Un territorio dimenticato dal mondo ma sempre in contrasto con il potere: la Ciscaucasia

Ciscaucasia

Come scrisse nel 1895 Nadeždin, membro della Società Geografica Imperiale Russa:

Il Caucaso è una delle parti più interessanti del mondo, sia per l’aspetto geografico, che per quello etnografico, storiografico e archeologico. Non per nulla suscita la curiosità di viaggiatori ed esploratori sin dai tempi più remoti. È stato scritto così tanto sul Caucaso che tutte le opere pubblicate in Russia e all’estero, usando un’espressione del Barone Uslar, potrebbero formare una montagna. Tuttavia, per la maggior parte del pubblico istruito questa montagna non contiene una descrizione completa e sistematica del Caucaso.

I confini del territorio che tratteremo sono i fiumi Kuban’ e Kuma a nord, a sud la catena del Caucaso, ad est e ad ovest il Mar Nero e il Mar Caspio. L’area così delimitata comprende ad oggi i territori di Krasnodar e Stavropol e le Repubbliche Federali russe di Adighezia, Karachaj-Circassia, Cabardino-Balcaria, Ossezia Settentrionale-Alania, Inguscezia, Cecenia e Daghestan. I due territori di Krasnodar e Stavropol sono quelli che hanno fatto parte per primi dell’odierna Russia, mentre per le altre realtà la storia è ben più travagliata, quindi, da ora in poi, quando ci riferiremo alla Ciscaucasia non ricomprenderemo al suo interno i due territori già russi.

Cartina Ciscaucasia oggi

Le popolazioni ciscaucasiche sono tante e varie, alcune delle quali non superano le mille persone. Le varie etnie sono state influenzate dalle diverse occupazioni che ci furono sin dal I millennio a.C. con i cimmeri iranici, succeduti poi da altre popolazioni nomadi come sciti, sarmati, alani, unni, avari turchi, cazari e peceneghi. Tra queste, prima dell’arrivo dell’Islam, ve ne erano alcune turciche (popolazioni di cultura linguistica turcofone) che si contraddistinguevano per una forte tolleranza religiosa poiché erano comunità numericamente esigue e quindi ben disposte ad entrare in contatto con nuove realtà.

Le popolazioni ciscaucasiche passarono sotto il dominio mongolo verso la metà del XII secolo, successivamente dominate dall’impero georgiano di stampo cristiano bizantino fino all’inizio del XVI, periodo in cui subentrò l’impero persiano e si diffuse l’Islam.

L’Islam e la Ciscaucasia

Le popolazioni ciscaucasiche sin dai tempi più remoti hanno fatto parte di grandi imperi, ma solo come popoli conquistati. Con l’arrivo dell’Islam, le varie comunità iniziarono a convertirsi poiché, dal momento che sotto i governi cristiani le stesse venivano continuamente oppresse e discriminate, vedevano nella “nuova” religione il male minore ed iniziarono a tessere proprio con le popolazioni musulmane rapporti esclusivi di commercio.

Diversamente dal periodo di egemonia cristiana quindi, queste popolazioni non dovevano rinnegare la propria cultura e la propria lingua. L’unico diktat che dovevano rispettare era quello di convertirsi all’Islam, cosa che, l’impero islamico prima e quello ottomano poi, non mancavano di sottolineare.

Nel 1500 l’impero persiano si espanse al punto di aumentare la loro zona di influenza anche verso Nord, conquistando i vecchi territori del Regno di Georgia. L’obiettivo principale di qualsiasi impero che approdava in Ciscaucasia per la prima volta era quello di assoggettare le popolazioni locali e soprattutto i circassi – popolo turcico proveniente dal nord-ovest della regione e molto famoso per la sua forza e combattività.

Conquista russa

La Russia nel 1500 iniziò il suo piano espansionistico per avere uno sbocco verso il mare, così da favorire le comunicazioni all’interno del suo già vasto territorio e poter quindi, contrastare le grandi potenze europee. Infatti i grandi obiettivi della Russia di Ivan il Terribile erano il Caucaso e la Finlandia. La conquista della Finlandia portò al dominio russo su quei territori dove oggi è ubicata San Pietroburgo, costruita sotto la guida di Pietro il Grande. Invece, il Caucaso fu una delle sfide più ostiche per la nuova potenza mondiale, la quale impiegò circa 3 secoli per conquistarla.

La prima conquista russa in questo vasto territorio fu la città di Astrakhan, sita a nord-est della Ciscaucasia. Questa infatti, divenne la prima città importante ad avere uno sbocco sul mare – seppure trattasi di mare chiuso.

È solo verso il XIX secolo che vediamo una forte propensione espansionistica da parte della Russia. In questo periodo infatti, la nuova superpotenza iniziò ad affacciarsi molto più prepotentemente sul Caucaso, intraprendendo una guerra senza confini e che tuttora non sembra essere terminata – pur avendo cambiato “sembianze”. L’impero zarista era già temuto all’epoca poiché in tutti i territori ad est che aveva colonizzato, aveva imposto alla popolazione una forte “russificazione”, attuando delle vere e proprie pulizie etniche nei confronti di coloro che non volevano essere assoggettati al controllo dello Zar.

La resistenza cecena

Quando i russi arrivarono nel Caucaso si trovarono sin da subito di fronte ad una varietà di territori e tradizioni molto vasta: a sud della catena montuosa vi erano culture molto forti basate sull’agricoltura (armeni, georgiani e azerbaigiani, i quali in parte erano sotto l’egemonia dell’impero ottomano); invece a nord la situazione era totalmente differente, infatti vi erano società molto simili a quelle dei pellirossa in America – quindi con regimi prestatali – protette o dall’impero ottomano o da quello persiano in virtù dei rapporti economici instaurati nel 1500. Situazione peculiare poi era quella dei ceceni, i quali, a differenza delle altre popolazioni, erano molto numerosi ed estremamente islamizzati.

La Russia nel tentativo di raggiungere i territori settentrionali, si fece strada prima verso sud, conquistando tutta la Transcaucasia – a cominciare dalla Georgia, passando poi all’Armenia ed annettendo infine l’Azerbaigian – intorno al 1825. Il problema principale però, rimaneva sempre la Ciscaucasia poiché era protetta da formazioni militari che non seguivano strategie belliche “comuni” e che erano estremamente agguerrite. Per questo motivo, le guerre nel Caucaso durarono dal 1817 fino al 1864.

La resistenza cecena era guidata dal condottiero Imam Shamil, che cercò in qualsiasi modo di contrastare la grande potenza russa chiedendo anche alle altre popolazioni indigene di combattere contro il nemico comune. Purtroppo però, questa coalizione auspicata si rivelò un fallimento poiché le popolazioni, molto disomogenee ed in contrasto tra loro, non riuscirono a riunire le forze e combattere tutti insieme il nemico comune. L’Imam Shamil dovette arrendersi nel 1859, cedendo così il nord-est della regione ai russi, ai quali non restava altro che sottomettere i circassi. Questi ultimi erano ormai ridotti allo stremo delle forze in quanto, avendo già preso parte ai combattimenti in Crimea, avevano perso molti uomini.

Diaspora dei circassi

La conquista russa della Circassia annunciò così la fine della guerra nella Ciscaucasia e l’inizio dell’esodo di popolazioni musulmane, turcofone e non, verso l’impero ottomano – prima tra tutte proprio quella circassa.

I circassi vennero deportati verso la penisola anatolica, soprattutto ad est, a riprova dello storico e quantomai saldo sodalizio con l’impero ottomano – che li usò come combattenti per sedare le rivoluzioni nel resto dell’impero.

Così la popolazione che risiedeva in Anatolia, gli armeni, si trovava continuamente sotto scacco da parte sia dei circassi che dei curdi. Oltre alla diaspora circassa quindi, in quel periodo si assistette anche a quella armena – quest’ultima supportata e protetta dalla Russia.

Questa deportazione delle popolazioni autoctone dalla Ciscaucasia interessò tutto il mondo. Ad oggi infatti si contano circa 1 milione di ciscaucasici in Turchia, 40 mila in Giordania, 30 mila in Siria e altri 2 mila in Israele. Per rendere ancor di più l’idea di quanto sia stata forte e imponente questa deportazione, si rileva che attualmente in Russia (nelle Repubbliche Autonome di Adighezia, Cabardino-Balcaria e Karachaj-Circassia) vi sono circa 560 mila abitanti parlanti adighè (lingua tradizionale della popolazione circassa) o lingue autoctone.

La deportazione dei circassi fu una delle più dure, poiché ne fu vittima circa il 95-97% degli abitanti locali, molti dei quali morirono nel viaggio o vennero uccisi e solo pochi arrivarono a destinazione. Per coloro i quali decisero di rimanere in territorio russo, la sorte fu addirittura peggiore: fu tolto loro lo status di cittadino e anche quello di popolazione tribale.

Per far capire quanto fu duro l’esodo circasso c’è un proverbio dell’epoca che è molto esplicativo ed è:

Lì, dove i circassi si insediavano, i cimiteri crescevano più velocemente degli alberi.

Rivoluzione russa e ruolo della Ciscaucasia

Una volta stabilito il proprio controllo sul territorio della Ciscaucaisa, il governo zarista lo divise artificialmente in regioni interne così da riuscire ad isolare le comunità caucasiche sia tra di loro che dalla Turchia. Questo contribuì a far maturare un profondo sentimento antirusso in tutti coloro che erano stati espulsi dalla propria terra d’origine. Questi popoli però, non avevano ancora cessato di opporsi e si contraddistinsero vari eroi nazionali, ribelli solitari ed abrek (termine ciscaucasico che ha diversi significati, ma che si può tradurre dal ceceno in “vendicatore” o dal circasso in “uomo coraggioso”).

Sin dalla conquista zarista del territorio nord caucasico ci furono due elementi che crearono molto disordine e peggiorarono ulteriormente le condizioni di vita della popolazione: il governo militare e la questione della terra.

In conformità con le leggi, in Daghestan era stato insediato un governatore militare e negli ex distretti di Kuban’ e Terek era stato nominato un atamano cosacco, il quale aveva gli stessi diritti di un governatore ma solo limitatamente alle popolazioni autoctone. Con un sistema legislativo ed esecutivo così delineato, le sanzioni da comminare per un reato commesso venivano decise in base all’etnia di appartenenza dell’imputato, e la maggior parte dei rei veniva condannata alla pena di morte dal tribunale distrettuale militare caucasico.

L’altro problema, di certo non meno importante, che ha da sempre animato la rivoluzione è quello della terra. Detta questione era di fondamentale importanza per i ciscaucasici e produsse frequenti e forti dispute tra loro e i cosacchi, soprattutto nel distretto del Terek. Queste violente lotte erano dovute al fatto che i russi, durante l’occupazione del Caucaso, avevano spinto le popolazioni indigene nelle gole montane del Caucaso Settentrionale. Terminato il conflitto nel 1864, le autorità russe elargirono ai cosacchi, ai soldati in pensione ed ai contadini russi centinaia di migliaia di ettari di terra fertile e di vaste aree boscose – sottratte alla popolazione locale appunto.

Dopo la rivoluzione russa, che spodestò gli Zar, il 3 marzo 1918 – a seguito della firma del trattato di Brest-Litovsk – nacque la Repubblica delle Montagne del Caucaso Settentrionale, conosciuta anche come la Repubblica dei Montanari. Questa era composta dalle odierne repubbliche di Cecenia, Inguscezia, Ossezia-Alania, Adighezia e Daghestan ed era situata all’interno della stessa Federazione russa.

La nascita di questa Repubblica – come di quella di tutti gli altri Stati indipendenti nati al termine della rivoluzione russa – è frutto di un processo avviatosi nel periodo precedente al 1917.  Si era diffuso già da tempo, come abbiamo visto, un forte sentimento antirusso nelle popolazioni che abitavano il territorio a nord della catena del Caucaso tanto che le stesse desideravano annientare la grande forza imperialista degli zar russi. Questo sentimento anti-zarista si era poi diffuso in tutto il territorio sud-orientale europeo dell’ex impero, coinvolgendo realtà minori, tanto che l’ambasciatore inglese di stanza a Pietrogrado durante la rivoluzione, Sir George Buchanan, disse:

Non è sorprendente che la caduta del vecchio regimo fu accolta con un sospiro di sollievo, quindi la rivoluzione si diffuse da Pietrogrado a Mosca, e da Mosca a Kiev, e da qui attraverso tutto l’impero.

L’esperienza della Repubblica delle Montagne però, non durò molto a causa della propria inesperienza militare. L’armata montanara infatti si trovò a combattere contro l’Armata Bianca prima e l’Armata Rossa poi, entrambe composte da soldati russe ma aventi intenti ben diversi.

L’Armata Bianca voleva restaurare il vecchio impero zarista e riportare la popolazione della Repubblica ad una condizione di sostanziale schiavitù. D’altro canto, l’Armata Rossa, seppur opponendosi al ritorno dello zar e garantendo comunque concessioni maggiori rispetto all’epoca precedente, voleva annettere tutti i territori un tempo appartenuti all’impero russo per creare uno Stato socialista – che è poi la Russia moderna.

Le due Armate (Bianca e Rossa) arrivarono a contendersi questo stesso territorio perché la Repubblica delle Montagne era situata in un’importante posizione strategica ed era ricca di beni difficilmente reperibili altrove.

Completamente sopraffatta, l’armata della Ciscaucasia comunicò la resa definitiva a Denikin nel 1921. Questo portò all’eliminazione definitiva di tutte le realtà nazionali indipendenti nate in quel piccolo lasso temporale che va dal 1918 al 1920.

Terrorismo islamico in Cecenia e Daghestan

Sebbene le popolazioni autoctone della Ciscaucasia avessero un forte sentimento di rivalsa, fino agli anni ’90 si ebbero sporadici tentativi di ribellione – tra l’altro sedati tutti molto velocemente. Fu nel 1994, successivamente alla caduta dell’URSS, che la Cecenia intraprese un’aspra guerra con la Russia, che culminò nel 1996 con la dichiarazione di indipendenza della regione.

Dopo un primo periodo in cui il governo ceceno amministrava il territorio del tutto indipendentemente però, nel 1999 la Russia dichiarò una nuova guerra per tentare di riannettere lo Stato al suo interno, utilizzando come pretesto gli attentati terroristici avvenuti a Bujnask, Mosca e Volgodonsk, di cui vennero accusati i ribelli ceceni.

Questa volta la guerra per la riconquista durò solo un anno, ma le accuse di Mosca fecero scoppiare una guerra civile interna per cercare di sradicare i ribelli islamisti ceceni presenti sul territorio.

Ruolo fondamentale tra le fila dell’esercito ceceno in entrambe le guerre (quella del 1994 e quella del 1999) la ebbe, oltre che Dzhochar Dudaev ossia il futuro presidente della Repubblica cecena, Dokka Umarov – comandante, politico e terrorista russo di etnia cecena. Questi divenne successivamente non solo il braccio destro del presidente Dudaev ma anche e soprattutto uno dei principali comandanti dei ribelli. Lo stesso, a seguito della caduta della Cecenia, fondò l’Emirato del Caucaso (stato virtualmente autoproclamatosi indipendente).

Zone di influenza dell’Emirato del Caucaso

In sostanza ad oggi in Ciscaucasia la situazione è estremamente complessa: la regione fa parte del territorio russo a tutti gli effetti, ma vi regna incontrastato un emiro, che applica una propria versione personale della Sharia e che si comporta da vero despota. Per di più, la Russia continua ad avere grandi interessi – ed influenza – nella regione, tanto da dirigerne le decisioni politiche da “dietro le quinte”.

Un esempio eclatante di questa mantenuta influenza è rappresentato dalle Olimpiadi Invernali di Sochi del 2013. Sochi infatti, è una delle città principali della Ciscaucasia ma, trovandosi sul Mar Nero, è nota per le sue spiagge e le sue temperature miti che lo rendono un luogo di villeggiatura in voga tra la popolazione locale e non solo d’estate. Non il posto migliore dove organizzare le Olimpiadi invernali dunque.

Nonostante questo, le Olimpiadi furono organizzate in quella città e furono il motore per avviare una speculazione edilizia senza precedenti nel territorio, speculazione della quale hanno giovato soprattutto ditte russe. Dovendosi costruire ex novo numerosi impianti sciistici e strutture residenziali poi, si è fortemente impattato sull’ambiente e va qua ricordato che l’intera zona del Caucaso occidentale – dove si trova Sochi appunto – è patrimonio dell’Unesco. Come se non bastasse, detti interventi sregolati hanno grandemente deturpato il parco nazionale di Sochi e la vicina città Krasnaja Poljana.

Queste Olimpiadi furono fortemente criticate da varie parti. Quella più violenta è sicuramente la frangia terroristica. Durante i giochi infatti, ebbero luogo due attentati terroristici a Volgorad che furono immediatamente attribuiti all’Emirato del Caucaso – in particolar modo ad una cellula del Daghestan chiamata Vilayat Daghestan. Si è ipotizzato, ma non è stato mai pubblicamente accusato, che il mandante possa essere stato proprio lo stesso Dokka Umarov. Una prova di questa ipotesi sarebbe rappresentata da un video dell’estate 2013 nel quale Umarov esortava i propri seguaci ad usare la “massima forza” per far sì che le Olimpiadi non avessero luogo a Sochi, così da non far acquistare maggiore popolarità a Putin.

Forti furono le critiche anche dalla popolazione locale, la quale vedeva deturpato e profondamente modificato il proprio territorio, il tutto per arricchire – per l’ennesima volta – la Russia. La rabbia della popolazione esplose in vere e proprie rivolte, durante le quali alcuni persero la vita. Degne di nota sono poi le rivolte della comunità LGBT, che avvennero in contemporanea, e che unirono la loro voce al coro antirusso.

L’11 giugno 2013 infatti, fu votata dalla Duma (Camera bassa del Parlamento russo) la legge federale russa “allo scopo di proteggere i minori dalle informazioni che promuovono la negazione dei valori tradizionali della famiglia”, o meglio una legge per promuovere una propaganda “anti-gay” in difesa dei valori della “famiglia tradizionale”. Questa legge prevede che: chiunque promulghi la “propaganda dei rapporti sessuali non tradizionali” tra minori è passibile di ammenda; le aziende e le organizzazioni che si rilevano essere state coinvolte in questa diffusione sono costrette a chiudere per un periodo; gli stranieri possono essere arrestati fino a 15 giorni e poi espulsi o multati di 5 mila rubli e poi deportati – come successe a Vladimir Luxuria, insieme al duo Pio e Amedeo, nella loro protesta proprio in quel di Sochi.

Seppur è più o meno un ventennio che la Ciscaucasia non è dilaniata da conflitti, come abbiamo visto, l’influenza russa non accenna a diminuire ed anzi ora è ancora più difficile da contrastare dal momento che non è più così manifesta come durante un conflitto.

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Fonti

https://www.progettokavkas.it/il-caucaso-la-

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Gasdotto percorso del Corridoio Meridionale del Gas

Il gasdotto che ha unito nazioni, ma rischia di distruggere l’ambiente (e non solo)

Come abbiamo visto nella nostra scheda paese dell’Azerbaijan, l’economia di questo stato è basata sui combustibili fossili, principalmente petrolio e gas. Nell’articolo di oggi ci focalizzeremo sul gas e, nello specifico, sul gasdotto che porta questo materiale dal Mar Caspio fino a casa nostra. Il gasdotto in questione, chiamato anche Corridoio Meridionale del Gas, è stato costruito in momenti diversi e per questo motivo si compone di tre parti. La prima parte – che inizia dal giacimento di gas Shah Deniz, passa per la Georgia per arrivare fino al confine turco e quindi ad Erzurum – prende il nome di Gasdotto del Caucaso Meridionale. La seconda parte – che passa attraverso tutta la Turchia fino ad arrivare al confine a nord con la Grecia – si chiama Gasdotto Transanatolico. Infine l’ultima parte – che dalla Grecia passa per l’Albania per poi attraversare l’Adriatico e raggiungere le coste pugliesi, nello specifico la spiaggia di San Foca. Il progetto nacque allo scopo di incrementare l’importazione di gas verso l’Unione Europea cooperando con partner differenti rispetto alla Russia in quanto le riserve del Cremlino stanno iniziando ad esaurirsi. Il ruolo di questo gasdotto infatti, è stato al centro del dibattito energetico dal 2008 poiché l’obiettivo del progetto era così descritto: È necessario sviluppare un corridoio meridionale del gas per l’approvvigionamento di gas dai bacini del Caspio e del Medio Oriente… questa è una delle massime priorità di sicurezza energetica dell’Unione Europea. E’ stata questa la prima volta in cui si metteva in discussione la capienza delle risorse di Russia e Norvegia – fino a quel momento i partner principali per l’approvvigionamento di gas dell’Unione – ed a contribuire all’acuire delle tensioni è stato l’avvento della crisi economica, nello stesso 2008. Questa opera architettonica e ingegneristica ha coinvolto direttamente ben 5 paesi, causando non pochi problemi dal punto di vista ambientale. Ma scopriamo gradualmente insieme i problemi per la costruzione del gasdotto, iniziando dal primo tratto. Il Gasdotto del Caucaso del Sud La prima parte del gasdotto più importante d’Europa è il Gasdotto del Caucaso del Sud, opera costruita dal 2002 al 2006, che attraversa due stati per poi arrivare al confine tra Georgia e Turchia. Questa regione è famosa per la sua biodiversità: al suo interno possiamo trovare diverse specie, vegetali e animali, protette che oggi vivono a ridosso del gasdotto. Come se non bastasse detto gasdotto passa vicino a 5 aree protette tra cui i Santuari Naturali dello Stato di Barda e Korchay, una sorta di “Eden” per gli animali selvatici della zona che sopravvive da oltre 10.000 anni. Inoltre nella regione sud caucasica il gasdotto passa attraverso 20 fiumi e canali che hanno una forte importanza a livello ecologico. Il rischio che questi bacini idrici possano essere contaminati dal gasdotto è concreto ed elevato. Qualora ciò avvenisse, si originerebbero danni irreversibili che andrebbero a distruggere vari ecosistemi, oltre che a provocare grandi danni alla salute di pastori ed abitanti, i quali fanno ricorso all’acqua contenuta in questo reticolato idrico per svolgere le loro attività quotidiane. Per di più, dal momento che la regione dell’Azerbaijan è molto arida e povera di acque dolci sotterranee, la contaminazione di queste ultime rischierebbe di danneggiare gravemente le economie locali, che si basano maggiormente sull’agricoltura. Questo rischio aumenta ancora di più se si aggiunge il fatto che la zona caucasica è ad alto rischio sismologico – spesso sono stati rilevati terremoti con intensità 8 sulla scala Richter. Anche se l’area in cui passa il gasdotto è una zona a basso-medio rischio sismico, alcuni punti sui quali lo stesso si erige sono stati epicentro di moti terremoti. 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La questione del genocidio armeno

Il 10 aprile del 2019 la Camera dei deputati ha approvato una mozione che impegna il Governo italiano a riconoscere ufficialmente il genocidio del popolo armeno e a darne risonanza internazionale. Una precedente risoluzione del 2000, sempre in ambito parlamentare, impegnava, invece, il nostro Governo ad adoperarsi per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche e per una riapertura dei confini tra la Repubblica Armena e la Repubblica di Turchia. Proprio l’assenza di una lettura storiografica condivisa del genocidio armeno e il cosiddetto conflitto congelato del Nagorno Karabakh, sembrano essere le due cause principali sia del fallimento dei Protocolli di Zurigo del 2009 che di un’impossibilità di normalizzazione dei rapporti tra Armenia e Turchia. Il conflitto in Nagorno Karabakh e le relazioni “congelate” tra Armenia e Turchia A novembre scorso è arrivato l’annuncio dell’accordo di pace tra l’Armenia e l’Azerbaigian che pone fine a un conflitto militare per il Nagorno Karabakh che si protraeva da sei settimane. Un accordo ottenuto grazie alla mediazione di Vladimir Putin e che prevede, fondamentalmente, oltre all’impiego di forze di pace russe a garanzia della tregua, il rilascio armeno di alcuni distretti azeri e il mantenimento da parte dell’Azerbaigian dei territori recentemente conquistati. Quando nel 1921 la regione dell’Alto Karabakh fu inclusa nella Repubblica socialista sovietica dell’Azerbaigian, con uno status di autonomia, la popolazione era al 95% armena. La dinamica demografica ha così innescato le spinte separatiste che hanno, poi, determinato il conflitto degli anni ’90 e portato all’autoproclamazione dell’indipendenza della Repubblica dell’Artsakh dall’Azerbaigian. Il cessate il fuoco del 1994, a cui non è seguito un accordo di pace, ha comportato, invece, una situazione di stallo e la definizione di conflitto congelato, quantomeno, fino alla sua ripresa nel 2016 con la cosiddetta guerra dei quattro giorni. La Turchia, di fatto, ha vincolato la riapertura dei confini condivisi con l’Armenia alla soluzione del conflitto in Nagorno Karabakh, complicando ulteriormente la già difficile ripresa dei rapporti bilaterali, a causa del mancato riconoscimento del genocidio armeno. La chiusura è avvenuta nel 1993 a dimostrazione della solidarietà turca con le ragioni dell’Azerbaigian, con il quale ha stretto un’alleanza che va oltre la comunanza etnica e linguistica, ma che ha molto a che fare con una solida partnership economica. Centrale è il doppio ruolo dell’Azerbaigian quale Paese di produzione e transito sia di gas naturale che di petrolio e da cui la Turchia dipende in buona parte per la propria sicurezza energetica. In particolare, il progetto del Corridoio meridionale del gas che trasporta il gas azero dal giacimento caspico di Shah Deniz fino alle coste italiane, attraverso i suoi tre gasdotti del Caucaso meridionale (SCP), Trans-Anatolico (TANAP) e Trans-Adriatico (TAP), è stato supportato dall’Unione europea per contribuire alla parziale diversificazione dell’approvvigionamento energetico europeo. Però, i grandi progetti infrastrutturali, il cui costo stimato è di circa 40 miliardi di dollari, non hanno avuto alcun impatto diretto sull’Armenia, aggravandone la situazione d’isolamento economico. La posizione dell’Europa sul genocidio armeno Per la prima volta, nel 1973, la Sottocommissione per i diritti umani delle Nazioni Unite riconosce che l’eccidio degli armeni del 1915 è da considerarsi il primo genocidio del ventesimo secolo. Anche il Parlamento europeo, nel 1987, con la Risoluzione su una soluzione politica del problema armeno, affermerà che l’eccidio si costituisce come crimine di genocidio, ai sensi della Convenzione ONU del 1948, ma precisando, però, che da un riconoscimento ufficiale non potrà derivare alcuna rivendicazione legale, materiale o politica contro l’attuale Governo turco. Sempre nella stessa risoluzione dichiarerà, inoltre, che il mancato riconoscimento del genocidio rappresenta un ostacolo alla candidatura della Turchia all’adesione alla Comunità europea. La richiesta d’adesione era stata, infatti, presentata il 14 aprile dello stesso anno per essere poi accolta dal Consiglio europeo solo il 13 dicembre del 1999, con l’ufficializzazione dello status di Paese candidato. Sarà poi nel 2015, in occasione della commemorazione del centenario del genocidio armeno, che il Parlamento europeo adotterà nuovamente due risoluzioni che, pur non essendo giuridicamente vincolanti, ne esplicitano comunque la posizione sulla questione armeno-turca. Nella prima, l’Armenia e la Turchia sono richiamate all’obbligo di cercare una soluzione che porti alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche attraverso la ratifica e, soprattutto l’attuazione, di protocolli che favoriscano sia la cooperazione che l’integrazione economica dell’Armenia. E infine, nella Relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo, il Parlamento europeo avanza la richiesta del riconoscimento ufficiale del genocidio armeno a tutti i Paesi membri. Il genocidio armeno come arma politica Gli Stati che esprimono una posizione di riconoscimento ufficiale del genocidio armeno, anche se prevalentemente con documenti non intesi ad avere effetti giuridici, sono attualmente trenta. La questione, però, è stata anche utilizzata nelle relazioni diplomatiche dei vari Paesi con la Turchia a seconda delle convenienze e degli equilibri geopolitici. La stessa Russia, ad esempio, che ha riconosciuto il genocidio armeno già nel 1995 e ha un rapporto privilegiato con la Repubblica armena, non si è sottratta alla logica dell’arma politica. Nel novembre 2015, dopo l’abbattimento di un caccia russo che aveva sconfinato nello spazio aereo turco al confine con la Siria e aveva aperto una crisi nelle relazioni russo-turche, reagisce a un giorno di distanza con un progetto di legge per la penalizzazione della negazione del genocidio armeno. Mentre a febbraio del 2020, in una situazione di rapporti estremamente tesi tra Siria e Turchia a causa delle operazioni turche nell’area settentrionale del Paese, il parlamento siriano approva un disegno di legge per il riconoscimento del genocidio armeno. L’implicito riferimento all’attuale governo turco, con la condanna al negazionismo e a ogni distorsione della verità storica, e il tardivo riconoscimento delle sofferenze del popolo armeno ne rivelano piuttosto una strumentalizzazione politica in chiave anti-turca. Se la Francia ha sempre dimostrato una sensibilità particolare per la questione armena e ha riconosciuto il genocidio con una legge del 2001, invece gli Stati Uniti non si sono sottratti al gioco delle strategie geopolitiche. La seconda crisi di Cipro (1974), con il deterioramento dei rapporti diplomatici tra USA e Turchia, ha giocato un importante ruolo nella risoluzione del 1975 in cui

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