Il disastro della nave MV X-Press Pearl: tra danni ambientali e ripercussioni socio-economiche sulle comunità

Non è ancora ben chiaro l’impatto, non solo ambientale, che l’incidente della nave mercantile MV X-Press Pearl, avvenuto a maggio sulle coste dello Sri Lanka, avrà nel lungo periodo. Le ultime notizie risalgono all’11 luglio quando il governo dello Sri Lanka ha dichiarato che 176 tartarughe, 4 balene e 20 delfini morti si sono arenati sulle coste a seguito dell’incidente. Gli scenari si prospettano disastrosi non solo per l’ecosistema ma anche per la popolazione locale, il cui sostentamento principale deriva dalla pesca.

L’incidente della nave MV X-Press Pearl

Il portacontainer MV X-Press Pearl, battente bandiera del Singapore, è rimasto avvolto dalle fiamme per due settimane prima di affondare il 2 giugno in una delle aree più incontaminate dello Sri Lanka, a circa 40 chilometri dalla capitale Colombo, dove era diretto. Tra i 1.486 container che trasportava una parte del carico era rappresentato da sostanze chimiche, tra cui prodotti chimici pericolosi come batterie al litio-ferro, rame e piombo, soda caustica e acido nitrico. La fuoriuscita di quest’ultima sostanza, correttamente dichiarata ma stivata o imballata male, è stata molto probabilmente la causa dell’incendio. L’acido nitrico è una sostanza corrosiva, infiammabile e tossica usata nella preparazione di esplosivi, fertilizzanti, coloranti organici artificiali, prodotti farmaceutici e profumi. La nave ne conteneva ben 25 tonnellate.

La fuoriuscita di acido nitrico, però, era stata scoperta dall’equipaggio giorni prima dell’incidente quando la nave transitava nelle vicinanze del porto di Hamad, in Qatar. Alla richiesta di scarico le autorità portuali del Qatar hanno negato il permesso per mancanza di attrezzature e manodopera, diniego ottenuto anche dal porto di Hazira, in India, per le stesse ragioni. Dopo appena un giorno dall’arrivo nelle acque dello Sri Lanka, lo scoppio dell’incendio e le fiamme indomabili hanno causato la dispersione nel mare delle sostanze chimiche trasportate con terribili effetti sull’ecosistema marino. A ciò si deve sommare la dispersione di tonnellate di microgranuli di plastica da imballaggio che hanno invaso le spiagge della zona. A seguito dell’incidente molti animali sono stati trovati morti e le autorità hanno vietato la pesca nella zona attigua all’incidente colpendo migliaia di famiglie il cui sostentamento deriva appunto dalla pesca.

Quasi paradossale il tempismo dell’accaduto, avvenuto a pochi giorni dal 5 giugno, giornata mondiale dell’ambiente, e dall’8 giugno, la giornata istituita in difesa degli oceani, che ci ricordano l’importanza di preservare l’ambiente, i nostri oceani e la vita che ospitano.

Trasporto marittimo: tensione tra sviluppo economico e tutela ambientale

La fascia costiera dello Sri Lanka ospita diversi ecosistemi importanti e sensibili come le barriere coralline, i letti di fanerogame, gli estuari, le lagune e le spiagge dove le tartarughe spesso nidificano. La zona tra l’oceano arabico e l’oceano Indiano è anche zona di passaggio e di habitat per mammiferi marini come balene, delfini e squali.

Il Paese però è anche una zona strategica per il commercio marittimo internazionale. Le più importanti rotte marittime, infatti, solcano le acque dell’area. Negli ultimi decenni il trasporto marittimo è aumentato per rispondere alla crescente domanda di beni e insieme a questo anche la capacità di trasporto delle navi. La crescita dei portacontainer però aumenta anche il rischio di incidenti e di incendi a bordo come è avvenuto nel caso della MV X-Press Pearl.

A ciò si somma la problematica legata agli standard che le navi devono rispettare. Lo Stato di bandiera ha il compito di effettuare le ispezioni sulle navi al fine di valutare se gli standard di costruzione, manutenzione e classificazione sono rispettati per poi rilasciare le certificazioni ambientali e di sicurezza. Sempre di più, tuttavia, questa responsabilità viene delegata ad Organismi di classificazione private le quali abbassano i loro standard per stare al passo con la concorrenza e attirare più clienti.

Ancora una volta la questione principale che si pone è la tensione tra sviluppo economico e tutela ambientale che viene sempre meno rispettata per dare spazio ad un trasporto di merci più intensivo e che sempre meno si preoccupa delle ripercussioni ambientali, sociali ed economiche.

Norme antiquate e meccanismi di risposta inefficienti

L’incidente ci dimostra, inoltre, come le attuali norme internazionali che regolano il traffico marittimo e come le risposte a incidenti come questi – che si verificano sempre più frequentemente – siano ancora inadeguate rispetto l’incremento dei traffici e il crescente gigantismo delle navi.

La convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS), per citarne una, tutela la sicurezza della navigazione mercantile ed è stata adottata subito dopo il disastro del Titanic. Nonostante abbia subito numerose modifiche nel corso degli anni, l’ultima risale al 1974 (entrata in vigore nel 1980), risulta obsoleta rispetto alla crescita del trasporto marittimo e delle navi. Nel caso specifico degli incendi, come nel caso della MV X-Press, la causa più probabile, come abbiamo già ricordato, è da ricondursi alla natura del carico di sostanze chimiche e non più ai motori, come spesso accadeva in passato. La sicurezza antincendio sulle navi potrebbe essere migliorata con una migliore formazione per promuovere migliori pratiche nel proteggere e preservare l’integrità del carico.

Anche le risposte agli incidenti, però, risultano inadeguate al contenimento di incendi o dispersioni di petrolio o di sostanze chimiche. La MV X-Press non ha ricevuto il permesso di scaricare la merce che trasportava né nel porto del Qatar né in quello indiano. I porti sono riluttanti ad accettare navi pericolose perché sprovvisti, o non efficientemente dotati, di piani di emergenza adeguati. La competizione non riguarda solo le navi ma anche i porti che mirano a massimizzare il movimento di container. In questo caso, nonostante politiche ambientali e di contenimento dei rischi vengano adottate, esse non vengono messe in pratica perché richiederebbero attrezzature migliori e un maggiore addestramento del personale.

Anche il meccanismo di risposta dello Sri Lanka ha mostrato notevoli carenze, come ha dichiarato il Centre for Environmental Justice, dimostrandosi inefficiente e non in linea con le leggi internazionali in vigore. Tutto ciò ha messo a rischio non solo l’ambiente ma anche il sostentamento delle comunità di pescatori e l’industria del turismo. Il Centre for Environmental Justice sottolinea, inoltre, come l’incidente ha leso diritti fondamentali come quello alla salute e ad un ambiente salubre. L’incidente ha inoltre pregiudicato l’economia di sussistenza delle popolazioni locali.

Il divieto di pesca delle autorità srilankesi

Il settore della pesca gioca un ruolo chiave nella vita sociale ed economica dello Sri Lanka. Secondo i dati della FAO i prodotti ittici sono un’importante fonte di proteine animali per la popolazione e il settore contribuisce per circa il 2% al PIL.

Sempre secondo la FAO ci sono 1.337 villaggi di pescatori sulle coste del paese, si stima che il reddito di più 130.000 famiglie derivi principalmente dalla pesca, costituendone la maggiore fonte di sostentamento. Alcune di queste fragili comunità, già gravemente colpite dagli effetti della pandemia, si trovano nuovamente in una situazione di disagio economico, vedendosi vietata l’attività di pesca in un raggio di 80 km dall’incidente, nella zona che va da Negombo a Panadura. “Il divieto colpisce 4.300 famiglie del mio villaggio”, ha dichiarato all’Afp Denzil Fernando capo del sindacato regionale dei pescatori.  Il governo, ad ogni modo, ha dichiarato che saranno previste dei compensi per le perdite previste.

I prossimi step del disastro MV X-Press Pearl

Una squadra di esperti è stata convocata per quantificare i danni causati all’ambiente marino, alle zone costiere e all’economia locale, tra cui tre esperti dell’Unione Europea attraverso il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP).

Lo Sri Lanka ha già presentato alla X-Press Feeders, società proprietaria del portacontainer, una richiesta provvisoria di 40 milioni di dollari per coprire i primi costi sostenuti per lo spegnimento delle fiamme. 

Qualunque sia la cifra che verrà richiesta alla società, questa comunque non riuscirà a risarcire completamente il grave danno ambientale che l’incidente ha causato. Da decenni l’ambiente viene messo in secondo piano rispetto allo sviluppo economico e al commercio mondiale, si spera in un’inversione di rotta e in uno sviluppo futuro più attento alle problematiche ambientali e alla tutela dei diritti umani in modo da non costituire un rischio per le popolazioni locali, costringendole a lasciare le proprie case.

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IL DRAMMA DEI CONTADINI IN INDIA: Come gli OGM e la mancanza di politiche concrete porta sempre più contadini al suicidio

Dal 1995 i suicidi dei contadini in India sono stati molto più di 300.000. In base alle statistiche del National Crime Records Bureau of India, si suicida un contadino ogni mezz’ora.  Gli Stati Indiani, che da soli contano l’87,5% dei suicidi dei contadini sono Maharashtra, Karnataka, Telangana, Madhya Pradesh, Chhattisgarh, Andhra Pradesh e Tamil Nadu.  Come dichiarato da Raju Das – professore di studi sullo sviluppo alla York University – “La questione dei suicidi tra i contadini non è solo un problema dei contadini, o un problema delle campagne, o dei villaggi – è un problema molto più grande, politico-economico”  Prima di trattare tutte le tematiche connesse a questo macabro fenomeno, è opportuno fare una fotografia della situazione attuale dei contadini indiani, così da poter rendersi conto dell’effettiva portata dello stesso:  il 58% della popolazione dipende dall’agricoltura, ossia il suo lavoro è connesso in qualche modo con questo settore. Stando ai dati dell’ultimo censo, effettuato nel 2011, 120 milioni di indiani sono contadini. Per dare un’idea della vastezza di questa classe, i dottori in India sono 1 milione. Questo vuol dire che per ogni dottore, ci sono 12 contadini – ammesso che la popolazione contadina non sia cresciuta dal 2011 ad oggi;  l’entrata annuale di un contadino indiano è l’equivalente di circa $272; quella mensile di circa $23; quella giornaliera di circa $0,76;   il 52% dei contadini indiani versa in una forte situazione debitoria. La media annua del debito contratto dalle famiglie contadine è di circa $640 e, con un reddito annuo pari a circa $272 è impossibile pensare che le stesse possano far fronte alle spese vive quotidiane (bollette, cibo) e contemporaneamente ripagare il loro debito. Questo fa sì che lo stesso cresca esponenzialmente e “strozzi” i contadini.  Questa del debito pendente sulla classe contadina non è una tematica nuova, così come non lo è quella dei suicidi.   Sin dall’inizio del dominio britannico in India infatti, gli agricoltori erano costretti a pagare delle tasse altissime per l’utilizzo del terreno e spesso i redditi che ne ricavavano erano troppo bassi per coprire le spese. Questo sistema ha portato migliaia di contadini e le loro famiglie sul lastrico e molti di loro, disperati, compivano un gesto così estremo perché era visto come l’unico modo per liberarsi dai debiti. Il fenomeno dei suicidi dei contadini divenne così diffuso che nell’ ‘800 il governo inglese fu costretto ad emanare una serie di provvedimenti che limitassero l’altissimo tasso di indebitamento dei contadini.   Nonostante questa prima consapevolezza, nel 1894 il governo dell’India indipendente ha emanato il Land Acquisition Act che diede l’avvio ad uno dei primi fenomeni di Land Grabbing. L’India poi è un caso particolare perché è lo stesso governo ad autorizzarlo sul proprio territorio.  Gli effetti dell’applicazione di questa legge sulla popolazione indiana sono stati duplici a seconda che si fosse proprietari terrieri o contadini, ma comunque devastanti:  i proprietari terrieri a cui è stata espropriata la terra non hanno ricevuto compenso o lo stesso è stato minimale;  i contadini – che non erano proprietari della terra che lavoravano ma dipendevano da essa per ricavarne i mezzi necessari per la sopravvivenza propria e del proprio nucleo famigliare – sono rimasti senza alcun terreno da lavorare e quindi senza modi per sopravvivere.   Negli anni il Governo indiano ha emanato delle leggi a garanzia e protezione di questa fascia vulnerabile ma si è sempre trattato di palliativi che di fatto non solo non hanno risolto il problema, in molti casi l’hanno addirittura peggiorato.  Misure messe in campo da Governo  Negli anni le uniche misure a cui ha fatto ricorso il Governo in maniera alternata sono:  Concedere ulteriori prestiti ai contadini. Come si è visto, il debito medio annuale delle famiglie di contadini è più del doppio delle loro entrate annue il che rende già impossibile agli agricoltori poter ripagare i prestiti concessi. Garantirne di nuovi concederà loro liquidità immediata – che comunque spesso è utilizzata per coprire parte del debito, non per sopperire ai reali bisogni famigliari, per paura che la banca si appropri del terreno – ma li imbriglia ancor di più nella trappola del debito, generando una spirale senza fine da cui i contadini non riescono più ad uscire;  Aver adottato il Minimum Support Price (MSP) policy: secondo questa politica, il Governo ogni anno acquista 26 coltivazioni di contadini ad un prezzo calmierato (indipendentemente da quale sia il prezzo stabilito dal libero mercato). Questa avrebbe potuto essere una buona strategia per aiutare le famiglie contadine ad uscire dalla trappola della povertà se non fosse però, che l’attuale MSP – e tutti quelli adottati prima – non copre nemmeno i costi di produzione che gli agricoltori devono sostenere ogni anno.  Questa non corrispondenza con il dato reale deriva dal fatto che il Governo, nel calcolare il MSP, non ha mai applicato la formula che era stata individuata dagli esperti.  In un suo report del 2004 infatti, la Swaminathan Commission (la Commissione Nazionale degli Agricoltori indiana) ha stabilito che, per poter calcolare equamente il MSP, si sarebbe dovuto tener conto di 3 variabili di costo:  Semi, agenti chimici e lavoro individuale;  Lavoro di tutti i componenti della famiglia;  Affitto od interessi che i contadini ogni anno devono pagare per il proprio terreno o le proprie attrezzature – il che ci dimostra quanto poco sia cambiato dall’epoca della colonizzazione britannica  Il Ministero delle Finanze invece, applica una formula che tiene conto solo delle prime due variabili di costo per nulla prendendo in considerazione i costi di affitto di terreno e/o materiali che spesso sono la vera causa di indebitamento delle famiglie contadine.  Nel disperato tentativo di far sentire le proprie voci, nel 2018 i contadini indiani hanno condotto due proteste pacifiche che hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale per un breve periodo.  A Maharasthra, più di 500.000 contadini hanno marciato con le loro famiglie per 160 km per presentare al Governo le loro richieste. Questa protesta è stata a dir poco singolare perché i contadini hanno marciato di notte, così da non ostacolare gli studenti che l’indomani mattina si sarebbero dovuti recare a scuola per sostenere gli esami.  Nel luglio dello stesso anno poi, i contadini di Tamil Nadu hanno protestato per 40 giorni consecutivi e, nel tentativo di attirare l’attenzione delle autorità locali, hanno

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L’India e le due facce del Land Grabbing

La Repubblica dell’India vive le due facce del Land grabbing in quanto da una parte acquista porzioni di terra all’estero, dall’altra vende la propria terra in nome dello sviluppo economico. In India, il 65% delle persone dipende dalla terra e, allo stesso tempo, l’economia globale vuole sempre più terra per le industrie, per le città, per le infrastrutture e per le piantagioni. In altre parole la globalizzazione e le nuove forme di colonialismo economico stanno portando a un massiccio accaparramento di terre in Asia, in Africa e in America Latina. Per Land grabbing si intende un “accaparramento di terre fertili praticato in violazione di diritti umani senza consenso preventivo da parte delle popolazioni coinvolte e senza la minima considerazione dell’impatto socio-economico e ambientale ed evitando la conclusione dei contratti trasparenti”. Spesso, quando si parla di Land grabbing, si parla di una forma di neocolonialismo agricolo che mette in luce i movimenti finanziari verso gli alimenti e i terreni fertili. In occasione dei fenomeni di Land grabbing da una parte i contadini locali perdono la propria fonte di reddito in quanto non detengono più la proprietà della terra, dall’altra gli attori che acquistano tali appezzamenti utilizzano la manodopera del proprio paese o sfruttano intensivamente il territorio provocando fenomeni di inquinamento. Il Land grabbing in India L’India ha intrapreso uno sforzo su larga scala guidato dallo stato per irrigare e modernizzare l’agricoltura e parallelamente ha dato un grande impulso all’industrializzazione e all’urbanizzazione. Tali tendenze hanno portato all’acquisizione di terreni su larga scala da parte dello stato grazie al Land Acquisition Act del 1894, ovvero una legge sull’acquisizione di terreni che il governo dell’India indipendente trovò conveniente per affrontare la frammentazione delle proprietà terriere. In questo modo il governo ha attuato fenomeni di Land grabbing sul proprio territorio. Si stima che dalla propria indipendenza, avvenuta nel 1947, siano stati  acquisiti o convertiti più di 50 milioni di acri di terra – circa il 6% della terra totale dell’India – e che siano state colpite più di 50 milioni di persone. I proprietari terrieri colpiti venivano pagati poco e in molti non sono mai stati pagati, mentre coloro che dipendevano dalla terra per i mezzi di sussistenza e non erano proprietari sono rimasti senza terra. A ciò si aggiungono gli effetti del programma di aggiustamento strutturale della Banca mondiale del 1991 che ha facilitato la riforma agraria, le attività minerarie liberalizzate, e la costruzione di infrastrutture. Di conseguenza le leggi indiane furono modificate verso una maggiore liberalizzazione tranne per quanto riguarda il Land Acquisition Act con il quale lo stato ha acquisito la terra dai contadini e dai popoli tribali e rivenduta a speculatori privati, società immobiliari, compagnie minerarie e industrie. In questo senso il governo Indiano sta causando enormi problemi dal punto di vista ecologico ma anche per quanto riguarda la sicurezza alimentare e il sostentamento delle comunità rurali. Ad esempio, nel distretto di Uttar Pradesh la società di infrastrutture Jaiprakash Associates sta acquisendo circa 6000 acri di terra per costruire distretti di lusso, strutture sportive e la superstrada Yamuna mettendo così a rischio il terreno di circa 1225 villaggi. I contadini hanno protestato per questa ingiusta acquisizione di terre e sono morte quattro persone durante uno scontro tra manifestanti e polizia il 7 maggio 2011. La prassi vede il terreno acquistato dagli agricoltori a circa 6$ per metro quadrato dal governo, usando il Land Acquisition Act e rivenduto a circa 13.000$ per metro quadrato. Tale dinamica aumenta lo stress del suolo (provocandone il sovrasfruttamento e la conseguente sterilizzazione del terreno) contribuendo alla povertà, all’espropriazione e al conflitto tra le diverse etnie e comunità o minoranze. Quello dell’Uttar Pradesh non è l’unico esempio e si potrebbero ricordare anche le proteste in occasione dell’inizio dei lavori della mega diga Narmada promossa dalla Banca Mondiale o lo sfruttamento intensivo dell’acqua nello stato indiano del Kermala ad opera dell’Hindustan Coca-Cola Beverages, società sussidiaria di Coca-Cola. L’India come attore del Land grabbing all’estero L’India è, insieme alla Cina, la Corea del Sud e l’Arabia Saudita, tra i principali paesi “Land grabbers” per poter coltivare raccolti ed estrarre materie prime. Attualmente la terra è la risorsa più scarsa dell’India e questa rappresenta la fonte di sostentamento per oltre la metà della sua popolazione. Per questo motivo l’India ha utilizzato la copertura della cooperazione Sud-Sud per portare avanti le proprie azioni di Land grabbing. Un esempio è l’accaparramento di terre da parte delle multinazionali indiane in Etiopia, facilitato dai governi di entrambi i paesi, che usano la retorica dello sviluppo mentre emarginano le comunità indigene che sopportano la conseguente devastazione sociale, economica e ambientale. In Etiopia le aziende indiane sono i maggiori investitori nel paese, avendo acquisito più di 600.000 ettari di terra per progetti agroindustriali. Con l’80% della sua popolazione impegnata nell’agricoltura, l’Etiopia ospita oltre 34 milioni di persone cronicamente affamate. Ogni anno, milioni di persone dipendono dagli aiuti  per la propria sopravvivenza. In tale contesto gli accordi di vendita di terra su larga scala con gli investitori indiani sono descritti come una situazione win-win in quanto modernizzerebbero l’agricoltura, porterebbero nuove tecnologie e creerebbero occupazione. La ricerca dell’Oakland Institute contraddice tali affermazioni in quanto la maggior parte di ciò che viene prodotto è costituito da colture di esportazione non alimentari, mentre gli incentivi fiscali offerti agli investitori stranieri privano l’Etiopia di utili preziosi. Inoltre, le promesse della creazione di posti di lavoro rimangono insoddisfatte poiché il lavoro di piantagione nella migliore delle ipotesi offre posti di lavoro a basso reddito. Infine il governo etiope sta usando il suo programma di ricollocamento per spostare con la forza circa 1,5 milioni di indigeni dalle loro case, fattorie e pascoli con lo scopo di far posto alle piantagioni agricole monocolturali. Coloro che rifiutano subiscono intimidazioni, percosse, stupri, detenzioni arbitrarie e rischiano persino la morte. Prospettive e danni sociali Come abbiamo visto l’India vive le due facce del Land grabbing essendo tra i principali promotori di tale dinamica e allo stesso tempo tra i paesi maggiormente colpiti. Tale dinamica ci segnala

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JASPREET SINGH: Le proteste dei contadini indiani e il ruolo della comunità Sikh

In questa puntata di LMTalks, continuiamo a seguire gli sviluppi delle proteste dei contadini indiani ed a discutere della peculiarità della situazione della comunità Sikh.  Nostro ospite è Jaspreet Singh, Vicepresidente della Sikhi Sewa Society – una Onlus nata “con l’intento e la volontà di costruire un ponte tra i valori della cultura Sikh, di quella italiana e di tutte le altre presenti in Europa”.  Jaspreet è nato in India ma si è trasferito in Italia che era ancora un bambino ed attualmente è uno dei membri più infaticabili della diaspora Sikh, incarnando pienamente uno dei valori fondamentali della loro cultura: l’opporsi alle ingiustizie al fianco dei più deboli.  Questo precetto è anche alla base, come ci spiega Jaspreet durante l’intervista, del coinvolgimento della comunità Sikh in prima linea nelle proteste dei contadini indiani attualmente in corso.   Gli stessi infatti, non sono solo tra i promotori delle rivolte ma sono anche coloro che prestano assistenza di ogni genere ai manifestanti – fornendo loro cibo, assistenza medica, beni di prima necessità – tramite le loro associazioni di volontariato.  Prima di addentrarci nel tema del ruolo ricoperto dai Sikh nelle proteste però, ripercorriamo con Jaspreet le tappe che hanno portato allo scoppio delle rivolte ed alla violenta repressione governativa – che non ha risparmiato anche star di Hollywood del calibro di Rihanna, che aveva rilanciato l’hashtag #FarmersProtest in supporto ai manifestanti, portando così le proteste all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale.  A causa del blocco di internet imposto dal governo indiano infatti, non è per nulla semplice per la società civile occidentale reperire notizie attendibili ed aggiornate sugli sviluppi recenti delle proteste e soprattutto sugli abusi e le violenze messe in atto dal governo per reprimere il dissenso.  Jaspreet ci offre dunque un’occasione unica per riuscire comunque a mantenere i riflettori accessi sulla situazione odierna in India – che, ricordiamo per dovere di cronaca, perdura da fine settembre senza che il governo abbia mai acconsentito ad incontrare i manifestanti per aprire un canale di dialogo – e per denunciare il sempre maggiore aggravarsi della repressione governativa, nel quasi assoluto silenzio della comunità internazionale.  Grazie al suo attivismo quale esponente della diaspora poi, riusciamo a fare un breve excursus storico-politico di quali siano stati i motivi alla base delle secolari tensioni tra la comunità Sikh ed il governo centrale indiano, che è arrivato a bollarli di essere “terroristi” pur di mantenere il controllo quasi esclusivo e diretto delle risorse del Punjab – il più ricco e fertile stato indiano e patria originaria dei Sikh. Queste tensioni sono spesso sfociate in violenze e sono alla base di una discriminazione istituzionalizzata, della quale parleremo più approfonditamente in futuro.  In ultimo, discutiamo insieme di cosa sta facendo attualmente la diaspora per supportare attivamente le proteste dei contadini, di quale sarà il loro futuro e del contributo che la società civile in Occidente può dare affinché le rivendicazioni di migliaia di persone vengano udite e le violazioni che il governo indiano pone in essere nei confronti dei suoi cittadini per difendere una riforma agraria fortemente voluta dalle multinazionali occidentali, vengano condannate e giustamente sanzionate.  Cogliamo l’occasione per invitare tutti a far sentire la loro vicinanza ai contadini che stanno manifestando ininterrottamente da più di sei mesi – in condizioni umanamente difficili e sottoposti ad ogni tipo di vessazione – condividendo e diffondendo notizie utilizzando l’hashtag internazionale #FarmersProtest. In questo modo il dibattito verrà quotidianamente alimentato, i riflettori in Occidente rimarranno accesi ed i manifestanti si sentiranno meno soli a combattere contro un interesse economico che mette il profitto di fronte ad ogni standard minimo di rispetto dei diritti umani.  Noi di Large Movements, in collaborazione con la Sikhi Sewa Society, continueremo a seguire da vicino gli sviluppi delle proteste ed a tenervi aggiornati.   Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

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