Sunniti e sciiti: scontro settario o conflitto per il controllo del potere?

L’inasprirsi negli ultimi decenni dei conflitti nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa ha acceso una forte attenzione verso l’Islam. Questi disordini vengono spesso erroneamente descritti solo in termini settari, adducendo la divisione tra le due correnti principali dell’Islam – sunniti e sciiti – come unica motivazione alla base del conflitto. Sebbene la convivenza tra le due correnti religiose non sia sempre stata pacifica, i motivi scatenanti le guerre sono alquanto complessi e non legati solo all’antagonismo reciproco.

L’Islam nel mondo

Sono molti gli errori che si commettono quando si parla di Islam, il primo fra tutti è collegare la religione all’etnia araba. Diversamente da quello che si tende a pensare, l’Islam è una realtà che non riguarda esclusivamente i paesi arabi o quelli del Medio Oriente e Nord Africa difatti solo una minoranza dei musulmani vive in questi territori. 

Si stima che circa il 60% della popolazione musulmana mondiale vive in Asia, il 20% in Medio Oriente, 15% in Africa ed il restante tra Europa ed Americhe. Ad oggi il paese che ospita il maggior numero di musulmani è l’Indonesia, seguita da paesi come Pakistan, India e Bangladesh.

Un altro interessante dato ci dice che mentre l’80% vive in paesi dove i musulmani costituiscono la maggioranza, il restante 20%, invece, vive come minoranza nel proprio paese. In questi ultimi le minoranze musulmane sono spesso vittime di persecuzioni e repressioni, come ci mostrano i casi degli Uiguri in Cina, i Rohingya in Myanmar finanche gli avvenimenti in India ed in Tailandia – dove i governi nazionali hanno adottato politiche discriminatorie nei confronti della comunità islamica. 

Questi primi dati ci aiutano a capire come il mondo islamico non sia un universo monolitico, come siamo portati a pensare, ma che al contrario cela al suo interno numerose divisioni e diversità, alcune anche molto difficili da interpretare. La più grande divisione interna all’Islam, ma non l’unica, è quella tra sunniti e sciiti, una divisione che risale addirittura a circa 1400 anni fa. 

Sunniti e sciiti: una questione di successione

Per comprendere l’esatto momento che diede inizio alla più grande divisione nel mondo islamico, bisogna tornare al tempo della creazione della religione stessa, al tempo del profeta. La comunità islamica iniziò a strutturarsi al momento della grande emigrazione delle tribù dell’Arabia da Mecca a Medina sotto la guida del profeta Muhammad. Alla morte del profeta nel 632 d.C. quello che venne a crearsi all’interno della comunità fu un problema di successione e di organizzazione politica. In questo caso, la sfera religiosa ricopriva un ruolo marginale, poiché la questione della successione alla guida della ummah (comunità islamica) era di natura politica e tribale. Quest’ultima suscitò due risposte alternative: chi riteneva che il successore dovesse essere scelto all’interno della stessa tribù del profeta e chi designò come unico e legittimo successore Ali, cugino e genero di Muhammad – il nome “sciiti2 deriva proprio dall’arabo shi’at ‘Ali “la fazione di Ali”.

Ad avere la meglio infine furono i primi e venne designato califfo – khalifa “vicario di Dio” – Abu Bakr, il primo di quelli che verranno chiamati dai sunniti al-rashidun cioè i “califfi ben diretti”. A lui seguiranno Umar, Uthman e solo in ultima istanza Ali, che guidò la comunità fino al 661 d.C. ponendo fine al trentennio di califfato. Secondo un racconto profetico che recita “Il califfato durerà 30 anni poi verrà il regno”, solo il periodo dei Califfi ben diretti può essere chiamato legittimamente Califfato per via della maggiore aura religiosa di cui godeva, nonostante ciò, l’appellativo Califfo continuò ad essere usato dalle dinastie che seguirono. 

Al fine di ricostruire la spaccatura interna all’Islam, la battaglia di Karbala segnò definitivamente e in maniera irreversibile la lacerazione tra sunniti e sciiti. Intorno al 680 Hussein, figlio di Ali, guidò numerosi dei suoi seguaci dalla Mecca a Karbala (attuale Iraq) contro l’esercito del corrotto Califfo Omayyade di Damasco, uno scontro che assumerà per gli sciiti un’aura particolare, quasi di scontro tra bene e male. A Karbala Hussein venne ucciso e decapitato, un momento che viene ancora ricordato dai seguaci di Ali nel giorno di Ashura

La guida politica e religiosa 

I sunniti e il Califfato

Il problema dell’organizzazione politica interna all’Islam è quindi la prima grande differenza tra sunniti e sciiti. Alla morte del profeta, dunque, la guida della comunità prese due strade distinte. Abbiamo visto come i sunniti abbiano concesso il comando politico della comunità al Califfato che venne detenuto da diverse dinastie, le quali si susseguirono nei secoli; tra le più importanti vediamo l’Omayyade, Abbaside e l’Ottomana. La fine dell’impero Ottomano nel 1922 e la creazione della Repubblica della Turchia porterà anche all’abolizione del Califfato nel 1924, una fine non definitiva perché nel 2014, l’ISIS ha riesumato il titolo di Califfo, proclamando il Califfato dell’ISIS. 

In questo sistema di organizzazione sociale l’autorità politica, il Califfo, si confronta e si scontra con l’autorità religiosa, rappresentata ed esercitata dai giuristi. Sono i giuristi che con la loro autorevolezza riconosciuta dal popolo possono porre un argine all’eventuale prepotenza del potere politico dal quale sono indipendenti. 

Un’altra particolarità dei sunniti è dettata dai diversi indirizzi interpretativi che sono emersi dopo la morte del profeta e che si sono stabilizzati e cristallizzati tra il VIII e XI sec. Nello specifico, ci si riferisce alle quattro scuole giuridiche che derivano da una diversa interpretazione delle fonti primarie del sunnismo. Questi quattro indirizzi si fondano sull’insegnamento di quattro personalità che hanno fondato le scuole e dalle quali prendono il nome: malikiti, hanafiti, shiafi’iti e hanbaliti; ognuna di queste scuole è ancora valida e caratterizza una particolare area geografica con alcune eccezioni come l’Egitto – che vede la presenza di tutte le scuole con la predominanza della scuola Hanafita – o la Siria – che risente sia della scuola shiafi’ta sia di quella hanafita.

Imam: guida politica, spirituale e religiosa degli sciiti

Gli sciiti non riconoscono il Califfato. Per loro, la guida della comunità spettava solo ad Ali e ai suoi discendenti ai quali venne attribuito il titolo di Imam. Per gli sciiti la differenza è dovuta al fatto che l’Imam raccoglie in sé l’intera autorità politica, religiosa e spirituale mentre i sunniti per queste autorità prevedono mani diverse. L’Imam è perciò una figura permeata di una grande importanza e la questione della sua successione ha portato alla creazione di ulteriori diversità interne allo sciismo. In totale, le principali correnti sciite sono tre. La prima è definita imamita (anche detto sciismo duodecimano) e rappresenta la maggioranza degli sciiti ed è caratteristica anche della dinastia Safavide che riunificò territorialmente la Persia e dichiarò lo sciismo duodecimano religione ufficiale sui propri territori, dove rimane tuttora dominante. La loro particolarità è dovuta al fatto che la catena delle discendenze si interrompe al dodicesimo Imam che è entrato in “occultamento”. La seconda corrente è chiamata sciismo ismailita o settimano proprio perché, a differenza della prima, interrompe la catena al settimo Imam. Questo gruppo è caratterizzato da ulteriori diversità interne, anche molto distanti tra loro, il che ha reso il ricorso all’appellativo “settimani” ad essere incorretto dal momento che lo stesso era rappresentativo solo di una corrente degli ismailiti. La scomparsa dell’Imam ha avuto delle profonde conseguenze sulla comunità sciita poiché, in linea teorica, solo esso è in grado di detenere la guida politica e religiosa e, nell’attesa di un suo ritorno, tutto è sospeso.

Il terzo ramo sciita è costituito dagli zayditi, principalmente stanziati in Yemen. Essi sostengono che la discendenza non è il valore più importante che l’Imam deve avere, al contrario le qualità morali sono imprescindibili. A differenza dei primi due, gli zayditi non credono nella dottrina dell’occultamento. 

Esiste, inoltre, un altro gruppo ricondotto allo sciismo e di cui ultimamente si parla molto poiché vi appartiene l’attuale presidente della Siria, Bashar Al Assad: gli alawiti. Nonostante storicamente questo gruppo confessionale da molti non veniva attribuito allo sciismo in senso lato, oggi essi rappresentano una forma particolare di sciismo stanziata in Siria, della quale costituiscono, tuttavia, una minoranza della popolazione totale.

Il confine geografico tra sunniti e sciiti

Negli ultimi anni si sente sempre di più parlare di scontro tra il cosiddetto “blocco sunnita” e quello sciita. Sebbene l’interpretazione settaria degli scontri, delle violenze e delle disuguaglianze esistenti nelle società islamiche appaia la più evidente, questa rimane molto distante dalla realtà effettiva. Prima di approfondire questo tema, appare innanzitutto utile cercare di capire la distribuzione geografica di sunniti e sciiti. 

I sunniti rappresentano circa l’80-85% dei musulmani, appare perciò ovvia la loro predominanza geografica. Una grande fetta dei paesi vede quindi i sunniti come maggioranza, nel particolare la quasi totalità dei paesi del Golfo, l’Egitto, la Turchia, l’Algeria, il Pakistan, ecc. 

Gli sciiti rappresentano, invece, il 10-15% dei musulmani – appartenenti a diversi gruppi etnici – e le loro comunità si presentano stanziate a macchia di leopardo. Sono pochi i paesi dove rappresentano la maggioranza, infatti, il 70% degli sciiti vive in soli quattro paesi: Iran, Iraq, Azerbaigian e Bahrein. Rilevanti comunità di sciiti sono presenti anche in Libano – stanziati prevalentemente nel sud del paese – Siria – presenti soprattutto nelle zone di Aleppo e Damasco – Turchia – rappresentati dalla comunità azera e stanziati principalmente nelle grandi città del paese e nelle zone di frontiera nell’Anatolia orientale – e nello Yemen – nella parte ovest del paese. Altri gruppi minoritari di sciiti sono presenti nei paesi del Golfo, in Afghanistan, in Georgia, nei paesi dell’Asia. La loro presenza arriva anche in Europa, Nord America e Australia, dove molti membri della comunità giunsero durante la diaspora avvenuta dagli anni 80. 

Uno sguardo approfondito sulla visione occidentale dell’Islam

Molti eventi cruciali hanno modellato la nostra visione del Medio Oriente, dell’Islam e dello scontro tra le potenze regionali, descritto spesso come “settario” ma che, come vedremo, è ben lontano da questa semplificazione. Il primo di questi eventi è la politicizzazione dell’Islam fenomeno al quale si guarda spesso con paura ma che invece è rappresentativo di un maggiore attivismo da parte di movimenti intellettuali e riformisti e che non riguarda quindi solo l’ala più radicale dell’Islam politico. Molti studiosi riconducono questo fenomeno – che in prima battuta ha riguardato principalmente i sunniti ed in un secondo momento ha interessato anche gli sciiti – alla colonizzazione ed ai cambiamenti che stavano avvenendo a livello internazionale, i quali hanno avuto un effetto impattante sulla comunità musulmana. Un altro evento che ha avuto una grande influenza sia nella regione che fuori è la rivoluzione khomeinista in Iran con la creazione del primo “Stato islamico contemporaneo”. Questo evento rappresentò soprattutto uno spartiacque nelle relazioni tra le potenze regionali il quale diede vita ad una serie di dinamiche e scontri che videro spesso la contrapposizione tra sunniti e sciiti. Ciononostante, le guerre mascherate dai motivi religiosi ben presto mostrarono la loro vera natura di lotta geopolitica per il potere della Regione tra Arabia Saudita, Iran e i loro alleati. Ma sono soprattutto gli eventi del 2003 in Iraq e del 2011, inizio della guerra in Siria, ad aver alimentato una lettura sempre più settaria degli scontri. L’uso strumentale della religione ha fatto perno su una divisione come quella tra sunniti e sciiti che ben si presta a questo gioco e che maschera bene i più realistici motivi politici, economici e di controllo delle risorse energetiche. 

Certo bisogna comunque ricordare che la convivenza tra sunniti e sciiti non è sempre stata pacifica e che dunque un’incongruenza religiosa di fondo esiste. L’esacerbarsi dell’intolleranza anche interna alla società tuttavia, è più il risultato dell’enfatizzazione della figura del diverso da parte degli Stati e dei poteri. 

Il problema della lettura degli eventi che stanno avvenendo nel Medio Oriente è dunque che il settarismo è passato da essere strumento di osservazioni dei fenomeni a essere l’unica, o quasi, spiegazione delle relazioni tra Stati e società. Questo ha portato, e porta tuttora, ad un’erronea lettura degli avvenimenti in cui il principale problema che alimenta i conflitti è la religione. 

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L’origine dell’oppressione: il ruolo della donna nell’Islam

L’appartenenza all’Islam contraddistingue circa il 25% della popolazione mondiale odierna, ed è considerata religione di Stato in molti Paesi del Medio Oriente e dell’Africa del nord. Generalmente la religione islamica, come quella cristiana, porta in sé la sottomissione del genere femminile all’uomo. La struttura patriarcale di base religiosa si presenta in forma distinta in base al contesto in cui si trova, traducendosi in comportamenti più o meno discriminatori ed oppressivi nei confronti delle donne nelle diverse zone del mondo in cui è presente. Alla luce delle recenti mobilitazioni contro il regime islamico scoppiate in Iran per fermare la violenza contro le donne, riteniamo importante fare una panoramica sul ruolo che la donna riveste nel contesto religioso islamico, e di come questo si traduce in normative e comportamenti oppressivi nei confronti delle libertà che tutte le donne dovrebbero avere, nella strada verso l’emancipazione. La religione e le fonti del diritto Un fattore che contraddistingue l’Islam dal Cristianesimo è che il libro sacro – il Corano – è attualmente considerato una fonte del diritto in quei Paesi dove vige la shari’a (la legge islamica). La Repubblica islamica dell’Iran, l’Afghanistan sotto i talebani ed altri Paesi adottano la shari’a come insieme di norme di diritto positivo, più precisamente come una combinazione di legge islamica, legislazione statale e diritto consuetudinario locale. Gli scritti sacri che formano la legge islamica sono composti da comandamenti riguardanti le azioni dei fedeli, le quali vengono classificate come vietate, disapprovate, raccomandate od obbligatorie. Tuttavia, le norme qui trattate compongono un codice comportamentale o consuetudinario che riguarda il culto e gli obblighi rituali; considerarle norme in vigore di natura giuridica implica spesso la violazione dei diritti civili dei cittadini. Come abbiamo già avuto modo di menzionare, i regimi religiosi che hanno adottato la shari’a si sono anche resi persecutori dei diritti e delle libertà delle donne del proprio Paese, promulgando la più rigida interpretazione delle sacre scritture come legge di stato. Procederemo adesso ad analizzare il ruolo ricoperto dalla donna all’interno della comunità islamica secondo il Corano e le scritture che compongono la shari’a, in un tentativo di intendere le norme di controllo della donna che vengono imposte in Paesi come l’Iran. Il valore della donna secondo la tradizione islamica La shari’a riconosce una sostanziale uguaglianza degli uomini e delle donne di fronte a Dio. Ciononostante, nell’ordine mondano i due sessi sono considerati complementari e rivestono due ruoli diametralmente distinti. Questo spesso si traduce nel controllo della donna da parte dell’uomo poiché, mentre il primo si fa carico dell’economia famigliare e del ruolo di capo di famiglia, la donna viene segregata alla sfera domestica e si fa garante della purezza nel suo ruolo di moglie e madre. Secondo le scritture, lo status e i diritti dell’uomo vengono accordati anche alla donna, che può ricevere educazione, possedere delle proprietà e migliorare economicamente. Il Corano, infatti, difende l’individualità della donna e le concede la libertà di difendere il proprio onore, di ricevere parte dell’eredità, di riscattarsi e di decidere della sua vita anche in materia di matrimonio. Sebbene uomo e donna siano ugualmente importanti, essi sono stati creati per svolgere differenti ruoli nella procreazione e nella continuità della specie umana, dunque si fanno carico anche di differenti responsabilità. All’interno della famiglia la patria potestà spetta esclusivamente al padre, che ha diritto di esercitare il ta’dib’, ossia un vero e proprio potere di correzione sulla propria moglie, che lo autorizza anche all’uso della violenza. Le facoltà accordate all’uomo musulmano nei confronti della moglie sono indubbiamente superiori, è importante però ricordare che, secondo la Rivelazione, l’essere umano viene creato da Dio in due sessi opposti con la capacità e il dovere morale di condividere amore e rispetto l’uno per l’altra. I diritti delle donne all’interno della comunità islamica L’autorità maschile sulle donne viene legittimata da un hadith del Profeta secondo cui la donna è imperfetta nella fede e nell’intelligenza. La posizione della donna nell’Islam può essere dunque riassunta da queste frasi coraniche: le donne agiscano con i mariti come i mariti agiscono con loro: con gentilezza. Tuttavia gli uomini sono un gradino più in alto poiché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri e perché vengono donati da loro dei beni per il mantenimento. Sono numerosi gli ambiti in cui la donna è sottomessa all’uomo, secondo la tradizione islamica. Tra questi menzioniamo: l’obbligo di monogamia, il divieto di sposare uomini di altra fede, il divieto di ripudio, l’asimmetria di accesso al divorzio, di concessione dei figli e di eredità. In particolare, la pena per l’omicidio di una donna è metà di quella per un uomo, la testimonianza di due donne, se ammessa, equivale a quella di un uomo, e lo stesso principio vale in materia successoria. Le donne non possono essere califfo o imam, non possono esercitare la funzione di giudice né quella di tutore. Secondo la shari’a la donna acquista limitata capacità di agire solo dopo il suo matrimonio, che rappresenta un momento chiave poiché crea la base della famiglia. Il matrimonio nell’Islam non è un sacramento, bensì un rito che ricade entro l’ordine naturalistico e viene concepito come un vero e proprio contratto tra due parti: il marito e la moglie o il suo rappresentante legale. L’uomo può sposare fino a un massimo di quattro mogli ma a condizione di trattare tutte degnamente e in maniera paritaria. La famiglia musulmana delle origini ha dunque un forte carattere patriarcale ed è basata sulla discendenza maschile. Questo si traduce oggi nell’oggettificazione della donna in quei Paesi dove vige la shari’a, che diventa un mero oggetto della compravendita matrimoniale. Molte donne sono costrette al matrimonio ad età precoci e senza il proprio consenso, alimentando così i fenomeni delle spose bambine e del matrimonio forzato. In linea di massima, possiamo affermare che giuridicamente nel mondo islamico due donne valgono come un uomo. Simbolicamente la donna è vista come garante della purezza dell’ordine comunitario, ma anche come simbolo della sessualità che deve essere regolata per evitare impatti negativi sull’ordine della comunità. Questo, dunque, assegna alla donna

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Muzoon Almellehan

“Non smettere mai di imparare e di sognare. Non perdere mai la speranza.” La piccola Muzoon è nata l’8 aprile 1999 da Eman e Rakan Almellehan nella città di Dara’a, Siria, dove il papà lavorava come insegnante. Dara’a è stata teatro delle prime proteste contro il regime e di alcune delle prime repressioni contro la popolazione locale. Infatti, subito dopo lo scoppio della guerra civile siriana, la loro città fu assediata dalle forze governative. Due anni dopo, nel 2014, la città venne presa dalle forze islamiste, questo portò ad un inasprimento della guerra che spinse Muzoon e tutta la sua famiglia a scappare verso la Giordania. «Anche da bambina, sapevo che l’istruzione era fondamentale per il mio futuro. Quando ho dovuto abbandonare la Siria, gli unici effetti personali che ho portato con me sono stati i miei libri di scuola» racconta. Ciononostante, Muzoon è stata anche tra le prime – e le più giovani – rifugiate siriane a operare per realizzare un cambiamento. Il primo campo dove arrivarono fu quello di Za’atari, nei 18 mesi trascorsi lì, la piccola Muzoon cominciò ad occuparsi del diritto all’istruzione per i bambini, ed in primo luogo per le ragazze. Infatti, Muzoon si iscrisse alle scuole all’interno del campo, ma presto si accorse che molte ragazze rifugiate – alcune di 13 e 14 anni – interrompevano le lezioni e si sposavano. “Da rifugiata, ho visto cosa succede quando i bambini sono costretti a un matrimonio precoce o al lavoro manuale. Essi restano esclusi dal percorso formativo e perdono la possibilità di avere un futuro.” Racconta. “Ero fortunata perché mi trovavo in un campo dove c’erano delle scuole e perché i miei genitori credevano nell’istruzione“. Malgrado la sua età, Muzoon iniziò a girare di tenda in tenda per i campi, per parlare con i genitori del valore dell’istruzione e dei rischi del matrimonio precoce. In ogni occasione, esortava i genitori a rimandare le figlie a scuola. “Le ragazze devono ricevere un’istruzione”, dice Muzoon. “È la migliore protezione per loro. Se una madre non è istruita, come può aiutare i suoi figli? Se i giovani non sono istruiti, chi ricostruirà il nostro Paese?”. Le organizzazioni umanitarie cominciarono ad interessarsi al lavoro di Muzoon, per questo divenne una Good Will Ambassador di UNICEF. E quando il premio Nobel per la pace e Asia Game Changer, Malala Yousafzai andò a visitare il campo di Za’atari, fece di tutto per trovare Muzoon. Malala aveva sentito parlare del suo lavoro e i compagni di classe di Muzoon le raccontarono di essere stati ispirati e di essere rimasti a scuola grazie a Muzoon. Nel 2015, Muzoon e la sua famiglia, dopo aver rinunciato a vari reinsediamenti verso Canada e Svezia per motivi logistici, riuscirono finalmente a trovare rifugio nel Regno Unito nell’ambito di un piano annunciato nel mese di settembre da David Cameron con il quale il governo britannico prevedeva di accogliere 20.000 rifugiati siriani. Muzoon e la sua famiglia, riuscirono, quini a trasferirsi a Newcastle, dove tutti i figli della famiglia Almellehan frequentano la scuola di Kenton. Oggi Muzoon ha 23 anni ha terminato la scuola secondaria, ed ha finalmente realizzato il suo sogno di entrare all’università dove studia Scienze Politiche. Ma soprattutto, continua ad impegnarsi per difendere tutte le ragazze a cui è negata l’istruzione nel mondo, in particolare le sue sorelle siriane. “Abbiamo bisogno di istruzione, perché la Siria ha bisogno di noi“, dice Muzoon. “Senza di noi, chi porterà la pace?”. Noi di Large Movements condividiamo il pensiero di Muzoon ed abbiamo ritenuto importante condividere con voi la sua storia perché ci rendiamo conto di quanto, molto spesso diamo per scontato quello che abbiamo sotto il nostro naso. L’istruzione è una di quelle cose che molto spesso vengono date per scontato, quando, specialmente in un periodo così particolare, dovremmo tutti ricordarci che l’istruzione per tutti, ma soprattutto per tutte le donne e bambine di questo mondo sia fondamentale non solo per il raggiungimento dell’eguaglianza di genere, ma anche, e soprattutto, come dice Muzoon, per la loro stessa protezione e affinché in questo modo, anche le donne possano essere incluse come voce fondamentale all’interno delle trattative e dei processi di pace. Se ti è piaciuto l’articolo, CondividiCi!

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Loujain al-Hathloul

Loujain al-Hathloul è un’attivista saudita per i diritti delle donne. La sua forza di volontà e la sua resistenza l’hanno portata a fare una differenza significativa nel suo paese, ma tutto si può affermare tranne che questo sia stato per lei e per le sue compagne un viaggio semplice. Loujain è stata una delle leader del movimento Women2drive, nato negli anni ‘90 con l’obiettivo di ottenere il diritto di guidare le auto da parte delle donne. Negli ultimi 7 anni la vita di Loujain è stata scandita da periodi più o meno lunghi di prigionia. In possesso di una patente ottenuta negli Emirati Arabi Uniti, nel 2013 si era filmata mentre tornava a casa guidando, accompagnata dal marito, ma fu il video dell’anno dopo a fare scalpore e che divenne virale su You Tube, perché quella volta guidò da Abu Dhabi fino al confine con l’Arabia Saudita. Nel 2014 il suo caso finì dinanzi ad un tribunale militare in quanto accusata di aver compiuto un gesto di sfida nei confronti del divieto di guida per le donne in Arabia Saudita, unico Paese al mondo che ancora manteneva viva questa legge. Loujain venne arrestata il 1 Dicembre 2014, e insieme a lei anche la giornalista Maysaa al-Amoudi, che decise di guidare anche lei verso il confine per sostenere la sua compagna. Loujain restò reclusa per un totale di circa 70 giorni. Nel 2015, quando la monarchia saudita concesse per la prima volta il diritto di voto alle donne, Loujain decise di candidarsi alle elezioni locali. Anche se il suo nome non venne mai incluso nelle liste, la forte personalità e determinazione di Loujain venne riconosciuta, e venne inserita al terzo posto della classifica delle 100 donne arabe più potenti al mondo sul fronte culturale e sociale. Il 4 giugno 2017 Loujain venne arrestata per la seconda volta in Arabia Saudita. La ragione non fu nota, e le fu impedito di mettersi in contatto con i suoi cari. La lotta di Loujain e le sue compagne, nonostante tutte le difficoltà affrontate, ha portato il principe ereditario Mohammed bin Salman a consentire alle donne di guidare, e dal giugno del 2018 le donne poterono finalmente ottenere la patente di guida. Appena prima di questo successo politico e umanitario, nel maggio del 2018 Loujain venne nuovamente arrestata con l’accusa di terrorismo e di aver cospirato contro l’Arabia Saudita insieme a Paesi “nemici”. Il suo processe venne spostato infatti in un tribunale speciale che si occupa di casi di terrorismo, quando Loujain altro non era che un’attivista pacifica. Soltanto tre mesi dopo l’arresto venne trasferita in un carcere nella sua città natale, e fu in grado di incontrare la sua famiglia. Raccontò a loro ciò che era accaduto durante quelle settimane di carcere: fu costretta a vivere una reclusione disumanizzante, con sedute di elettroshock, frustate e abusi sessuali. Per opporsi e denunciare le violenze subite, nell’ottobre del 2020 cominciò uno sciopero della fame, ma dopo due settimane le guardie carcerarie iniziarono a privarla del sonno svegliandola ogni due ore, e dopo diverse settimane estenuanti Loujain fu costretta a interrompere a riprendere a mangiare. Il 28 dicembre venne condannata a 5 anni e 8 mesi di carcere. Il 31 luglio 2020, Loujain ha amaramente festeggiato il suo 31esimo compleanno in carcere, ed è stata rilasciata solamente a febbraio 2021, con il divieto di lasciare l’Arabia Saudita per cinque anni. Il Global Gender Gap Report del 2020 del World Economic Forum, posiziona l’Arabia Saudita al 146esimo posto su 153 Paesi: quindi lo classifica come uno degli Stati peggiori in cui una donna possa vivere ad oggi, costretta ad avere un uomo come tutore che approvi la grande maggioranza delle sue azioni quotidiane.

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Atena Daemi per i Diritti Umani in Iran

Atena Daemi sognava la fine della pena di morte nel suo paese, L’Iran, e auspicava a un rispetto maggiore dei diritti umani. Per questa ragione è stata incarcerata, picchiata e detenuta in isolamento. Oggi racconteremo la storia di questa donna coraggiosa e vedremo insieme la situazione dei diritti umani in Iran. I Diritti Umani in Iran Atena Daemi è stata incarcerata per la sua lotta a favore dei diritti umani che in Iran, suo paese natale, spesso non vengono rispettati. Secondo il più recente rapporto delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani, il paese soffre di gravi discriminazioni di genere, una percentuale troppo elevata di detenzioni arbitrarie e problematiche relative all’applicazione della pena di morte. Vediamo nello specifico quali sono i problemi. Per quanto riguarda la pena di morte e le detenzioni arbitrarie, nel paese sono state registrati numeri elevati di esecuzioni anche per crimini che non rientrano nelle categorie più gravi. Per categorie gravi la Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite intende solo quelli riguardanti omicidi intenzionali. Le esecuzioni sono state spesso il seguito di processi tenutisi in modo iniquo e con l’uso della tortura al fine di estrarre una confessione fittizia: in particolare per circostanze con connessioni alle proteste antigovernative che hanno avuto luogo nel paese negli ultimi anni. Il caso più emblematico è quello di Navid Afkari che è stato segretamente giustiziato dopo aver partecipato nell’agosto 2008 a delle proteste nella città di Shiraz. Il relatore speciale delle Nazioni Unite inviato in Iran, si è detto preoccupato dal fatto che queste esecuzioni sembrano celare una volontà, da parte del governo, di reprimere il dissenso nel paese. Il rapporto dell’ONU sottolinea l’elevato numero di esecuzioni ai danni di minorenni: tra il 1° gennaio e il 1° dicembre 2020 sono stati giustiziati 3 minorenni e più di 85 si trovano nel braccio della morte. In Iran il Codice penale prevede la pena di morte per le ragazze con più di 9 anni di età e per i ragazzi con più di 15 anni di età in caso di crimini quali l’omicidio e l’adulterio. I diritti delle donne sono fortemente ostacolati non solo dalla legge ma anche dalle abitudini e dalle convenzioni sociali. Nonostante i diritti delle donne siano codificati negli articoli 20 e 21 della costituzione, vi è discriminazione sui diritti di matrimonio, divorzio e custodia parentale. Una donna iraniana non può sposarsi senza il permesso del padre o del nonno paterno se il matrimonio in questione è il primo. È illegale il matrimonio tra una donna musulmana e un uomo non musulmano e il matrimonio con un uomo di nazionalità non-iraniana deve ricevere il consenso del governo. Le ragazze possono sposarsi legalmente fin dai 13 anni ma ci sono stati casi di bambine sposate anche in età più giovane con il consenso paterno e del giudice. Le donne sposate rimangono sotto l’autorità del marito che può proibire loro di lavorare, di avere un passaporto o di recarsi all’estero. Per quanto riguarda il divorzio, il marito ha diritto assoluto a richiedere il divorzio mentre la moglie può richiederlo sono in specifici casi. Infine, la libertà di pensiero e di manifestazione è limitata nel paese. I difensori dei diritti umani e i loro avvocati vengono quotidianamente vessati. Tra i casi più famosi quello di Golrokh Iraee Ebrahimi e della stessa Atena Daemi. Arrestate entrambe per aver condannato le esecuzioni arbitrarie dei prigionieri politici e per aver cantato una canzone commemorativa, Iraee fu rilasciata nell’aprile 2019 mentre Daemi resta in carcere. Oltre agli arresti vi è anche un dilagante fenomeno di intimidazione dei famigliari degli arrestati. L’uso eccessivo della forza e le interruzioni delle telecomunicazioni durante le manifestazioni è prassi comune. Il relatore speciale ONU riporta uno shutdown di internet senza precedenti, richiesto dal governo durante le manifestazioni del novembre 2019. In generale il governo continua a censurare i siti internet e le piattaforme di social media. Telegram, Twitter, Facebook e YouTube sono state bloccate in modo permanente e risultano attualmente inaccessibili. La storia di Atena Daemi Atena Daemi si è battuta con coraggio contro le sopramenzionate infrazioni dei diritti umani, e soprattutto contro la pena di morte, le detenzioni arbitrari e per i diritti delle donne e dei bambini. Fu arrestata il 21 ottobre 2014 e dopo 86 giorni di interrogatori fu condannata a 14 anni di reclusione per i reati di: “propaganda contro il sistema”, “adunata sediziosa e collusione contro la sicurezza nazionale”, “blasfemia e offesa al Capo Supremo” e “occultamento di prove”. Durante il processo furono usate come prove i suoi post su Facebook in cui si batteva contro la pena di morte. Il 28 settembre 2016, dopo essere stata rilasciata su cauzione, vede la sua pena ridotta a 7 anni. Viene nuovamente arrestata il 28 novembre 2016 e dopo aver presentato una denuncia contro il “Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica” (IRGC) per uso eccessivo della forza, viene processata il 19 dicembre 2016 con le accuse di: “insulto contro il leader supremo e gli ufficiali di stato”,” “propaganda contro il sistema” e “resistenza all’arresto”. Viene condannata e le vengono aggiunti 3 mesi e un giorno alla sua pena di 7 anni. Alla medesima pena vengono condannate anche le sue sorelle, Ensieh e Hanieh, che vengono però assolte 54 giorni dopo. Il 21 dicembre 2019 Daemi e altri carcerati organizzano un sit-in come protesta contro le repressioni e la risposta dello stato contro le manifestazioni del novembre 2019. In seguito a questo evento fu trasferita in isolamento il 28 dicembre 2019 e vi rimase fino al 8 gennaio 2020. Inoltre, fu condannata a 2 ulteriori anni di prigione e 74 frustrate. Oltre alla solita accusa di “propaganda contro il sistema” fu accusata di “interruzione dell’ordine carcerario” per aver ballato e festeggiato durante la festa di Ashoora. Daemi si è rifiutata di andare al processo dichiarando che tali accuse sono infondate e basate su bugie. Le condizioni di salute di Atena Daemi durante la sua permanenza in carcere sono peggiorate notevolmente. Dopo lo sciopero della fame

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Studentesse avvelenate: sviluppi sulle proteste in Iran

Attualmente l’Iran sta vivendo una situazione instabile per le proteste scoppiate dopo la morte di Mahsa Amini, 22enne curda in visita a Teheran con la famiglia, a causa delle percosse ricevute dalla polizia morale che l’aveva arrestata con l’accusa di uso improprio del velo. Secondo alcune indagini, le rivolte hanno portato a 530 vittime tra i manifestanti, più di 19.700 arresti e 4 condanne a morte eseguite. Molte donne arrestate dalla polizia hanno raccontato gli abusi a cui sono state sottoposte durante la detenzione e alcune hanno rivelato di essere state imbavagliate con i loro hijab. Non è la prima volta che le donne iraniane protestano contro le leggi imposte dal governo per salvaguardare i loro diritti fondamentali; già nel 1979 migliaia scesero in piazza per protestare contro la decisione di rendere l’hijab obbligatorio per tutte le donne sul luogo di lavoro. Nonostante ciò, l’ayatollah Ruhollah Khomeini procedette con le riforme che desiderava attuare e, nel corso del tempo, sia le restrizioni che le punizioni per chi violava le prime divennero più aspre. Un nuovo attacco “Inizialmente abbiamo sentito uno strano odore, poi alcune di noi hanno cominciato a sentirsi male”. Centinaia sono le testimonianze che ribadiscono le stesse parole, così come centinaia, secondo le stime del governo iraniano, sono le studentesse che frequentano le scuole colpite da episodi di avvelenamento che stanno avvenendo in Iran dalla fine di novembre 2022. Mal di testa, tosse, nausea, difficoltà respiratorie, palpitazioni, stati di sonnolenza acuta, questi sono i sintomi che le ragazze, e anche alcune insegnanti, hanno accusato dopo essere state esposte a quella che sembrerebbe una fuoriuscita di gas. Tutto è iniziato nella città sacra di Qom, conosciuta per essere il centro per gli studi religiosi sciiti, adesso le scuole coinvolte sarebbero 52 – a Lorestan, a Borujerd e perfino a Teheran – distribuite in 21 province del paese, come ha affermato il ministro dell’interno Ahmad Vahidi. Per mesi il governo ha minimizzato o, addirittura, negato i fatti accaduti accusando le studentesse di isteria e di fingere dei sintomi che necessiterebbero l’ospedalizzazione, come successo a molte di loro. Dopo molto tempo, il viceministro della salute Younes Panahi è stata la prima autorità a confermare gli avvelenamenti sostenendo che siano stati causati da sostanze chimiche reperibili con facilità e ha aggiunto, senza approfondire la questione, che qualcuno desidera che le ragazze non frequentino le scuole. Chi sono i responsabili? Le ipotesi più diffuse su chi stia intossicando le studentesse sono due. Alcuni sostengono che questi attacchi siano da imputare ad un gruppo estremista che è concorde con la politica che i talebani hanno attuato in Afghanistan riguardo l’istruzione femminile; altri ancora sono convinti che dietro tutto ciò ci sia il governo stesso che vuole scoraggiare donne e ragazze nel partecipare alle varie manifestazioni precedentemente citate. Solo quando questi eventi hanno catalizzato l’attenzione internazionale, il presidente Ebrahim Raisi ha annunciato l’apertura di un’inchiesta che ha portato all’arresto di oltre 100 persone accusate di avere legami con gruppi ostili. Tra gli arrestati, secondo il ministero dell’interno, c’è chi è sospettato di appartenere al gruppo di opposizione in esilio Mujahedin del popolo dell’Iran o Mujahedeen-e-Khalq (MEK), considerato dal governo un’organizzazione terrorista che vuole diffondere il panico tra la popolazione. Le indagini sono ancora in corso e si auspica che vengano condotte in maniera imparziale da parte delle autorità preposte anche se, come ricorda l’organizzazione Human Rights Watch, una lunga serie di precedenti fa pensare che la polizia possa agire in modo tendenzioso. Basti pensare alle donne che vennero sfregiate con l’acido da assalitori ignoti nel 2014 nella città di Isfahan, probabilmente perché indossavano il velo in modo non conforme alle norme vigenti in Iran, infatti le indagini portarono ad un nulla di fatto e le autorità negarono ogni coinvolgimento nelle aggressioni. Noi di Large Movements desideriamo che i veri responsabili di azioni tanto inique vengano consegnati alla giustizia e che il governo iraniano garantisca la sicurezza dei propri cittadini, nonché i loro diritti fondamentali. Auspichiamo che le donne iraniane possano vivere in piena libertà e realizzarsi secondo le proprie aspirazioni. Donna. Vita. Libertà. FONTI E APPROFONDIMENTI: I casi di avvelenamento di studentesse in Iran continuano ad aumentare – Il Post Iran: oltre 100 arresti per l’avvelenamento delle studentesse – Mondo – ANSA Large Movements – Donna, vita, libertà: la lotta delle donne iraniane è la lotta di tutte Large Movements – L’Iran e il ruolo della donna nell’Islam 6 grafici per capire le proteste in Iran | ISPI (ispionline.it) What explains mysterious poisonings of schoolgirls in Iran? | News | Al Jazeera Iranian Media Reports Hundreds of Schoolgirls Poisoned | Human Rights Watch (hrw.org) Acid attacks in Isfahan have nothing to do with the hijab, say Iranian officials | Iran | The Guardian ‘They used our hijabs to gag us’: Iran protesters tell of rapes, beatings and torture by police | Iran | The Guardian Se ti è piaciuto l’articolo, Condividici!

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Salafiti: tra profonde differenze e reali unità

La difficoltà di comprendere il concetto di Salafismo – e quindi i Salafiti – inizia già con il tentativo di definirlo. È stato, infatti, identificato come una tendenza religiosa, un movimento di protesta, un movimento di riforma e ancora come una dottrina religiosa, ma nessuno di questi riesce a cogliere la vera entità del fenomeno. Oltretutto, il concetto di “Salafismo” – e di conseguenza la definizione di “salafiti” – ha assistito anche ad un’evoluzione profonda durante i secoli. Difatti, sono numerosi i pensatori ed i giuristi che hanno usato il termine in molte accezioni diverse e ciò rende ancora più difficile una ricostruzione chiara. L’origine e la differenza con il Wahhabismo Salafismo è un termine che deriva dall’arabo al-salaf al-ṣāliḥ, che letteralmente vuol dire ‘’antenati pii’’ e con cui si fa riferimento alle prime tre generazioni di musulmani: i Ṣaḥābi, i Tābiʿūn e i Tābiʿ al-Tābiʿiyyīn. Secondo i salafiti quest’ultime rappresentano, a differenza dei musulmani di oggi, la versione pura e autentica dell’Islam, che si è persa nei secoli ed alla quale si dovrebbe tornare a fare riferimento. A livello ideologico, il Salafismo moderno risale soprattutto ad un giurista e teologo medievale, Ibn Taymiyya, vissuto tra il 1263 e il 1328 nel territorio dell’odierna Siria, sebbene l’attuale corrente venga ricondotta al wahhabismo, un movimento di riforma religiosa nato nel XVIII secolo e che caratterizza l’attuale Arabia Saudita. Nonostante molti tendano ad usare Wahhabismo e Salafismo come se fossero interscambiabili, i termini hanno connotazioni diverse, come viene chiaramente spiegato dallo studioso americano Blanchard: il primo termine, infatti, si riferisce ad “un credo islamico conservatore dell’Arabia Saudita” mentre il secondo ad “un movimento islamico puritano più generale che si è sviluppato in modo indipendente in vari tempi e in vari luoghi del mondo islamico”. I Salafiti uniti da un credo comune? Nella loro profonda differenza interna al movimento possiamo, tuttavia, riconoscere alcune caratteristiche di uguaglianza. Per una piena comprensione di ciò che accomuna tutti i salafiti passeremo attraverso la definizione di alcuni concetti chiave, senza i quali sarebbe impossibile l’osservazione basilare del fenomeno. Tutti i salafiti sono legati dallo stesso credo religioso, aqida, da cui traggono i principi e i metodi per applicare la propria fede a questioni e problemi anche contemporanei. Con il termine aqida (credo) ci si riferisce sia alle dottrine di base dell’Islam sia ai testi in cui vengono specificate queste dottrine. Nonostante il termine possa risultare di facile comprensione, l’aqida porta con sé un significato ben più complesso: esso indirizza le più importanti questioni religiose, fornisce i principi organizzativi e, più in generale, i vari aspetti del credo. L’unità di Dio è un punto cruciale per tutti i musulmani ma ha un significato particolare per i salafiti e viene espressa con il termine tawhid. L’unicità di Dio si sviluppa su tre dimensioni: Dio è il solo creatore e signore dell’universo, Dio è supremo e unico e Dio è il solo ad avere il diritto di essere onorato. Il tawhid deve essere difeso e rispettato e, solo seguendo severamente il Corano e l’esempio del Profeta Mohammed trasmesso attraverso la Sunna, è possibile farlo. Il Corano è la parola di Dio e la sua sacralità è evidente anche dal punto di vista della lingua utilizzata, l’arabo. Il testo sacro, infatti, è impossibile da tradurre ed anche impossibile da imitare sia nella forma che nel contenuto. La Sunna, anch’essa fonte scritta, contiene i testi, i fatti e persino i silenzi del profeta. L’importanza di seguire l’esempio di Muhammad si può comprendere da questo versetto coranico: “Voi avete, nel Messaggero di Dio, un esempio (iswah) buono, per chiunque speri in Dio e nell’Ultimo giorno e molto menzioni Dio”    (Corano, XXXIII, 21) Perciò, tutte le risposte sono contenute nel Corano e nella Sunna e l’importanza di attenersi a queste fonti è fondamentale perché ogni altro riferimento potrebbe portare a divergenze. Abbiamo già detto che il Corano è la parola di Dio; questo implica che non sia interpretabile. L’interpretazione, essendo un atto finalizzato ad attribuire un significato, presuppone un processo dove è la logica umana ad operare e l’applicazione dell’intelletto umano sui testi sacri non è consentita. È per tale motivo che non vengono riconosciute dai Salafiti le scuole giuridiche, perché queste hanno dato luogo a diversi indirizzi interpretativi delle stesse fonti. Detto ciò, il dovere di attenersi alle fonti sacre porta a non tollerare ogni forma di innovazione (bid’a). Ciò, però, non vuole dire che tutte le forme di innovazione sono respinte; difatti, solo quelle in seno all’Islam portano a prendere le distanze dal credo puro e vero. Un’importante distinzione va però fatta tra bid‘a e tajdīd, cioè tra innovazione religiosa e rinnovamento religioso. A differenza del primo concetto, che è visto con accezione negativa, il secondo è accettato in quanto nel processo di rinnovamento non viene apportata nessuna innovazione religiosa in seno all’Islam. Un ultimo termine che merita un approfondimento è un concetto che viene spesso usato, soprattutto dai media, in maniera incompleta ed a volte errata e che meglio aiuta ad inquadrare il Salafismo: stiamo parlando del ğihād.  La traduzione più familiare a noi è quella di “guerra santa”, sebbene, in realtà, si intenda qualcosa di molto più ampio. Viene definito ğihād ogni sforzo che il credente deve fare sulla via di Dio, un obbligo generale che riguarda ogni musulmano e che prevede di combattere le proprie cattive disposizioni e di migliorarsi sempre più, verso la strada di Dio. Si devono, dunque, distinguere lo ğihād minore – inteso come sforzo del musulmano verso la comunità e quindi concernente la sfera pubblica – dallo ğihād maggiore – che rappresenta lo sforzo di auto perfezionamento individuale e che si sviluppa, invece, nella dimensione privata. Quando si fa riferimento allo ğihād minore la valenza che gli viene attribuita è duplice: una che riguarda un intervento contro i vizi pubblici e una definita “braccio” ed è solo in questa seconda dimensione che viene menzionato l’utilizzo della forza. Questo cenno all’uso della forza è stato poi interpretato dalle frange estremiste come legittimante ad intraprendere la cosiddetta guerra santa. D’altra parte, i media,

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