Storia di un giovane siriano con un “cuore di pietra”

Siria-accoglienza

Le coste calabre continuano ad essere tra i maggiori punti di arrivo di immigrazione, motivo per cui negli ultimi anni il territorio accoglie nuove strutture per i richiedenti asilo. Tra questi, la cooperativa Jungi Mundu di Camini, dal 2000, è diventato uno SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati).

Lo scorso agosto mi trovavo a Camini, comune di poco più di 600abitanti in provincia di Reggio Calabria, a pochi km dall’ormai nota Riace. Qui, Amnesty International già da qualche anno, organizza dei laboratori di formazione estivi per approfondire le tematiche di immigrazione e diritti di accoglienza. Appena scesa dal regionale, dopo 7 ore di viaggio e qualche grado in più intorno a me, ho subito capito che Camini non poteva che essere il luogo migliore dove parlare di immigrazione ed accoglienza. Una terra apparentemente abbandonata a sé stessa, dove l’edilizia moderna e la frenesia quotidiana sembrano appartenere ad un’altra dimensione.

Una piazza. Un bar con qualche tavolino in legno, dei divanetti ed uno schermo con le partite di calcio del giorno. Cittadini dalla pelle bianca, cittadini dalla pelle nera. Anziani, giovani e bambini. Questo è lo scenario che mi trovavo davanti. Uno scenario che sembrava apparentemente normale. Eppure, nell’aria c’era qualcosa di speciale. La prima sera già mi era tutto più chiaro. Quella piazza, quel bar e quei cittadini facevano parte di un’enorme famiglia, in una piazza che riuniva più storie di vita, una diversa dall’altra. Una famiglia in cui i richiedenti asilo, per lo più provenienti dalla Siria, ed i caminesi erano entrati in perfetta armonia. Un’armonia fatta di impegno quotidiano, sacrifici e voglia di ricominciare dopo un vero e proprio viaggio della speranza, con alle spalle una vita di guerra ed ingiustizia.

A “campo di accoglienza” spesso si associa l’immagine di un grande campo sperduto nel nulla con qualche baracca e sistemazione fatiscente. Di situazioni così purtroppo ne esistono ancora troppe ma questa volta vi voglio parlare di un’Italia che accoglie ed è sinonimo di rinascita e speranza per coloro che vi arrivano. Camini infatti è una vera eccezione e l’Italia è colma di borghi che hanno fatto dell’accoglienza la loro forza, dando ai rifugiati una “nuova” vita e dove loro stessi hanno ridato vita a delle realtà in cui l’unica cosa a regnare era diventata la desolazione.

Erano circa le 9 di mattina quando M. decise di accompagnare me e le altre ragazze del gruppo a riempire le nostre borracce alla piccola sorgente di Camini. M. in mezzo a noi, seppure più piccolo di quasi 10 anni, sembrava già un uomo, pronto a farci scoprire la sua realtà, raccontandoci con cura la storia del paesaggio che ci circondava. Ritornando verso la piazza, ci ritrovammo lui ed io da soli. La voglia di condividere la sua storia e la sua “non infanzia” come lui stesso l’ha chiamata, trapelava da ogni poro della sua pelle.

Non smettere mai di inseguire i tuoi sogni”, mi dice M. Sono state queste parole, accompagnate da uno sguardo che non potrò mai più scordare, che mi hanno spinto a dare voce ad una storia fatta di guerra, dolore, odio ma che M. è riuscito a trasformare in una storia di vita, speranza e determinazione. M. viene dalla Siria, terra da sempre contesa fra i paesi limitrofi, e non solo. Terra la cui ricchezza delle materie prime è diventata responsabile di migliaia di vite che, in cerca di un futuro dignitoso, si imbattono in viaggi la cui destinazione e la certezza di arrivarvi sono in mano ad un destino…ancora troppo clandestino.

M. arriva a Camini a giugno di 4 anni fa, quando aveva appena 9 anni, con la sua famiglia: cinque fratelli ed una sorellina che però non ce l’ha fatta di fronte ai raggi x di un’ecografia. Ora frequenta la II media, a Riace Marina, e descrive la scuola come un luogo in cui molti studenti prendono in giro i ragazzi stranieri. “Io ho tantissima forza ma non voglio usarla” inizia M. Era abituato in Siria dove tutti giravano armati e che anche per un minimo scherzo ci si poteva “rimettere la pelle”. A Camini ha trovato nuovi amici ma la sua esperienza lo ha fatto crescere con una rapidità tale che non si trova a suo agio con i bambini della sua età. Pur di non pensare e rivivere i fantasmi che sono in lui, esce comunque con i suoi coetanei per svagarsi un po’. M. poco prima dell’estate ha conosciuto un ragazzo più grande, di 25 anni e con lui riesce a parlare di “cose da adulti”. “Lui mi ha insegnato che non devo avere paura”.

“Com’era vivere in Siria? Ci pensi spesso?” “Come potrei non ripensarci, ho visto tante di quelle cose che nessun bambino si può immaginare e non auguro a nessuno di vivere ciò che ho vissuto io”. Si ricorda tutto M. Mi racconta ad esempio quella volta che era uscito con il papà, aveva forse 4 anni ma aveva già una forza innaturale. C’era la guerra fuori e M. si ricorda la grotta in cui si erano nascosti. L’unica arma che possedevano erano il coraggio e la forza di sopravvivere. Il papà aveva studiato le tattiche ed i tempi di reazione delle varie armi da fuoco e quindi anche quella voltai due si erano riusciti a salvare, nonostante la loro testa fosse al centro di un mirino. La guerra persisteva, giorno e notte, anche nei momenti più inaspettati. M. si è visto più volte i proiettili sfiorargli il corpo. Un giorno ad esempio stava aggiustando l’antenna con il papà, la cui maglietta si ruppe proprio per un proiettile che gli era caduto a fianco, o quando il fratello stava pranzando fuori dal balcone di casa e si è visto cadere una bomba di fronte.

M. si definisce forte, anche solo rispetto ad i suoi fratelli. Uno ha sofferto di crisi per tanto tempo, perché “certe immagini oltre a bombardarti dal vivo ti bombardano anche la testa”. Ammette che ha ancora bisogno della famiglia ma sembrava tutto fuorché impaurito e scoraggiato dal futuro. “Se mi butti a terra, io sono capace di rialzarmi ed andare avanti; invece i miei fratelli sono più deboli”. “Fin da quando sono piccolo ho un cuore di pietra, non avevo paura di niente”. M. ridendo mi racconta che una volta è persino scivolato a testa in giù dal suo balcone. Oppure quando, giocando a saltare da una parte all’altra degli edifici, una pietra gli ha sfiorato il viso e per poco non ci rimetteva la mano. Eppure, anche questo episodio lo riesce a raccontare con il sorriso perché si ricorda dell’operazione al dito in ospedale senza anestesia, circondato da due bimbe che gli toccavano i capelli per farlo distrarre.

In Siria il suo passatempo era saltare la corda con i suoi amici o rincorrersi nei campi. “Flash mi chiamavano perché correvo velocissimo e sentivo il vento che mi sfrecciava accanto. Mentre correvo mi immaginavo di oltrepassare una linea ed arrivare in un mondo diverso, senza guerra”. M. ha un cuore di pietra e non glielo si può proprio negare, ma riserva anche un amore immenso perla sua famiglia e mi dice che non andrebbe da nessuna parte senza di loro. M. racconta infatti che erano proprio i genitori ad incoraggiarlo ogni giorno ad andare avanti e gli hanno insegnato che “nella vita per vivere bisogna combattere”. Sono tutti molto legati e “il cuore della mamma è il cuore della mamma” mi dice M. Sono state proprio le parole dei genitori che gli dicevano che era il figlio più forte che hanno fatto di lui la persona ricca e coraggiosa che io ho conosciuto. M. descrive il papà come il suo insegnante di avventure e come una persona che ha imparato da solo a (sopra) vivere (al) la guerra, nonostante anche lui avesse due fratelli. “Anche io voglio farmi la mia vita da solo come ha fatto mio padre”.

“Quando stavamo in Siria l’unico obiettivo era quello di uscire dalla guerra e la meta più vicina e salva era la Turchia, ma ancora non sapevamo se ci saremmo poi spostati”. M. infatti prima di arrivare in Italia è passato per la Turchia, dove è rimasto 5 anni. Lì, il papà era un tuttofare e tornava la sera tardi quando tutta la famiglia già dormiva. Una volta arrivato in Italia ha dovuto operarsi ad i polmoni per tutte le sostanze chimiche che gli hanno attraversato il corpo durante quei lavori pesanti, mi racconta M. È stato il papà a partire da solo in Turchia in cerca di un lavoro ed una dimora per tutta la famiglia. Ed è sempre stato lui a tornare indietro ed aver portato loro nella nuova vita in Turchia. L’arrivo in Turchia non è stato immediato, infatti M. racconta di essere rimasto per qualche mese al confine tra la Siria e la Turchia, in un campo profughi. Qui c’è arrivato con una barca piccolissima attraverso un lago interno ed il viaggio è stato pericoloso, dall’inizio alla fine, quando il mezzo che li ha portati finalmente a casa era un trattore. Nella nuova casa turca ci sono stati solo un anno dato che poi il proprietario aveva deciso che era arrivata l’ora di mandarli via perché aveva ricevuto un’offerta migliore di affitto. “Ci disse che avremmo avuto un giorno di tempo, altrimenti avrebbe chiamato la polizia”.

Come ti immaginavi l’Italia quando ti hanno comunicato che sarebbe stata la prossima tappa del viaggio? “Mi immaginavo tante cose”, al che io lo interrompo e gli chiedo se avesse associato la pizza all’Italia e la sua risposta per un secondo mi ha congelato il cuore: “Non sapevo neanche cosa fosse la pizza, né dell’esistenza di internet o Google. Mi immaginavo piuttosto un luogo in cui hai il menu e puoi mangiare e bere tutto ciò che vuoi”. Dopo la prima notte in Italia niente gli sembrava vero, pensava di essersi svegliato da un sogno nel quale per la prima volta aveva dormito su un vero e proprio letto…e invece era tutto vero e “era bellissimo” ammette M. Un’altra cosa a cui non poteva credere era vedere le persone camminare tranquillamente, senza che ci fosse la guerra che da un momento all’altro avrebbe sconvolto le loro vite. “Una volta arrivati in Italia, la nostra vita è lentamente migliorata”. La donna in Siria deve stare in casa e le coppie non si possono scambiare alcun tipo di gesto di affetto. “Quando ho iniziato a capire che in Italia, per strada, si potesse liberamente baciare la propria ragazza o camminare mano nella mano, ho realizzato di quanto il mio paese fosse diverso e così lontano da qui”. La mamma, dopo anni di crisi e depressione si sta riprendendo. È stata molto male soprattutto dopo la nascita del figlio con problemi alla spina dorsale e che non ha mai camminato come il resto dei bambini della sua età. “Ma è fortissimo e intelligentissimo. Parla italiano, arabo e ora sta imparando anche l’inglese”, mi dice M. fiero.

M. prima di arrivare in Italia non era mai stato a scuola. Aveva frequentato per due anni qualche corso nel campo in Turchia ma lì “non avevano cuore, ricevevo solo botte dagli insegnanti che erano siriani. Io non capivo cosa dovessi fare perché nessuno me lo aveva mai insegnato. Eppure, pretendevano che facessi riassunti altrimenti le botte erano sicure”. Infatti, il primo giorno di scuola in Italia M. non poteva credere che gli insegnanti fossero gentili e stavano lì per fargli capire e conoscere nuove cose.

Ti piace studiare? “Si, mi piace ma non troppo” ammette M. ridendo, “Sono più per le cose creative”. Eppure, in poco tempo ha imparato un italiano quasi perfetto. “All’inizio comunicavo a gesti perché parlavo solo arabo, ma poi piano piano ho iniziato a capire. Loro -riferendosi ai suoi nuovi amici e le persone che lo avevano accolto a Camini- mi provavano a spiegare, anche 3 o 4 volte. Per questo ora li voglio sempre difendere”. Nonostante in inglese non sia così bravo come in italiano, riconosce l’importanza della lingua per fare carriera.

M. ha un sogno: diventare un attore per raccontare la storia della sua vita. “Da quando hai iniziato a pensare di diventare un attore da grande?” “Fin da piccolo ero bravo a recitare, facevo finta di essere morto e tutti i miei amici mi hanno sempre detto che avevo talento.” A Milano ha un amico che sta seguendo un corso di recitazione che un giorno spera di poter far anche lui. A scuola c’era un “infame che mi rubava tutte le parti principali che avrei voluto prendere io. Fino all’anno scorso stavo zitto e non mi ribellavo, ma credo che quando tornerò a settembre cambierò e non starò più zitto”, mi racconta M. “Come mai pensi di non voler più tacere?” “Perché ho capito che bisogna reagire quando le persone si prendono gioco di te. Ora quando qualcuno mi prende in giro, mi domando “ma tu dov’eri mentre io stavo in guerra?”

“Hai pensato di tornare in Siria?” “Non ho intenzione per ora di tornarci ma vorrei andare a trovare i miei zii ma so che è impossibile, perché se vai lì non c’è ritorno”. La famiglia di M. è musulmana e lui mi dice che è proprio grazie al loro dio se sono riusciti a scampare da tutte le brutalità che hanno vissuto. “Ma come ti spieghi che ci sia ancora la guerra? Non ti sei mai chiesto perché questo dio non riesce ad evitare che gli uomini facciano ancora questi disastri?” “Può essere che Dio ha fatto tutto ciò per dimostrarci che ci stava o come punizione per coloro che non pregano. Ma io oggi sono qui perché so che dio non mi ha mai fatto andare a dormire senza aver mangiato neanche un pezzo di pane” risponde M.

Se la risposta alla mia ultima domanda è davvero quella di M., lascio ad ognuno di voi il tempo di rifletterci. Ciò che non può essere messo in dubbio è che se ogni uomo avesse un “cuore di pietra” come quello di M., noi non staremmo qui a parlare ancora di guerra, immigrazione e diritti di accoglienza che ancora troppe persone stanno aspettando.

Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

Conoscere è resistere!

Condividi questo articolo e aiutaci a diffondere i nostri contenuti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Puoi continuare ad approfondire attraverso i nostri articoli: