Atena Daemi per i Diritti Umani in Iran

Atena Daemi sognava la fine della pena di morte nel suo paese, L’Iran, e auspicava a un rispetto maggiore dei diritti umani. Per questa ragione è stata incarcerata, picchiata e detenuta in isolamento. Oggi racconteremo la storia di questa donna coraggiosa e vedremo insieme la situazione dei diritti umani in Iran.

I Diritti Umani in Iran

Atena Daemi è stata incarcerata per la sua lotta a favore dei diritti umani che in Iran, suo paese natale, spesso non vengono rispettati. Secondo il più recente rapporto delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani, il paese soffre di gravi discriminazioni di genere, una percentuale troppo elevata di detenzioni arbitrarie e problematiche relative all’applicazione della pena di morte. Vediamo nello specifico quali sono i problemi.

Per quanto riguarda la pena di morte e le detenzioni arbitrarie, nel paese sono state registrati numeri elevati di esecuzioni anche per crimini che non rientrano nelle categorie più gravi. Per categorie gravi la Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite intende solo quelli riguardanti omicidi intenzionali. Le esecuzioni sono state spesso il seguito di processi tenutisi in modo iniquo e con l’uso della tortura al fine di estrarre una confessione fittizia: in particolare per circostanze con connessioni alle proteste antigovernative che hanno avuto luogo nel paese negli ultimi anni. Il caso più emblematico è quello di Navid Afkari che è stato segretamente giustiziato dopo aver partecipato nell’agosto 2008 a delle proteste nella città di Shiraz. Il relatore speciale delle Nazioni Unite inviato in Iran, si è detto preoccupato dal fatto che queste esecuzioni sembrano celare una volontà, da parte del governo, di reprimere il dissenso nel paese.

Il rapporto dell’ONU sottolinea l’elevato numero di esecuzioni ai danni di minorenni: tra il 1° gennaio e il 1° dicembre 2020 sono stati giustiziati 3 minorenni e più di 85 si trovano nel braccio della morte. In Iran il Codice penale prevede la pena di morte per le ragazze con più di 9 anni di età e per i ragazzi con più di 15 anni di età in caso di crimini quali l’omicidio e l’adulterio.

I diritti delle donne sono fortemente ostacolati non solo dalla legge ma anche dalle abitudini e dalle convenzioni sociali. Nonostante i diritti delle donne siano codificati negli articoli 20 e 21 della costituzione, vi è discriminazione sui diritti di matrimonio, divorzio e custodia parentale. Una donna iraniana non può sposarsi senza il permesso del padre o del nonno paterno se il matrimonio in questione è il primo. È illegale il matrimonio tra una donna musulmana e un uomo non musulmano e il matrimonio con un uomo di nazionalità non-iraniana deve ricevere il consenso del governo.

Le ragazze possono sposarsi legalmente fin dai 13 anni ma ci sono stati casi di bambine sposate anche in età più giovane con il consenso paterno e del giudice. Le donne sposate rimangono sotto l’autorità del marito che può proibire loro di lavorare, di avere un passaporto o di recarsi all’estero. Per quanto riguarda il divorzio, il marito ha diritto assoluto a richiedere il divorzio mentre la moglie può richiederlo sono in specifici casi.

Infine, la libertà di pensiero e di manifestazione è limitata nel paese. I difensori dei diritti umani e i loro avvocati vengono quotidianamente vessati. Tra i casi più famosi quello di Golrokh Iraee Ebrahimi e della stessa Atena Daemi. Arrestate entrambe per aver condannato le esecuzioni arbitrarie dei prigionieri politici e per aver cantato una canzone commemorativa, Iraee fu rilasciata nell’aprile 2019 mentre Daemi resta in carcere. Oltre agli arresti vi è anche un dilagante fenomeno di intimidazione dei famigliari degli arrestati.

L’uso eccessivo della forza e le interruzioni delle telecomunicazioni durante le manifestazioni è prassi comune. Il relatore speciale ONU riporta uno shutdown di internet senza precedenti, richiesto dal governo durante le manifestazioni del novembre 2019. In generale il governo continua a censurare i siti internet e le piattaforme di social media. Telegram, Twitter, Facebook e YouTube sono state bloccate in modo permanente e risultano attualmente inaccessibili.

La storia di Atena Daemi

Atena Daemi si è battuta con coraggio contro le sopramenzionate infrazioni dei diritti umani, e soprattutto contro la pena di morte, le detenzioni arbitrari e per i diritti delle donne e dei bambini. Fu arrestata il 21 ottobre 2014 e dopo 86 giorni di interrogatori fu condannata a 14 anni di reclusione per i reati di: “propaganda contro il sistema”, “adunata sediziosa e collusione contro la sicurezza nazionale”, “blasfemia e offesa al Capo Supremo” e “occultamento di prove”. Durante il processo furono usate come prove i suoi post su Facebook in cui si batteva contro la pena di morte. Il 28 settembre 2016, dopo essere stata rilasciata su cauzione, vede la sua pena ridotta a 7 anni. Viene nuovamente arrestata il 28 novembre 2016 e dopo aver presentato una denuncia contro il “Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica” (IRGC) per uso eccessivo della forza, viene processata il 19 dicembre 2016 con le accuse di: “insulto contro il leader supremo e gli ufficiali di stato”,” “propaganda contro il sistema” e “resistenza all’arresto”. Viene condannata e le vengono aggiunti 3 mesi e un giorno alla sua pena di 7 anni. Alla medesima pena vengono condannate anche le sue sorelle, Ensieh e Hanieh, che vengono però assolte 54 giorni dopo. Il 21 dicembre 2019 Daemi e altri carcerati organizzano un sit-in come protesta contro le repressioni e la risposta dello stato contro le manifestazioni del novembre 2019. In seguito a questo evento fu trasferita in isolamento il 28 dicembre 2019 e vi rimase fino al 8 gennaio 2020. Inoltre, fu condannata a 2 ulteriori anni di prigione e 74 frustrate. Oltre alla solita accusa di “propaganda contro il sistema” fu accusata di “interruzione dell’ordine carcerario” per aver ballato e festeggiato durante la festa di Ashoora. Daemi si è rifiutata di andare al processo dichiarando che tali accuse sono infondate e basate su bugie.

Le condizioni di salute di Atena Daemi durante la sua permanenza in carcere sono peggiorate notevolmente. Dopo lo sciopero della fame di 55 giorni che ha fatto nel 2017 per protestare contro le condanne ricevuta da lei e dalle sue sorelle, ha cominciato a tossire sangue e ad avere problemi di perdita di peso, nausea, vomito e dolore ai reni.  Amnesty International in quell’occasione chiese che venisse trasferita in ospedale e i medici stessi dichiararono che era necessario un ricovero immediato. Nonostante ciò, il trasferimento in ospedale le fu negato dalle autorità della prigione. La salute di Daemi si è aggravata ulteriormente dopo il secondo sciopero della fame, portato avanti per 22 giorni nel 2018 per protestare contro il suo trasferimento nella prigione di Shahr-e Rey. La situazione si è aggravata talmente tanto che è intervenuto anche il presidente della sottocommissione per i diritti umani del Parlamento Europeo, Pier Antonio Panzieri, il quale si è detto allarmato dalla crudeltà con cui veniva trattata Daemi e ha chiesto alle autorità iraniane di prendere provvedimenti in merito. Ad oggi si sa che Atena Daemi potrebbe soffrire della patologia della sclerosi multipla ma nonostante sia stato dichiarato da un medico della prigione di Gharchak che la donna ha un immediato bisogno di una risonanza magnetica e della visita di uno specialista, tali provvedimenti non sono stati ancora presi. È noto purtroppo che una delle tecniche di intimidazione contro i prigionieri usata in Iran è proprio la negazione delle cure mediche.

Noi di Large Movements teniamo sotto osservazione la situazione di Atena Daemi e crediamo sia importante che si abbia conoscenza della sua storia e della sua attuale condizione. I Diritti Umani sono essenziali per la vita di ogni essere umano e il loro rispetto dovrebbe essere fondamento di ogni azione di governo. Atena Daemi ha lottato per garantire a sé stessa e a tutto il popolo iraniano tali diritti e per questo, noi crediamo, che la sua storia vada raccontata.

Liberazione

Atena Daemi è tornata in libertà nella serata del 24 gennaio 2022. Lo riporta Amnesty International. Noi di Large Movements siamo molto felici di questi sviluppi positivi e auguriamo ad Atena Daemi tutto il meglio.

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Il progetto GAP. Il peso nella politica interna turca e il ruolo dell’Unione Europea

Il Southeastern Anatolian Project, meglio conosciuto come GAP (Güneydoğu Anadolu Projesi), è una rete di infrastrutture in costruzione sui fiumi Tigri ed Eufrate con la doppia funzione di produrre energia elettrica e realizzare dei sistemi di irrigazione per l’area circostante. Essendo l’argomento già stato preso in analisi su Large Movements, l’intento di questo articolo è di integrare alcuni elementi leggendo il progetto sotto tre lenti principali. Quella nazionale legata alla dimensione energetica e al ruolo che il progetto riveste nella politica interna turca. Quella internazionale provando ad indagare il ruolo dell’Unione Europea nel promuovere o limitare lo sviluppo del progetto. Ed infine quella locale vedendo da un lato il caso specifico della diga di Ilisu, dall’altro i movimenti di opposizione che si sono dati contro questi progetti. Questa terza componente verrà approfondita successivamente. Caratteristiche del progetto e stato di avanzamento Nonostante progetti relativi allo sfruttamento delle acque dei fiumi Tigri ed Eufrate abbiamo una storia lontana diversi decenni, il GAP è stato lanciato solamente nel 1989 non unicamente come piano per lo sfruttamento delle risorse dei due fiumi, ma come vero e proprio “progetto di sviluppo socio-economico integrato e multisettoriale”.Il progetto dunque, prevederebbe la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche e impianti di irrigazione (Figura 1) che dovrebbero accompagnare lo sviluppo socio-economico dell’area in un contesto di forte crescita economica e demografica. Alla messa in funzione della Diga di Ataturk nel 1993, è seguita la realizzazione di altre infrastrutture, ultima delle quali la diga di Ilisu inaugurata nel 2020, la terza più grande di tutto il progetto. La Tabella 1 riporta dati aggiornati al 2015 e ricostruisce in parte lo sato di avanzamento dei lavori. Incrociando queste informazioni con quelle fornite dal sito ufficiale si evince che almeno dieci impianti sono attualmente in funzione. A tal proposito è necessario mettere in evidenza un elemento di rilievo rispetto alla possibilità di reperire delle fonti in materia. Dopo una scrematura delle principali fonti accademiche, ufficiali e divulgative risulta importante prendere nota del fatto che i dati relativi ai costi di produzione, ai finanziamenti, alle aziende coinvolte e ad aspetti più tecnici dei progetti stessi sono solo parzialmente disponibili in relazione ad ogni singola infrastruttura e spesso sono estremamente frammentati e poco aggiornati. Se da un lato l’ipotesi della differenza linguistica è sicuramente valida come potenziale limite per il reperimento di questi dati, dall’altro è da evidenziare come dalle fonti governative non vengano fornite tutte le informazioni necessarie ad una comprensione complessiva del progetto. Preso atto di questa difficoltà, nel prossimo articolo si prenderà in esame il caso specifico della Diga di Ilisu per provare a fornire un quadro più dettagliato. Il ruolo dell’idroelettrico nel mix energetico turco Il bisogno da parte del governo turco di promuovere con tanta insistenza una rete di infrastrutture del genere trova origine in valutazioni e obiettivi non solamente di carattere energetico ed economico, ma anche di carattere geopolitico sia sul piano interno che internazionale. Il fiume Eufrate rappresenta più del 19.4% del potenziale nazionale di energia idroelettrica prodotta (433 GWh l’anno), mentre il Tigri corrisponde all’11.2%. Il GAP una volta completato dovrebbe essere in grado di sfruttare 27.419 GWh/y di questo potenziale, ovvero il 10.9% dell’elettricità annuale prodotta in Turchia nel 2014. Comparando queste informazioni con i dati del 2019 dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, la Turchia fa affidamento sull’energia idroelettrica per la produzione di circa il 30% dell’elettricità (Figura 2). La restate parte è coperta in larghissima misura da gas naturale e carbone, due risorse prevalentemente importate dall’estero e che dunque sul piano strategico garantiscono meno sicurezza e stabilità. La totale messa in funzione del GAP coprirebbe un terzo di questo 30%, a dimostrazione della centralità che riveste nello sviluppo economico e nella strategia politica della Turchia contemporanea. Rafforzare l’idroelettrico, in maniera indiretta vorrebbe dire diminuire parzialmente il peso delle importazioni di gas naturale e carbone, riducendo in questo modo la dipendenza da attori internazionali come Russia, Azerbaijan e Iran. Un elemento non da poco per una nazione che sta facendo di tutto per imporsi come attore egemone sul piano regionale. Allo stesso tempo, gli effetti sociali ed ambientali avrebbero ripercussioni soprattutto sulla popolazione locale dell’area, fatta prevalentemente di curdi, i quali vengono percepiti come una minaccia da parte del governo centrale. Così si raggiungerebbe l’ulteriore obiettivo di indebolire, senza l’utilizzo diretto di armi, un fronte di resistenza che soprattutto dallo scoppio della guerra in Siria ha avuto più volte la capacità di accendere i riflettori su casi di aggressione militare e violazioni dei diritti umani. Il non intervento dell’UE Per comprendere qual è stato il ruolo delle potenze Europee nella realizzazione del GAP è necessario applicare due lenti di lettura. Da un lato c’è l’elemento economico, dettato soprattutto dal voler incentivare una spinta alla crescita e allo sviluppo delle regioni più ad oriente. Dall’altro ci sono la dimensione ambientale e sociale. Nonostante tali progetti vengano promossi come “energia pulita” e infrastrutture sostenibili, gli effetti sul piano ambientale e sociale sono enormemente destabilizzanti. La realizzazione di una quantità così imponente di dighe sta determinando numerosi casi di inondazioni e desertificazioni che oltre ad avere degli effetti negativi sulla biodiversità dell’area, ne hanno anche sulle popolazioni che vi abitano spesso costrette a migrazioni forzate di massa. Per l’intero progetto si tratterebbe di circa 200.000 persone sfollate. Rimanendo sul ruolo che ha rivestito l’UE, il tutto va letto all’interno di un quadro che ha visto almeno fino al 2016 una forte pressione da parte turca per essere accettata in quanto membro dell’Unione, e dunque nel bisogno di rientrare all’interno di tutta una serie di parametri sia di carattere economico, che sociale e ambientale. Proprio in questa direzione, se si risale all’origine del progetto, nel 1996 si sono aperti tra UE e Amministrazione del GAP dei negoziati. Durante queste trattative l’Unione ha deciso di finanziare con 47 milioni di euro una parte del “Programma di sviluppo regionale del GAP”, sulla carta un progetto volto a “ridurre ineguaglianze, stimolare crescita economica, e tutelare la protezione del patrimonio ambientale e

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Muzoon Almellehan

“Non smettere mai di imparare e di sognare. Non perdere mai la speranza.” La piccola Muzoon è nata l’8 aprile 1999 da Eman e Rakan Almellehan nella città di Dara’a, Siria, dove il papà lavorava come insegnante. Dara’a è stata teatro delle prime proteste contro il regime e di alcune delle prime repressioni contro la popolazione locale. Infatti, subito dopo lo scoppio della guerra civile siriana, la loro città fu assediata dalle forze governative. Due anni dopo, nel 2014, la città venne presa dalle forze islamiste, questo portò ad un inasprimento della guerra che spinse Muzoon e tutta la sua famiglia a scappare verso la Giordania. «Anche da bambina, sapevo che l’istruzione era fondamentale per il mio futuro. Quando ho dovuto abbandonare la Siria, gli unici effetti personali che ho portato con me sono stati i miei libri di scuola» racconta. Ciononostante, Muzoon è stata anche tra le prime – e le più giovani – rifugiate siriane a operare per realizzare un cambiamento. Il primo campo dove arrivarono fu quello di Za’atari, nei 18 mesi trascorsi lì, la piccola Muzoon cominciò ad occuparsi del diritto all’istruzione per i bambini, ed in primo luogo per le ragazze. Infatti, Muzoon si iscrisse alle scuole all’interno del campo, ma presto si accorse che molte ragazze rifugiate – alcune di 13 e 14 anni – interrompevano le lezioni e si sposavano. “Da rifugiata, ho visto cosa succede quando i bambini sono costretti a un matrimonio precoce o al lavoro manuale. Essi restano esclusi dal percorso formativo e perdono la possibilità di avere un futuro.” Racconta. “Ero fortunata perché mi trovavo in un campo dove c’erano delle scuole e perché i miei genitori credevano nell’istruzione“. Malgrado la sua età, Muzoon iniziò a girare di tenda in tenda per i campi, per parlare con i genitori del valore dell’istruzione e dei rischi del matrimonio precoce. In ogni occasione, esortava i genitori a rimandare le figlie a scuola. “Le ragazze devono ricevere un’istruzione”, dice Muzoon. “È la migliore protezione per loro. Se una madre non è istruita, come può aiutare i suoi figli? Se i giovani non sono istruiti, chi ricostruirà il nostro Paese?”. Le organizzazioni umanitarie cominciarono ad interessarsi al lavoro di Muzoon, per questo divenne una Good Will Ambassador di UNICEF. E quando il premio Nobel per la pace e Asia Game Changer, Malala Yousafzai andò a visitare il campo di Za’atari, fece di tutto per trovare Muzoon. Malala aveva sentito parlare del suo lavoro e i compagni di classe di Muzoon le raccontarono di essere stati ispirati e di essere rimasti a scuola grazie a Muzoon. Nel 2015, Muzoon e la sua famiglia, dopo aver rinunciato a vari reinsediamenti verso Canada e Svezia per motivi logistici, riuscirono finalmente a trovare rifugio nel Regno Unito nell’ambito di un piano annunciato nel mese di settembre da David Cameron con il quale il governo britannico prevedeva di accogliere 20.000 rifugiati siriani. Muzoon e la sua famiglia, riuscirono, quini a trasferirsi a Newcastle, dove tutti i figli della famiglia Almellehan frequentano la scuola di Kenton. Oggi Muzoon ha 23 anni ha terminato la scuola secondaria, ed ha finalmente realizzato il suo sogno di entrare all’università dove studia Scienze Politiche. Ma soprattutto, continua ad impegnarsi per difendere tutte le ragazze a cui è negata l’istruzione nel mondo, in particolare le sue sorelle siriane. “Abbiamo bisogno di istruzione, perché la Siria ha bisogno di noi“, dice Muzoon. “Senza di noi, chi porterà la pace?”. Noi di Large Movements condividiamo il pensiero di Muzoon ed abbiamo ritenuto importante condividere con voi la sua storia perché ci rendiamo conto di quanto, molto spesso diamo per scontato quello che abbiamo sotto il nostro naso. L’istruzione è una di quelle cose che molto spesso vengono date per scontato, quando, specialmente in un periodo così particolare, dovremmo tutti ricordarci che l’istruzione per tutti, ma soprattutto per tutte le donne e bambine di questo mondo sia fondamentale non solo per il raggiungimento dell’eguaglianza di genere, ma anche, e soprattutto, come dice Muzoon, per la loro stessa protezione e affinché in questo modo, anche le donne possano essere incluse come voce fondamentale all’interno delle trattative e dei processi di pace. Se ti è piaciuto l’articolo, CondividiCi!

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Yemen

La ragazza dello Yemen

Le mura rosse intorno alla città terminano in una maestosa porta rosso e nera con le sue colonne in rilievo. Li tantissimo tempo fa vi erano instancabili sentinelle che regolavano l’entrata e l’uscita dalla città. Oggi, invece, la gente entra ed esce  in un interminabile via vai. Li, poco dopo la porta, ci sono i mercatini di Sana’a che si estendono tra le strade e i vicoli sovrastati della case architettoniche di mattone e decorate con magnifici ghirigori bianchi. Camminando ti puoi perdere e il tuo sguardo non sa dove dirigersi. La piazza è affollata, tutti parlano, scherzano e di sottofondo si sente la musica che si leva  verso il cielo. È così da secoli in quel museo a cielo aperto in cui commercio, architettura e società si fondono e vivono. Li si vende qualsiasi cosa: il vero argento yemenita che da vita ad enormi piatti, gli specchi, il rame, l’erba medica, l’hennè o il legno. Si vende di tutto, basta che sia a buon prezzo. Girando per il mercato puoi vedere chi si ripara dal sole sotto le tende blu o gialle, chi si prova la giacca nel mercato dei vestiti, chi osserva il muro di pugnali tradizionali ornati di argento e pietre preziose o chi cerca da mangiare nel mercato alimentare con i suoi altissimi sacchi di cereali. La via centrale è una strada lunga che porta alle principali città del sud, è la porta dello Yemen.  Ma a chi è semplice non importa di questa imponenza, sta lungo la via a prendersi un caffè stretto ai suoi amici. In quel tutto è possibile trovare anche un ristorante italiano frequentato anche da italiani. È un posto unico al mondo, è “una venezia selvaggia sulla polvere”, è introvabile nel mondo un posto simile e per qualcuno quel posto è casa. Sono tre anni che Nada è lontana da casa e ci racconta di questo posto seduta intorno a un tavolino di metallo vicino alla metro di valle aurelia a Roma. Questa ragazza ci dice che è importante dire qualcosa di bello del suo paese, in molti non sanno dove è lo Yemen e chi lo conosce, se lo conosce, lo conosce solo come una delle pagine terribili della storia del nostro pianeta. Le notizie che abbiamo sono filtrare tanto da sapere solo che c’è una guerra, che c’è una terribile crisi umanitaria o che molti paesi occidentali vendono le armi all’Arabia Saudita per proseguire la guerra. Armi usate per colpire mercati, scuole o ospedali. Ma nessuno si preoccupa di dire cosa è lo Yemen al di la di questo, chi sono gli yemeniti e come era prima. Urliamo, tante volte, di non pensare ai numeri ma alle persone, però non sappiamo la storia di queste persone o dei luoghi da cui provengono. Nada dice che spesso la gente la guarda stupefatta e dice “c’è una ragazza dallo Yemen che sa l’inglese!”, “c’è una ragazza dallo Yemen che può vestire così!” o “c’è una ragazza dallo Yemen che è andata all’università!”. Sono stupefatti perché ciascuno pensa che tutte le donne in Yemen stanno in cucina, puliscono o non hanno una vita. Pensano che non ci sia istruzione: forse è vero che il 70% della popolazione non va all’università ma c’è un 30% molto forte che vuole cambiare tanto contro tutto quello che sta accadendo. Prima della partenza ricorda che in un mese la città è stata 15 giorni senza luce, la mattina si poteva fare tutto mentre di sera si doveva stare con le candele. Nonostante questo pensa che le persone in Yemen si abituano. Lo Yemenita è una persona semplice: se può avere un buon cibo tutti i giorni è contento e se mangiano un cibo normale dopo un po di giorni, sono sempre contenti. Si adattano. Basta pensare al fatto che gran parte della popolazione yemenita ha risposto costruendosi pannelli solari dall’immondizia come reazione alla mancanza di corrente. Ogni volta che chiama a casa dice ai suoi amici che le dispiace, se vogliono qualcosa, ma la risposta è “ma stiamo bene!”. Ci dice che sono contenti perché sono a casa, non importa se la vita è più costosa adesso. La vita, ovviamente, non è come prima. Occorre pensare tanto a come spendere lo stipendio con cui ora puoi fare molto di meno. Occorre pensare alla famiglia. Spesso le bombe si sentono vicine, c’è questa paura costante. Però la famiglia è li, gli amici sono li e la paura, con le persone care vicine, è diversa. I primi giorni del conflitto la paura era tremenda. Tutti le notti lei e sua madre non dormivano, c’erano giorni in cui non pensava di vedere la mattina. Apriva la finestra e vedeva la bomba li vicino. Sentiva tutto. Cominciava a pregare l’arrivo del giorno dopo. Al mattino però era un altro giorno, usciva di casa e parlava con gli amici. Come se nulla fosse. Gli yemeniti sono persone forti e semplici, si adattano. Ma alle volte la paura è più forte, il rischio è grande e la volontà di proteggere la famiglia ti costringe a scappare. È cosi che Nada e dovuta andare via con la madre. Pensa a quando lavorava li, al fatto che aveva una casa, dei soldi e una propria macchina. Spesso si è domandata “perché me ne sono andata?”, “perché chi non aveva un lavoro invece è rimasto?”. Certo, molte cose sono cambiate in meglio ma Nada dice che qui si sente come in guerra: “Quando arrivi in un altro paese, con posti nuovi e una nuova lingua, vivi una situazione di emergenza da sola”. Li aveva i suoi amici, qui deve iniziare tutto da zero. Non è la lingua ma sono gli affetti. Per farsi degli amici, per farsi una famiglia, per avere qualcuno che pensi a te o che si preoccupi di te, ci vuole tempo. Non si fa tutto in un anno o due, ci vuole tempo per fidarsi di qualcuno. Senza una stabilità è difficile riprendere gli studi o riprendere una patente o

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Diritti LGBTQ+ in Egitto: niente di buono all’ombra delle piramidi

Le persone LGBTQ+ egiziane vivono una condizione estremamente drammatica: lasciate sole a fronteggiare le istituzioni, immerse in un contesto conservatore che le lascia ai margini della società. Negli ultimi anni, inoltre, quella che era una generale tendenza da parte dello Stato alla discriminazione, laddove possibile (non esistendo, in Egitto, una legge che punisca il “reato di omosessualità” o leggi affini), si è trasformato in un vero e proprio atteggiamento persecutorio attraverso norme emanate appositamente per colpire le minoranze sessuali. Senza il riconoscimento delle unioni per persone dello stesso sesso, senza una disciplina per l’omogenitorialità, senza tutele e politiche in favore delle persone transgender e delle altre minoranze sessuali, l’Egitto è ora più che mai un Paese profondamente avverso alla comunità LGBTQ+. Quadro Legislativo e Impatto nella Società Civile Come è stato già detto, il Codice Penale egiziano non accoglie al suo interno uno specifico divieto per le relazioni omosessuali o il travestitismo. Fino al 2000, le azioni contro le persone queer egiziane sono state portate avanti impugnando la legge n. 10 del 1961, la “legge sulla depravazione”, che prevede “pene fino a 17 anni di carcere per la pratica abituale della depravazione”. È tuttavia col nuovo millennio che lo Stato egiziano inaugura una serie di meccanismi legali basati su giurisprudenza e interpretazioni delle norme attraverso i quali sferrare colpi alla comunità LGBTQ+. Si afferma, infatti, la pratica della raccolta di prove online, ampiamente messa in atto dalle autorità del Paese. In pratica una divisione speciale del Ministero dell’Interno, la Direzione per la Protezione della Morale Pubblica, crea apposite trappole online su app o siti d’incontri per avere in seguito il pretesto per perseguire penalmente chiunque vi cada dentro. È in quegli anni di rinnovata intolleranza verso le minoranze sessuali che si sviluppa il caso dei Cairo 52: 52 uomini arrestati nel maggio del 2001 a bordo del nightclub galleggiante Queen Boat, ancorato sul Nilo al Cairo. Gli uomini, dichiaratisi tutti innocenti, si trovarono loro malgrado al centro dell’attenzione mediatica nazionale –  con giornali e riviste che pubblicarono i loro nomi e gli indirizzi di casa – e internazionale – con diverse ONG, membri del Congresso statunitense e le Nazioni Unite che denunciarono la scorrettezza dei procedimenti messi in atto. Quegli uomini, infatti, furono costretti a subire percosse ed esami fisici atti a “dimostrare la loro omosessualità”, rimanere per ore in piedi in celle anguste senza letti ed altre privazioni dei diritti umani. Il processo, conclusosi nel marzo 2003, portò alla condanna a 3 anni di prigione per 21 di loro, mentre i restanti vennero rilasciati. Questo forte atteggiamento discriminatorio da parte delle Istituzioni ha subito un ulteriore slancio con la presidenza di Al-Sisi, iniziata nel 2014. Secondo quanto riportato dall’Egyptian Initiative for Personal Rights, che è fra le poche realtà in Egitto a riconoscere i diritti LGBTQ+, fra il 2000 e il 2013 gli arresti legati all’omosessualità sarebbero 14. Dal 2013 al 2017 la media annuale sale a 66 arresti, con picchi di 75 nel 2017 e 92 nel 2019. Da marzo 2020, la situazione delle persone LGBTQ+ egiziane è ulteriormente peggiorata. Da questo momento in poi, i casi riguardanti le minoranze sessuali sono stati ricondotti alle violazioni della legge sulla criminalità informatica, con un consequenziale inasprimento delle multe e delle pene. Questa disciplina, infatti, dal 2019 è di competenza dei tribunali economici e si trova all’interno di un ambito in cui le definizioni sono molto vaghe, ambigue, aperte a più interpretazioni, la maggior parte delle quali usate a sfavore della comunità LGBTQ+. Se prima le condanne per depravazione si risolvevano in multe da 300-400 lire egiziane o reclusioni dai 3 ai 6 mesi, le nuove norme prevedono sanzioni fino a 100 mila lire egiziane e pene detentive di due anni minimo, come spiega Afsaneh Rigot, ricercatrice ed esperta in dati digitali e comunità LGBTQ+, che aggiunge: “Il quadro repressivo sempre più sofisticato e creativo che l’Egitto usa per criminalizzare la comunità LGBTQ+ minaccia non soltanto gli egiziani, ma anche tutte le persone LGBTQ+”. Percezione e Status Sociale Un quadro legislativo repressivo come quello appena descritto non può far ben sperare sul trattamento che le persone LGBTQ+ ricevono in Egitto e infatti le minoranze sessuali egiziane sono estremamente marginalizzate all’interno della società. Questa avversione della popolazione egiziana, abbracciata in toto dalle istituzioni statali, affonda le sue radici nel conservatorismo di matrice religiosa islamica e cristiana (le due confessioni principali del paese). Il pretesto principale che viene invocato a giustificazione della persecuzione in atto verso la comunità LGBTQ+ è infatti quasi sempre la preservazione degli usi e della morale del Paese che sono sempre il riflesso dei costumi religiosi imposti dall’Islam e dal Cristianesimo. Non è sempre stato così però. L’Egitto è stato la casa di una delle più grandi e avanzate civiltà del mondo antico che ha lasciato alle sue spalle maestose tracce del suo passaggio a perenne monito dell’ingegno e della creatività umana. Fra queste ritroviamo, purtroppo, poche testimonianze di come venisse vissuta l’omosessualità presso gli antichi egizi ma quello che ci è arrivato ci permette di fare alcune speculazioni: il ritrovamento di un cumulo tombale dedicato a quelli che sembrano in tutto e per tutto due amanti uomini, la presenza di personaggi e comportamenti omosessuali nella mitologia con le divinità Seth e Horus più altre testimonianze storiche più o meno affidabili sulle tendenze sessuali di alcuni faraoni (Pepi II nello specifico) sono tutti fattori che ci portano a dedurre che l’omosessualità di per sé non fosse condannata e fosse anche vissuta senza particolari preoccupazioni. Una condanna, al massimo, era riservata al partner passivo all’interno della relazione sessuale per aver “rinunciato” alle sue prerogative maschili ed essersi così “abbassato” al livello femminile, un atteggiamento che fa capo a una visione delle relazioni interpersonali più maschilista e patriarcale che esplicitamente omofoba. Al di là della sua origine, l’odio omofobico e transfobico è notevolmente presente nella società egiziana, perfettamente integrato fra i meccanismi che ne regolano il funzionamento. Se abbiamo già visto, da un lato, l’atteggiamento delle istituzioni, dall’altro troviamo i media egiziani che, in accordo con la linea seguita dal governo,

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Donna, vita, libertà: la lotta delle donne iraniane è la lotta di tutte

Risale allo scorso 16 settembre l’omicidio di Mahsa Amini, 22 anni, a causa delle percosse subite dopo un fermo da parte della Polizia Morale iraniana (in inglese Islamic Guidance Patrol). La ragazza curda, a Teheran come turista con la famiglia, era stata fermata il 13 settembre perché, a detta degli agenti, non indossava correttamente il velo. È morta tre giorni dopo. Da allora, l’Iran è scosso da proteste guidate dalla società civile, e centinaia sono state le manifestazioni attraverso il globo e le dimostrazioni di sostegno della comunità internazionale alla popolazione e alle donne iraniane. Large Movements è stata a quella di Roma, il 1° ottobre, e le foto qui riportate dimostrano la rabbia e forza che hanno guidato la marcia attraverso la capitale. A quasi due mesi dalla morte di Mahsa, la popolazione iraniana è ancora in tumulto e la repressione delle proteste non accenna ad arrestarsi. È complesso ritracciare l’ordine degli eventi accaduti nelle scorse settimane. Varie notizie sconcertanti si susseguite, tra cui la temporanea scomparsa dell’atleta Elnaz Rekabi, apparsa a Seoul senza hijab durante una gara di arrampicata – a quanto pare, per errore – e rivista a Teheran qualche giorno dopo aver interrotto ogni contatto con famiglia e amici. Questo articolo offre un riassunto della vicenda per ribadirne la rilevanza, che oltrepassa il momentum e i confini geografici, ed esprime il pieno sostenimento di Large Movements alle donne iraniane nella loro (e nostra) lotta per l’auto-determinazione. Breve storia del velo in Iran In linea con i principi della sharia già presenti in altri paesi, il governo iraniano ha reso l’hijab obbligatorio dopo la Rivoluzione Islamica del 1979. Dopo una prima fase di dichiarazioni dell’Ayatollah Khomeini ma nessuna misura a formalizzare l’imposizione, il Parlamento iraniano istituzionalizzò le raccomandazioni con un decreto emesso nel 1983. Così come altre Repubbliche Islamiche, l’Iran basa la propria posizione sul velo sui testi sacri musulmani, tra cui il Corano e gli Hadith, nonostante sia oggetto di dibattito se queste scritture prescrivano realmente, e se sì quale, un codice di abbigliamento per le donne. Questo tipo di editto, insieme a tutti gli altri che prescrivono un comportamento “appropriato” secondo la legge islamica, viene fatto applicare dalla cosiddetta “polizia morale” Gasht-e Ershad. Il corpo di polizia è nato nel 2005 formalizzando le strutture paramilitari religiose concepite in principio per combattere nella guerra in Iran. Ad oggi, gli agenti della polizia morale pattugliano le strade e solitamente rilasciano ammonizioni verbali in presenza di irregolarità – di fronte a un velo che non copre tutti i capelli, trucco troppo vistoso o gonne troppo corte. Proprio il 15 agosto scorso, il presidente iraniano Ebrahim Raisi aveva imposto nuove sanzioni più stringenti e dure punizioni per le donne che non rispettano il codice di condotta islamico, di fatto allargando ulteriormente i poteri della polizia morale. Tuttavia, spesso le donne fermate vengono prese in custodia e detenute, per poi in seguito essere inviate in “centri di ri-educazione”, dove seguono ore di lezioni sulla morale islamica. Il rilascio avviene poi in presenza di un parente stretto di sesso maschile, dopo aver firmato una dichiarazione secondo la quale, in futuro, l’offesa non sarà ripetuta. Mahsa Amini: l’ultima goccia per la società civile iraniana Apparentemente, questo è quello che sarebbe dovuto succedere anche a Mahsa: un centro di “correzione”, e poi il rilascio. Eppure non sono rare le denunce di abuso da parte degli agenti in seguito al fermo, di cui Mahsa è stata un vittima. Il 13 settembre, Mahsa Amini viene sequestrata per “uso improprio del velo”. È costretta ad entrare in un furgone della polizia morale dove viene percossa dagli agenti stessi, secondo alcuni testimoni oculari. Qualche ora dopo, alla sua famiglia viene comunicato che Mahsa è stata trasportata in ospedale in seguito ad un attacco cardiaco. Dopo tre giorni in coma, la ragazza di 22 anni è deceduta. La famiglia si è opposta da subito alla versione ufficiale della vicenda, spiegando che Mahsa non aveva alcun problema di salute che potesse spiegare un attacco di cuore improvviso. Il suo decesso ha fatto da scintilla accanto a una miccia, portando la società civile già stremata da un regime oppressivo in cui spesso attiviste subiscono ripercussioni per il proprio ruolo critico nei confronti di esso, a irrompervi contro, scatenando proteste che si sono sparse per tutto il Paese. A questo si è aggiunta l’arresto della giornalista Niloofar Hamedi dopo aver postato una foto dei genitori di Mahsa abbracciati in ospedale, dopo aver appreso del decesso della figlia. Le proteste hanno invaso le strade di Teheran e del resto del Paese qualche giorno dopo, specialmente nel Kurdistan iraniano, regione da cui proveniva Mahsa. Tantissime donne hanno manifestato il proprio dissenso togliendosi il velo o bruciandolo. Uno dei gesti più profondi e simbolici di queste proteste è stato il pubblico taglio di capelli da parte delle partecipanti, in ricordo di Mahsa e contro la Guida Suprema del Paese, Ali Khamenei. La risposta del governo iraniano è stata di reprimere violentemente i manifestanti: l’ONG Iran Human Rights, che ha seguito l’andamento degli scontri tra civili e forze dell’ordine, riporta che almeno 326 persone, di cui 43 minori, sono state uccise durante le insurrezioni. Due entità che hanno partecipato alle proteste sono particolarmente rilevanti: i corpi studenteschi, sia universitari che liceali, e il movimento delle donne del Kurdistan (KJK), mostrando l’intersezione indissolubile tra movimenti femministi, educazione e nuove generazioni come parti fondamentali e imprescindibili del cambiamento sociale contemporaneo. Al grido di Jin Jiyan Azadi, “Donna, Vita, Libertà” in kurmanci, un dialetto curdo, studenti, studentesse e donne curde hanno marciato per le strade del Paese abnegando assieme la violenta oppressione dei corpi e della libertà da parte del regime islamista iraniano. Nelle università, sono state compiute azioni indipendenti per eliminare il divario di genere tra gli studenti, ed è tutt’ora chiesta a gran voce la liberazione delle ragazze e dei ragazzi arrestati durante le contestazioni. Tra le loro file, si contano perdite drammatiche: ricordiamo tra queste Nika Shakarami, 17 anni, scomparsa dopo delle manifestazioni e

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Il progetto GAP. Il caso della diga di Ilisu e i movimenti locali di opposizione.

Come premesso nel precedente articolo sul Southeastern Anatolian Project (GAP), gli effetti della costruzione di una rete di infrastrutture tanto imponente ha determinato una reazione da parte della popolazione locale e dell’opinione pubblica internazionale. Tra le varie dighe quella di Ilisu è probabilmente la più controversa data la compresenza di effetti devastanti sul piano sociale, ambientale e storico-culturale. Dunque, rispetto a quest’ultima si prenderanno in considerazione, in primo luogo, le caratteristiche e gli effetti principali della diga e in un secondo momento verranno analizzati i movimenti locali che si sono dati in opposizione ad essa.  Caratteristiche della diga di Ilisu Tra tutte le dighe del GAP quella di Ilisu è quella di più recente inaugurazione essendo entrata in funzione nel 2021. Allo stesso tempo si tratta della diga che ha comportato una maggiore attenzione sul piano mediatico. Il costo stimato del progetto è di circa 2 Miliardi di euro, ed è la terza diga più grande del GAP con 1200Mw di capacità installata e portando ad un allagamento di circa 300km2 nella valle del Tigri. Il progetto risale alla seconda metà del Novecento con l’approvazione di una prima bozza negli anni 90, ma il primo consorzio per la sua costruzione collassa già nel 2002 e viene ricostituito nel 2005 con il coinvolgimento di compagnie Tedesche, Svizzere e Austriache le quali si attivano per cercare delle garanzie sui finanziamenti presso le proprie Agenzie di Credito all’Esportazione (ACE). Negli anni seguenti la non volontà da parte del governo turco nel fornire tutte le garanzie richieste sul piano della tutela ambientale, sociale e culturale ha comportato un passo indietro da parte delle ACE coinvolte e di alcune compagnie, spingendo il governo ad intervenire con garanzie da parte di banche e compagnie nazionali e dunque assumendosi esso stesso i rischi finanziari dell’infrastruttura. Effetti sociali della Diga La realizzazione della diga di Ilisu ha provocato lo sfollamento di 200 villaggi circostanti, per un totale di circa 78mila persone con dimora fissa e 3mila nomadi. Il progetto avrebbe inoltre impattato negativamente su circa 400 siti archeologici dei quali solo una piccola parte sarebbero stati evacuati e tra di essi spicca il caso della città di Hasankeyf, antica 12mila anni. Sul piano sociale i programmi di ricollocamento delle popolazioni sfollate si sono dimostrati completamente inadeguati. Dei due miliardi di euro stanziati per la realizzazione del progetto solamente 800milioni sono stati destinati alla realizzazione di infrastrutture e alle procedure di esproprio e reinsediamento degli sfollati. L’assegnazione di nuove abitazioni è stata fatta solamente per le città di Hasankeyf e Ilisu mentre per le persone provenienti da altri villaggi è stato previsto solamente un indennizzo. Questo è stato spesso rifiutato dai cittadini che si sono opposti all’esproprio. Per gli abitanti che hanno aderito al piano di reinsediamento è stata realizzata una città ad hoc, New-Hasankeyf, ma anche essi non hanno avuto vita facile. I prezzi per le nuove abitazioni sono stati tre volte più alti di quelle precedenti, cifre che in molti non si sono potuti permettere. Ciò ha comportato due fenomeni, da un lato molte persone sono state costrette ad indebitarsi per potersi insediare nelle nuove abitazioni; in altri casi le candidature sono state escluse facendo si che alcune abitazioni rimanessero in vendita con la possibilità di acquisto da parte di persone più ricche provenienti da altre città. Sembrerebbe inoltre che l’80% delle compensazioni pagate siano state spese al di fuori della regione interessata, a dimostrazione del fatto che si è determinato un fenomeno migratorio verso altre regioni e che il reinsediamento nella stessa sia stato fallimentare. Nel comprendere questi fenomeni sociali e migratori è necessario tenere in considerazione l’elevato impatto ambientale dell’infrastruttura. Si parla di effetti come desertificazione, aumento di tempeste di sabbia, siccità, inondazioni, aumento di eventi metereologici estremi, e distruzione della biodiversità dell’area. Tutti cambiamenti che hanno reso parte del quadrante inospitale per lo sviluppo di una vita degna, a maggior ragione nei casi in cui le persone coinvolte sono contadini e allevatori, ovvero persone che dipendono dalla stabilità dell’ecosistema. Tutto ciò non riguarda solamente l’area circostante alla diga di Ilisu ma intere aree lungo tutto il tragitto del fiume Tigri.   La reazione della popolazione locale L’elevatissimo impatto sul piano locale, ma anche gli effetti che dighe del genere hanno generato nelle città e nei paesi circostanti, hanno inevitabilmente prodotto una reazione da parte delle vittime di questi processi. Nonostante risulti complesso ricostruire in maniera esaustiva le modalità con le quali la popolazione locale e internazionale si è opposta e ribellata a queste infrastrutture è comunque possibile provare ad individuare alcune pratiche e organizzazioni principali che tornano più spesso nelle fonti esaminate.   Di fianco a forme più spontanee, tra le iniziative organizzate sul piano locale spicca la Initiative to Keep Hasankeyf Alive (IKHA), una rete locale di 86 soggetti fondata nel 2006 che comprende “Attivisti; ONG locali per i diritti umani, ambientali, culturali e delle donne; associazioni di professionisti e sindacati; e le municipalità colpite”. L’obiettivo dichiarato della rete è di bloccare la diga di Ilisu e migliorare le condizioni socioeconomiche degli e delle abitanti dell’area, e tutelare il patrimonio culturale ed ambientale tramite processi democratici. Il tipo di azione intrapresa ha in primo luogo avuto bisogno di costruire un’informazione alternativa a quella del governo che tendeva a sminuire gli effetti delle infrastrutture. Dunque, ad una prima elaborazione di Report informativi sono seguite delle fasi di mobilitazione vera e propria. Di fianco ad un lavoro di controinformazione e mobilitazione fatta sul piano territoriale è interessante mettere in evidenza tre principali tipi di campagne condotte:  Le campagne condotte sul piano legale e amministrativo – In numerose occasioni i rappresentanti delle municipalità colpite dagli effetti della diga si sono fatti promotori assieme agli abitanti e a diverse ONG di azioni legali e amministrative che tentassero di mettere in luce le problematiche associate alla diga di Ilisu. Tra queste, per esempio, è interessante citare la decisione del Tribunale Amministrativo di Ankara di dimezzare la dimensione della diga in quanto la Relazione sulla valutazione d’impatto ambientale risultava essere

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