Salafiti: tra profonde differenze e reali unità

La difficoltà di comprendere il concetto di Salafismo – e quindi i Salafiti – inizia già con il tentativo di definirlo. È stato, infatti, identificato come una tendenza religiosa, un movimento di protesta, un movimento di riforma e ancora come una dottrina religiosa, ma nessuno di questi riesce a cogliere la vera entità del fenomeno. Oltretutto, il concetto di “Salafismo” – e di conseguenza la definizione di “salafiti” – ha assistito anche ad un’evoluzione profonda durante i secoli. Difatti, sono numerosi i pensatori ed i giuristi che hanno usato il termine in molte accezioni diverse e ciò rende ancora più difficile una ricostruzione chiara.

L’origine e la differenza con il Wahhabismo

Salafismo è un termine che deriva dall’arabo al-salaf al-ṣāli, che letteralmente vuol dire ‘’antenati pii’’ e con cui si fa riferimento alle prime tre generazioni di musulmani: i Ṣaḥābi, i Tābiʿūn e i Tābiʿ al-Tābiʿiyyīn. Secondo i salafiti quest’ultime rappresentano, a differenza dei musulmani di oggi, la versione pura e autentica dell’Islam, che si è persa nei secoli ed alla quale si dovrebbe tornare a fare riferimento.

A livello ideologico, il Salafismo moderno risale soprattutto ad un giurista e teologo medievale, Ibn Taymiyya, vissuto tra il 1263 e il 1328 nel territorio dell’odierna Siria, sebbene l’attuale corrente venga ricondotta al wahhabismo, un movimento di riforma religiosa nato nel XVIII secolo e che caratterizza l’attuale Arabia Saudita.

Nonostante molti tendano ad usare Wahhabismo e Salafismo come se fossero interscambiabili, i termini hanno connotazioni diverse, come viene chiaramente spiegato dallo studioso americano Blanchard: il primo termine, infatti, si riferisce ad “un credo islamico conservatore dell’Arabia Saudita” mentre il secondo ad “un movimento islamico puritano più generale che si è sviluppato in modo indipendente in vari tempi e in vari luoghi del mondo islamico”.

I Salafiti uniti da un credo comune?

Nella loro profonda differenza interna al movimento possiamo, tuttavia, riconoscere alcune caratteristiche di uguaglianza. Per una piena comprensione di ciò che accomuna tutti i salafiti passeremo attraverso la definizione di alcuni concetti chiave, senza i quali sarebbe impossibile l’osservazione basilare del fenomeno.

Tutti i salafiti sono legati dallo stesso credo religioso, aqida, da cui traggono i principi e i metodi per applicare la propria fede a questioni e problemi anche contemporanei.

Con il termine aqida (credo) ci si riferisce sia alle dottrine di base dell’Islam sia ai testi in cui vengono specificate queste dottrine. Nonostante il termine possa risultare di facile comprensione, l’aqida porta con sé un significato ben più complesso: esso indirizza le più importanti questioni religiose, fornisce i principi organizzativi e, più in generale, i vari aspetti del credo.

L’unità di Dio è un punto cruciale per tutti i musulmani ma ha un significato particolare per i salafiti e viene espressa con il termine tawhid. L’unicità di Dio si sviluppa su tre dimensioni: Dio è il solo creatore e signore dell’universo, Dio è supremo e unico e Dio è il solo ad avere il diritto di essere onorato. Il tawhid deve essere difeso e rispettato e, solo seguendo severamente il Corano e l’esempio del Profeta Mohammed trasmesso attraverso la Sunna, è possibile farlo. Il Corano è la parola di Dio e la sua sacralità è evidente anche dal punto di vista della lingua utilizzata, l’arabo. Il testo sacro, infatti, è impossibile da tradurre ed anche impossibile da imitare sia nella forma che nel contenuto. La Sunna, anch’essa fonte scritta, contiene i testi, i fatti e persino i silenzi del profeta. L’importanza di seguire l’esempio di Muhammad si può comprendere da questo versetto coranico:

“Voi avete, nel Messaggero di Dio, un esempio (iswah) buono, per chiunque speri in Dio e nell’Ultimo giorno e molto menzioni Dio”

   (Corano, XXXIII, 21)

Perciò, tutte le risposte sono contenute nel Corano e nella Sunna e l’importanza di attenersi a queste fonti è fondamentale perché ogni altro riferimento potrebbe portare a divergenze. Abbiamo già detto che il Corano è la parola di Dio; questo implica che non sia interpretabile. L’interpretazione, essendo un atto finalizzato ad attribuire un significato, presuppone un processo dove è la logica umana ad operare e l’applicazione dell’intelletto umano sui testi sacri non è consentita. È per tale motivo che non vengono riconosciute dai Salafiti le scuole giuridiche, perché queste hanno dato luogo a diversi indirizzi interpretativi delle stesse fonti.

Detto ciò, il dovere di attenersi alle fonti sacre porta a non tollerare ogni forma di innovazione (bid’a). Ciò, però, non vuole dire che tutte le forme di innovazione sono respinte; difatti, solo quelle in seno all’Islam portano a prendere le distanze dal credo puro e vero. Un’importante distinzione va però fatta tra bid‘a e tajdīd, cioè tra innovazione religiosa e rinnovamento religioso. A differenza del primo concetto, che è visto con accezione negativa, il secondo è accettato in quanto nel processo di rinnovamento non viene apportata nessuna innovazione religiosa in seno all’Islam.

Un ultimo termine che merita un approfondimento è un concetto che viene spesso usato, soprattutto dai media, in maniera incompleta ed a volte errata e che meglio aiuta ad inquadrare il Salafismo: stiamo parlando del ğihād.  La traduzione più familiare a noi è quella di “guerra santa”, sebbene, in realtà, si intenda qualcosa di molto più ampio. Viene definito ğihād ogni sforzo che il credente deve fare sulla via di Dio, un obbligo generale che riguarda ogni musulmano e che prevede di combattere le proprie cattive disposizioni e di migliorarsi sempre più, verso la strada di Dio. Si devono, dunque, distinguere lo ğihād minore – inteso come sforzo del musulmano verso la comunità e quindi concernente la sfera pubblica – dallo ğihād maggiore – che rappresenta lo sforzo di auto perfezionamento individuale e che si sviluppa, invece, nella dimensione privata. Quando si fa riferimento allo ğihād minore la valenza che gli viene attribuita è duplice: una che riguarda un intervento contro i vizi pubblici e una definita “braccio” ed è solo in questa seconda dimensione che viene menzionato l’utilizzo della forza. Questo cenno all’uso della forza è stato poi interpretato dalle frange estremiste come legittimante ad intraprendere la cosiddetta guerra santa. D’altra parte, i media, soprattutto occidentali, hanno contribuito ad enfatizzate questo aspetto dello ğihād più duro facendo un uso improprio, al punto di ridurre il senso del termine generale a questo singolo aspetto.   Ciò ha portato a stravolgere il concetto generale di ğihād intesocome sforzo che il credente è chiamato a fare sia pubblicamente che privatamente in qualcosa che rappresenta solo in parte il vero significato del termine.

Un gruppo… non così omogeneo

Quest’ultimo termine ci è utile per parlare, invece, delle profonde differenze che sussistono nel Salafismo. Anche se per lungo tempo sono stati un gruppo relativamente omogeneo, principalmente stanziato nei territori dell’Arabia Saudita, con il passare dei decenni i salafiti hanno subito delle spaccature interne e una diffusione in altri territori. La situazione odierna vede l’esistenza di varie correnti diverse tra loro, eppure, bisogna prestare attenzione alle categorizzazioni avanzate perché potrebbero fornire un’idea di separazione troppo netta. Tuttavia, per comprendere e sottolineare come le azioni violente e le rivendicazioni di carattere politico siano mosse da quella che è solo una minoranza, faremo cenno ad una delle divisioni proposte dallo studioso Quintan Wiktorowicz. Nonostante la sua formulazione sia stata di recente messa in discussione, mostrando come le divisioni tra le correnti non siano così rigide come potrebbero sembrare e come queste vadano bene quando si parla di Salafismo in termini ideologici, la sua teoria rimane una delle più autorevoli e tra le più utili nello studio del fenomeno. Wiktorowicz riconosce tre maggiori correnti interne al Salafismo, che lui stesso definisce: puristi (chiamati anche quietisti), politici e ğihādisti.

I salafiti puristi: tra purezza del credo e isolazionismo

I puristi si impegnano principalmente a preservare la purezza dell’Islam, che proteggono e promuovono attraverso attività missionarie e di educazione al credo Salafita. Si vedono impegnati anche nella lotta contro le pratiche che deviano dal messaggio originale, ma la loro guerra non è fatta di spade, bensì di discorsi e di buone maniere. Sugli esempi pacifici del profeta e degli antenati pii, ogni forma di attivismo violento e di impegno politico (anche non violento) non è ben vista, nemmeno nei casi più estremi, perché costituisce un’innovazione del credo originale, che, come abbiamo visto, non è tollerata.

Per mantenere questa purezza della religione, spesso i puristi si sono caratterizzati per il loro isolazionismo verso tutto ciò che potrebbe intaccare l’originalità del messaggio islamico. Per questo motivo tendono a rimanere separati soprattutto dai non-credenti ma anche dai non musulmani e dagli stessi musulmani che non seguono la pura interpretazione. Per questo motivo, anche se i Salafiti vivono e risiedono in luoghi lontani dai territori islamici, la loro tendenza è quella di rimanere in comunità chiuse.

L’importanza fondamentale del tawhid, della purezza e del rigetto verso qualsiasi forma di innovazione spinge i puristi a non riconoscere né i politici per il loro impegno, né gli ğihādisti per gli atti violenti. Il messaggio originale non parla di violenza o di attivismo politico, perciò le azioni di queste due correnti non solo deviano dalla purezza, ma sono anche spinte da un desiderio umano di far prevalere una loro decisione umana sul credo. I puristi perciò, non solo rifiutano, bensì boicottano le azioni delle altre due correnti.

Critica ai puristi, i politici contro le ingiustizie

I politici, a differenza dei puristi e come suggerisce il nome stesso, sono impegnati politicamente in varie forme. La prima testimonianza del loro sviluppo in Arabia Saudita si ebbe tra gli anni ’80 e ’90 quando un gruppo di giovani sfidò l’autorità dei salafiti puristi. Questi ultimi venivano e vengono accusati di una mancata conoscenza di ciò che accadeva e accade intorno a loro, principalmente in ragione del loro isolamento dal resto del mondo.

La loro comparsa, dovuta non solo al contesto locale ma anche al contatto con altri movimenti islamisti impegnati politicamente come i Fratelli Musulmani, ha permesso la creazione all’interno del credo Salafista di argomentazioni politiche viste dai puristi come un’innovazione. Dal punto di vista dei politici, invece, tutte le ingiustizie che i salafiti e il mondo musulmano stavano subendo andavano affrontate non più con preghiere, purificazione o propagande ma con un attivismo politico concreto.

Ğihādisti: una minoranza frammentata

Come abbiamo visto, il termine ğihād ha per i musulmani una connotazione diversa da quella presentata dai media. I puristi sottolineano il carattere pacifico dell’esempio lasciato dai primi antenati e rifiutano ogni forma di violenza, situazione ben diversa dall’interpretazione della corrente ğihādista dei salafiti.

Wiktorowicz nel suo articolo presenta un’interessante ricostruzione storica della loro evoluzione: senza entrare nel dettaglio, la loro “nascita” risale alla guerra in Afghanistan contro l’Unione Sovietica. Tenendo presente che la loro formazione “politica” è avvenuta principalmente sul campo di battaglia, il loro rapporto con lo ğihād intesa come guerra santa è molto più stretto rispetto alle altre correnti ed ai musulmani in generale. L’obiettivo di un rovesciamento dei sovrani apostati a favore dell’istituzione di Stati Islamici “giustifica” l’uso della violenza e delle armi. La loro critica verso i puristi (ma anche verso chi non segue il loro messaggio) è forte, il loro rifiuto di opporsi alle ingiustizie che i musulmani subiscono li porta ad essere accusati di non applicare il loro credo fino in fondo. Nonostante ciò, bisogna ricordare che gli ğihādisti costituiscono solo una minoranza, anche frammentata internamente, e che spesso non ha un nemico comune.

Conclusioni

Come abbiamo visto, il fenomeno è più complesso di quello che potrebbe apparire ad un primo sguardo e merita, perciò, un’attenzione particolare. Malgrado la tendenza ad osservare i salafiti solo attraverso la lente estremista, essi si differenziano molto al loro interno ed i confini tra le varie correnti risultano sfumati. Grazie a studiosi che hanno dedicato i loro sforzi all’osservazione ed all’analisi del gruppo, fornendoci anche categorizzazioni che ne favoriscono la comprensione, il quadro non è più così confuso come in passato. Ricordiamo che le azioni violente sono portate avanti solo da una minoranza; inoltre ciò è dovuto anche a tutto un insieme di fattori ed influenze che non sempre corrispondono al credo religioso. Perciò, in conclusione, identificare i salafiti con il termine terrorismo non è solo riduttivo dell’intero fenomeno a pochi individui, ma anche errato.

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L’origine dell’oppressione: il ruolo della donna nell’Islam

L’appartenenza all’Islam contraddistingue circa il 25% della popolazione mondiale odierna, ed è considerata religione di Stato in molti Paesi del Medio Oriente e dell’Africa del nord. Generalmente la religione islamica, come quella cristiana, porta in sé la sottomissione del genere femminile all’uomo. La struttura patriarcale di base religiosa si presenta in forma distinta in base al contesto in cui si trova, traducendosi in comportamenti più o meno discriminatori ed oppressivi nei confronti delle donne nelle diverse zone del mondo in cui è presente. Alla luce delle recenti mobilitazioni contro il regime islamico scoppiate in Iran per fermare la violenza contro le donne, riteniamo importante fare una panoramica sul ruolo che la donna riveste nel contesto religioso islamico, e di come questo si traduce in normative e comportamenti oppressivi nei confronti delle libertà che tutte le donne dovrebbero avere, nella strada verso l’emancipazione. La religione e le fonti del diritto Un fattore che contraddistingue l’Islam dal Cristianesimo è che il libro sacro – il Corano – è attualmente considerato una fonte del diritto in quei Paesi dove vige la shari’a (la legge islamica). La Repubblica islamica dell’Iran, l’Afghanistan sotto i talebani ed altri Paesi adottano la shari’a come insieme di norme di diritto positivo, più precisamente come una combinazione di legge islamica, legislazione statale e diritto consuetudinario locale. Gli scritti sacri che formano la legge islamica sono composti da comandamenti riguardanti le azioni dei fedeli, le quali vengono classificate come vietate, disapprovate, raccomandate od obbligatorie. Tuttavia, le norme qui trattate compongono un codice comportamentale o consuetudinario che riguarda il culto e gli obblighi rituali; considerarle norme in vigore di natura giuridica implica spesso la violazione dei diritti civili dei cittadini. Come abbiamo già avuto modo di menzionare, i regimi religiosi che hanno adottato la shari’a si sono anche resi persecutori dei diritti e delle libertà delle donne del proprio Paese, promulgando la più rigida interpretazione delle sacre scritture come legge di stato. Procederemo adesso ad analizzare il ruolo ricoperto dalla donna all’interno della comunità islamica secondo il Corano e le scritture che compongono la shari’a, in un tentativo di intendere le norme di controllo della donna che vengono imposte in Paesi come l’Iran. Il valore della donna secondo la tradizione islamica La shari’a riconosce una sostanziale uguaglianza degli uomini e delle donne di fronte a Dio. Ciononostante, nell’ordine mondano i due sessi sono considerati complementari e rivestono due ruoli diametralmente distinti. Questo spesso si traduce nel controllo della donna da parte dell’uomo poiché, mentre il primo si fa carico dell’economia famigliare e del ruolo di capo di famiglia, la donna viene segregata alla sfera domestica e si fa garante della purezza nel suo ruolo di moglie e madre. Secondo le scritture, lo status e i diritti dell’uomo vengono accordati anche alla donna, che può ricevere educazione, possedere delle proprietà e migliorare economicamente. Il Corano, infatti, difende l’individualità della donna e le concede la libertà di difendere il proprio onore, di ricevere parte dell’eredità, di riscattarsi e di decidere della sua vita anche in materia di matrimonio. Sebbene uomo e donna siano ugualmente importanti, essi sono stati creati per svolgere differenti ruoli nella procreazione e nella continuità della specie umana, dunque si fanno carico anche di differenti responsabilità. All’interno della famiglia la patria potestà spetta esclusivamente al padre, che ha diritto di esercitare il ta’dib’, ossia un vero e proprio potere di correzione sulla propria moglie, che lo autorizza anche all’uso della violenza. Le facoltà accordate all’uomo musulmano nei confronti della moglie sono indubbiamente superiori, è importante però ricordare che, secondo la Rivelazione, l’essere umano viene creato da Dio in due sessi opposti con la capacità e il dovere morale di condividere amore e rispetto l’uno per l’altra. I diritti delle donne all’interno della comunità islamica L’autorità maschile sulle donne viene legittimata da un hadith del Profeta secondo cui la donna è imperfetta nella fede e nell’intelligenza. La posizione della donna nell’Islam può essere dunque riassunta da queste frasi coraniche: le donne agiscano con i mariti come i mariti agiscono con loro: con gentilezza. Tuttavia gli uomini sono un gradino più in alto poiché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri e perché vengono donati da loro dei beni per il mantenimento. Sono numerosi gli ambiti in cui la donna è sottomessa all’uomo, secondo la tradizione islamica. Tra questi menzioniamo: l’obbligo di monogamia, il divieto di sposare uomini di altra fede, il divieto di ripudio, l’asimmetria di accesso al divorzio, di concessione dei figli e di eredità. In particolare, la pena per l’omicidio di una donna è metà di quella per un uomo, la testimonianza di due donne, se ammessa, equivale a quella di un uomo, e lo stesso principio vale in materia successoria. Le donne non possono essere califfo o imam, non possono esercitare la funzione di giudice né quella di tutore. Secondo la shari’a la donna acquista limitata capacità di agire solo dopo il suo matrimonio, che rappresenta un momento chiave poiché crea la base della famiglia. Il matrimonio nell’Islam non è un sacramento, bensì un rito che ricade entro l’ordine naturalistico e viene concepito come un vero e proprio contratto tra due parti: il marito e la moglie o il suo rappresentante legale. L’uomo può sposare fino a un massimo di quattro mogli ma a condizione di trattare tutte degnamente e in maniera paritaria. La famiglia musulmana delle origini ha dunque un forte carattere patriarcale ed è basata sulla discendenza maschile. Questo si traduce oggi nell’oggettificazione della donna in quei Paesi dove vige la shari’a, che diventa un mero oggetto della compravendita matrimoniale. Molte donne sono costrette al matrimonio ad età precoci e senza il proprio consenso, alimentando così i fenomeni delle spose bambine e del matrimonio forzato. In linea di massima, possiamo affermare che giuridicamente nel mondo islamico due donne valgono come un uomo. 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Tawakkul Karman : una Yemenita per i diritti delle donne

Tawakkul Karman è una attivista yemenita che ha ricevuto il premio Nobel per la pace nel 2011, insieme alle attiviste liberiane Ellen Johnson Sirleaf e Leymah Gbowee, per aver condotto campagne non violente a favore dei diritti delle donne e delle libertà democratiche. È stata la prima yemenita, la prima donna araba e la seconda donna musulmana a vincere il Nobel, e, a 32 anni, la più giovane vincitrice del Premio della pace dell’epoca. In questo articolo ripercorriamo i punti salienti della biografia di Tawakkul Karman. Tawakkul Karman e la primavera araba in Yemen Nel 2011 era in prima linea e, nell’ambito degli incontri a cui viene invitata in giro per il mondo, ha sempre dichiarato che “a fare la rivoluzione in Yemen sono stati i giovani e le donne”. In quel periodo i dati restituivano una realtà in cui ad essere imprigionati erano per lo più le donne Yemenite. La stessa Karman era stata arrestata nel gennaio 2011 per poi essere liberata in seguito alle pressioni dei suoi sostenitori. In questo modo è diventata una delle leader più carismatiche della protesta femminile contro la discriminazione e in favore dei diritti umani. Di conseguenza ha sfidato gli standard di comportamento femminile accettabile in un paese musulmano e conservatore, chiedendo la fine di un regime che credeva avesse privato i giovani della sua nazione e del suo futuro. Essendo madre di due figlie e di un figlio, voleva assicurarsi che le voci femminili giocassero un ruolo fondamentale nella rivoluzione di cui il suo Paese aveva tanto bisogno. Tawakkul, in veste di protagonista degli eventi, racconta che la primavera araba non è stata un capriccio o una cospirazione. La primavera araba è stata l’espressione di attivisti per i diritti umani ed è stato il desiderio di giustizia in risposta a repressione, fame e povertà. È stata una risposta nel segno della democrazia e dello stato di diritto. Lo scopo della primavera araba era quello di porre fine al dispotismo senza fine e porre un nuovo inizio nel nome dei diritti umani. Era la speranza per una patria e per una casa in cui ognuno potesse avere il suo posto e portare avanti i propri sogni. Era la lotta dei giovani contro la corruzione. Ma cosa è successo? I vecchi regimi hanno portato avanti una controrivoluzione con alleanze regionale e internazionali che, Tawakkul sottolinea, hanno trasformato i paesi della primavera araba in “laghi di sangue e carceri”. L’attività politica prima delle proteste del 2011 Karman è nata in una famiglia politicamente attiva a Ta’izz. Quando era giovane, la sua famiglia si è trasferita a Sanaa, dove suo padre, ʿAbd al-Salām Karmān, avvocato, ha servito come ministro degli affari legali prima di dimettersi nel 1994 per la guerra del governo contro i secessionisti nel sud dello Yemen. La stessa Tawakkul nello Yemen era una esponente del partito islamico Al Islah (aspetto della biografia che ha sollevato dubbi sulla figura di Tawakkul Karman da parte degli Stati Uniti al momento della nomina al Nobel), che rappresentava il primo gruppo di opposizione e protagonista delle primavere arabe nel paese. Sebbene Karmān fosse un membro anziano del partito, si è scontrata occasionalmente con i conservatori religiosi. Nel 2010, per esempio, ha criticato i membri del suo stesso partito per essersi opposti alla legislazione che innalzava l’età legale del matrimonio per le donne a 17 anni. Tale legislazione cercava di porre un limite alla questione delle spose bambina nello Yemen. Parallelamente portava avanti la carriera nel giornalismo scrivendo articoli, producendo film documentari e diffondendo avvisi e notizie via SMS. L’associazione Women Journalists Without Chains D’altra parte l’attività di Tawakkul iniziò nel 2005 quando fondò Women Journalists Without Chains , per difendere i diritti delle donne, i diritti civili e la libertà di espressione. L’associazione fu fondata non appena incontrò restrizioni e minacce da parte del governo Yemenita. Women Journalist Without Chains ha promosso anche l’utilizzo di diversi mezzi di comunicazione per promuovere l’istruzione, la cultura, il pensiero e lo sviluppo della comunità. In primo luogo l’associazione si è occupata dei diritti delle donne e della discriminazione femminile, dei dritti dei bambini, ha promosso i principi di buon governo e la lotta alla corruzione. Dal 2007 al 2010 Karman ha organizzato dei sit-in settimanali in piazza della Libertà nella capitale yemenita di Sana’a per chiedere una serie di riforme democratiche. La sua leadership in questi sit-in che durarono diversi mesi le valsero il soprannome di “Madre della Rivoluzione”. Ciò fu dovuto anche alla sua insistenza sul dialogo pacifico di fronte alle raffiche di gas lacrimogeni, alle incursioni della polizia e a un brutale massacro. Pertanto, anche a causa della popolarità che stava assumendo nel proprio paese, Karman ha ricevuto per telefono e per posta delle minacce. In aggiunta ha subito anche tentativi di corruzione da parte delle autorità yemenite per aver denunciato il divieto, da parte del ministero dell’Informazione, di creare un nuovo giornale e una radio. Dalla biografia di Tawakkul Karman abbiamo visto la lotta per i diritti delle donne nello Yemen ma occorre precisare che è stata costretta a lasciare il paese anche a seguito dell’aggravarsi del conflitto. Da allora partecipa a numerose iniziative internazionali, anche nell’ambito delle nazioni unite, per la promozione dei diritti delle donne nel mondo. Tawakkul Karman è una di quelle donne che hanno osato portare in primo piano la parità di genere e altre questioni in un mondo ancora troppo conservatore. Tawakkul è una donna che lotta per il superamento dell’oppressione, contro la violazione delle regole in nome della rivisitazione del mondo e di una ribellione per tutti. Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

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Studentesse avvelenate: sviluppi sulle proteste in Iran

Attualmente l’Iran sta vivendo una situazione instabile per le proteste scoppiate dopo la morte di Mahsa Amini, 22enne curda in visita a Teheran con la famiglia, a causa delle percosse ricevute dalla polizia morale che l’aveva arrestata con l’accusa di uso improprio del velo. Secondo alcune indagini, le rivolte hanno portato a 530 vittime tra i manifestanti, più di 19.700 arresti e 4 condanne a morte eseguite. Molte donne arrestate dalla polizia hanno raccontato gli abusi a cui sono state sottoposte durante la detenzione e alcune hanno rivelato di essere state imbavagliate con i loro hijab. Non è la prima volta che le donne iraniane protestano contro le leggi imposte dal governo per salvaguardare i loro diritti fondamentali; già nel 1979 migliaia scesero in piazza per protestare contro la decisione di rendere l’hijab obbligatorio per tutte le donne sul luogo di lavoro. Nonostante ciò, l’ayatollah Ruhollah Khomeini procedette con le riforme che desiderava attuare e, nel corso del tempo, sia le restrizioni che le punizioni per chi violava le prime divennero più aspre. Un nuovo attacco “Inizialmente abbiamo sentito uno strano odore, poi alcune di noi hanno cominciato a sentirsi male”. Centinaia sono le testimonianze che ribadiscono le stesse parole, così come centinaia, secondo le stime del governo iraniano, sono le studentesse che frequentano le scuole colpite da episodi di avvelenamento che stanno avvenendo in Iran dalla fine di novembre 2022. Mal di testa, tosse, nausea, difficoltà respiratorie, palpitazioni, stati di sonnolenza acuta, questi sono i sintomi che le ragazze, e anche alcune insegnanti, hanno accusato dopo essere state esposte a quella che sembrerebbe una fuoriuscita di gas. Tutto è iniziato nella città sacra di Qom, conosciuta per essere il centro per gli studi religiosi sciiti, adesso le scuole coinvolte sarebbero 52 – a Lorestan, a Borujerd e perfino a Teheran – distribuite in 21 province del paese, come ha affermato il ministro dell’interno Ahmad Vahidi. Per mesi il governo ha minimizzato o, addirittura, negato i fatti accaduti accusando le studentesse di isteria e di fingere dei sintomi che necessiterebbero l’ospedalizzazione, come successo a molte di loro. Dopo molto tempo, il viceministro della salute Younes Panahi è stata la prima autorità a confermare gli avvelenamenti sostenendo che siano stati causati da sostanze chimiche reperibili con facilità e ha aggiunto, senza approfondire la questione, che qualcuno desidera che le ragazze non frequentino le scuole. Chi sono i responsabili? Le ipotesi più diffuse su chi stia intossicando le studentesse sono due. Alcuni sostengono che questi attacchi siano da imputare ad un gruppo estremista che è concorde con la politica che i talebani hanno attuato in Afghanistan riguardo l’istruzione femminile; altri ancora sono convinti che dietro tutto ciò ci sia il governo stesso che vuole scoraggiare donne e ragazze nel partecipare alle varie manifestazioni precedentemente citate. Solo quando questi eventi hanno catalizzato l’attenzione internazionale, il presidente Ebrahim Raisi ha annunciato l’apertura di un’inchiesta che ha portato all’arresto di oltre 100 persone accusate di avere legami con gruppi ostili. Tra gli arrestati, secondo il ministero dell’interno, c’è chi è sospettato di appartenere al gruppo di opposizione in esilio Mujahedin del popolo dell’Iran o Mujahedeen-e-Khalq (MEK), considerato dal governo un’organizzazione terrorista che vuole diffondere il panico tra la popolazione. Le indagini sono ancora in corso e si auspica che vengano condotte in maniera imparziale da parte delle autorità preposte anche se, come ricorda l’organizzazione Human Rights Watch, una lunga serie di precedenti fa pensare che la polizia possa agire in modo tendenzioso. Basti pensare alle donne che vennero sfregiate con l’acido da assalitori ignoti nel 2014 nella città di Isfahan, probabilmente perché indossavano il velo in modo non conforme alle norme vigenti in Iran, infatti le indagini portarono ad un nulla di fatto e le autorità negarono ogni coinvolgimento nelle aggressioni. Noi di Large Movements desideriamo che i veri responsabili di azioni tanto inique vengano consegnati alla giustizia e che il governo iraniano garantisca la sicurezza dei propri cittadini, nonché i loro diritti fondamentali. Auspichiamo che le donne iraniane possano vivere in piena libertà e realizzarsi secondo le proprie aspirazioni. Donna. Vita. Libertà. FONTI E APPROFONDIMENTI: I casi di avvelenamento di studentesse in Iran continuano ad aumentare – Il Post Iran: oltre 100 arresti per l’avvelenamento delle studentesse – Mondo – ANSA Large Movements – Donna, vita, libertà: la lotta delle donne iraniane è la lotta di tutte Large Movements – L’Iran e il ruolo della donna nell’Islam 6 grafici per capire le proteste in Iran | ISPI (ispionline.it) What explains mysterious poisonings of schoolgirls in Iran? | News | Al Jazeera Iranian Media Reports Hundreds of Schoolgirls Poisoned | Human Rights Watch (hrw.org) Acid attacks in Isfahan have nothing to do with the hijab, say Iranian officials | Iran | The Guardian ‘They used our hijabs to gag us’: Iran protesters tell of rapes, beatings and torture by police | Iran | The Guardian Se ti è piaciuto l’articolo, Condividici!

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Loujain al-Hathloul

Loujain al-Hathloul è un’attivista saudita per i diritti delle donne. La sua forza di volontà e la sua resistenza l’hanno portata a fare una differenza significativa nel suo paese, ma tutto si può affermare tranne che questo sia stato per lei e per le sue compagne un viaggio semplice. Loujain è stata una delle leader del movimento Women2drive, nato negli anni ‘90 con l’obiettivo di ottenere il diritto di guidare le auto da parte delle donne. Negli ultimi 7 anni la vita di Loujain è stata scandita da periodi più o meno lunghi di prigionia. In possesso di una patente ottenuta negli Emirati Arabi Uniti, nel 2013 si era filmata mentre tornava a casa guidando, accompagnata dal marito, ma fu il video dell’anno dopo a fare scalpore e che divenne virale su You Tube, perché quella volta guidò da Abu Dhabi fino al confine con l’Arabia Saudita. Nel 2014 il suo caso finì dinanzi ad un tribunale militare in quanto accusata di aver compiuto un gesto di sfida nei confronti del divieto di guida per le donne in Arabia Saudita, unico Paese al mondo che ancora manteneva viva questa legge. Loujain venne arrestata il 1 Dicembre 2014, e insieme a lei anche la giornalista Maysaa al-Amoudi, che decise di guidare anche lei verso il confine per sostenere la sua compagna. Loujain restò reclusa per un totale di circa 70 giorni. Nel 2015, quando la monarchia saudita concesse per la prima volta il diritto di voto alle donne, Loujain decise di candidarsi alle elezioni locali. Anche se il suo nome non venne mai incluso nelle liste, la forte personalità e determinazione di Loujain venne riconosciuta, e venne inserita al terzo posto della classifica delle 100 donne arabe più potenti al mondo sul fronte culturale e sociale. Il 4 giugno 2017 Loujain venne arrestata per la seconda volta in Arabia Saudita. La ragione non fu nota, e le fu impedito di mettersi in contatto con i suoi cari. La lotta di Loujain e le sue compagne, nonostante tutte le difficoltà affrontate, ha portato il principe ereditario Mohammed bin Salman a consentire alle donne di guidare, e dal giugno del 2018 le donne poterono finalmente ottenere la patente di guida. Appena prima di questo successo politico e umanitario, nel maggio del 2018 Loujain venne nuovamente arrestata con l’accusa di terrorismo e di aver cospirato contro l’Arabia Saudita insieme a Paesi “nemici”. Il suo processe venne spostato infatti in un tribunale speciale che si occupa di casi di terrorismo, quando Loujain altro non era che un’attivista pacifica. Soltanto tre mesi dopo l’arresto venne trasferita in un carcere nella sua città natale, e fu in grado di incontrare la sua famiglia. Raccontò a loro ciò che era accaduto durante quelle settimane di carcere: fu costretta a vivere una reclusione disumanizzante, con sedute di elettroshock, frustate e abusi sessuali. Per opporsi e denunciare le violenze subite, nell’ottobre del 2020 cominciò uno sciopero della fame, ma dopo due settimane le guardie carcerarie iniziarono a privarla del sonno svegliandola ogni due ore, e dopo diverse settimane estenuanti Loujain fu costretta a interrompere a riprendere a mangiare. Il 28 dicembre venne condannata a 5 anni e 8 mesi di carcere. Il 31 luglio 2020, Loujain ha amaramente festeggiato il suo 31esimo compleanno in carcere, ed è stata rilasciata solamente a febbraio 2021, con il divieto di lasciare l’Arabia Saudita per cinque anni. Il Global Gender Gap Report del 2020 del World Economic Forum, posiziona l’Arabia Saudita al 146esimo posto su 153 Paesi: quindi lo classifica come uno degli Stati peggiori in cui una donna possa vivere ad oggi, costretta ad avere un uomo come tutore che approvi la grande maggioranza delle sue azioni quotidiane.

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Siria-accoglienza

Storia di un giovane siriano con un “cuore di pietra”

Le coste calabre continuano ad essere tra i maggiori punti di arrivo di immigrazione, motivo per cui negli ultimi anni il territorio accoglie nuove strutture per i richiedenti asilo. Tra questi, la cooperativa Jungi Mundu di Camini, dal 2000, è diventato uno SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Lo scorso agosto mi trovavo a Camini, comune di poco più di 600abitanti in provincia di Reggio Calabria, a pochi km dall’ormai nota Riace. Qui, Amnesty International già da qualche anno, organizza dei laboratori di formazione estivi per approfondire le tematiche di immigrazione e diritti di accoglienza. Appena scesa dal regionale, dopo 7 ore di viaggio e qualche grado in più intorno a me, ho subito capito che Camini non poteva che essere il luogo migliore dove parlare di immigrazione ed accoglienza. Una terra apparentemente abbandonata a sé stessa, dove l’edilizia moderna e la frenesia quotidiana sembrano appartenere ad un’altra dimensione. Una piazza. Un bar con qualche tavolino in legno, dei divanetti ed uno schermo con le partite di calcio del giorno. Cittadini dalla pelle bianca, cittadini dalla pelle nera. Anziani, giovani e bambini. Questo è lo scenario che mi trovavo davanti. Uno scenario che sembrava apparentemente normale. Eppure, nell’aria c’era qualcosa di speciale. La prima sera già mi era tutto più chiaro. Quella piazza, quel bar e quei cittadini facevano parte di un’enorme famiglia, in una piazza che riuniva più storie di vita, una diversa dall’altra. Una famiglia in cui i richiedenti asilo, per lo più provenienti dalla Siria, ed i caminesi erano entrati in perfetta armonia. Un’armonia fatta di impegno quotidiano, sacrifici e voglia di ricominciare dopo un vero e proprio viaggio della speranza, con alle spalle una vita di guerra ed ingiustizia. A “campo di accoglienza” spesso si associa l’immagine di un grande campo sperduto nel nulla con qualche baracca e sistemazione fatiscente. Di situazioni così purtroppo ne esistono ancora troppe ma questa volta vi voglio parlare di un’Italia che accoglie ed è sinonimo di rinascita e speranza per coloro che vi arrivano. Camini infatti è una vera eccezione e l’Italia è colma di borghi che hanno fatto dell’accoglienza la loro forza, dando ai rifugiati una “nuova” vita e dove loro stessi hanno ridato vita a delle realtà in cui l’unica cosa a regnare era diventata la desolazione. Erano circa le 9 di mattina quando M. decise di accompagnare me e le altre ragazze del gruppo a riempire le nostre borracce alla piccola sorgente di Camini. M. in mezzo a noi, seppure più piccolo di quasi 10 anni, sembrava già un uomo, pronto a farci scoprire la sua realtà, raccontandoci con cura la storia del paesaggio che ci circondava. Ritornando verso la piazza, ci ritrovammo lui ed io da soli. La voglia di condividere la sua storia e la sua “non infanzia” come lui stesso l’ha chiamata, trapelava da ogni poro della sua pelle. “Non smettere mai di inseguire i tuoi sogni”, mi dice M. Sono state queste parole, accompagnate da uno sguardo che non potrò mai più scordare, che mi hanno spinto a dare voce ad una storia fatta di guerra, dolore, odio ma che M. è riuscito a trasformare in una storia di vita, speranza e determinazione. M. viene dalla Siria, terra da sempre contesa fra i paesi limitrofi, e non solo. Terra la cui ricchezza delle materie prime è diventata responsabile di migliaia di vite che, in cerca di un futuro dignitoso, si imbattono in viaggi la cui destinazione e la certezza di arrivarvi sono in mano ad un destino…ancora troppo clandestino. M. arriva a Camini a giugno di 4 anni fa, quando aveva appena 9 anni, con la sua famiglia: cinque fratelli ed una sorellina che però non ce l’ha fatta di fronte ai raggi x di un’ecografia. Ora frequenta la II media, a Riace Marina, e descrive la scuola come un luogo in cui molti studenti prendono in giro i ragazzi stranieri. “Io ho tantissima forza ma non voglio usarla” inizia M. Era abituato in Siria dove tutti giravano armati e che anche per un minimo scherzo ci si poteva “rimettere la pelle”. A Camini ha trovato nuovi amici ma la sua esperienza lo ha fatto crescere con una rapidità tale che non si trova a suo agio con i bambini della sua età. Pur di non pensare e rivivere i fantasmi che sono in lui, esce comunque con i suoi coetanei per svagarsi un po’. M. poco prima dell’estate ha conosciuto un ragazzo più grande, di 25 anni e con lui riesce a parlare di “cose da adulti”. “Lui mi ha insegnato che non devo avere paura”. “Com’era vivere in Siria? Ci pensi spesso?” “Come potrei non ripensarci, ho visto tante di quelle cose che nessun bambino si può immaginare e non auguro a nessuno di vivere ciò che ho vissuto io”. Si ricorda tutto M. Mi racconta ad esempio quella volta che era uscito con il papà, aveva forse 4 anni ma aveva già una forza innaturale. C’era la guerra fuori e M. si ricorda la grotta in cui si erano nascosti. L’unica arma che possedevano erano il coraggio e la forza di sopravvivere. Il papà aveva studiato le tattiche ed i tempi di reazione delle varie armi da fuoco e quindi anche quella voltai due si erano riusciti a salvare, nonostante la loro testa fosse al centro di un mirino. La guerra persisteva, giorno e notte, anche nei momenti più inaspettati. M. si è visto più volte i proiettili sfiorargli il corpo. Un giorno ad esempio stava aggiustando l’antenna con il papà, la cui maglietta si ruppe proprio per un proiettile che gli era caduto a fianco, o quando il fratello stava pranzando fuori dal balcone di casa e si è visto cadere una bomba di fronte. M. si definisce forte, anche solo rispetto ad i suoi fratelli. Uno ha sofferto di crisi per tanto tempo, perché “certe immagini oltre a bombardarti dal vivo ti bombardano anche la testa”. Ammette che ha ancora bisogno della famiglia ma

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