Manshiet Nasser, il più grande slum d’Egitto, è uno dei tanti esempi di sviluppo urbanistico non sostenibile e marginalizzante. Ma la complessità e la dinamicità dei processi di urbanizzazione contemporanea si riflettono nella contraddittorietà tra economia formale e informale, tra povertà estrema e progetti di “borghesizzazione” e tra buone pratiche e rischi ambientali.
L’iper-urbanizzazione fuori controllo delle megalopoli
Manshiet Nasser (Munsha’ at Nāṣir), con il suo milione e mezzo di abitanti, è tra i più grandi slums dell’intera regione del Medio Oriente e il 4° al mondo per grandezza. La stessa Grande Cairo (Al Qāhira) è al 7° posto nella classifica delle città più popolate. La densità abitativa e il sovraffollamento del Cairo, principale motore economico del Paese, rappresentano l’essenza stessa del concetto di iper-urbanizzazione e di megalopoli in continua trasformazione. UN-Habitat riferisce che il 56% dell’intera popolazione urbana, in Egitto, risiede nella regione del Grande Cairo. Di questa percentuale circa il 20% vive in condizioni di marginalità sociale ed economica, concentrato nelle cosiddette aree informali. In molti Paesi in via di Sviluppo, del resto, l’informalità abitativa e la slumizzazione stanno diventando, di fatto, il modello dominante del processo di urbanizzazione.
Si stima che nel mondo circa un miliardo di persone risieda in quelle che sono chiamate, anche, con il nome di baraccopoli o bidonville. Principalmente a causa di veri e propri esodi dalle zone rurali verso i grandi centri urbani, che nascono dalla necessità di cercare lavoro e migliori condizioni di vita. Nelle aree urbane informali e negli slums, però, il diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute, la sicurezza alimentare e i servizi primari è gravemente minacciato dal degrado urbano e dalle disuguaglianze sociali. Inoltre, slums come Manshiet Nasser nascono in assenza di programmazioni e piani urbanistici specifici, ovvero senza caratteristiche tecniche adeguate o strategie di sostenibilità sociale e ambientale. Si può parlare di realtà urbane fuori controllo, non inclusive e scarsamente integrate. Come per altre megalopoli del sud del mondo, lo sviluppo urbanistico incontrollato e caotico di Manshiet Nasser è dovuto sia al fenomeno delle migrazioni rurali, una dinamica demografica ormai irreversibile, ma anche e soprattutto a un forte incremento della pressione demografica che coinvolge l’intero continente africano. Basti pensare che la sola città del Grande Cairo, in 60 anni, è passata da una popolazione di 4 milioni a una di quasi 21 milioni di abitanti. Numeri di un incremento della popolazione che non corrispondono, però, a un’equivalente crescita economica, ma piuttosto a un aumento delle disuguaglianze, della criminalità e dell’inquinamento urbano.
I progetti di “Nuove città nel deserto” e slumizzazione
La slumizzazione non è solo un fenomeno con una dimensione spaziale, ma è anche un fenomeno con una dimensione identitaria in cui le disuguaglianze sociali prendono corpo. Infatti, anche se i cairoti utilizzano il termine Ashwai’yyat in modo intercambiabile, aree informali e slums non sono sinonimi e, inoltre, al Cairo sono fenomeni distinti anche geograficamente. Anche se gli slums insistono su aree informali, quest’ultime non possono essere considerate slums. UN-Habitat fa una netta distinzione. Sebbene lo sviluppo informale violi quelle che sono le norme edilizie, in genere, gli edifici hanno strutture solide, dimensioni accettabili e sia l’acqua potabile che l’energia elettrica sono disponibili nonostante la densità abitativa e la congestione urbana. Se la densità di abitanti delle aree informali del Cairo è tra le più alte al mondo, quella per ettaro di Manshiet Nasser è stimata circa tre volte tanto. Inoltre, le abitazioni non sono idonee a condizioni climatiche avverse, gli spazi interni sono insufficienti e con più di tre persone per stanza, l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici è inadeguato e non c’è sicurezza di possesso che prevenga sfratti forzati. Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per un’urbanizzazione sostenibile, basterebbe una sola di queste condizioni per rientrare nella definizione di slum.
Proprio per offrire un’alternativa allo sviluppo informale e agli slums, oltre che per decongestionare la Valle del Nilo, tra gli anni ’70 e ’80, nascono i progetti delle New Cities e delle Desert Cities. Ma il tentativo del Governo egiziano di regolarizzare un’urbanizzazione incontrollata attraverso piani regolatori non ha trovato, di fatto, applicazione. Le cause sono simili a quelle di altri Paesi con processi accelerati di slumizzazione: inefficienza dell’apparato burocratico e strumentale alternanza tra tolleranza e intolleranza per l’occupazione abusiva di terreni con scarso valore edificabile perché periferici, malsani o perfino a rischio ambientale. Lo slum di Manshiet Nasser viene definito di tipo “B”, ovvero costruzioni di abitazioni private in aree desertiche su terreni demaniali non utilizzati. Da una prima fila di residenze, la strada principale di al-Naṣir Road si estende fino alla pendice della zona collinare di Muqattam (al-Muqaṭṭam) e il tipo di suolo, appunto, rende difficile l’estensione sia delle condutture dell’acqua che dei sistemi di drenaggio e favorisce il grave rischio frane, come quella di Duwaiqa (al-Duwayqa) del 2008.
Uptown City e Manshiet Nasser: due volti di una stessa città
Il blog egiziano Tadamun, che cerca di promuovere il diritto alla giustizia sociale e a un tenore di vita dignitoso per tutti i cittadini, riporta quelle che sono le testimonianze degli abitanti di Manshiet Nasser. Emergono chiare le differenze tra le varie mantiq (aree urbane), ma i problemi rimangono comuni. L’emarginazione economica e sociale, la mancanza d’ingressi principali, la difficoltà a spostarsi in un fitto reticolo di strade strette e vicoli, l’inadeguatezza dei servizi per una popolazione così numerosa e non ultimo le limitate possibilità d’istruzione per le ragazze. La mancanza di servizi sanitari adeguati, inoltre, aggrava senz’altro la possibilità di contrastare e contenere la diffusione del Covid-19. Inoltre, l’attuazione delle principali misure anti contagio è concretamente impossibile da praticare: distanza interpersonale, lavaggio frequente delle mani o lockdown. Le condizioni di sovraffollamento rendono il rischio di diffusione dei focolai molto più alto, mentre le scarse risorse idriche non permettono di osservare una prevenzione minima. Ma è proprio un’eventuale ipotesi lockdown la più incompatibile con un’economia informale e con situazioni al limite della sopravvivenza.
Manshiet Nasser è senz’altro una realtà economico-sociale dinamica e complessa, anche di prossimità tra condizioni sotto la soglia di povertà e gruppi a basso e medio reddito. Ma il Cairo, che è una città in continua trasformazione, presenta contrasti estremi. Nel 2006, infatti, è iniziata la costruzione di Uptown Cairo City, in cima alla collina di Muqattam, una gated community esclusiva e auto-segregativa. Alte mura di cinta e accessi sorvegliati, vari servizi d’uso quotidiano e un grande campo da golf che richiede l’impiego di notevoli risorse idriche. Indubbiamente il contrasto con l’area sottostante è stridente, solo se si pensa alla scarsa disponibilità d’acqua. Inoltre, l’intero slum di Manshiet Nasser scompare dalle immagini pubblicitarie di Uptown City, con la volontà di cancellare un’ingombrante realtà di degrado urbano che rende, invece, visibile l’incremento delle disuguaglianze nell’opposizione tra la “città dei ricchi” e la “città dei poveri”.
Gli al-Zabbālīn: il “popolo dell’immondizia”
Simbolo sia del degrado urbano che di resilienza sono la comunità cristiano copta degli Zabbalin (al-Zabbālīn), il “popolo dell’immondizia”, che ha creato uno dei più efficienti e sostenibili sistemi di raccolta e riciclaggio di rifiuti al mondo. La gestione dei rifiuti solidi urbani è uno dei problemi ambientali più seri al Cairo e un’assoluta priorità. Fino agli anni ’80 non esisteva un sistema formale di raccolta dei rifiuti e questa funzione è stata svolta dall’esercito della più grande minoranza religiosa del Paese. Gli abitanti della Garbage City di Manshiet Nasser, tra i 20.000 e i 30.000 residenti, con un sistema tradizionale di raccolta porta a porta, riescono a riciclare l’80% dei rifiuti prodotti da una megalopoli come il Cairo. Una percentuale che supera di gran lunga quella sottoperformante dei cosiddetti Paesi avanzati. EJAtlas (Environmental Justice Atlas) sottolinea, inoltre, l’importanza dei costi minimi per l’amministrazione cittadina del Cairo e il minor impatto ambientale grazie, proprio, all’attività svolta dal “popolo dell’immondizia”. Fino al 2017, però, il Governatorato del Cairo ha portato avanti una politica di privatizzazione della gestione dei rifiuti, avvalendosi della collaborazione di alcune multinazionali technology intensive e procurando, così, un grave danno all’asset economico principale della comunità Zabbalin. Va detto, però, che il sistema tradizionale di raccolta dei rifiuti espone la comunità a una maggiore incidenza di infezioni e di malattie legate ai fattori di rischio ambientale. Anche in questo caso, purtroppo, un esempio virtuoso comporta le sue contraddizioni. La soluzione più auspicata, dai vari attori coinvolti, sarebbe quella di riuscire a integrare il sistema tradizionale con il più sicuro sistema delle multinazionali offrendo, inoltre, un’importante opportunità di lavoro formale alla comunità Zabbalin.
L’artista franco-tunisino, eL Seed ha realizzato Perception, un bellissimo progetto che occupa la facciata di quasi 50 edifici dello slum di Manshiet Nasser, sfidando leggi molto severe sulle espressioni artistiche non autorizzate. Accolto dagli Zabbalin durante la realizzazione del murales, ha voluto mettere in discussione il pregiudizio nei confronti di una comunità che “non vive nell’immondizia, ma grazie all’immondizia”. Da una sola visuale del Muqattam si può leggere la citazione di Sant’Atanasio di Alessandria, vescovo copto del III secolo, realizzata con tecnica anamorfica: “Chiunque voglia vedere chiaramente la luce del sole, deve prima pulirsi gli occhi”. Si potrebbe concludere che è, principalmente, una questione di percezione: solo se l’osservatore si dispone in una particolare prospettiva, un’immagine fortemente distorta acquista la sua vera forma.
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