Il conflitto nel Tigrai ed i rapporti con l’Eritrea
Con la sua posizione strategica nel Corno d’Africa, vicino al Medio Oriente ed ai suoi mercati, l’Etiopia è simbolo di autonomia e distinzione rispetto ai restanti Paesi africani. Lo Stato si è infatti dimostrato capace di resistere alla colonizzazione, ad eccezione dei 5 anni durante la guerra italo-etiope, quando fu colonia dell’Africa Orientale Italiana.
Il territorio etiope è diviso in 9 regioni e caratterizzato da un mosaico composto da 80 etnie e nazionalità diverse, in cui si parlano 83 lingue e 200 dialetti.
A partire dalla Costituzione del 1995 il potere viene ripartito in base alle etnie, dando vita a quello che viene definito federalismo etnico.
Per comprendere lo scenario politico-strategico attuale dell’Etiopia quindi, è essenziale analizzare quali siano le principali etnie che storicamente risiedono sul territorio.
I gruppi etnici maggioritari dell’Etiopia sono gli Oromo (36%), gli Amara (27%), i Somali (6%) e i Tigrini (6%).
L’ Oromia è la più grande regione del Paese e gli Oromo rappresentano circa un terzo del totale degli abitanti. Derivanti da un’antica popolazione di pastori nomadi, gli Oromo iniziano ad integrarsi sul territorio etiope dal XVIII secolo. La loro lingua è stata la lingua ufficiale della Corte di Gondar, antica capitale imperiale dell’Etiopia.
La regione di Amara, da cui prende il nome l’omonima etnia, ospita il secondo gruppo etnolinguistico, rappresentando quasi un terzo della popolazione. Nel corso della storia etiope gli Amara hanno dominato a lungo e la loro lingua è stata la lingua ufficiale fino agli anni ’90 e rimane tuttora la più parlata. Ù
Tra il 1974 e il 1991, i rapporti tra gli Oromo e gli Amara iniziano ad inasprirsi dato che i primi rivendicano un ruolo sempre più centrale. Dopo il 1991, gli Amara si posizionano apertamente contro i Tigrini – di cui si dirà a breve.
Al giorno d’oggi la situazione è tesa soprattutto nel territorio del Wolkait, distretto al confine tra le due regioni ma amministrato dal Tigrai.
I Somali risiedono principalmente nella provincia dell’Ogaden, regione alquanto ambita per la sua ricchezza di giacimenti di petrolio e gas naturale, più volte oggetto di scontri tra Addis Abeba e l’Ogaden Liberation Front, forza autonomista.
I Tigrini occupano la regione nord del Tigrai. Prima di scoprire questa regione e le sue complessità, una parentesi linguistica dell’utilizzo del termine Tigrai è necessaria. La regione viene ancora troppo spesso chiamata Tigrè, che è il nome con cui gli Amara chiamano dispregiativamente i Tigrini. Tigrè nella lingua locale significa “sotto il mio piede”, cioè servo. Già a partire da ciò si può comprendere la linea di tensione che separa le etnie etiopi.
La minoranza etnica nel Tigrai rappresenta il 6% con i suoi quasi 6 milioni di abitanti, sui 110 totali. Per la posizione geografica la cultura tigrina è molto vicina a quelle eritrea. Tigrini ed Eritrei hanno anche combattuto insieme contro la dittatura di Mengistu, Capo di Stato etiope tra il 1977 e 1991.
In tale contesto, Meles Zenawi viene ricordato per aver fondato l’Ethiopian People Revolution Democratic Front (EPRDF), partito che formò la coalizione con i partiti Oromo ed Amara.
Zenawi è stato anche il fautore del federalismo etnico etiope, dividendo il territorio in 13 province. Da un lato, tale sistema ha rinforzato il potere dei partiti regionali, rappresentati dalle rispettive etnie; dall’altro, tale divisione ha creato una successiva suddivisione in classi sociali, sfociando in proteste e scontri per motivi non più etnici ma economico-politici.
Uno dei maggiori partiti politici del paese è proveniente proprio da questa regione: il Tigray People’s Liberation Front (TPLF) che ha dominato il paese per ben 27 anni, dalla fine della Guerra Civile etiope (1974).
A partire da questa ultima etnia, ci addentriamo nel conflitto della regione del Tigrai le cui tensioni, dallo scorso novembre 2020, stanno facendo riemergere molti dei problemi che sembravano apparentemente risolti con l’elezione dell’attuale Primo Ministro Abiy Ahmed.
L’Etiopia è attualmente coinvolta in una “spirale incontrollabile di sofferenza per la sua popolazione civile”.
Il 4 novembre nella regione del Tigrai è stato dichiarato lo stato d’emergenza ed il Primo Ministro ha inviato delle truppe militari federali in risposta ad un presunto attacco contro una caserma dell’esercito nazionale. A seguire, tra il 13 e il 14 novembre il partito tigrino TPLF ha lanciato dei missili contro due aeroporti nel territorio controllato dal governo federale.
La risposta del governo federale si è presentata il giorno immediatamente successivo, dichiarando di aver preso il controllo di Alamata, centro abitato nella regione del Tigrai e mandando un ultimatum alle forze regionali.
Dal 4 novembre si parla di una vera e propria crisi umanitaria: le Nazioni Unite, insieme all’appello di numerose organizzazioni internazionali hanno denunciato la morte di migliaia di civili e il numero di persone costrette a fuggire è aumentato in maniera esponenziale. Si è parlato di città ricoperte di cadaveri e di massacri in tutti i dipartimenti della regione, come quello della città di Mai-Kadra, dove la stima delle vittime tra il 9 ed il 10 novembre è arrivata a 600.
In tale contesto, la libertà di espressione dei giornalisti eritrei e dei mezzi di informazione internazionali, è rimasta ed è tuttora silente date le minacce che incombono sulla stabilità dell’intera regione, insieme ad un improvviso blackout che ha reso tutti i supporti elettronici inutilizzabili. “Le uniche persone che hanno accesso a quello che sta succedendo sono le truppe etiopi e le milizie”.
Il 7 dicembre il governo centrale ha annunciato la fine dell’offensiva militare delle sue truppe e l’amministratore provvisorio del Tigrai ha dichiarato che la pace è nuovamente tornata. Tuttavia, una crisi umanitaria non termina da un giorno all’altro, soprattutto data la dimensione di radicalizzazione regionale che caratterizza il conflitto del Tigrai e quanto riportato da quelle poche testimonianze che riportano la situazione in loco.
L’ONU si è mobilitato ed ha firmato un accordo con la regione per “consentire un accesso illimitato, sostenuto e sicuro per le forniture umanitarie”. Nell’accordo si specifica che tali aiuti saranno diretti anche alle regioni di Amara e Afar.
Alquanto sorprendente è stata la reazione dell’Etiopia in seguito alla dichiarazione di aiuto dell’ONU: “non abbiamo bisogno di un babysitter che ci sorvegli”, hanno esordito le autorità nazionali.
Per capire le ragioni alla base del conflitto della regione del Tigrai, bisogna tornare indietro di qualche anno, se non addirittura alle radici storiche della formazione della Repubblica democratica etiope.
La storia dell’Etiopia è strettamente connessa con quella della sua vicina Eritrea dato che quest’ultima è stata occupata dall’Etiopia per circa 30 anni. Fino al 1993 infatti, le politiche militari dell’Etiopia sono state interconnesse con quelle dell’Eritrea.
Più precisamente, nel 1974 una giunta militare marxista, il cosiddetto “Governo militare provvisorio dell’Etiopia socialista” – noto anche come DERG – rovescia l’Impero etiope, sotto l’egida del colonello Menghistu.
La resistenza da parte dell’armata eritrea e l’invasione della Somalia nella regione dell’Ogadèn sono stati i primi ostacoli per il colonnello che è riuscito comunque ad ottenere il supporto dell’URSS, riprendendo il controllo sui territori.
La caduta del regime del DERG ha avviato profondi cambiamenti del sistema politico, fino a quel momento fortemente centralizzato. L’etnicità è diventata il principale elemento da tenere in considerazione tanto che fu adottata una Costituzione federale che demarcava i confini dei 9 stati regionali in base a linee etnico-linguistiche.
Una volta soppresso il DERG, viene fondata la Repubblica Popolare e le tensioni dei vicini eritrei e ribelli somali diventano sempre più difficili da fronteggiare, oltre il clima rivoluzionario sparso da Gorbacev. Un mancato colpo di stato militare, insieme alla guerriglia eritrea e tigrina iniziano gradualmente a destabilizzare il territorio.
La resilienza delle forze del Fronte Popolare di Liberazione dell’Eritrea (FPLE), insieme al Fronte Democratico Popolare Rivoluzionario (FDPRE) – nato dall’unificazione del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai (FPLT) con il Movimento Democratico Popolare (MDPE) – fa sì che l’Eritrea ottiene finalmente l’indipendenza dall’Etiopia, nel 1993.
Già nel 1998 le tensioni commerciali frontaliere tra i due paesi iniziano ad intensificarsi, riversandosi in un conflitto che durerà 2 anni fino al nuovo millennio. In seguito, viene sottoscritto un accodo di pace ad Algeri e nel 2001 viene creata una fascia smilitarizzata sotto il controllo dell’ONU, sul confine tra i due paesi. Tuttavia, con le elezioni del 2005, i disordini ritornano ad affliggere la società etiope e il FDPRE prende nuovamente il controllo del paese.
Sono proprio le proteste contro il regime imposto dal FPLT a far finalmente cambiare pagina al regime politico del paese, insediando nel 2018, il primo ministro Abiy Ahmed.
L’elezione di un rappresentante dell’etnia maggioritaria degli Omoro sembrava porre le basi per una “rottura degli equilibri costituiti”. Le prime misure adottate da Ahmed – dall’apertura del sistema politico ed economico alla liberazione di prigionieri politici – sembravano andare proprio in questa direzione. L’anno immediatamente successivo gli viene riconosciuto il Premio Nobel della pace in seguito ad un accordo di pace storico tra l’Etiopia e l’Eritrea, ricordato da una stretta di mano emblematica tra Abiy Ahmed ed il leader eritreo Isaias Afwerki. A luglio 2019, l’Etiopia e l’Eritrea risolvono infatti una situazione di stallo decennale, decidendo di attuare la decisione della Commissione internazionale sui confini del 2002. Sotto Abiy Ahmed le tensioni interne al paese e le difficili relazioni con i paesi confinanti, sembrano inizialmente essersi calmate.
Tuttavia, fin dai primi tempi del governo Ahmed si assiste ad un rafforzamento graduale della minoranza tigrina, che risentiva dell’incombente presenza dell’etnia maggioritaria alla quale appartiene il primo ministro. Infatti, le rivendicazioni etniche non sono mancate già dai mesi successivi all’elezione del primo ministro, come gli scontri per l’appropriazione della terra e delle risorse tra i gruppi di agricoltori guij e gedeo, nel Guji occidentale, tra l’aprile e il luglio 2018.
Un altro stato particolarmente interessato da tensioni etniche è quello di Amara, dove la stessa ascesa di Abiy ha rappresentato un pretesto per una mobilitazione politica “a discapito dell’etnia ritenuta storicamente dominante in Etiopia”.
Nel giugno 2019 vi è stato infatti un tentativo di colpo di stato, in cui il governatore dell’Ahmara è rimasto ucciso insieme ad un suo stretto collaboratore.
Il culmine delle ribellioni contro il governo federale si è presentato lo scorso novembre quando la regione del Tigrai decide di andare a voto per le elezioni regionali, nonostante il Parlamento nazionale le avesse ritenute illegali dato lo scoppio della pandemia.
Già in tale contesto si parlava di crisi costituzionale e si iniziavano a delineare le basi per un nuovo conflitto armato. Si ritorna così al 4 novembre ed all’escalation di terrore e violenza che la regione del Tigrai vive ancora oggi.
Che dimensioni ha il conflitto nel Tigrai?
Dimensione nazionale. Alla base di tale scontro vi è sempre stata un’ostilità tra le élite del paese, in particolare tra quelle tigrine e quelle eritree.
La figura di Abiy sembrava inizialmente poter rappresentare un ottimo compromesso per l’avvio di una graduale normalizzazione delle relazioni etiope-eritree, a partire dall’atteggiamento che Abiy ha inizialmente dimostrato nei confronti del Capo di Stato eritreo, Isaias Afewerki. Tuttavia, il conflitto latente tra Asmara e l’élite governativa in Tigrai non è mai terminato e la chiusura dei confini tra Eritrea ed Etiopia ne è una chiara dimostrazione.
In tale contesto, Etiopia ed Eritrea, seppure con visioni ed ideologie differenti, condividono lo stesso interesse: reprimere le istanze ribelli del TPLF.
Da una parte, infatti, in Etiopia l’istituzione di un “partito unitario trans-etico a vocazione nazionale” è stata rifiutata dalle forze del TPLF, in quanto vista come segnale di un progetto di re-accentramento del potere del governo federale, in cui l’élite tigrina avrebbe un ruolo marginale.
Dall’altra parte, gli interessi eritrei sotto il regime di Isaias Afewerki giocano a favore di un governo regionale (del Tigrai) allineato alle posizioni della capitale, da cui ne conseguirebbe una completa ed effettiva normalizzazione delle relazioni politiche ed economico-commerciali tra la capitale Eritrea, Asmara e quella Etiope, Addis Abeba.
Dimensione internazionale. La dimensione in Tigrai è ben più ampia rispetto al quadro di interessi eritreo-etiope sopra descritto. Il Corno d’Africa infatti, rimane uno dei territori più ambiti da potenze economiche internazionali come gli Emirati Arabi. Quest’ultimi ad esempio sono stati accusati dalle autorità tigrine di supportare il governo etiope, mettendo a disposizione la base di droni di Assab, in Eritrea. Anche i rapporti con la Somalia giocano un ruolo alquanto rilevante e negli ultimi anni proprio l’ascesa di Abiy sembra aver messo a tacere le storiche tensioni legate all’irredentismo somalo sull’Ogadén etiope. Inoltre, la missione dell’Unione Africana (AMISOM) è supportata da alcune forze di sicurezza etiope, sul suolo somalo e la politica di contrasto avanzata dalle forze tigrine rappresenta una minaccia per la stabilità somala.
Un altro attore rilevante in questo delicato quadro di relazioni è il Sudan, primo paese per l’accoglienza di rifugiati etiopi, ed in particolare tigrini. Qui, dall’inizio di novembre si contano si siano rifuggiati più di 45.000 persone, secondo quanto riportato dalle Nazioni Unite. La regione fertile di al-Fashqa, al confine tra i due paesi, è stata terra di scontro tra Sudan ed Etiopia. Il conflitto tra l’Etiopia e il TPLF, insieme ad un eventuale supporto sudanese alla resistenza tigrina, potrebbe significare un’occasione per il Sudan per ottenere dall’Etiopia il riconoscimento dei diritti sulla regione di al-Fashqa. In questo frangente, il Sudan è in contatto diretto anche con l’Egitto nell’ambito dei delicati negoziati politici circa la questione della Grande Diga del Rinascimento (GERD).
L’ormai uscente presidente americano Trump a fine novembre ha minacciato un intervento militare in Egitto in difesa dei propri diritti di sfruttamento delle acque del Nilo, dando il via ad un’azione armata del Cairo in Etiopia. In uno scenario come quello in Tigrai, l’Egitto potrebbe pronunciarsi favorevole alle forze etiope del TPLF, per ostacolare eventuali progetti di riempimento della diga.
Infine, le basi militari francesi e cinesi dell’enclave di Dijbouti, nella parte est dell’Etiopia controllano costantemente la situazione.
Qual è lo stato attuale del conflitto del Tigrai e la situazione in cui riversa l’Etiopia?
Il periodo più caldo per i combattimenti è terminato ma le intenzioni di sabotaggio e di instabilità dell’intero paese da parte dei leader del TPLF rimangono ancora alquanto evidenti, e anzi “continueranno a cercare di internazionalizzare il conflitto”.
La notizia più recente risale al 13 gennaio 2021 quando è stato annunciato un attacco in cui sono rimaste uccise 80 persone, nella regione Benishangul-Gumuz, nell’ovest del Paese.
Essendo la regione controllata da una forza politica diversa da quelle del Tigrai, fonti nazionali hanno dichiarato che i responsabili appartenevano al gruppo etnico minoritario Gumuz, le cui milizie hanno spesso preso di mira i membri appartenenti alla comunità Amara.
Non sembra essere noto alcun legame tra la violenza e il conflitto in corso nel Tigrai.
Quali sono le misure che farebbero ritornare ad uno stato di calma, almeno apparente, limitando l’uccisione e la fuga di migliaia di etiopi?
L’unica soluzione che attualmente si prospetta sarebbe un accordo che favorisca la ripartizione del potere federale nelle varie regioni, abolendo la possibilità di un unico modello etnico – il federalismo etnico di cui sopra – risalente alla Costituzione del 1995 e non più rispondente alle esigenze ed alle rivendicazioni moderne.
Si può concludere così che la situazione in Etiopia rimane ancora molto instabile a causa delle continue tensioni, spesso anche non interconnesse, che si sviluppano nel mosaico etnico.
Seppure all’avanguardia rispetto alla tradizionale struttura sociale e politica del paese, la visione democratica dell’attuale primo ministro sembra in netto contrasto con la volontà generale di tutti i gruppi etnici.
Il depotenziamento della dimensione etnica richiederebbe così cambiamenti radicali della struttura federale, con tutte le implicazioni sul piano economico di un paese che negli ultimi decenni ha visto una crescita del Pil alquanto inaspettata.
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