Risale allo scorso 16 settembre l’omicidio di Mahsa Amini, 22 anni, a causa delle percosse subite dopo un fermo da parte della Polizia Morale iraniana (in inglese Islamic Guidance Patrol). La ragazza curda, a Teheran come turista con la famiglia, era stata fermata il 13 settembre perché, a detta degli agenti, non indossava correttamente il velo. È morta tre giorni dopo.
Da allora, l’Iran è scosso da proteste guidate dalla società civile, e centinaia sono state le manifestazioni attraverso il globo e le dimostrazioni di sostegno della comunità internazionale alla popolazione e alle donne iraniane. Large Movements è stata a quella di Roma, il 1° ottobre, e le foto qui riportate dimostrano la rabbia e forza che hanno guidato la marcia attraverso la capitale.
A quasi due mesi dalla morte di Mahsa, la popolazione iraniana è ancora in tumulto e la repressione delle proteste non accenna ad arrestarsi. È complesso ritracciare l’ordine degli eventi accaduti nelle scorse settimane. Varie notizie sconcertanti si susseguite, tra cui la temporanea scomparsa dell’atleta Elnaz Rekabi, apparsa a Seoul senza hijab durante una gara di arrampicata – a quanto pare, per errore – e rivista a Teheran qualche giorno dopo aver interrotto ogni contatto con famiglia e amici.
Questo articolo offre un riassunto della vicenda per ribadirne la rilevanza, che oltrepassa il momentum e i confini geografici, ed esprime il pieno sostenimento di Large Movements alle donne iraniane nella loro (e nostra) lotta per l’auto-determinazione.
Breve storia del velo in Iran
In linea con i principi della sharia già presenti in altri paesi, il governo iraniano ha reso l’hijab obbligatorio dopo la Rivoluzione Islamica del 1979. Dopo una prima fase di dichiarazioni dell’Ayatollah Khomeini ma nessuna misura a formalizzare l’imposizione, il Parlamento iraniano istituzionalizzò le raccomandazioni con un decreto emesso nel 1983. Così come altre Repubbliche Islamiche, l’Iran basa la propria posizione sul velo sui testi sacri musulmani, tra cui il Corano e gli Hadith, nonostante sia oggetto di dibattito se queste scritture prescrivano realmente, e se sì quale, un codice di abbigliamento per le donne.
Questo tipo di editto, insieme a tutti gli altri che prescrivono un comportamento “appropriato” secondo la legge islamica, viene fatto applicare dalla cosiddetta “polizia morale” Gasht-e Ershad. Il corpo di polizia è nato nel 2005 formalizzando le strutture paramilitari religiose concepite in principio per combattere nella guerra in Iran. Ad oggi, gli agenti della polizia morale pattugliano le strade e solitamente rilasciano ammonizioni verbali in presenza di irregolarità – di fronte a un velo che non copre tutti i capelli, trucco troppo vistoso o gonne troppo corte. Proprio il 15 agosto scorso, il presidente iraniano Ebrahim Raisi aveva imposto nuove sanzioni più stringenti e dure punizioni per le donne che non rispettano il codice di condotta islamico, di fatto allargando ulteriormente i poteri della polizia morale.
Tuttavia, spesso le donne fermate vengono prese in custodia e detenute, per poi in seguito essere inviate in “centri di ri-educazione”, dove seguono ore di lezioni sulla morale islamica. Il rilascio avviene poi in presenza di un parente stretto di sesso maschile, dopo aver firmato una dichiarazione secondo la quale, in futuro, l’offesa non sarà ripetuta.
Mahsa Amini: l’ultima goccia per la società civile iraniana
Apparentemente, questo è quello che sarebbe dovuto succedere anche a Mahsa: un centro di “correzione”, e poi il rilascio. Eppure non sono rare le denunce di abuso da parte degli agenti in seguito al fermo, di cui Mahsa è stata un vittima. Il 13 settembre, Mahsa Amini viene sequestrata per “uso improprio del velo”. È costretta ad entrare in un furgone della polizia morale dove viene percossa dagli agenti stessi, secondo alcuni testimoni oculari. Qualche ora dopo, alla sua famiglia viene comunicato che Mahsa è stata trasportata in ospedale in seguito ad un attacco cardiaco. Dopo tre giorni in coma, la ragazza di 22 anni è deceduta.
La famiglia si è opposta da subito alla versione ufficiale della vicenda, spiegando che Mahsa non aveva alcun problema di salute che potesse spiegare un attacco di cuore improvviso. Il suo decesso ha fatto da scintilla accanto a una miccia, portando la società civile già stremata da un regime oppressivo in cui spesso attiviste subiscono ripercussioni per il proprio ruolo critico nei confronti di esso, a irrompervi contro, scatenando proteste che si sono sparse per tutto il Paese. A questo si è aggiunta l’arresto della giornalista Niloofar Hamedi dopo aver postato una foto dei genitori di Mahsa abbracciati in ospedale, dopo aver appreso del decesso della figlia.
Le proteste hanno invaso le strade di Teheran e del resto del Paese qualche giorno dopo, specialmente nel Kurdistan iraniano, regione da cui proveniva Mahsa. Tantissime donne hanno manifestato il proprio dissenso togliendosi il velo o bruciandolo. Uno dei gesti più profondi e simbolici di queste proteste è stato il pubblico taglio di capelli da parte delle partecipanti, in ricordo di Mahsa e contro la Guida Suprema del Paese, Ali Khamenei. La risposta del governo iraniano è stata di reprimere violentemente i manifestanti: l’ONG Iran Human Rights, che ha seguito l’andamento degli scontri tra civili e forze dell’ordine, riporta che almeno 326 persone, di cui 43 minori, sono state uccise durante le insurrezioni.
Due entità che hanno partecipato alle proteste sono particolarmente rilevanti: i corpi studenteschi, sia universitari che liceali, e il movimento delle donne del Kurdistan (KJK), mostrando l’intersezione indissolubile tra movimenti femministi, educazione e nuove generazioni come parti fondamentali e imprescindibili del cambiamento sociale contemporaneo. Al grido di Jin Jiyan Azadi, “Donna, Vita, Libertà” in kurmanci, un dialetto curdo, studenti, studentesse e donne curde hanno marciato per le strade del Paese abnegando assieme la violenta oppressione dei corpi e della libertà da parte del regime islamista iraniano. Nelle università, sono state compiute azioni indipendenti per eliminare il divario di genere tra gli studenti, ed è tutt’ora chiesta a gran voce la liberazione delle ragazze e dei ragazzi arrestati durante le contestazioni. Tra le loro file, si contano perdite drammatiche: ricordiamo tra queste Nika Shakarami, 17 anni, scomparsa dopo delle manifestazioni e ritrovata morta dopo 10 giorni, con segni di percosse su tutto il corpo; e Nasrin Ghadr, dottoranda di 35 anni anche lei, come Mahsa, originaria del Kurdistan iraniano, e morta apparentemente dopo essere stata pestata dalla polizia durante una protesta.
L’Iran da fuori: come ha reagito l’Europa e cosa dobbiamo imparare
La potente insurrezione da un lato e la repressione governativa dall’altro hanno fatto sì che l’attenzione mondiale sia stata attirata da subito sulla situazione iraniana. Il governo dell’Iran non accenna a diminuire la violenza delle proprie reazioni, affermando che le proteste sono in realtà alimentate da forze esterne nemiche della Repubblica Islamica che mirerebbero a destabilizzare l’esecutivo. D’altro canto, l’opinione pubblica (occidentale) ha espresso pieno sostegno alle donne iraniane e alle forze di opposizione nella società civile. Particolare risonanza, a livello istituzionale, è stata data alla MEP svedese Abir Al-Sahlani, che si è tagliata i capelli durante un discorso al Parlamento Europeo in un gesto di sostegno per, e risonanza con le donne iraniane coinvolte nelle proteste. Centinaia di manifestazioni pubbliche sono state organizzate in tutta Europa: quella del 1° ottobre a Roma, che ha coinvolto cittadini e associazioni femministe e di cui riportiamo qui alcuni scatti, ha sancito la vicinanza pubblica della società civile Italiana alle proteste in Iran.
Mentre le proteste ancora infuriano in Iran e la repressione da parte delle autorità islamiste non accenna a diminuire, è importante fare una precisazione: il punto saliente della questione, non è criticare il velo o i precetti islamici in sé. Vietare l’uso del velo, come si tenta di fare in certi Stati Europei, è discriminatorio nei confronti delle donne tanto quanto la sua imposizione. La lotta delle donne iraniane, come delle donne tutte, è per essere libere di scegliere: perché le nostre scelte non ci portino ad essere oppresse, perseguitate, persino uccise, se non sono conformi alla struttura sociale che è stata decisa per noi. Il principio di auto-determinazione dovrebbe essere imprescindibile e non divenire mera opzione, quando si parla di corpi femminili.
Large Movements appoggia senza riserve la libertà di tutte, che essa le porti a scegliere di indossare un velo, o meno. A prescindere da quale sarà il risultato della scelta individuale, crediamo fermamente che essa debba essere libera: se sarà così, sarà quella giusta. La nostra Associazione si stringe a tutte coloro che, in Iran e altrove, stanno soffrendo nella lotta per garantire questo diritto fondamentale, che ogni giorno viene minacciato. Ci uniamo a loro, sotto le parole di Angela Davis: “la libertà è una lotta costante”.
Fonti esterne e approfondimenti:
‘The fire of our anger is still burning’: protesters in Iran speak out. The Guardian (in inglese). https://www.theguardian.com/global-development/2022/oct/10/iran-protests-tehran-mahsa-amini
Vakil, S. (2011). Women and politics in the Islamic republic of Iran: Action and reaction. Bloomsbury Publishing USA. (in inglese)
Nashat, G. (2021). Women and revolution in Iran. Routledge. (in inglese)
Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI)(2022, 26 Ottobre). Iran: punto di non ritorno. Episodio podcast e approfondimento online. https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/iran-punto-di-non-ritorno-36521
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