LA PIRATERIA SOMALA

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La pirateria somala viene spesso descritta solo ed esclusivamente come criminale, e se invece espletasse anche un’altra funzione, ossia quella di guardiani del mare? In questo articolo si cercherà di indagare la natura del fenomeno nonostante le fonti che risaltano una visione alternativa a quella diffusa internazionalmente siano poche. Il tentativo sarà dunque, quello di individuare gli indizi funzionali a definire la pirateria non solo come criminale, ma come “forza” di difesa alternativa delle acque, servizio di cui il Governo di Transizione non riesce a farsi carico pienamente.

Contesto storico

La pirateria moderna, che si è sviluppata soprattutto in aree geopoliticamente strategiche, ha assunto tutti i caratteri della definizione storica di “predone del mare”. A differenza dei suoi analoghi, la pirateria somala ha acquisito caratteristiche diverse che l’hanno resa un fenomeno particolarmente difficile da studiare e, soprattutto, da debellare. Queste differenze sono dovute alla presenza di molti fattori e, in particolare, alla situazione politica in cui la Somalia si trova. Ciò, infatti, ha dato luogo a tutta una serie di fenomeni chiave nello sviluppo della pirateria. La complessità della situazione somala quindi sta proprio nell’esistenza e nella sovrapposizione di diverse dinamiche, locali ma anche regionali ed internazionali che rendono necessario un approccio onnicomprensivo.

In questa sede, tuttavia, si affronterà solo uno dei tanti aspetti di questo fenomeno e, in particolare, si cercherà di rispondere alla questione sulla natura della pirateria sviluppatasi in questo contesto. Usando termini somali, si cercherà di capire se ricadono nella categoria di burcad badeed, stricto sensu “predoni del mare”, o badaadinta badah, “salvatori del mare”.

Da quando nel 2012 gli sforzi congiunti della comunità internazionale sono riusciti a debellare questo problema, il sequestro della petroliera Aris 13 del 2017, ha riportato nuovamente l’attenzione, assopita da anni, sull’area, facendo presagire anche un ritorno della pirateria. Questo attacco, tuttavia, sembra aver rappresentato solo una breve parentesi dovuta probabilmente all’abbassamento della guardia delle misure intraprese sino ad allora e al ritiro delle forze NATO della missione “Ocean Shield”, terminata nel 2016. Ma se questo fosse solo il sintomo di un ritorno che potrebbe essere ancora più pericolo del precedente?

Per questo motivo potrebbe essere utile capire la natura degli atti dei pirati somali e comprendere se il ruolo iniziale di difensori del mare sia scomparso durante l’evoluzione che la pirateria ha subito, divenendo finalizzato solo ed esclusivamente ad azioni di depredazione, oppure se questo sia stato solo “nascosto” per legittimare in maniera più semplice le azioni svolte della comunità internazionale. Tale tentativo, tuttavia, risulterà molto difficile per la scarsità di dati e di notizie svincolate dall’”occhio europeo”. In questa sede, pertanto, si proverà a fornire solamente uno spunto di riflessione.

Pescatori o professionisti?

Quando nel 1991 si venne a creare un vuoto politico nel paese, dovuto alla caduta del regime di Siad Barre, fu subito evidente che venne anche a mancare una struttura centralizzata in grado di avere un controllo efficace su tutto il territorio somalo e, consequenzialmente, sulle sue acque. Fu di questa situazione che attori esterni, principalmente pescherecci europei e cinesi ed organizzazioni criminali, iniziarono ad approfittare. La pesca intensiva e lo scarico di rifiuti tossici hanno rappresentato le motivazioni principali che hanno spinto i pescatori locali ad improvvisare attacchi disorganizzati verso gli estranei invasori.

Nonostante ciò, la depredazione straniera non può essere definita come la sola motivazione, a questa, infatti, si aggiunge un quadro molto più complesso: la mancanza di uno Stato centralizzato in grado di farsi carico dei bisogni della società, un’organizzazione clanica della società somala che si pone come rappresentante differente di ordine e portatore di principi di organizzazione politica differenti da quelli dello Stato moderno e post-moderno, e uno stato di povertà e crisi umanitaria notevole. Fino agli anni 2000, quindi, si parla più di un fenomeno finalizzato alla sopravvivenza, in cui il confine tra pirata, pescatore e contrabbandiere è molto labile.

Si può perciò ipotizzare che in questa fase, nonostante la popolazione che traeva il suo sostentamento dal mare abbia raggiunto livelli di frustrazione notevoli dovuti alle attività illegali di pesca straniere, non sia tuttavia riuscita a creare una struttura tale da poter essere considerata come “guardiana delle acque”.

In questi anni, infatti, si è assistito principalmente al fenomeno che è stato definito come “pirateria d’opportunità”, deducibile soprattutto dalla sua discontinuità, dalla poca redditività degli attacchi e dal corto raggio d’azione. Non si può comunque escludere che proprio in questo periodo iniziarono a formarsi e svilupparsi i gruppi di pirateria di stampo criminale che siamo abituati a conoscere. Infatti, secondo un ex leader pirata somalo, Farah Hirsi Kulan “Boya”, il passaggio ad una pirateria professionalizzata avviene già nel 1994.

Da pirati d’opportunità a vera e propria guardia costiera?

Dai primi attacchi sporadici e disorganizzati, le attività piratesche in pochi anni cambiarono totalmente divenendo un business molto redditizio.

Molti affermano che c’è stato un passaggio da un fenomeno di protesta ad uno, solo ed esclusivamente, basato sul profitto, anche se, potrebbe non essere esattamente così. 

In un contesto politico come quello somalo, il Governo Federale di Transizione è l’unico potere istituzionale e riconosciuto a livello internazionale che, nonostante ciò, non è in grado di estendere la propria autorità oltre Mogadiscio, permettendo ad altri tipi di “organizzazioni politiche” di subentrare nel controllo dello spazio. Infatti, “per l’intero territorio somalo ogni livello d’amministrazione è in buona sostanza affidato nelle mani di clan, capi-villaggio e signori della guerra” ed è tra questi leader che riconosciamo le figure più influenti della pirateria.

Alcune tra le organizzazioni piratesche, che vengono definite di criminalità organizzata, cercarono di assumere anche un certo grado di istituzionalizzazione.

Queste volevano dimostrare di essere capaci di svolgere non solo attività di saccheggio, rapimenti finalizzati al riscatto o comunque legati all’arricchimento, ma anche una funzione di “difesa” e “controllo”.

Gran parte della società somala, inoltre, iniziò a godere dei benefici portati dalle attività piratesche, realtà che pian piano promosse una forma di legittimazione nei confronti di questi gruppi criminali, garantendo ai loro membri anche una sorta di protezione e di rispetto.

Uno dei fenomeni più interessanti, quindi, fu proprio la creazione di un profondo legame tra questi gruppi e la rete familiare e dei clan a terra che, unito alla pratica di creare nelle menti dei membri l’idea di essere una vera forza di difesa delle coste, favorì il consolidamento di questo tentativo di istituzionalizzazione. Infine, le “nuove motivazioni” hanno anche contribuito alla creazione di una sorta di coscienza o, meglio, di identità che ha rafforzato la loro idea di esser diventati realmente gli unici in grado di salvaguardare il mare.

Per cercare di capire questo fenomeno, prendere in esame più da vicino alcuni di questi gruppi potrebbe risultare utile.

La National Volunteer Coast Guard of Somalia, ad esempio, era un gruppo che operava principalmente al largo di Chisimaio e all’Isola di Koyaama sulle coste del sud. Già il nome ci suggerisce la loro intenzione di volersi ergere a una sorta di guardia costiera.

Vediamo, infatti, che oltre alle attività tipiche di pirateria, spiccavano anche atti di tassazione coatta finalizzati ad una regolarizzazione a tutti gli effetti della pesca straniera. In un’intervista ad uno dei leader, Sugule Ali, egli affermò “We don’t consider ourselves sea bandits. We consider sea bandits [to be] those who illegally fish and dump in our seas” (“Non ci consideriamo banditi del mare. Noi consideriamo coloro che pescano e scaricano rifiuti tossici illegalmente nei nostri mari dei banditi del mare”), dichiarazione che ci permette di comprendere come la percezione locale sia molto diversa da quella che abbiamo noi. Per questi personaggi la vera minaccia è rappresentata dai pescherecci stranieri, realtà che legittima le azioni di pirateria come reazione alle violenze esterne.

La situazione sembrerebbe cambiare quando si prende in considerazione il gruppo dei Somali Marines. Questo è stato definito da molte fonti come l’organizzazione più strutturata e sofisticata che operava nei dintorni di Harardhere.

Dei Marines somali ne venne enfatizzata soprattutto la capacità di agire a grande distanza dalle coste, la grande organizzazione interna e la possibile alleanza con personaggi legati ad Al-Shabaab.

Tutto ciò fa pensare ad un’organizzazione finalizzata solo ed esclusivamente all’attività redditizia di sequestro di merci e di persone di passaggio. In realtà, questa è l’unica idea che la letteratura e gli studi strategici hanno creato sul concetto generale di pirateria, smentendo ogni possibilità che possa giustificare le azioni di questi gruppi.

In questa sede, l’intenzione non è quella di legittimare gli atti violenti perpetrati nel corso degli anni dai pirati, né quella di assumere le loro azioni a giuste, piuttosto la volontà è quella di sottolineare come la scarsità di testimonianze dirette da parte della popolazione locale e dei pirati stessi rende la ricostruzione della pirateria somala incompleta.

La scomparsa, forse solo momentanea, del fenomeno ha poi cristallizzato la visione del pirata somalo accostandola alla pirateria in generale.

La necessità di dover capire nel profondo l’entità e la natura del problema è soprattutto funzionale al tentativo di trovare una soluzione definitiva a quello che era divenuto un problema internazionale. Bisogna ricordare, infatti, che nel Golfo di Aden transita una “fetta” importante del commercio internazionale marittimo, soprattutto quello di idrocarburi. Per questo motivo sono stati compiuti grandi e dispendiosi sforzi da più attori, sia privati sia pubblici, per contrastare il problema.

La soluzione adottata, tuttavia, potrebbe aver posto fine alla questione solo momentaneamente.

Se, come abbiamo ipotizzato in questa sede, la pirateria, oltre ad essere una sofisticata rete di organizzazioni criminali, ha assunto anche il ruolo di una difesa alternativa, questa potrebbe tornare in futuro più forte di prima. In tal senso, ci sono testimonianze del fatto che alcuni pescherecci stranieri siano tornati a pescare illegalmente nelle acque somale, situazione che potrebbe portare ad un ritorno della pirateria come forza di difesa.

Bisogna perciò mantenere viva l’attenzione verso la regione e perseguire delle profonde e attente politiche, dirette anche alla società, che rendano il terreno meno fertile alla rinascita di fenomeni di pirateria. In particolare, la preoccupazione è anche quella che un suo risveglio potrebbe subire una mutazione ancor più pericolosa della precedente e, perciò, da pirateria criminale, come veniva descritta fino al 2012, divenire pirateria terroristica politicamente motivata.

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L’omicidio di Ilaria Alpi e l’inchiesta sul traffico di rifiuti tossici in Somalia

Il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia, è stata assassinata, insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin, Ilaria Alpi. La giornalista dal 1992 effettuò diverse missioni per conto del TG3 per raccontare la missione di pace delle Nazioni Unite “Restore Hope” e il contesto somalo della guerra civile scoppiata a seguito della caduta del regime di Siad Barre nel 1991. Le indagini del Caso Alpi-Hrovatin si sono concentrate sull’ultimo reportage della giornalista che sarebbe dovuto andare in onda la sera del 20 marzo. Di quel reportage rimangono solo frammenti e filmati incompleti in quanto la versione integrale non arrivò mai in Italia. Di quell’omicidio ancora non è chiaro né il movente, né il mandante, né gli esecutori. Tra i principali protagonisti del Caso Alpi-Hrovatin si ricorda Giancarlo Marocchino, traportatore piemontese che per anni è stato un influente imprenditore di Mogadiscio. Per il SISMI, secondo una delle note declassificate, era “un imprenditore abile e furbo” in grado di lavorare per tutti e di districarsi nella Somalia sconvolta dalla guerra civile. Secondo il SISMI si occupava di logistica ed era sospettato di trafficare in armi e rifiuti tossici e radioattivi, sospetti che al momento non trovano un riscontro giudiziario. Sullo sfondo dell’indagine occorre inoltre tenere a mente il contesto somalo e in particolar modo il coinvolgimento Italiano in Somalia. La relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, approvata nel febbraio del 2006, ha analizzato diverse causali dell’omicidio tenendo in conto anche il fondamentalismo e la criminalità nel paese. Grazie ad un’analisi dei taccuini di Ilaria Alpi si è cercato di ricostruire i temi dell’ultimo reportage in modo da proseguire su tre linee di indagine: il traffico di armi, il traffico di rifiuti tossici e gli effetti della cooperazione italiana in Somalia. La cooperazione Italiana in Somalia Prima dell’inizio della guerra civile in Somalia l’Italia fu una stretta alleata del governo di Siad Barre, presidente-dittatore somalo fino al 1991, a cui vendeva armi che sono state accumulate in diversi magazzini del paese e che sono stati oggetto di interesse delle milizie e dei signori della guerra a seguito della caduta del regime. In generale si riconosce che l’Italia ha sostenuto economicamente e politicamente Siad Barre anche nel momento in cui il regime appariva completamente screditato agli occhi dell’opinione pubblica internazionale e alla maggioranza del popolo somalo. Tra le linee di indagine della Alpi rientrava la cooperazione dell’Italia con i paesi in via di sviluppo e in particolar modo con la Somalia. La giornalista era interessata al fenomeno degli aiuti in generale ed alla modalità di distribuzione degli stessi, oltre al fatto che essi potessero essere stati utilizzati per arricchimenti illeciti anziché per lo scopo per cui erano stati erogati. In particolar modo la Alpi era interessata alla strada Garoe-Bosaso e al progetto di pesca della Shifco. La cooperazione allo sviluppo in favore della Somalia fu voluta dal parlamento italiano nel 1979 con l’elargizione di ingenti finanziamenti. In particolar modo durante il periodo 1986-1989 il volume degli investimenti italiani in Somalia e nel corno d’Africa è aumentato in modo esponenziale per poi interrompersi con l’esplosione della guerra civile nel 1992. La relazione conclusiva della commissione parlamentare sostiene che nel decennio 1981-1990 l’80% dei fondi è stato destinato alla realizzazione di progetti definiti “fisici”. Di questi il 49% è stato destinato alla costruzione di grandi infrastrutture, il 21% alla realizzazione di investimenti produttivi e il 15% a investimenti definiti “socio-comunitari” (progetti che possono essere considerati a beneficio della popolazione). Tale assetto della cooperazione italiana è stato segnato da difetti di programmazione e mancanza di coordinamento con le iniziative multilaterali e internazionali. L’effettiva riuscita di queste iniziative di cooperazione, inoltre, è stata pesantemente minata dalla prerogativa alla tutela di interessi particolari che aziende, lobbies e gruppi di pressione italiane avevano in Somali e che non tenevano in conto i bisogni reali del paese. L’analisi di queste politiche di cooperazione internazionale è stata condotta durante la stagione di Tangentopoli. 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