazione urbana, in Egitto, risiede nella regione del Grande Cairo. Di questa percentuale circa il 20% vive in condizioni di marginalità sociale ed economica, concentrato nelle cosiddette aree informali. In molti Paesi in via di Sviluppo, del resto, l’informalità abitativa e la slumizzazione stanno diventando, di fatto, il modello dominante del processo di urbanizzazione.


Si stima che nel mondo circa un miliardo di persone risieda in quelle che sono chiamate, anche, con il nome di baraccopoli o bidonville. Principalmente a causa di veri e propri esodi dalle zone rurali verso i grandi centri urbani, che nascono dalla necessità di cercare lavoro e migliori condizioni di vita. Nelle aree urbane informali e negli slums, però, il diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute, la sicurezza alimentare e i servizi primari è gravemente minacciato dal degrado urbano e dalle disuguaglianze sociali. Inoltre, slums come Manshiet Nasser nascono in assenza di programmazioni e piani urbanistici specifici, ovvero senza caratteristiche tecniche adeguate o strategie di sostenibilità sociale e ambientale. Si può parlare di realtà urbane fuori controllo, non inclusive e scarsamente integrate. Come per altre megalopoli del sud del mondo, lo sviluppo urbanistico incontrollato e caotico di Manshiet Nasser è dovuto sia al fenomeno delle migrazioni rurali, una dinamica demografica ormai irreversibile, ma anche e soprattutto a un forte incremento della pressione demografica che coinvolge l’intero continente africano. Basti pensare che la sola città del Grande Cairo, in 60 anni, è passata da una popolazione di 4 milioni a una di quasi 21 milioni di abitanti. Numeri di un incremento della popolazione che non corrispondono, però, a un’equivalente crescita economica, ma piuttosto a un aumento delle disuguaglianze, della criminalità e dell’inquinamento urbano.


I progetti di “Nuove città nel deserto” e slumizzazione

La slumizzazione non è solo un fenomeno con una dimensione spaziale, ma è anche un fenomeno con una dimensione identitaria in cui le disuguaglianze sociali prendono corpo. Infatti, anche se i cairoti utilizzano il termine Ashwai’yyat in modo intercambiabile, aree informali e slums non sono sinonimi e, inoltre, al Cairo sono fenomeni distinti anche geograficamente. Anche se gli slums insistono su aree informali, quest’ultime non possono essere considerate slums. UN-Habitat fa una netta distinzione. Sebbene lo sviluppo informale violi quelle che sono le norme edilizie, in genere, gli edifici hanno strutture solide, dimensioni accettabili e sia l’acqua potabile che l’energia elettrica sono disponibili nonostante la densità abitativa e la congestione urbana. Se la densità di abitanti delle aree informali del Cairo è tra le più alte al mondo, quella per ettaro di Manshiet Nasser è stimata circa tre volte tanto. Inoltre, le abitazioni non sono idonee a condizioni climatiche avverse, gli spazi interni sono insufficienti e con più di tre persone per stanza, l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici è inadeguato e non c’è sicurezza di possesso che prevenga sfratti forzati. Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per un’urbanizzazione sostenibile, basterebbe una sola di queste condizioni per rientrare nella definizione di slum.


Proprio per offrire un’alternativa allo sviluppo informale e agli slums, oltre che per decongestionare la Valle del Nilo, tra gli anni ’70 e ’80, nascono i progetti delle New Cities e delle Desert Cities. Ma il tentativo del Governo egiziano di regolarizzare un’urbanizzazione incontrollata attraverso piani regolatori non ha trovato, di fatto, applicazione. Le cause sono simili a quelle di altri Paesi con processi accelerati di slumizzazione: inefficienza dell’apparato burocratico e strumentale alternanza tra tolleranza e intolleranza per l’occupazione abusiva di terreni con scarso valore edificabile perché periferici, malsani o perfino a rischio ambientale. Lo slum di Manshiet Nasser viene definito di tipo “B”, ovvero costruzioni di abitazioni private in aree desertiche su terreni demaniali non utilizzati. Da una prima fila di residenze, la strada principale di al-Naṣir Road si estende fino alla pendice della zona collinare di Muqattam (al-Muqaṭṭam) e il tipo di suolo, appunto, rende difficile l’estensione sia delle condutture dell’acqua che dei sistemi di drenaggio e favorisce il grave rischio frane, come quella di Duwaiqa (al-Duwayqa) del 2008.


Uptown City e Manshiet Nasser: due volti di una stessa città

Il blog egiziano Tadamun, che cerca di promuovere il diritto alla giustizia sociale e a un tenore di vita dignitoso per tutti i cittadini, riporta quelle che sono le testimonianze degli abitanti di Manshiet Nasser. Emergono chiare le differenze tra le varie mantiq (aree urbane), ma i problemi rimangono comuni. L’emarginazione economica e sociale, la mancanza d’ingressi principali, la difficoltà a spostarsi in un fitto reticolo di strade strette e vicoli, l’inadeguatezza dei servizi per una popolazione così numerosa e non ultimo le limitate possibilità d’istruzione per le ragazze. La mancanza di servizi sanitari adeguati, inoltre, aggrava senz’altro la possibilità di contrastare e contenere la diffusione del Covid-19. Inoltre, l’attuazione delle principali misure anti contagio è concretamente impossibile da praticare: distanza interpersonale, lavaggio frequente delle mani o lockdown. Le condizioni di sovraffollamento rendono il rischio di diffusione dei focolai molto più alto, mentre le scarse risorse idriche non permettono di osservare una prevenzione minima. Ma è proprio un’eventuale ipotesi lockdown la più incompatibile con un’economia informale e con situazioni al limite della sopravvivenza.


Manshiet Nasser è senz’altro una realtà economico-sociale dinamica e complessa, anche di prossimità tra condizioni sotto la soglia di povertà e gruppi a basso e medio reddito. Ma il Cairo, che è una città in continua trasformazione, presenta contrasti estremi. Nel 2006, infatti, è iniziata la costruzione di Uptown Cairo City, in cima alla collina di Muqattam, una gated community esclusiva e auto-segregativa. Alte mura di cinta e accessi sorvegliati, vari servizi d’uso quotidiano e un grande campo da golf che richiede l’impiego di notevoli risorse idriche. Indubbiamente il contrasto con l’area sottostante è stridente, solo se si pensa alla scarsa disponibilità d’acqua. Inoltre, l’intero slum di Manshiet Nasser scompare dalle immagini pubblicitarie di Uptown City, con la volontà di cancellare un’ingombrante realtà di degrado urbano che rende, invece, visibile l’incremento delle disuguaglianze nell’opposizione tra la “città dei ricchi” e la “città dei poveri”.


Gli al-Zabbālīn: il “popolo dell’immondizia”

Simbolo sia del degrado urbano che di resilienza sono la comunità cristiano copta degli Zabbalin (al-Zabbālīn), il “popolo dell’immondizia”, che ha creato uno dei più efficienti e sostenibili sistemi di raccolta e riciclaggio di rifiuti al mondo. La gestione dei rifiuti solidi urbani è uno dei problemi ambientali più seri al Cairo e un’assoluta priorità. Fino agli anni ’80 non esisteva un sistema formale di raccolta dei rifiuti e questa funzione è stata svolta dall’esercito della più grande minoranza religiosa del Paese. Gli abitanti della Garbage City di Manshiet Nasser, tra i 20.000 e i 30.000 residenti, con un sistema tradizionale di raccolta porta a porta, riescono a riciclare l’80% dei rifiuti prodotti da una megalopoli come il Cairo. Una percentuale che supera di gran lunga quella sottoperformante dei cosiddetti Paesi avanzati. EJAtlas (Environmental Justice Atlas) sottolinea, inoltre, l’importanza dei costi minimi per l’amministrazione cittadina del Cairo e il minor impatto ambientale grazie, proprio, all’attività svolta dal “popolo dell’immondizia”. Fino al 2017, però, il Governatorato del Cairo ha portato avanti una politica di privatizzazione della gestione dei rifiuti, avvalendosi della collaborazione di alcune multinazionali technology intensive e procurando, così, un grave danno all’asset economico principale della comunità Zabbalin. Va detto, però, che il sistema tradizionale di raccolta dei rifiuti espone la comunità a una maggiore incidenza di infezioni e di malattie legate ai fattori di rischio ambientale. Anche in questo caso, purtroppo, un esempio virtuoso comporta le sue contraddizioni. La soluzione più auspicata, dai vari attori coinvolti, sarebbe quella di riuscire a integrare il sistema tradizionale con il più sicuro sistema delle multinazionali offrendo, inoltre, un’importante opportunità di lavoro formale alla comunità Zabbalin.


L’artista franco-tunisino, eL Seed ha realizzato Perception, un bellissimo progetto che occupa la facciata di quasi 50 edifici dello slum di Manshiet Nasser, sfidando leggi molto severe sulle espressioni artistiche non autorizzate. Accolto dagli Zabbalin durante la realizzazione del murales, ha voluto mettere in discussione il pregiudizio nei confronti di una comunità che “non vive nell’immondizia, ma grazie all’immondizia”. Da una sola visuale del Muqattam si può leggere la citazione di Sant’Atanasio di Alessandria, vescovo copto del III secolo, realizzata con tecnica anamorfica: “Chiunque voglia vedere chiaramente la luce del sole, deve prima pulirsi gli occhi”. Si potrebbe concludere che è, principalmente, una questione di percezione: solo se l’osservatore si dispone in una particolare prospettiva, un’immagine fortemente distorta acquista la sua vera forma.

Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!


Conoscere è resistere!

Condividi questo articolo e aiutaci a diffondere i nostri contenuti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Puoi continuare ad approfondire attraverso i nostri articoli:

Diritti politici in Egitto durante la presidenza di Al-Sisi

La presidenza di Al-Sisi, comincia dopo il golpe del 2013 ai danni del presidente Morsi, unico presidente eletto democraticamente nella storia del paese; fin da subito il governo di Al-Sisi si caratterizzò per un profondo e violento depauperamento dei diritti politici e sociali in Egitto. Fu immediatamente chiara la strategia con la quale Al-Sisi intendeva mantenere il potere in Egitto: soprusi, violenze ed omicidi sarebbero divenuti fatti all’ordine del giorno. Ciò che emerge con chiarezza infatti, è l’uso diffuso di varie forme di intimidazione volte a scoraggiare sia gli esponenti politici che i semplici giornalisti dal porre interrogativi sull’operato del governo e dei suoi rappresentanti. La polizia e l’esercito sovente impongono la volontà governativa attraverso varie forme di violenze, dalle intimidazioni e minacce a pestaggi, arresti arbitrari e purtroppo omicidi. Ogni persona, anche solo sospetta di volersi opporre al regime, è in pericolo. Lo scopo è palese: creare un clima politico e sociale di terrore, per impedire la formazione e la potenziale diffusione di qualsiasi forma di opposizione al regime. Il governo egiziano, quindi ritiene necessario utilizzare le forze armate come principale mezzo per il mantenimento del potere. Al centro della strategia politica di Al-Sisi vi è il rafforzamento delle strutture militari e della polizia così da creare un sistema clientelare e violento che ha definitivamente contribuito a consolidare il potere presidenziale. La polizia all’interno dell’apparato di potere egiziano ha un ruolo predominante, essendo lo strumento privilegiato – e perciò tutelato – con il quale il presidente impone le sue politiche alla popolazione e sopprime qualsiasi opposizione alla sua azione di governo.  La polizia gode di una quasi totale liberà nell’esercitare le sue funzioni, un’immunità di fondo che gli garantisce ampissimi margini di manovra per le operazioni che esegue, per sopprimere e disincentivare qualsiasi forma di contestazione al regime. (https://www.internazionale.it/notizie/blandine-lavignon/2020/04/22/egitto-ascesa-polizia). Lo strapotere che la polizia detiene all’interno della società si evince dalle numerose nomine dei suoi generali ai vertici dell’alta amministrazione egiziana, rendendo evidente come le violenze e le atrocità commesse da questa siano riconducibili direttamente ed inequivocabilmente alla volontà presidenziale. Anche l’esercito gode di ampi poteri discrezionali nella scelta del proprio modus operandi che gli garantisce un’importante e diffusa pressione sulla popolazione civile. Negli anni della sua presidenza, Al-Sisi ha posto al vertice dei ministeri, o in altre ruoli chiave, esponenti delle forze armate le quali hanno la funzione di fungere da contrappeso, agli occhi del presidente, allo strapotere della polizia. Di fatto questi due centri di potere devono essere bilanciati essendo potenzialmente in competizione fra loro. Proprio per rispettare questo bilanciamento di poteri dunque, il presidente elargisce favori e garanzie di immunità ad entrambi a discapito dei diritti politici della popolazione d’Egitto, che non può far altro che subirne le gravi e continue violenze. Nello specifico si pensi che il diritto di riunione e di libertà di espressione è profondamente limitato e la polizia fa rispettare queste limitazioni perpetrando arresti arbitrari e sottoponendo i prigionieri a tortura. Le autorità accusano gli oppositori politici di terrorismo, sottoponendoli a processi iniqui e arbitrari che si concludono spesso con la condanna alla detenzione in carceri mal tenuti e in cui vigono regole medievali. Il clima è ancor più esasperato da continui interventi presidenziali volti a modificare le discipline che regolano la magistratura ed i partiti politici. Dall’agosto del 2018 infatti, il governo può sciogliere arbitrariamente partiti indipendenti, impendendo così la costruzione di qualsiasi forma di opposizione legale al regime. Inoltre, di altrettanta gravità, è l’allargamento della giurisdizione dei tribunali militari divenuti – insieme ai neo-tribunali straordinari – il vero fulcro del potere giudiziario in Egitto. Detti tribunali sono caratterizzati da procedimenti sommari e gli esiti dei processi sono fortemente influenzati da pressioni governative che consentono di ammettere come valide le testimonianze rese sotto tortura e/o altra forma di pressione psicologica. Il quadro è ancor più drammatico con riferimento all’individuazione di potenziali oppositori politici: in questo caso, polizia ed esercito non sono sottoposte ad alcun tipo di limite o controllo in fase di identificazione di questi soggetti. Al contrario, il potere giudiziario asseconda questa assenza di disciplina chiara quando si tratta di individuare gli oppositori.  Ciò che stupisce dell’attuale situazione è che vi è stato un notevole indebolimento delle garanzie afferenti i diritti politici in Egitto. Seppur vero che nemmeno la presidenza di Mubarak si distinguesse particolarmente per la tutela e la salvaguardia dei diritti civili e politici in Egitto impossibile non notare come la degenerazione sia sempre più rapida. Si pensi in effetti che i principali agitatori della Rivoluzione egiziana del 2011, quella che portò alle dimissioni di Mubarak, furono i lavoratori, i quali,  stanchi delle pressioni dei capi sindacali, quasi tutti filo-governativi,  occuparono le piazze delle principali città egiziane (https://www.internazionale.it/notizie/blandine-lavignon/2020/04/22/egitto-ascesa-polizia ); ciò oggi sarebbe impensabile sia per un fondamentale disinteresse della classe politica rispetto alle istanze della popolazione e sia perché la polizia e i vari apparati governativi rendono impossibile qualsiasi forma di manifestazione del dissenso. L’attuale governo teme ogni tipo di rivendicazione di quelle forze che hanno permesso la fine del trentennale potere di Mubarak, ogni egiziano in questo senso è un potenziale oppositore.  A ben vedere non vi sono luoghi della democrazia che non siano stati compressi o del tutto eliminati da parte del governo tramite l’azione repressiva della polizia. Sono considerati “nemici della democrazia” tutti coloro che pongono domande o direttamente contestano l’operato del governo, come le ONG (https://espresso.repubblica.it/internazionale/2017/01/16/news/human-rights-watch-in-egitto-con-al-sisi-la-societa-civile-e-a-rischio-estinzione-1.293464 ) e i giornali indipendenti che, ad oggi, non esistono più; in tal senso è emblematica la vicenda dei giornalisti della redazione del giornale Mada Masr, (https://www.internazionale.it/bloc-notes/catherine-cornet/2019/11/26/egitto-raid-mada-masr ) che era l’unico giornale egiziano con cui si potevano reperire informazioni contro il governo, i quali sono stati in gran parte picchiati e arrestati. La questione sulla libertà di stampa appare ancor più preoccupante anche se si considera che ad oggi non vi sono giornali egiziani degni di questo nome dal momento che quelli rimasti intenti solo a fungere da megafono del governo. In Egitto infatti risulta difficilissimo svolgere la professione del giornalista, a meno che non si voglia

Leggi Tutto »

Diritti LGBTQ+ in Egitto: niente di buono all’ombra delle piramidi

Le persone LGBTQ+ egiziane vivono una condizione estremamente drammatica: lasciate sole a fronteggiare le istituzioni, immerse in un contesto conservatore che le lascia ai margini della società. Negli ultimi anni, inoltre, quella che era una generale tendenza da parte dello Stato alla discriminazione, laddove possibile (non esistendo, in Egitto, una legge che punisca il “reato di omosessualità” o leggi affini), si è trasformato in un vero e proprio atteggiamento persecutorio attraverso norme emanate appositamente per colpire le minoranze sessuali. Senza il riconoscimento delle unioni per persone dello stesso sesso, senza una disciplina per l’omogenitorialità, senza tutele e politiche in favore delle persone transgender e delle altre minoranze sessuali, l’Egitto è ora più che mai un Paese profondamente avverso alla comunità LGBTQ+. Quadro Legislativo e Impatto nella Società Civile Come è stato già detto, il Codice Penale egiziano non accoglie al suo interno uno specifico divieto per le relazioni omosessuali o il travestitismo. Fino al 2000, le azioni contro le persone queer egiziane sono state portate avanti impugnando la legge n. 10 del 1961, la “legge sulla depravazione”, che prevede “pene fino a 17 anni di carcere per la pratica abituale della depravazione”. È tuttavia col nuovo millennio che lo Stato egiziano inaugura una serie di meccanismi legali basati su giurisprudenza e interpretazioni delle norme attraverso i quali sferrare colpi alla comunità LGBTQ+. Si afferma, infatti, la pratica della raccolta di prove online, ampiamente messa in atto dalle autorità del Paese. In pratica una divisione speciale del Ministero dell’Interno, la Direzione per la Protezione della Morale Pubblica, crea apposite trappole online su app o siti d’incontri per avere in seguito il pretesto per perseguire penalmente chiunque vi cada dentro. È in quegli anni di rinnovata intolleranza verso le minoranze sessuali che si sviluppa il caso dei Cairo 52: 52 uomini arrestati nel maggio del 2001 a bordo del nightclub galleggiante Queen Boat, ancorato sul Nilo al Cairo. Gli uomini, dichiaratisi tutti innocenti, si trovarono loro malgrado al centro dell’attenzione mediatica nazionale –  con giornali e riviste che pubblicarono i loro nomi e gli indirizzi di casa – e internazionale – con diverse ONG, membri del Congresso statunitense e le Nazioni Unite che denunciarono la scorrettezza dei procedimenti messi in atto. Quegli uomini, infatti, furono costretti a subire percosse ed esami fisici atti a “dimostrare la loro omosessualità”, rimanere per ore in piedi in celle anguste senza letti ed altre privazioni dei diritti umani. Il processo, conclusosi nel marzo 2003, portò alla condanna a 3 anni di prigione per 21 di loro, mentre i restanti vennero rilasciati. Questo forte atteggiamento discriminatorio da parte delle Istituzioni ha subito un ulteriore slancio con la presidenza di Al-Sisi, iniziata nel 2014. Secondo quanto riportato dall’Egyptian Initiative for Personal Rights, che è fra le poche realtà in Egitto a riconoscere i diritti LGBTQ+, fra il 2000 e il 2013 gli arresti legati all’omosessualità sarebbero 14. Dal 2013 al 2017 la media annuale sale a 66 arresti, con picchi di 75 nel 2017 e 92 nel 2019. Da marzo 2020, la situazione delle persone LGBTQ+ egiziane è ulteriormente peggiorata. Da questo momento in poi, i casi riguardanti le minoranze sessuali sono stati ricondotti alle violazioni della legge sulla criminalità informatica, con un consequenziale inasprimento delle multe e delle pene. Questa disciplina, infatti, dal 2019 è di competenza dei tribunali economici e si trova all’interno di un ambito in cui le definizioni sono molto vaghe, ambigue, aperte a più interpretazioni, la maggior parte delle quali usate a sfavore della comunità LGBTQ+. Se prima le condanne per depravazione si risolvevano in multe da 300-400 lire egiziane o reclusioni dai 3 ai 6 mesi, le nuove norme prevedono sanzioni fino a 100 mila lire egiziane e pene detentive di due anni minimo, come spiega Afsaneh Rigot, ricercatrice ed esperta in dati digitali e comunità LGBTQ+, che aggiunge: “Il quadro repressivo sempre più sofisticato e creativo che l’Egitto usa per criminalizzare la comunità LGBTQ+ minaccia non soltanto gli egiziani, ma anche tutte le persone LGBTQ+”. Percezione e Status Sociale Un quadro legislativo repressivo come quello appena descritto non può far ben sperare sul trattamento che le persone LGBTQ+ ricevono in Egitto e infatti le minoranze sessuali egiziane sono estremamente marginalizzate all’interno della società. Questa avversione della popolazione egiziana, abbracciata in toto dalle istituzioni statali, affonda le sue radici nel conservatorismo di matrice religiosa islamica e cristiana (le due confessioni principali del paese). Il pretesto principale che viene invocato a giustificazione della persecuzione in atto verso la comunità LGBTQ+ è infatti quasi sempre la preservazione degli usi e della morale del Paese che sono sempre il riflesso dei costumi religiosi imposti dall’Islam e dal Cristianesimo. Non è sempre stato così però. L’Egitto è stato la casa di una delle più grandi e avanzate civiltà del mondo antico che ha lasciato alle sue spalle maestose tracce del suo passaggio a perenne monito dell’ingegno e della creatività umana. Fra queste ritroviamo, purtroppo, poche testimonianze di come venisse vissuta l’omosessualità presso gli antichi egizi ma quello che ci è arrivato ci permette di fare alcune speculazioni: il ritrovamento di un cumulo tombale dedicato a quelli che sembrano in tutto e per tutto due amanti uomini, la presenza di personaggi e comportamenti omosessuali nella mitologia con le divinità Seth e Horus più altre testimonianze storiche più o meno affidabili sulle tendenze sessuali di alcuni faraoni (Pepi II nello specifico) sono tutti fattori che ci portano a dedurre che l’omosessualità di per sé non fosse condannata e fosse anche vissuta senza particolari preoccupazioni. Una condanna, al massimo, era riservata al partner passivo all’interno della relazione sessuale per aver “rinunciato” alle sue prerogative maschili ed essersi così “abbassato” al livello femminile, un atteggiamento che fa capo a una visione delle relazioni interpersonali più maschilista e patriarcale che esplicitamente omofoba. Al di là della sua origine, l’odio omofobico e transfobico è notevolmente presente nella società egiziana, perfettamente integrato fra i meccanismi che ne regolano il funzionamento. Se abbiamo già visto, da un lato, l’atteggiamento delle istituzioni, dall’altro troviamo i media egiziani che, in accordo con la linea seguita dal governo,

Leggi Tutto »

Egitto: Crocevia di migrazioni

Paese di origine, transito e di destinazione dei migranti, l’Egitto è al centro dei processi migratori regionali in Nord Africa e in Medio Oriente. L’Egitto è il più popoloso Paese del mondo arabo, con una popolazione di circa 100 milioni di abitanti nel 2019 di cui la metà ha meno di 25 anni. Oltre ad essere paese di emigrazione, sia verso i Paesi arabi produttori di petrolio che verso l’Occidente, l’Egitto è uno stato di transito e un paese di destinazione per centinaia di migliaia di rifugiati e richiedenti asilo, provenienti soprattutto da Sudan e Sud-Sudan. Le continue violazioni dei diritti umani che si verificano nel Paese, però, non lo rendono un luogo sicuro per nessuno. L’emigrazione per motivi di lavoro L’emigrazione egiziana per motivi di lavoro, destinata per lo più ad altri paesi dell’area MENA, si può dividere in due grandi fasi. La prima si può inquadrare nel periodo che va dal XIX secolo alla metà del XX secolo e ha visto come protagonisti un numero limitato di lavoratori altamente qualificati, studiosi e professionisti che hanno contribuito allo sviluppo dei paesi limitrofi rimasti sotto il dominio ottomano o coloniale. Negli anni Cinquanta, infatti, l’ascesa al potere di Gamal Abdel Nasser, figura centrale per l’Egitto e la regione, anticolonialista e sostenitore del panarabismo e del c.d. socialismo arabo, ha dato una sfumatura politica al processo di emigrazione. Fino agli anni Sessanta, l’Egitto guidato da Nasser ha formato e inviato nei paesi arabi migliaia di professionisti egiziani quali parte integrante della strategia di soft power e posizionamento dello Stato. Questa mobilità “dall’alto”, rappresentava però un’eccezione rispetto alla politica migratoria restrittiva portata avanti da Nasser, sia per evitare l’allontanamento dal Paese degli oppositori politici, che per prevenire la “fuga di cervelli” non regolamentata. La seconda fase dell’emigrazione lavorativa egiziana è stata caratterizzata principalmente da flussi di manodopera poco o mediamente qualificata verso gli Stati arabi produttori di petrolio. Questa fase ha avuto inizio nei primi anni Settanta nel contesto della sconfitta dell’Egitto nella guerra arabo-israeliana del 1967 e del deterioramento delle finanze statali nella seconda metà degli anni Sessanta. In risposta alla crisi, Anwar Sadat, successore di Nasser, morto nel 1970, si impegnò in una strategia di liberalizzazione economica, nota come politica “a porte aperte”. Questa includeva l’eliminazione di ogni ostacolo all’emigrazione dei cittadini al fine di alleggerire lo stato di disoccupazione cronica e di sovrappopolazione in cui verteva il Paese. Altro importante incentivo all’emigrazione era rappresentato dalle rimesse economiche, che dagli anni Settanta fino ad inizio anni Novanta vennero considerate come fonte di reddito principale ed ancora oggi costituiscono una quota significativa del suo PIL. Con la caduta delle restrizioni, centinaia di migliaia di egiziani partirono nei paesi arabi limitrofi, approfittando della lingua comune e del bisogno di manodopera straniera dei paesi di destinazione. In termini di paesi di destinazione, la vicina Libia è stata per molti anni la destinazione principale per i migranti egiziani. Dalla metà degli anni Settanta in poi, con il deteriorarsi delle relazioni tra Egitto e Libia, la maggior parte dei lavoratori migranti egiziani si è diretta verso la regione del Golfo, approfittando delle sempre più forti relazioni dell’Egitto con l’Arabia Saudita, il Kuwait e l’Iraq. Tuttavia, il calo dei prezzi del petrolio dopo il 1979 ha contribuito alla costante diminuzione nel reclutamento egiziano nei Paesi produttori di petrolio. Allo stesso tempo, l’emigrazione regionale egiziana verso il Golfo ha subito un rallentamento a partire dagli anni Ottanta, a causa della preferenza accordata ai migranti asiatici. Oltre alle motivazioni di tipo economico, ad influenzare la migrazione di manodopera egiziana sono state anche motivazioni di tipo politico, ad esempio, l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq ha portato all’esodo dell’intera comunità egiziana dal Paese petrolifero nel 1990. Inoltre La Libia ha di fatto cessato di essere un importante Paese di destinazione dopo il rovesciamento del regime di Muammar al-Gheddafi nel 2011 e la conseguente discesa del Paese nella guerra civile. La diaspora egiziana in Occidente Seppur l’Arabia Saudita e la Giordania rimangono i paesi che ospitano il numero maggiore di migranti egiziani, milioni di persone sono emigrate anche nei paesi occidentali, soprattutto dopo la fine dell’era Nasser. In particolare, la rinascita dell’Islam politico in Egitto e nel Medio Oriente a partire dai primi anni Settanta, ha portato all’emigrazione di un gran numero di copti egiziani verso l’Occidente. I copti hanno creato comunità della diaspora, in particolare in Nord America, che hanno cercato di difendere gli interessi dei cristiani in Egitto. Dalla metà degli anni Settanta, a fronte di controlli sempre più severi sull’immigrazione in tutta Europa, gli egiziani hanno tentato di entrare in Europa attraverso il Mediterraneo, creando grandi comunità di migranti poco qualificati in tutta l’Europa meridionale. L’Italia è il terzo paese occidentale, dopo USA e Canada, per numero di egiziani ospitati e colpisce il fatto che l’Egitto è la seconda nazione di provenienza dei minori stranieri non accompagnati in Italia, dopo l’Albania, secondo il Rapporto della Comunità Egiziana in Italia del 2019. Un importante cambiamento si è verificato nel contesto della Rivoluzione egiziana del 2011, quando le organizzazioni della diaspora si sono moltiplicate e hanno tenuto proteste in tutto l’Occidente, cercando di contribuire al tentativo di democratizzazione dell’Egitto: Dopo la fine del regime di Mubarak, i Fratelli Musulmani hanno vinto le elezioni parlamentari e presidenziali del 2011/2012, ma il presidente Mohammed Morsi è stato destituito nel 2013 in seguito ad un golpe militare guidato, tra gli altri da Abel Fattah Al-Sisi, l’attuale presidente del Paese. Il cambio di guardia ha comportato un’altra ondata di emigrazione, questa volta dei membri dei Fratelli Musulmani che hanno cercato di evitare la persecuzione fuggendo in Turchia e Qatar. Violazioni dei diritti umani e ondate migratorie L’intervento militare del 2013 ha prodotto una profonda polarizzazione politica nel Paese, diviso sulla legittimità del regime di Al-Sisi, il quale oltre a modificare la costituzione per prolungare la sua permanenza al potere, si è macchiato negli anni di gravi accuse di violazioni dei diritti umani. Il caso più tristemente noto è quello di Giulio Regeni,

Leggi Tutto »