Per questo approfondimento abbiamo intervistato Tobias Pellicciari, Direttore di International Support – Human Rights “Migration and Asylum Program in Europe”. Tobias lavora da anni nel settore dell’accoglienza di migranti e rifugiati in Europa, con una particolare attenzione alle minoranze sessuali. Grazie alla sua esperienza ed alle interviste ad alcune delle vittime svolte dal team di LMPride, in questo articolo di inchiesta siamo in grado di restituire un quadro completo di quelle che sono le condizioni in cui i migranti LGBTQ+ sono costretti a vivere in Kenya. Ci focalizziamo in particolar modo sul campo profughi di Kakuma, gestito dall’Alto Commissariato per i Rifugiati – anche noto come UNHCR.
Noi di Large Movements abbiamo già raccontato di come l’omofobia in Kenya sia una problematica tuttora presente in qualsiasi strato ed aspetto della società e del vivere civile e di come la comunità LGBTQ+ kenyota sia fortemente stigmatizzata ed emarginata. In questa intervista invece, vogliamo far luce sulle condizioni di migranti e richiedenti asilo che, scappati dal proprio Paese di origine, per lo più dall’Uganda, vengono discriminati in ragione del proprio orientamento sessuale ed identità di genere. Anche questi richiedenti vengono ospitati all’interno del campo profughi gestito da UNHCR a Kakuma.
Fotografia dell’area
Kakuma si trova nell’area nordoccidentale del Kenya, precisamente nella contea di Turkana, nella Rift Valley. Il campo profughi che si trova vicino alla città è stato fondato nel 1992 per ospitare 16.000 tra ragazzi e ragazze in fuga dalla guerra in Sudan. Oggi ospita più di 200.000 persone, diventando così uno dei campi profughi più grande al mondo.
L’area in cui il campo sorge è prevalentemente arida e fortemente soggetta agli effetti dei cambiamenti climatici, che rendono quasi del tutto incoltivabili i terreni, sempre più minacciati dall’avanzamento del deserto.
Il campo profughi di Kakuma è stato allestito in una zona isolata e fuori dai centri di aggregazione della città perché, a detta del governo keniota, in questo modo si tutela la sicurezza sia della popolazione locale che degli ospiti del campo.
Questo rende ancor più difficile per rifugiati e richiedenti asilo che si trovano a Kakuma poter accedere a tutta una serie di servizi essenziali (ospedale, impiego ecc…). Per di più, le condizioni di vita all’interno del campo sono al limite – se non al di sotto – di ogni standard minimo di dignità umana: ci sono spesso infestazioni di insetti, il cibo scarseggia e la situazione igienico-sanitaria è al collasso.
Le già ostiche condizioni di vita delle persone residenti a Kakuma, si complicano ancora di più, se ci si focalizza sulla comunità LGBTQ+ e sugli ospiti del campo che attendono l’asilo. Molte di queste persone, anche se non tutte, sono ospitate in settori separati (denominati
anche “blocchi”) rispetto al restante dei residenti di Kakuma, per meglio garantirne la sicurezza – a detta del personale dell’UNHCR.
Cosa vuol dire vivere a Kakuma per una persona LGBTQ+
Secondo i ragazzi intervistati, l’ulteriore isolamento in cui versa la comunità LGBTQ+ presente a Kakuma ha aggravato le condizioni di vita di questa categoria vulnerabile di migranti. L’averli posti in blocchi separati infatti, li ha resi più visibili e, quindi, più facilmente riconoscibili dagli altri ospiti in quanto LGBTQ+.
Questi ultimi provengono molto spesso dagli stessi Paesi di origine dei richiedenti queer – prevalentemente Uganda e Somalia – quindi sono portati a mettere in atto gli stessi comportamenti omofobi, le stesse violenze e le vessazioni che hanno spinto gli ospiti LGBTQ+ di Kakuma a lasciare la propria terra. Rendendoli maggiormente visibili – confinandoli tutti nella stessa area – dunque, l’UNHCR avrebbe aumentato di fatto il rischio per i migranti LGBTQ+ di subire persecuzione e violenza. Questi atti violenti e brutali sono perpetrati all’ordine del giorno all’interno del campo di Kakuma e tutte le vittime con le quali abbiamo parlato lamentano di non aver ricevuto una vera e propria protezione da UNHCR che, molto spesso, non risponde alle loro richieste di aiuto e/ tutela.
La situazione non è migliore per coloro che non risiedono nei blocchi separati.
Questi ultimi, infatti, sono comunque noti agli altri ospiti come persone queer e sono soggetti agli stessi attacchi ed alle stesse violenze.
Molti migranti LGBTQ+ di Kakuma si sono ritrovati a vivere fuori dalle baracche, dormendo all’aria aperta per proteggersi a vicenda, se non addirittura per strada a Nairobi. In questo modo si sentono comunque più sicuri rispetto a dormire negli alloggi loro assegnati nel campo. Molto spesso tra loro ci sono donne lesbiche con i loro figli, anche loro vengono sottoposti alle stesse violenze subite dalle loro madri.
La decisione di dormire all’esterno arriva dopo una serie di roghi appiccati dagli altri residenti agli alloggi dei migranti queer, mentre gli stessi dormivano all’interno.
Emblematico, come la situazione sia fuori controllo all’interno del campo e delle gravi mancanze del personale di UNHCR nella tutela di questa categoria vulnerabile di migranti, fu il caso del rogo del 15 marzo 2021, nel quale due ragazzi omosessuali sono stati bruciati vivi da altri residenti del campo di Kakuma. Per due lunghi giorni, UNHCR non ha neanche fornito una vera e propria assistenza sanitaria alle vittime dell’incendio, rimasti nel campo senza nemmeno avere accesso ad appropriate cure mediche.
Dopo una fortissima pressione da parte di International Support – Human Rights, UNHCR ha trasferito i due ragazzi in ambulanza in un ospedale distante 125km da Kakuma, nonostante il personale stesso dell’ambulanza e la comunità locale avessero indicato l’ospedale di Nairobi come l’unico equipaggiato per curare la tipologia di ustioni riportate dai due ospiti.
Finalmente, il 18 marzo, UNHCR – su pressione della Commissione Europea, allertata da Tobias – ha trasportato le vittime all’ospedale di Nairobi in eliambulanza.
Purtroppo, uno dei due ragazzi è morto a seguito delle gravissime ustioni riportate e, soprattutto, della mancata assistenza medica tempestiva ed adeguata.
L’unica dichiarazione rilasciata da UNHCR a seguito di questa tragedia risale a quasi un mese dopo ed è consistita in una generica richiesta alle autorità kenyote di investigare. Le indagini hanno immediatamente portato al riconoscimento dell’aggressore, che però ad oggi è ancora a piede libero e non è stato raggiunto da alcun tipo di provvedimento penale né tantomeno è stato isolato dallo staff di UNHCR. Addirittura, lo stesso continua a minacciare il ragazzo sopravvissuto al rogo, che è stato costretto a rifugiarsi in una casa sicura fuori dal campo perché lo staff di UNHCR non gli ha garantito protezione.
Purtroppo, la mancata attivazione delle autorità giudiziarie in questa vicenda non stupisce poiché, come detto in precedenza, il Kenya è un Paese fortemente omofobo, dove sono ancora in vigore una serie di “leggi anti-omosessuali” di stampo coloniale. Ma l’impunità dopo crimini così efferati non deve essere concepita.
Questa “tradizione” omofoba ha fatto sì che oggi in Kenya viga ancora una vera e propria omofobia di Stato, che quindi, i migranti LBGTQ+ non ricevano alcuna tutela dalle autorità locali, teoricamente responsabili, insieme al tacito consenso di UNHCR, della loro sicurezza. Al contrario, ci sono pervenute molte denunce di arresti arbitrari, violenze fisiche e verbali, finanche torture ai danni dei richiedenti LGBTQ+ da parte delle stesse autorità di polizia keniote.
Dal momento poi, che l’omofobia è permeata in ogni settore della società keniota, per questa categoria vulnerabile di migranti è praticamente impossibile trovare un lavoro. Non appena i datori di lavoro capiscono che si trovano di fronte una persona LGBTQ+ non la assumono oppure, laddove inizialmente assunta, la licenziano. Questa impossibilità di accesso al mercato del lavoro ha fatto sì che la prostituzione sia, ad oggi, la fonte di sopravvivenza principale per molte di queste persone.
In generale, molti dei migranti LGBTQ+ residenti a Kakuma, sopravvivono solo grazie ai programmi alimentari di UNHCR stessa – che però sono stati interessati da una drastica riduzione dei fondi – ed al supporto delle associazioni locali, LGBTQ+ e non solo.
Proposte per rispondere all’emergenza e migliorare le condizioni di vita dei migranti LGBTQ+ all’interno del campo di Kakuma
Come Tobias ci spiega nell’intervista integrale (che trovate alla fine di questo paragrafo) l’UNHCR ha un potere di azione e di influenza sul governo kenyota molto limitato. In quanto interlocutore diretto del governo, infatti, pur godendo di un certo grado di autonomia di azione, l’UNHCR deve comunque rispettare ed applicare le politiche adottate da quel Paese.
Un fatto altamente rappresentativo dei limiti di azione dell’Alto Commissariato per i Rifugiati in Kenya ha avuto luogo nel 2018. Il 19 dicembre 2018, l’UNHCR invia una lettera ai residenti LGBTQ+ all’interno del campo di Kakuma riconoscendo l’eccessivo rischio per la loro sicurezza ed informandoli che li avrebbero trasferiti in alloggi sicuri a Nairobi.
Questo reinsediamento è avvenuto in maniera tempestiva ma, già dallo stesso giorno in cui si sono ultimati i trasferimenti, la polizia informa con una nota affissa all’interno del campo che non assisterà più i migranti LGBTQ+ vittime di attacchi – sia all’interno che all’esterno del campo – e che da quel momento, queste persone si sarebbero dovute rivolgere esclusivamente ad UNHCR per la propria protezione.
Qualche mese dopo l’avvenuto trasferimento però, il governo del Kenya ha ordinato ad UNHCR di riportare tutti i migranti LGBTQ+ trasferiti a Nairobi all’interno del campo, sostenendo che così se ne sarebbe potuto meglio garantire la sicurezza.
A quel punto UNHCR, pur avendo formalmente riconosciuto solo qualche mese prima che le condizioni all’interno del campo mettevano costantemente a rischio la sicurezza degli ospiti LGBTQ+, non ha potuto far altro che riportare tutti all’interno del campo. Dove rimangono tuttora, in attesa di essere reinsediati nuovamente, come promesso loro più volte dalla stessa UNHCR.
Proprio per questo limite di azione dell’Alto Commissariato per i Rifugiati, come ci dice Tobias, la Commissione Europea è il soggetto più indicato ad operare una mediazione con il governo kenyota, in quanto equa controparte governativa.
A tal proposito, si rileva che il 19 settembre 2021 il Parlamento ha emanato una Proposta di Risoluzione per aumentare la pressione su: (i) il governo del Kenya, affinché conduca indagini approfondite e garantisca effettiva protezione ai migranti LGBTQ+; (ii) l’UNHCR e la comunità internazionale in generale, affinché si migliorino le condizioni di vita all’interno del campo da un lato, ma soprattutto affinché si creino dei percorsi legali e sicuri per consentire a questa categoria vulnerabile di migranti di lasciare l’inferno terrestre nel quale sono costretti a vivere.
Proprio su quest’ultimo punto versa la nostra intervista a Tobias. Con lui andiamo a discutere di possibili soluzioni concrete che permettano di risolvere effettivamente la situazione in maniera stabile e duratura.
Anzitutto, chiediamo al Parlamento Europeo di non lasciar cadere la sua Proposta di Risoluzione ed evidenziamo la necessità di aprire un tavolo di negoziazione con Nazioni Unite ed UNHCR per capire quali siano le problematiche che impediscono all’Alto Commissariato per i Rifugiati di garantire effettiva protezione all’interno del campo di Kakuma (e non solo) ad una categoria vulnerabile di migranti quali quella delle persone LGBTQ+.
Per rispondere all’esigenza di protezione immediata di coloro che sono vessati da anni all’interno del campo ed ai quali era stato garantito che sarebbero stati reinsediati in tempi brevi, si devono sbloccare i reinsediamenti – fermi da settembre 2019, complice anche la pandemia di Covid19.
Quella dei reinsediamenti infatti, come rileva Tobias, è un’arma molto utile per garantire la protezione dei migranti LGBTQ+ che sono costretti a vivere a Kakuma a lungo termine.
Come ha spiegato anche durante il suo discorso al Parlamento Europeo in occasione della giornata mondiale contro l’omotransfobia di quest’anno, Tobias propone di destinare le quote di reinsediamento trimestrali per la costruzione di un meccanismo di reinsediamento periodico ed automatico costruito sulle esigenze delle persone LGBTQ+ che sostano a Kakuma. Ad oggi, infatti, per il reinsediamento dei rifugiati LGBTQ+ di Kakuma si utilizzano solo le quote non assegnate, decisamente numeri troppo bassi per avere un reinsediamento costante.
Si definiscono quote non assegnate quel numero di posti che gli Stati “mettono da parte” ogni anno perché destinati al reinsediamento globale. Si può ricorrere a queste quote ogni qualvolta vi siano dei casi che necessitano di reinsediamento urgente o di emergenza, indipendentemente dal loro Paese di origine o d’asilo.
Un’altra soluzione sulla quale chiediamo all’Unione Europea di insistere al tavolo di negoziazione con Nazioni Unite ed UNHCR, è quella di ammettere i migranti LGBTQ+ all’interno del progetto UNICORE dell’ONU mirante a garantire corridoi universitari.
I corridoi universitari sono molto simili ai corridoi umanitari ma ve ne differiscono perché il loro obiettivo principale è quello di tutelare il diritto allo studio delle persone.
Questa potrebbe essere un’ulteriore soluzione per garantire la possibilità di iniziare una nuova vita, degna di essere chiamata tale, sia ai bambini di persone omosessuali all’interno del campo di Kakuma – che non possono accedere all’educazione poiché discriminati dagli altri bambini –, sia agli stessi migranti LGBTQ+ – che non possono continuare gli studi all’interno del campo poiché vessati dagli altri studenti.
In ultimo, Tobias ci rileva come il Kenya – insieme ad Etiopia e Sudan – sia uno dei destinatari principali dei fondi dell’Unione Europea, tra cui quelli dello European Emergency Trust Fund (anche noto come EUTF). Gli obiettivi che l’UE si era prefissa di raggiungere allocando buona parte di questi fondi in questi Paesi erano: (i) rafforzare la resilienza delle comunità locali; (ii) aumentare le possibilità di accesso ai servizi base per la popolazione; (iii) promuovere lo sviluppo delle capacità e, conseguentemente, migliorare l’accesso al mercato del lavoro per le categorie più vulnerabili della popolazione.
Questi fondi vengono allocati nel concreto tramite una serie di programmi di cooperazione allo sviluppo, che si attuano sul campo attraverso l’adozione di una serie di progetti – ciascuno volto a raggiungere gli obiettivi prefissi dall’EUTF.
Durante la nostra intervista, Tobias propone di discutere, in sede di revisione dei fondi europea, anche delle somme allocate per il Kenya dal momento che:
- le autorità kenyote si sono dimostrate assolutamente incapaci di amministrare i fondi destinati alla gestione dei flussi migratori. Questo settore appare ad oggi, infatti, del tutto caotico ed altamente disorganizzato. Per di più, la corruzione continua ad essere dilagante, pertanto, una percentuale veramente esigua di questi fondi viene destinata al supporto effettivo dei migranti;
- di questi fondi, nonostante tutte le denunce presentate dalle associazioni locali e dalle ONG circa la condizione dei migranti vulnerabili – tra cui gli LGBTQ+ – nei campi profughi del Kenya, una parte del tutto irrisoria viene allocata per il supporto di questa specifica categoria di persone;
- i fondi destinati a finanziare i programmi di supporto alimentare, uno degli obiettivi principali dell’EUTF, sono stati quasi del tutto tagliati senza un reale motivo;
- i fondi destinati ai reinsediamenti che vengono allocati ogni anno non vengono utilizzati per reinsediare i migranti LGBTQ+ residenti nei campi profughi del Kenya. Questi migranti, come abbiamo messo in luce in questa inchiesta, sono coloro che dovrebbero poter accedere a questo meccanismo in via prioritaria, proprio per la natura stessa dell’istituto del reinsediamento.
Cosa chiediamo alla comunità internazionale e cosa faremo
Noi di Large Movements, insieme all’International Support – Human Rights ed a Il Grande Colibrì, continueremo a monitorare la situazione ed a far pressione sulla comunità europea affinché queste richieste vengano accolte.
Continueremo a produrre materiale di denuncia delle condizioni all’interno del campo e degli attacchi nei confronti della comunità LGBTQ+ lì residente, nonché a seguire gli sviluppi del tavolo di negoziazione tra Parlamento Europeo e Nazioni Unite.
Dato il contenuto di alcune immagini, non pubblicheremo tutto il materiale in nostro possesso sui nostri canali pubblici ma siamo pronti a condividerlo con le associazioni, gli attivisti, i giornalisti e/o gli esperti di migrazione che vorranno unirsi a noi nel farsi portavoce delle istanze di centinaia di uomini e donne che continuano a subire violenze inaudite – e finanche a morire – solo per poter essere liberi di amare e di esprimere loro stessi.
Continuate a seguire le nostre pagine per rimanere sempre aggiornati sui risultati della nostra inchiesta.
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2 Responses
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