Uganda: Porto Sicuro o Polvere sotto al Tappeto? Ne parliamo con Maëlle Noir

Sentiamo spesso parlare del conflitto nella Repubblica Democratica del Congo, come in Sud Sudan o delle continue violenze e rappresaglie in Repubblica Centraficana. Sappiamo gravemente poco, però, delle persone che scappano da questi conflitti, dei rifugiati, delle loro condizioni, e soprattutto delle condizioni delle donne che si ritrovano a fuggire per salvare le proprie vite e le proprie famiglie. Per questo oggi vorremmo porre l’accento su una parte spesso tralasciata nelle narrative dei conflitti: le persone che sono spinte a fuggire da questi contesti e che nella stragrande maggioranza dei casi, contrariamente a quanto spesso viene falsamente sostenuto, rimangono in Africa cercando asilo in Stati confinanti e non scelgono di affrontare il pericolossissimo viaggio verso l’Europa. Uno dei Paesi africani che accoglie una grande quantità di persone in fuga è l’Uganda.

Oggi ne parliamo con Maëlle Noir, dottoranda dell’Irish Research Council presso l’Irish Centre for Human Rights dell’Università di Galway. La sua ricerca affronta la questione della violenza nei confronti delle donne rifugiate attraverso una prospettiva femminista intersezionale e decoloniale, esplorando la rilevanza di un approccio femminista al diritto come alternativa alla prassi legale nel contesto dei rifugiati urbani ugandesi.

Maëlle ha una vasta esperienza nel campo dell’advocacy e della ricerca comunitaria, poiché negli ultimi cinque anni ha lavorato con diverse organizzazioni nazionali e locali della società civile in India, Irlanda, Francia e Uganda.  È anche assistente di ricerca part-time nell’ambito del progetto Horizon dell’Unione Europea su democrazia e politica, collaborando con ricercatori in Slovacchia, Austria, Italia e Irlanda.

Ciao Maëlle, è un piacere averti qui con noi. Innanzitutto, vorrei chiederti della popolazione rifugiata che raggiunge l’Uganda. Quali sono le principali nazionalità che chiedono asilo in Uganda, qual è la procedura per richiedere asilo nel Paese e dove sono accolti i rifugiati?

È importante iniziare dicendo che in Uganda risiedono oltre 1,5 milioni di rifugiati, cifra che ne fa la prima popolazione di rifugiati in Africa e la quarta al mondo. Ciò si spiega con la posizione geografica dell’Uganda, crocevia di diverse zone di conflitto nei Paesi vicini, tra cui la Repubblica Democratica del Congo (RDC), il Sud Sudan, la Somalia, l’Etiopia, il Burundi, l’Eritrea, il Ruanda, ecc. L’Uganda ha anche una lunga storia di “politica di porte aperte”, sostenuta finanziariamente e politicamente dal Nord globale che sostiene lo Stato nell’accogliere i rifugiati in fuga dai conflitti e dalle persecuzioni.

Per quanto riguarda la nazionalità, il Sud Sudan, la Repubblica Democratica del Congo e la Somalia sono i Paesi di origine predominanti per i rifugiati in Uganda, in quanto costituiscono rispettivamente il 57,1%, il 32% e il 4,1% della popolazione totale rifugiata. Tuttavia, quando si tratta di rifugiati urbani, solitamente localizzati nella capitale Kampala, nella parte meridionale del Paese, questi sono principalmente Somali, Congolesi, Eritrei, Sud Sudanesi, Burundiani ed Etiopi.

Il Refugee Act ugandese del 2006 amplia la definizione di rifugiato fornita dalla Convenzione sui Rifugiati del 1951 e dalla Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana del 1969 che disciplina gli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa, includendo il criterio del genere. Pertanto, chiunque si trovi al di fuori del proprio Paese d’origine, a causa di aggressioni esterne, occupazione, dominazione straniera od eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico, ed abbia il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale, opinione politica o genere, può ottenere lo status di rifugiato.

La procedura per richiedere asilo in Uganda varia a seconda che il richiedente asilo desideri stabilirsi in un campo (che spesso viene concesso sulla base dello status di rifugiato prima facie o “automatico” ossia, di gruppi di persone che provengono da uno Stato che l’UNHCR ha riconosciuto soddisfare i requisiti oggettivi che giustificano la presupposizione dello status di rifugiato. Per queste persone dunque, dovrebbe essere più semplice e veloce ottenere lo status perché l’onere probatorio della situazione nel Paese di origine è del tutto inesistente. Si sono intenzionalmente lasciate le virgolette sul termine automatico però, perché nella realtà questa presunzione non viene quasi mai applicata) o in città (rifugiato non prima facie, al contrario, individui non appartententi alla modalità “automatica”), ma in entrambi i casi rimane relativamente semplice. Per lo status di rifugiato “automatico”, i richiedenti asilo che raggiungono il confine vengono trasferiti in uno dei numerosi centri di accoglienza del Paese per un breve colloquio con un agente dell’Ufficio del Primo Ministro (OPM) prima della registrazione e dell’ottenimento dello status di rifugiato. Questo processo dura da pochi giorni ad un massimo di un paio di settimane, a meno che non ci sia un afflusso particolarmente importante di rifugiati. È più difficile ottenere lo status di rifugiato “non-automatico”, soprattutto per potersi stabilire in una città. Il richiedente asilo deve registrarsi presso l’OPM e sottoporsi a una serie di colloqui con diversi interlocutori, tra cui un ufficiale di polizia e un funzionario dell’OPM incaricato di esaminare lo status, seguiti da un esame finale del caso da parte del Comitato per l’ammissibilità del rifugiato. Secondo l’UNHCR, nel 2022 circa l’87,5% delle domande di status di rifugiato è stato accolto. A titolo di confronto, nel 2022 in Italia oltre l’80% dei richiedenti asilo si è visto negare lo status di rifugiato.

Parlando dei campi profughi ugandesi, quali sono le condizioni di accoglienza nei campi?

L’Uganda è spesso elogiata dalla comunità internazionale e dai media per le sue condizioni di accoglienza esemplari che favoriscono un “porto sicuro” o addirittura un “paradiso” per i rifugiati.

In effetti, sulla carta e in conformità con il Comprehensive Refugee Response Framework, i richiedenti asilo che hanno ottenuto lo status di rifugiato ricevono automaticamente un appezzamento di terreno da coltivare, l’accesso all’istruzione ed all’assistenza sanitaria gratuita, nonché il diritto al lavoro ed alla libertà di movimento.

Tuttavia, sappiamo che la teoria di solito differisce drasticamente dalla pratica ed è il caso anche del contesto dei rifugiati in Uganda. La politica di non confinamento (non-encampment policy), apparentemente progressista, promossa dal Comprehensive Refugee Response Framework, non è molto ben attuata in quanto la libertà di movimento rimane condizionata all’ottenimento di un permesso rilasciato dall’OPM e dall’UNHCR. Nell’insediamento, il sussidio monetario ammonta attualmente a 13.000 scellini ugandesi al mese, pari a circa 3,50 euro. I servizi sanitari e scolastici sono sottofinanziati e insufficienti, quindi non tutti hanno accesso ad un’assistenza sanitaria ed un’istruzione adeguate. Inoltre, gli insediamenti sono descritti come luoghi di violenza elevata, soprattutto contro le donne e le comunità LGBTQ+. Sono stati segnalati anche casi di violenza di genere e sfruttamento sessuale perpetrati da operatori umanitari incaricati di ripartire le risorse.

Il messaggio promosso dalla comunità internazionale sull’Uganda e sulle sue politiche di non confinamento quale “porto sicuro” per i rifugiati riflette anche un discorso coloniale e razzista perpetrato nel Nord del mondo.  Un esempio delle “eccezionali condizioni di accoglienza” in Uganda che viene spesso presentato, soprattutto dai media occidentali, è l’assegnazione gratuita ai rifugiati di un appezzamento di terra, riducendo l’unica attività professionale degli stessi all’agricoltura. 

Le informazioni fornite qui sopra non si basano sull’osservazione, poiché la mia ricerca si concentra esclusivamente sui rifugiati urbani, ma derivano da letteratura scientifica e dalle testimonianze fornite dagli intervistati della mia ricerca che sono fuggiti dagli insediamenti in cerca di una vita più pacifica e priva di violenza.

A questo proposito, puoi parlarci dell’accesso all’assistenza per i casi di violenza di genere e se e quali sono le politiche in atto nel Paese che possono ostacolare un approccio sensibile alle questioni di genere?

Sebbene le leggi e le politiche ugandesi sulla determinazione dello status di rifugiato e la sua protezione sembrino tenere conto della dimensione di genere dell’esperienza migratoria, la loro attuazione manca in modo cruciale di una sensibilità di genere e culturale. Infatti, abbiamo visto che la Legge sui Rifugiati del 2006 è particolarmente progressista, in quanto aggiunge come motivo di asilo la violazione delle pratiche discriminatorie di genere. La violenza e gli abusi di genere sono affrontati anche nel quadro del Comprehensive Refugee Response.

Nel caso dei rifugiati che si trovano negli insediamenti, le strutture che si occupano di violenza di genere sono spesso molto lontane e i rifugiati non possono permettersi di viaggiare su una boda-boda (“motocicletta” in Uganda) per denunciare un caso alla polizia. Se le sopravvissute raggiungono la stazione di polizia, molte riferiscono di non venire credute o addirittura di ricevere richieste di denaro per registrare il caso. A volte i partner attuativi dell’UNHCR sono presenti in loco, ma non dispongono di risorse sufficienti e non possono occuparsi di tutte le denunce.

Sia negli insediamenti che nel contesto urbano, la ricerca empirica dimostra che gli operatori dei servizi contro la violenza di genere non sono sufficientemente formati per adottare pratiche sensibili alla dimensione di genere. I partecipanti alla mia ricerca (sia sopravvissuti che operatori dei servizi per rifugiati) hanno riferito molti casi di ritraumatizzazione e normalizzazione della violenza, favoriti da una persistente cultura di incredulità nei confronti delle istanze dei rifugiati. Il fenomeno si spiega anche a causa della mancanza di una comprensione strutturale e intersezionale della violenza di genere contro le rifugiate. Infatti, il genere e lo status di migrante si intersecano per creare una forma unica di discriminazione che richiede a sua volta una forma unica di compensazione. Anche altri sistemi di oppressione possono contribuire al perpetrarsi della violenza e al modo in cui questa viene affrontata dagli operatori, come la transfobia, l’abilismo, il colorismo, il tribalismo, ecc.

In Uganda, inoltre, si osserva un monopolio istituzionalizzato da parte delle organizzazioni internazionali e ugandesi per la fornitura di servizi. Le organizzazioni selezionate dall’Ufficio del Primo Ministro (OPM) e registrate secondo la legge sulle ONG del 2016 sono le uniche a potersi occupare dei rifugiati. Ciò ha particolari effetti sulle questioni di genere, poiché l’OPM detiene un notevole controllo sui prestatori di servizi contro la violenza sessuale e sull’assegnazione dei fondi.

In un audit del 2018 dell’Office of Internal Oversight Services (OIOS) delle Nazioni Unite sono stati riscontrati numerosi accordi riguardanti la rappresentanza ugandese e l’OPM, tra cui la selezione di partner che si erano impegnati in attività fraudolente ed in una cattiva gestione dei finanziamenti nel 2016 ed altri che non erano stati raccomandati dalla Commissione per la gestione e l’attuazione dei partenariati istituita dalla rappresentanza UNHCR. Secondo quanto emerso dalla verifica, inoltre, il numero di rifugiati è stato gonfiato di 300.000 unità per attirare maggiori finanziamenti internazionali.

Per questo motivo, spesso le donne rifugiate vengono assistite da personale poco qualificato e alle sopravvissute può essere addirittura negato l’accesso ai servizi. In effetti, un tema ricorrente emerso durante le interviste è che gli operatori dell’UNHCR e dei partner attuativi spesso non credono alle sopravvissute, in quanto i rifugiati spesso mentono per ottenere il reinsediamento.  In effetti, i “sopravvissuti alla tortura e/o alla violenza di genere” e le “donne e le ragazze a rischio” sono categorie di riferimento per il reinsediamento. Tuttavia, solo lo 0,034% della popolazione totale dei rifugiati in Uganda è stato reinsediato nel 2022.

Pertanto, molte rifugiate sostengono che le politiche ugandesi costringerebbero le donne rifugiate in uno stato di vulnerabilità come modo per attrarre finanziamenti internazionali senza destinarli alle rifugiate stesse. Molte hanno l’impressione che le loro storie vengano utilizzate per interessi finanziari, finendo per oggettificare le sopravvissute e replicare i meccanismi di potere vigenti nel contesto della violenza interpersonale.

Ciò va analizzato alla luce di un fenomeno più ampio di esternalizzazione dei confini, in base al quale gli Stati del Nord del mondo “investono” nella cosiddetta “crisi migratoria” in modo da contenere i rifugiati nel Sud del mondo, con un impatto diretto sul diritto delle donne rifugiate di essere libere dalla violenza (tra le altre cose).

Una delle notizie principali dell’anno scorso riguardante i rifugiati urbani è stata l’enorme repressione nel quartiere di Gargaresh a Tripoli, dove la polizia libica ha fatto irruzione nelle case e nei rifugi temporanei e ha rastrellato oltre 5.000 uomini, donne e bambini provenienti dall’Africa subsahariana, trattenendoli in condizioni disumane e degradanti in cui dilagavano torture e violenze sessuali. Tuttavia, a parte questa notizia, sappiamo poco dei rifugiati urbani e delle loro condizioni nelle città. Potresti approfondire le condizioni di vita delle donne rifugiate al di fuori dei campi profughi in Uganda?

Sì, è vero che i rifugiati urbani e soprattutto le donne rifugiate che vivono in città sono i soggetti dimenticati della protezione offerta in materia di rifugiati, sia nelle leggi e nelle politiche che nella letteratura. La spiegazione è da ricercare in una visione stereotipata dei rifugiati che vivono sistematicamente in campi o insediamenti e dipendono dagli aiuti umanitari come destinatari passivi della carità.

In Uganda, circa l’8% della popolazione totale di rifugiati vive in città, principalmente a Kampala, e quasi la metà dei rifugiati urbani sono donne. I rifugiati devono dimostrare di essere economicamente autosufficienti per ottenere il permesso di trasferirsi in città, fatto che costituisce una discriminazione nei confronti dei rifugiati basata sullo status economico – forma di discriminazione che colpisce in modo particolare le donne.

Le condizioni di vita dei rifugiati in città sono particolarmente difficili a causa di un diffuso clima di fobia nei confronti dei rifugiati e di tensioni con le comunità ospitanti. In effetti, a causa della narrativa del “porto sicuro” accuratamente costruita, i rifugiati sono spesso ritenuti in una posizione privilegiata, beneficiando di un sussidio monetario, di assistenza sanitaria, di istruzione gratuita e di un terreno. Detto questo, non appena un rifugiato si stabilisce in città, non ha più diritto a tali aiuti umanitari. Molti rifugiati cercano di avviare un’attività commerciale, ma riferiscono di non sentirsi supportati dai cittadini che a loro volta lottano per vivere in condizioni dignitose. In aggiunta sono stati segnalati anche casi di sfruttamento delle difficoltà finanziarie, anche per quanto riguarda la possibilità di ottenere un alloggio o un lavoro.

In generale, tutti i partecipanti alla mia ricerca testimoniano di aver subito discriminazioni a causa della loro condizione di rifugiati, ma sono soprattutto le donne che si trovano nel mezzo di diverse forme di oppressione a causa della loro transidentità, della loro disabilità o del loro status di lavoratrici sessuali, ad esempio. Molte donne rifugiate testimoniano casi di corruzione e sfruttamento sessuale da parte delle forze di polizia e del personale medico governativo, che chiedono alle donne somme di denaro o rapporti sessuali in cambio di un servizio che non dovrebbe essere venduto.

Noi di Large Movements APS ringraziamo Maëlle per questa intervista, e ci impegnamo ad approfondire ulteriormente un tema ancora poco trattato ma – come abbiamo visto durante questa intervista – che ha un enorme impatto in termini di diritti umani e di questione di genere.

Se ti è piaciuto l’articolo CondividiCi!

Avatar photo

Conoscere è resistere!

Condividi questo articolo e aiutaci a diffondere i nostri contenuti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Puoi continuare ad approfondire attraverso i nostri articoli:

Etiopia: un mosaico etnico alla base di una crisi umanitaria.

Il conflitto nel Tigrai ed i rapporti con l’Eritrea Con la sua posizione strategica nel Corno d’Africa, vicino al Medio Oriente ed ai suoi mercati, l’Etiopia è simbolo di autonomia e distinzione rispetto ai restanti Paesi africani. Lo Stato si è infatti dimostrato capace di resistere alla colonizzazione, ad eccezione dei 5 anni durante la guerra italo-etiope, quando fu colonia dell’Africa Orientale Italiana. Il territorio etiope è diviso in 9 regioni e caratterizzato da un mosaico composto da 80 etnie e nazionalità diverse, in cui si parlano 83 lingue e 200 dialetti. A partire dalla Costituzione del 1995 il potere viene ripartito in base alle etnie, dando vita a quello che viene definito federalismo etnico. Per comprendere lo scenario politico-strategico attuale dell’Etiopia quindi, è essenziale analizzare quali siano le principali etnie che storicamente risiedono sul territorio. I gruppi etnici maggioritari dell’Etiopia sono gli Oromo (36%), gli Amara (27%), i Somali (6%) e i Tigrini (6%). L’ Oromia è la più grande regione del Paese e gli Oromo rappresentano circa un terzo del totale degli abitanti. Derivanti da un’antica popolazione di pastori nomadi, gli Oromo iniziano ad integrarsi sul territorio etiope dal XVIII secolo. La loro lingua è stata la lingua ufficiale della Corte di Gondar, antica capitale imperiale dell’Etiopia. La regione di Amara, da cui prende il nome l’omonima etnia, ospita il secondo gruppo etnolinguistico, rappresentando quasi un terzo della popolazione. Nel corso della storia etiope gli Amara hanno dominato a lungo e la loro lingua è stata la lingua ufficiale fino agli anni ’90 e rimane tuttora la più parlata. Ù Tra il 1974 e il 1991, i rapporti tra gli Oromo e gli Amara iniziano ad inasprirsi dato che i primi rivendicano un ruolo sempre più centrale. Dopo il 1991, gli Amara si posizionano apertamente contro i Tigrini – di cui si dirà a breve. Al giorno d’oggi la situazione è tesa soprattutto nel territorio del Wolkait, distretto al confine tra le due regioni ma amministrato dal Tigrai. I Somali risiedono principalmente nella provincia dell’Ogaden, regione alquanto ambita per la sua ricchezza di giacimenti di petrolio e gas naturale, più volte oggetto di scontri tra Addis Abeba e l’Ogaden Liberation Front, forza autonomista. I Tigrini occupano la regione nord del Tigrai. Prima di scoprire questa regione e le sue complessità, una parentesi linguistica dell’utilizzo del termine Tigrai è necessaria. La regione viene ancora troppo spesso chiamata Tigrè, che è il nome con cui gli Amara chiamano dispregiativamente i Tigrini. Tigrè nella lingua locale significa “sotto il mio piede”, cioè servo. Già a partire da ciò si può comprendere la linea di tensione che separa le etnie etiopi. La minoranza etnica nel Tigrai rappresenta il 6% con i suoi quasi 6 milioni di abitanti, sui 110 totali. Per la posizione geografica la cultura tigrina è molto vicina a quelle eritrea. Tigrini ed Eritrei hanno anche combattuto insieme contro la dittatura di Mengistu, Capo di Stato etiope tra il 1977 e 1991. In tale contesto, Meles Zenawi viene ricordato per aver fondato l’Ethiopian People Revolution Democratic Front (EPRDF), partito che formò la coalizione con i partiti Oromo ed Amara. Zenawi è stato anche il fautore del federalismo etnico etiope, dividendo il territorio in 13 province. Da un lato, tale sistema ha rinforzato il potere dei partiti regionali, rappresentati dalle rispettive etnie; dall’altro, tale divisione ha creato una successiva suddivisione in classi sociali, sfociando in proteste e scontri per motivi non più etnici ma economico-politici. Uno dei maggiori partiti politici del paese è proveniente proprio da questa regione: il Tigray People’s Liberation Front (TPLF) che ha dominato il paese per ben 27 anni, dalla fine della Guerra Civile etiope (1974). A partire da questa ultima etnia, ci addentriamo nel conflitto della regione del Tigrai le cui tensioni, dallo scorso novembre 2020, stanno facendo riemergere molti dei problemi che sembravano apparentemente risolti con l’elezione dell’attuale Primo Ministro Abiy Ahmed. L’Etiopia è attualmente coinvolta in una “spirale incontrollabile di sofferenza per la sua popolazione civile”. Il 4 novembre nella regione del Tigrai è stato dichiarato lo stato d’emergenza ed il Primo Ministro ha inviato delle truppe militari federali in risposta ad un presunto attacco contro una caserma dell’esercito nazionale. A seguire, tra il 13 e il 14 novembre il partito tigrino TPLF ha lanciato dei missili contro due aeroporti nel territorio controllato dal governo federale. La risposta del governo federale si è presentata il giorno immediatamente successivo, dichiarando di aver preso il controllo di Alamata, centro abitato nella regione del Tigrai e mandando un ultimatum alle forze regionali. Dal 4 novembre si parla di una vera e propria crisi umanitaria: le Nazioni Unite, insieme all’appello di numerose organizzazioni internazionali hanno denunciato la morte di migliaia di civili e il numero di persone costrette a fuggire è aumentato in maniera esponenziale. Si è parlato di città ricoperte di cadaveri e di massacri in tutti i dipartimenti della regione, come quello della città di Mai-Kadra, dove la stima delle vittime tra il 9 ed il 10 novembre è arrivata a 600. In tale contesto, la libertà di espressione dei giornalisti eritrei e dei mezzi di informazione internazionali, è rimasta ed è tuttora silente date le minacce che incombono sulla stabilità dell’intera regione, insieme ad un improvviso blackout che ha reso tutti i supporti elettronici inutilizzabili. “Le uniche persone che hanno accesso a quello che sta succedendo sono le truppe etiopi e le milizie”. Il 7 dicembre il governo centrale ha annunciato la fine dell’offensiva militare delle sue truppe e l’amministratore provvisorio del Tigrai ha dichiarato che la pace è nuovamente tornata. Tuttavia, una crisi umanitaria non termina da un giorno all’altro, soprattutto data la dimensione di radicalizzazione regionale che caratterizza il conflitto del Tigrai e quanto riportato da quelle poche testimonianze che riportano la situazione in loco.         L’ONU si è mobilitato ed ha firmato un accordo con la regione per “consentire un accesso illimitato, sostenuto e sicuro per le forniture umanitarie”. Nell’accordo si specifica che tali aiuti saranno diretti anche alle regioni di Amara

Leggi Tutto »
pirateria-somala

LA PIRATERIA SOMALA

La pirateria somala viene spesso descritta solo ed esclusivamente come criminale, e se invece espletasse anche un’altra funzione, ossia quella di guardiani del mare? In questo articolo si cercherà di indagare la natura del fenomeno nonostante le fonti che risaltano una visione alternativa a quella diffusa internazionalmente siano poche. Il tentativo sarà dunque, quello di individuare gli indizi funzionali a definire la pirateria non solo come criminale, ma come “forza” di difesa alternativa delle acque, servizio di cui il Governo di Transizione non riesce a farsi carico pienamente. Contesto storico La pirateria moderna, che si è sviluppata soprattutto in aree geopoliticamente strategiche, ha assunto tutti i caratteri della definizione storica di “predone del mare”. A differenza dei suoi analoghi, la pirateria somala ha acquisito caratteristiche diverse che l’hanno resa un fenomeno particolarmente difficile da studiare e, soprattutto, da debellare. Queste differenze sono dovute alla presenza di molti fattori e, in particolare, alla situazione politica in cui la Somalia si trova. Ciò, infatti, ha dato luogo a tutta una serie di fenomeni chiave nello sviluppo della pirateria. La complessità della situazione somala quindi sta proprio nell’esistenza e nella sovrapposizione di diverse dinamiche, locali ma anche regionali ed internazionali che rendono necessario un approccio onnicomprensivo. In questa sede, tuttavia, si affronterà solo uno dei tanti aspetti di questo fenomeno e, in particolare, si cercherà di rispondere alla questione sulla natura della pirateria sviluppatasi in questo contesto. Usando termini somali, si cercherà di capire se ricadono nella categoria di burcad badeed, stricto sensu “predoni del mare”, o badaadinta badah, “salvatori del mare”. Da quando nel 2012 gli sforzi congiunti della comunità internazionale sono riusciti a debellare questo problema, il sequestro della petroliera Aris 13 del 2017, ha riportato nuovamente l’attenzione, assopita da anni, sull’area, facendo presagire anche un ritorno della pirateria. Questo attacco, tuttavia, sembra aver rappresentato solo una breve parentesi dovuta probabilmente all’abbassamento della guardia delle misure intraprese sino ad allora e al ritiro delle forze NATO della missione “Ocean Shield”, terminata nel 2016. Ma se questo fosse solo il sintomo di un ritorno che potrebbe essere ancora più pericolo del precedente? Per questo motivo potrebbe essere utile capire la natura degli atti dei pirati somali e comprendere se il ruolo iniziale di difensori del mare sia scomparso durante l’evoluzione che la pirateria ha subito, divenendo finalizzato solo ed esclusivamente ad azioni di depredazione, oppure se questo sia stato solo “nascosto” per legittimare in maniera più semplice le azioni svolte della comunità internazionale. Tale tentativo, tuttavia, risulterà molto difficile per la scarsità di dati e di notizie svincolate dall’”occhio europeo”. In questa sede, pertanto, si proverà a fornire solamente uno spunto di riflessione. Pescatori o professionisti? Quando nel 1991 si venne a creare un vuoto politico nel paese, dovuto alla caduta del regime di Siad Barre, fu subito evidente che venne anche a mancare una struttura centralizzata in grado di avere un controllo efficace su tutto il territorio somalo e, consequenzialmente, sulle sue acque. Fu di questa situazione che attori esterni, principalmente pescherecci europei e cinesi ed organizzazioni criminali, iniziarono ad approfittare. La pesca intensiva e lo scarico di rifiuti tossici hanno rappresentato le motivazioni principali che hanno spinto i pescatori locali ad improvvisare attacchi disorganizzati verso gli estranei invasori. Nonostante ciò, la depredazione straniera non può essere definita come la sola motivazione, a questa, infatti, si aggiunge un quadro molto più complesso: la mancanza di uno Stato centralizzato in grado di farsi carico dei bisogni della società, un’organizzazione clanica della società somala che si pone come rappresentante differente di ordine e portatore di principi di organizzazione politica differenti da quelli dello Stato moderno e post-moderno, e uno stato di povertà e crisi umanitaria notevole. Fino agli anni 2000, quindi, si parla più di un fenomeno finalizzato alla sopravvivenza, in cui il confine tra pirata, pescatore e contrabbandiere è molto labile. Si può perciò ipotizzare che in questa fase, nonostante la popolazione che traeva il suo sostentamento dal mare abbia raggiunto livelli di frustrazione notevoli dovuti alle attività illegali di pesca straniere, non sia tuttavia riuscita a creare una struttura tale da poter essere considerata come “guardiana delle acque”. In questi anni, infatti, si è assistito principalmente al fenomeno che è stato definito come “pirateria d’opportunità”, deducibile soprattutto dalla sua discontinuità, dalla poca redditività degli attacchi e dal corto raggio d’azione. Non si può comunque escludere che proprio in questo periodo iniziarono a formarsi e svilupparsi i gruppi di pirateria di stampo criminale che siamo abituati a conoscere. Infatti, secondo un ex leader pirata somalo, Farah Hirsi Kulan “Boya”, il passaggio ad una pirateria professionalizzata avviene già nel 1994. Da pirati d’opportunità a vera e propria guardia costiera? Dai primi attacchi sporadici e disorganizzati, le attività piratesche in pochi anni cambiarono totalmente divenendo un business molto redditizio. Molti affermano che c’è stato un passaggio da un fenomeno di protesta ad uno, solo ed esclusivamente, basato sul profitto, anche se, potrebbe non essere esattamente così.  In un contesto politico come quello somalo, il Governo Federale di Transizione è l’unico potere istituzionale e riconosciuto a livello internazionale che, nonostante ciò, non è in grado di estendere la propria autorità oltre Mogadiscio, permettendo ad altri tipi di “organizzazioni politiche” di subentrare nel controllo dello spazio. Infatti, “per l’intero territorio somalo ogni livello d’amministrazione è in buona sostanza affidato nelle mani di clan, capi-villaggio e signori della guerra” ed è tra questi leader che riconosciamo le figure più influenti della pirateria. Alcune tra le organizzazioni piratesche, che vengono definite di criminalità organizzata, cercarono di assumere anche un certo grado di istituzionalizzazione. Queste volevano dimostrare di essere capaci di svolgere non solo attività di saccheggio, rapimenti finalizzati al riscatto o comunque legati all’arricchimento, ma anche una funzione di “difesa” e “controllo”. Gran parte della società somala, inoltre, iniziò a godere dei benefici portati dalle attività piratesche, realtà che pian piano promosse una forma di legittimazione nei confronti di questi gruppi criminali, garantendo ai loro membri anche una sorta di protezione e di rispetto. Uno dei fenomeni

Leggi Tutto »
Cos'è Boko Haram - Large Movements

Cos’è… Boko Haram? Storia dell’organizzazione terroristica e della crisi climatica nel Lago Ciad

Boko Haram è una delle organizzazioni terroristiche più violente al mondo e la più violenta in Africa, le sue azioni hanno causato più di 30.000 vittime e 2 milioni di sfollati tra Nigeria, Camerun, Niger e Ciad. Tra gli attentati più noti ai media internazionali vi sono l’attacco al palazzo delle Nazioni Unite ad Abuja nel 2011, il rapimento delle 276 studentesse di Chibok nel 2014 e il Massacro di Baga, dove nel 2015 hanno perso la vita 2.000 civili. Secondo il Global Terrorism Index report dell’Institute for Economics & Peace del 2018 il più alto numero di vittime per il terrorismo in Nigeria è stato raggiunto nel 2014, anno in cui sono morte 6.612 persone. Circa il 70% degli attentanti erano ad opera di Boko Haram e, per questi motivi, è l’organizzazione più efferata per quanto riguarda il terrorismo in Nigeria e in Africa. Le origini di Boko Haram Le origini di Boko Haram risalgono al 2002, anno in cui nasce nella città di Maiduguri, capitale dello Stato federato nigeriano del Borno. Le origini sono da ricercare in un gruppo di giovani islamisti radicali che praticavano il proprio culto nella moschea di Alhaji Muhammadu Ndimi  agli inizi degli anni 2000. Una frangia di questo gruppo, non ancora conosciuto col nome di Boko Haram, accusava la città e l’establishment islamico di essere intollerabilmente corrotti e irrecuperabili. Per questi motivi si ritirarono nella cittadina di Kanama, nello Stato federato di Yobe, al confine col Niger. Qui il gruppo si scontrò violentemente, nel 2003, con la polizia a seguito di una disputa sui diritti di pesca in uno stagno locale. Da questo episodio scaturì un feroce assedio da parte dell’esercito alla moschea in cui si erano rifugiati i membri del gruppo: la maggior parte di questi morirono. I sopravvissuti fecero ritorno a Maiduguri e, sotto la guida di Ustaz Moahmmed Yusuf, intrapresero il processo di istituzione della moschea del gruppo. Fu in quest’occasione che compare per la prima volta il termine “Boko Haram”, con il quale ci si riferiva agli abitanti e che spesso viene tradotto con “l’educazione occidentale è proibita”, mentre qualcuno preferisce tradurre il nome con “l’educazione occidentale è peccato”. Il processo di istituzione porta il gruppo a mutare in organizzazione e la struttura della moschea ad ospitare una sorta di “Stato nello Stato”. Boko Haram si fornì di un complesso dotato di una grande fattoria, una scuola, un consiglio decisionale ed una propria polizia religiosa. Al suo interno venivano accolti i rifugiati delle guerre dei paesi limitrofi ed i giovani nigeriani disoccupati o “senza speranza” ed a tutti venivano offerti riparo, cibo e istruzione. Proprio il tema dell’educazione e dell’istruzione è fondamentale nel pensiero di Boko Haram. L’organizzazione tutt’oggi ritiene che l’occidentalizzazione, i “falsi” musulmani e i non-musulmani siano i colpevoli della corruzione, del mal governo nigeriano e delle disuguaglianze economiche nel paese. Nel 2007 Yusuf commissionò l’omicidio dello sceicco e predicatore Ja’afar, esponente politico e religioso della regione, molto critico verso l’integralismo di Boko Haram. L’omicidio decreta il distaccamento ufficiale dall’establishment musulmano della Nigeria settentrionale e dimostra come nello Stato non sia presente un’idea di Islam omogenea. Da qui in poi vi fu un crescente attrito tra l’autorità statale e Boko Haram fino a sfociare in un conflitto aperto a partire dal luglio 2009. L’organizzazione quindi ha cominciato a portare avanti la lotta armata per imporre una forma rigorosa di Shari’a al fine di sconfiggere la cultura occidentale e l’occidentalizzazione. Da questo momento Boko Haram diventa un’organizzazione terroristica che segue la corrente ğihādista dei salafiti e “giustifica” l’uso delle violenza e delle armi per perseguire l’obiettivo di rovesciare i sovrani apostati. La critica di Boko Haram non si limita ai “non-musulmani” ma è rivolta anche contro i Salafiti “puristi” (coloro che si impegnano principalmente a preservare la purezza dell’Islam) e tutti coloro che non seguono il messaggio dell’organizzazione. Questi infatti vengono accusati di non opporsi alle ingiustizie che i musulmani subiscono e, pertanto, di non seguire il proprio credo fino in fondo. La leadership di Abubakar Shekau e il giuramento di Boko Haram all’Islamic State Nel 2009, attraverso “l’operazione Flush”, la polizia arresta dei membri di Boko Haram, dando inizio a scontri cruenti e ad un’escalation di attentati. Nel luglio dello stesso anno Yusuf viene arrestato e muore in prigione, le autorità hanno dichiarato che la morte è avvenuta durante un tentativo di fuga. Per un breve periodo, la polizia riesce a sopraffare momentaneamente l’organizzazione, che si ritira così dalla scena nigeriana. Secondo l’intelligence ci sono diverse ipotesi riguardo al ritiro dell’organizzazione terroristica. Alcuni membri di Boko Haram sembrerebbero aver trovato riparo e sostegno presso altri gruppi ğihādisti stabiliti nel Sahel, mentre altri nei campi di addestramento dei ribelli in Algeria. Secondo il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, invece,  i membri di Boko Haram si sono rifugiati e addestrati in un campo ribelle di Tuareg nel Mali. Fonti più certe si hanno però sugli spostamenti di Abubakar Shekau. Shekau era l’ex braccio destro di Yusuf e prese il comando di Boko Haram in seguito alla morte di quest’ultimo. Durante il periodo di “letargo”, il leader dei terroristi si è rifugiato dapprima nella foresta di Sambisa, poi sui monti Mandara al confine tra Nigeria e Camerun. Nel frattempo però, le diverse cellule terroristiche diffuse in gran parte dell’Africa si sono mantenute in contatto e si spostavano a piedi in gruppi di 5, 10 o massimo 20 persone per non dare nell’occhio. Durante questo periodo si sospetta che esponenti locali, appartenenti al mondo della politica e dell’economia, abbiano visto in Boko Haram un’opportunità per far valere i propri interessi ed abbiano iniziato a finanziare l’organizzazione. Ciò ha permesso un ritorno ancora più violento di Boko Haram. Nei primi mesi del 2011 l’organizzazione torna sulla scena nigeriana attraverso operazioni sanguinose e rapine a banche, convogli di denaro e ad attività commerciali in tutta la regione del bacino del lago Ciad. A partire dall’agosto dello stesso anno poi, ci sono stati attacchi quasi settimanali da parte dei miliziani che hanno

Leggi Tutto »
Delta-Niger-Petrolio-Nigeria

Sversamenti di petrolio nel Delta del Niger: disastri ambientali e sanitari in Nigeria

Il Delta del Niger è uno dei 5 ecosistemi più inquinati del mondo a causa degli sversamenti di petrolio che colpiscono ancora oggi sia l’ambiente che le popolazioni locali, come nel caso degli Ikebiri e degli Ogoni. L’industria del petrolio, storica in un paese come la Nigeria, rappresenta la causa principale di conflitti violenti, disastri ambientali e disastri sanitari che sono ormai strutturali. Tale tematica, inoltre, interessa anche l’Italia dal momento che nel 2018 ha avuto inizio presso il Tribunale di Milano il processo civile che vede coinvolte l’ENI, con la sua controllata nigeriana, e il popolo degli Ikebiri. La situazione ambientale del Delta del Niger e i danni alla salute subiti dalla popolazione nigeriana Il Delta del Niger è una regione ricca di petrolio nel sud-est della Nigeria, qui le attività delle multinazionali del petrolio (come Shell, Exxon Mobil, Chevron Texaco, Total Fina Elf, Eni/Agip) hanno procurato gravi danni ambientali, sociali ed economici. Nello specifico l’inquinamento viene causato dalle perdite di greggio che fuoriescono dalle tubature vecchie degli oleodotti che si estendono per centinaia di chilometri all’interno del territorio. Oltre agli sversamenti di petrolio che si riversano nell’acqua del fiume e lungo le sue sponde, un altro grande problema che affligge questo territorio è il fenomeno del Gas flaring, la combustione del gas in eccesso estratto insieme al petrolio. Questo gas potrebbe essere reimmesso nel sottosuolo oppure utilizzato per i fabbisogni energetici della Nigeria. Invece viene bruciato dalle multinazionali perché ciò rende l’estrazione del petrolio molto più veloce, abbassando così i costi di gestione e di produzione. Di conseguenza le persone che abitano in queste zone respirano aria inquinata, mangiano pesce contaminato (quel poco che è rimasto nell’area) e bevono acqua mista a petrolio. Secondo il programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, i livelli di tossicità sono 900 volte superiori a quelli consentiti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Conseguentemente è aumentata anche la diffusione di malattie: problemi respiratori, malattie della pelle e degli occhi, disturbi gastrointestinali, leucemie e cancro. Infine occorre notare che l’attività di estrazione, inquinando il bacino idrico ed i terreni, ha distrutto le coltivazioni di sussistenza. A ciò si aggiunge l’espropriazione dei terreni della popolazione nigeriana ad opera del governo, in virtù di trattati siglati con le multinazionali negli anni ‘60 del secolo scorso e da allora rimasti invariati. L’industria del petrolio in Nigeria Il petrolio da solo costituisce il 95% delle esportazioni e il 65% del bilancio nazionale della Nigeria, per questo motivo il tema dei violenti conflitti per la gestione di questa risorsa è ricorrente nella storia coloniale e post coloniale del paese.  L’industria del petrolio nel Delta del Niger vede coinvolti sia il governo della Nigeria che le società controllate da grandi compagnie multinazionali, come Shell, Exxon Mobil, Chevron Texaco, Total Fina Elf ed Eni/Agip, oltre ad alcune società nigeriane. A tal proposito l’esplorazione e la produzione del petrolio sono realizzate dalle “joint venture” (associazioni temporanee di imprese) di cui fanno parte la Nigerian National Petroleum Corporation (NNPC), controllata dal governo, e una o più compagnie petrolifere estere che hanno siglato contratti di associazione e partecipazione con la NNPC. In questo modo la NNPC detiene la quota di maggioranza, lasciando alle multinazionali il ruolo operativo sul campo. Di fatto le compagnie gestiscono vastissime porzioni di territorio, si pensi al fatto che la sola Shell Petroleum Development Company of Nigeria (SPDC) gestisce un’area di oltre 31.000 chilometri quadrati, costruendo buona parte delle infrastrutture petrolifere vicino alle abitazioni, alle coltivazioni e alle fonti d’acqua delle comunità. Le comunità che vivono sul Delta del Niger però non traggono benefici dalla ricchezza del petrolio e, nonostante la presenza di 606 pozzi petroliferi, la Nigeria resta uno tra i paesi africani più poveri. Gli unici ad arricchirsi con il petrolio sono quindi le multinazionali e le élite locali, situazione che ha però suscitato da una parte proteste e mobilitazioni, dall’altra repressioni violente da parte dello Stato e dagli agenti della sicurezza privata assunti dalle compagnie. Occorre inoltre notare che il 60% della popolazione del Delta del Niger sopravvive grazie ad attività direttamente collegate all’ecosistema. In altre parole quando le coltivazioni e le zone di pesca vengono danneggiate, gli abitanti non hanno la possibilità di trovare fonti di reddito alternative rispetto a quelle perdute sprofondando ancor più nella povertà. In questo ecosistema quindi non si può vivere secondo il motto della Nigeria “Unità e fede, pace e progresso” poiché davanti alle persone sempre più spesso si presentano due alternative: la lotta o la migrazione. Il Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni e Il movimento per l’emancipazione del Delta del Niger Le comunità locali, appoggiate principalmente dal Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger e dal Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni, si oppongono alle politiche di sfruttamento portate avanti dalle multinazionali e chiedono la bonifica dei corsi d’acqua e dei terreni oltre che una più equa distribuzione dei proventi del petrolio come risarcimento del debito ecologico. Il Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni, popolazione principale della regione del Delta del Niger, conduce dal 1990 una campagna non violenta contro il degrado ambientale. Gli Ogoni sono un popolo indigeno colpito dallo sfruttamento intenso delle risorse petrolifere concesso dalla giunta militare alla multinazionale Shell negli anni ‘80. Secondo l’accordo stipulato tra le parti, pur se formalmente le terre sono rimaste nelle mani della popolazione, la Shell poteva sfruttare le risorse presenti ed era obbligata a destinare solo l’1,5% delle royalties derivanti dai guadagni alla popolazione locale. Dopo numerose battaglie condotte dal Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni, si è raggiunto un accordo in virtù del quale la Shell deve destinare alla popolazione più del 15% delle royalties. Oltre a questo, un importante risultato conseguito dal leader del Movimento Ken Sawro-Wiwa è stato quello di essere riuscito ad attirare l’attenzione internazionale ricorrendo a concetti forti e di impatto per descrivere il problema. Uno degli esempi più lampanti è il concetto di “Guerra ecologica”. Nel 1995 però Ken Sawro-Wiwa, e otto attivisti furono arrestati e condannati a morte

Leggi Tutto »
Cos'è Boko Haram - Large Movements

Boko Haram: Bambini Kamikaze e diritti violati

In Nigeria le violazioni da parte di Boko Haram contro i bambini sono numerose e tra queste vi sono l’uccisione, la mutilazione, il reclutamento forzato, il rapimento, la violenza sessuale e gli attacchi contro scuole ed ospedali. Le Nazioni Unite hanno riscontrato oltre 3.000 violazioni da parte di Boko Haram contro i bambini nel nord-est del paese tra gennaio 2017 e dicembre 2019, tra cui oltre 1.000 bambini uccisi e l’uso di oltre 200 bambini per attacchi suicidi. L’efferatezza del terrorismo rappresenta un grave rischio per i diritti dei minori in Africa e nel Sahel. “L’Assalto all’educazione occidentale” e la violazione dei diritti dei minori in Nigeria Boko Haram ha gravemente violato la salute e i diritti dei bambini in Nigeria. Tra il 2009 e il 2015 l’organizzazione terroristica ha attaccato e distrutto più di 900 scuole e portato alla chiusura di più di 1.500 istituti per l’istruzione in quello che è stato definito come un vero e proprio “assalto contro l’educazione occidentale”. Solo tra il 20 febbraio e il primo marzo 2012 Boko Haram ha dato alle fiamme 12 scuole elementari, spesso attraverso attacchi coordinati contro più scuole. A seguito di questi attacchi si stima che 5.000 studenti non sono più potuti andare a scuola. In seguito a quegli attacchi un presunto portavoce di Boko Haram, Abul Qaqa, ha affermato che gli attacchi erano una risposta a quelli subiti dalle scuole coraniche ed all’arresto di insegnati islamici da parte delle forze di sicurezza. A tal proposito, si rileva che i funzionari nigeriani hanno a lungo accusato alcuni insegnati islamici del Nord-Est della Nigeria di utilizzare le scuole coraniche come luogo di reclutamento e formazione dei nuovi membri di Boko Haram. Occorre evidenziare che gli attacchi alle scuole ostacolano l’accesso all’istruzione di migliaia di bambini in Nigeria. I bambini da una parte rischiano la vita, dall’altra potrebbero vedere le scuole chiuse e abbandonare del tutto il percorso scolastico. Anche quando le classi riprendono dopo un attacco, la qualità dell’istruzione ne risente poiché gli studenti e gli insegnanti hanno paura e il materiale didattico viene danneggiato. Infine le minacce degli attacchi possono anche costringere le scuole vicine a chiudere o i genitori a tenere i figli a casa. A ciò si aggiunge che, a partire dal 2014, Boko Haram ha iniziato a rapire bambini e bambine da queste scuole per affiliarli all’organizzazione terroristica e costringerli ad affiancare i militanti, spesso per compiere attentanti suicidi. Un ulteriore pericolo per i diritti dei bambini è stato rappresentato dalla Civilian Joint Task Force (CJTF), gruppo locale formatosi nel 2013 per sostenere le forze di sicurezza nigeriane e contrastare le azioni di Boko Haram. Il gruppo è stato accusato di abusi come l’uccisione di uomini accanto ad una fossa comune, la deviazione di cibo destinato a famiglie affamate, il pestaggio di uomini e violenze sessuali sistematiche contro le donne. A ciò si aggiunge che la Civilian Joint Task Force nel 2016 è stata elencata negli allegati del Rapporto annuale del Segretariato generale per i bambini e i conflitti armati per il reclutamento e l’utilizzo dei bambini. Nel 2017 il gruppoha siglato, insieme ad UNICEF, un Piano d’Azione in cui si è impegnato a mettere in atto una serie di misure per porre fine e prevenire il reclutamento e l’utilizzo di bambini attraverso l’identificazione e la liberazione di tutti i bambini all’interno delle file del gruppo e l’istruzione dei suoi membri di non reclutare o ricorrere in alcun modo a bambini in futuro. Recentemente la Civilian Joint Task Force è stata elogiata dal gruppo di lavoro del Consiglio di sicurezza sui bambini ed i conflitti armati in quanto avrebbe facilitato il disimpegno di 2.203 ragazzi dalle sue fila. A ciò si aggiungerebbe il fatto che le Nazioni Unite non hanno riscontrato nuovi casi di reclutamento da parte del gruppo. L’educazione secondo Boko Haram Come già è evidente dal nome per Boko Haram – solitamente tradotto con “l’educazione occidentale è proibita” – il tema dell’educazione è fondamentale: l’organizzazione terroristica disapprova totalmente l’istruzione occidentale e impone lo studio secondo i precetti della Shari’a. L’educazione secondo Boko Haram può essere unicamente religiosa e riservata solo al genere maschile e per questo motivo attacca gli istituti femminili o gli istituti di cui non riesce a controllare il percorso di studio o che usano i libri di testo occidentali. Ciò farebbe parte della strategia di Boko Haram per imporre una forma molto rigorosa di Shari’a in Nigeria così da porre fine alla corruzione del governo ed alla diseguaglianza economica. Entrambe causate, secondo l’organizzazione, dalla cultura occidentale e dall’occidentalizzazione della Nigeria. L’educazione, inoltre, è importante perché i minori nei gruppi terroristici, a differenza dei bambini soldato, vengono sottoposti ad un intenso indottrinamento ideologico. I minori che finiscono nelle mani di Boko Haram infatti, imparano a desiderare di voler essere parte dell’organizzazione terroristica ed imparano ad odiare tutto ciò che viene considerato di origine occidentale, tramite la coercizione e l’esposizione prolungata alla “cultura del martirio”. Ai bambini viene quindi insegnato a resistere, lottare e soffrire per la vittoria finale e che il martirio non è un mezzo o una tattica di guerra, bensì un fine e un’impresa comunitaria. Boko Haram sottopone i bambini ad un intenso addestramento spirituale in cui vengono celebrati i dettagli della Jihad e si ricordano le ricompense che i martiri avranno nell’Al di là insieme alla propria famiglia, quest’ultima al contempo godrà di benefici durante la vita. Infine i bambini vengono addestrati all’uso delle armi e vengono iniziati al massacro, dapprima come testimoni poi come esecutori diretti. Il fenomeno dei bambini Kamikaze nella regione del lago Ciad Nell’ultimo decennio si è tristemente assistito all’allarmante crescita del fenomeno dei bambini kamikaze nella regione del lago Ciad, al confine tra Ciad, Camerun, Niger e Nigeria. Nel 2018 l’UNICEF ha dichiarato che Boko Haram utilizza i prigionieri civili per effettuare gli attentati suicidi e che un crescente numero di questi sono bambini: nel 2017 la percentuale di minori impiegati negli attentati è quadruplicata rispetto l’anno precedente. Altro dato tragico relativo in

Leggi Tutto »
Migrazioni-Climatiche-Africa-Large-Movements-01

Le migrazioni climatiche in Africa: una panoramica sul fenomeno

Le migrazioni climatiche e le migrazioni ambientali sono un fenomeno di cui si discute in occasione dei diversi forum sull’ambiente. Ogni contesto porta però con se differenze nelle cause e nelle conseguenze, nel frattempo diventa sempre di più urgente una risposta su entrambi i fronti mentre a livello internazionale si hanno crescenti difficolta a trovare un accordo. Migrazioni ambientali e migrazioni climatiche Le migrazioni climatiche in Africa sono un argomento sempre più al centro nel dibattito sulle migrazioni. Già nel 1990 l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), il foro scientifico delle Nazioni Unite con lo scopo di studiare il riscaldamento globale e i suoi effetti, ha osservato che il maggiore impatto potrebbe aversi sulle migrazioni umane. Pertanto occorre ricordare la sottile differenza tra le migrazioni ambientali, dovute a una azione diretta dell’uomo (per esempio causata da un danno ambientale come lo sversamento di petrolio), e le migrazioni climatiche. In altre parole le migrazioni dovute all’impatto meteorologico conseguente al cambiamento climatico. Per chiarire, occorre ricordare che già da tempo la comunità scientifica ha riconosciuto l’origine antropica del cambiamento climatico. In aggiunta occorre specificare che non è facile distinguere tra i due tipi di migrazione e che spesso si muovono in parallelo, sommandosi nei loro effetti sulla mobilità umana. D’altra parte l’impatto meteorologico del cambiamento climatico può essere diviso in due distinti fattori di migrazione: i processi climatici e i fattori non climatici. Ad esempio per processi climatici si intendono fenomeni come l’innalzamento del livello del mare, la salinizzazione dei terreni agricoli, la salinizzazione delle acque e della terra, la desertificazione e la crescente scarsità d’acqua, oltre che eventi climatici come le inondazioni e le irregolarità (oltre che la violenza) delle precipitazioni. In aggiunta abbiamo i fattori non climatici come l’instabilità politica, il governo, la crescita della popolazione e la resilienza a livello di comunità alle catastrofi naturali. In breve tutti questi fattori contribuiscono al grado di vulnerabilità che sperimentano persone e società. Gli effetti delle precipitazioni in Africa e le migrazioni climatiche Per quanto riguarda le migrazioni climatiche in Africa, si osserva una crescente irregolarità delle precipitazioni in ampie aree dell’Africa subsahariana, in particolare nelle zone aride e semi-aride. Certamente questo comporta un inizio sempre meno prevedibile e una fine anticipata della stagione delle piogge, prolungate fasi di siccità stagionale e un incremento delle precipitazioni più intense. In aggiunta la tendenza sembra essere quella di una riduzione del livello generale delle precipitazioni e un aumento delle precipitazioni occasionali di forte intensità. Vale a dire difficoltà crescenti per i sistemi agricoli dipendenti dalle piogge per l’irrigazione. Di conseguenza tali dinamiche costituiscono una minaccia persistente alla sicurezza alimentare in quanto comportano la perdita di ingenti raccolti e di alimenti base come mais e miglio. Inoltre, i cambiamenti delle precipitazioni sono accompagnati da allagamenti, esondazioni fluviali e alluvioni causate dall’attività di cicloni in aree costiere. In Africa, dal punto di vista delle migrazioni climatiche, abbiamo diversi effetti a seconda dell’area colpita. Sugli altipiani dell’Africa orientale, le alluvioni distruggono abitualmente insediamenti e campi agricoli, spesso costringendo gli agricoltori ad abbandonare le aree di coltura. Nelle pianure, esondazioni fluviali e allagamenti su larga scala colpiscono principalmente gli allevatori che operano in aree aride e semi-aride, minacciando al contempo anche i lavoratori urbani. In Africa australe, le terre in prossimità dei grandi bacini fluviali e le zone costiere (in particolare, in Africa sud-orientale e Madagascar) sono interessate da fenomeni alluvionali di forte intensità, che danno impulso a fenomeni migratori temporanei o permanenti. In conclusione occorre dire che la forte dipendenza dall’agricoltura e dall’allevamento costringe i piccoli produttori agricoli e le comunità pastorali a diversificare le fonti di reddito: ciò determina un incremento dei flussi migratori circolari e stagionali all’interno del continente africano, che rappresentano una fondamentale strategia di adattamento e resilienza. Le migrazioni climatiche e le Forme di mobilità all’interno dell’Africa In Africa si può assistere a flussi di mobilità lavorativa circolare rurale-urbana e rurale-rurale che costituiscono una reazione comune in tutte le regioni del continente. In questo caso parliamo di “migrazione come adattamento” al cambiamento climatico. In molti casi, singoli individui migrano per un certo periodo di tempo per guadagnare denaro e impiegarlo in modo da mitigare le difficoltà dei nuclei familiari. Però occorre ricordare l’esistenza delle cosiddette “popolazioni in trappola”, ovvero quei numerosi nuclei familiari colpiti dalle conseguenze del cambiamento climatico ma che non dispongono delle risorse necessarie a spostarsi. In aggiunta va quindi detto che non vi è un “automatismo” allo spostamento poiché problemi come lo sfruttamento lavorativo, l’indisponibilità di occupazione e in generale le asperità delle condizioni di vita e di lavoro per i migranti indeboliscono talora il potenziale positivo della migrazione. Le comunità più mobili dal punto di vista delle migrazioni climatiche sono le comunità pastorali e semi-pastorali. In primo luogo queste sono costrette a spostamenti forzati o riallocazioni temporanee a causa della siccità. In secondo luogo tali spostamenti possono prendere due diverse forme: processi di sedentarizzazione locale o migrazione verso i contesti urbani. D’altra parte queste due forme possono avere dei risvolti “negativi”. Spesso le comunità si insediano lungo i fiumi per permettere al bestiame di abbeverarsi e di conseguenza aumenta la loro vulnerabilità alle esondazioni. D’altra parte la migrazione verso i contesti urbani porta spesso i nuovi arrivati a vivere nelle baraccopoli delle megalopoli. Qui, oltre ai problemi igienico-sanitari in cui possono incorrere, possono essere soggetti a fenomeni di crescente violenza. Rischi ambientali e rischi politici Se i cambiamenti ambientali e le potenziali conseguenze rappresentano gli agenti chiave delle migrazioni climatiche, in aggiunta sono connessi a questi fattori politici, sociali, economici e culturali. In altre parole il rischio di migrazioni climatiche è particolarmente grave in presenza di un quadro socio-politico generalmente instabile e di conflitti armati prolungati. Facciamo un esempio di un contesto fragile con scarsità idrica causata da siccità. In questo caso ci troviamo in un contesto con un accesso limitato alle risorse. In primo luogo possiamo avere un aumento delle probabilità di conflitto per l’accesso all’acqua tra agricoltori e allevatori. In secondo luogo il concretizzarsi del conflitto

Leggi Tutto »