ELEZIONI ARCOBALENO: 3 vittorie LGBTQ+ nel mondo

In occasione del mese dedicato all’orgoglio LGBTQ+ noi di LM Pride vogliamo parlare di tre esempi positivi di rappresentanza politica del movimento arcobaleno nel mondo: tre esponenti politici che sono riusciti a raggiungere importanti risultati elettorali manifestando apertamente la propria identità od orientamento sessuale e portando avanti istanze contro la discriminazione della comunità LGBTQ+ nel proprio Paese, spesso mettendo a repentaglio la propria sicurezza personale.

Claudia Lopez, Pinki Khatun e Mounir Baatour ci portano rispettivamente in Colombia, in Bangladesh ed in Tunisia e ci dimostrano che l’attivismo politico può essere più forte di ogni discriminazione. Soprattutto, però, questi rappresentanti ci ricordano l’importanza di portare avanti la battaglia per la non-discriminazione delle minoranze sessuali in ogni ambito e con ogni mezzo a disposizione, per permettere alle generazioni che verranno di poter manifestare liberamente la propria identità e non dover rischiare la vita, la sicurezza e la libertà personale per questo.

Claudia Nayibe López Hernández

All’interno delle burrascose vicende di attualità politica in Colombia, Claudia López si definisce “incorrompibile”. Nasce il 4 marzo 1970 a Bogotà, studia Finanza, Amministrazione pubblica e Relazioni internazionali fino a coronare i suoi studi di dottorato in Scienze Politiche negli Stati Uniti.

La sua apparizione nella vita pubblica del Paese risale ai primissimi anni ‘90 quando, partecipando a mobilitazioni studentesche, unisce la sua voce a coloro che richiedevano una nuova Costituzione. Nel 2006 la Colombia è investita dallo scandalo della para-politica, ossia quella tendenza alla corruzione ed all’affiliazione con gruppi paramilitari collegati al traffico di droga di alcuni politici colombiani. In questo periodo si concretizza l’opposizione di López al paramilitarismo ed uribismo, movimenti politici originati dalle strategie di estrema destra portate avanti dall’ex presidente Álvaro Uribe Vélez, che hanno causato un drastico innalzamento del livello di violenza politica diffusosi in Colombia lo scorso decennio.

Le indagini di Claudia López contribuiscono alla condanna di oltre 40 rappresentanti pubblici.

La sua carriera politica, nonostante le controversie che l’hanno riguardata, decolla all’interno del partito Alianza Verde seguita dalla sua elezione al Senato del 2014.

Nel 2018, in occasione delle elezioni presidenziali, López si candida alla vicepresidenza con la Coalición Colombia, presentando la lotta alla corruzione come tematica centrale del programma politico. Le elezioni hanno favorito il candidato dell’opposizione Iván Duque Márquez, attuale presidente della Colombia.

Il 27 ottobre 2019 Claudia López, candidata alle elezioni locali di Bogotà, riceve oltre un milione di voti e diventa sindaco della capitale: prima donna in Colombia a ricoprire questo ruolo, nonché prima persona dichiaratamente omosessuale in tutta l’America.

Con lo scoppio della pandemia di coronavirus, la sua gestione dell’emergenza si è orientata verso la prevenzione e la conversione di grandi strutture in ospedali temporanei, conferendole la partecipazione al World Mayor Prize 2021 della City Mayors Foundation.

In veste di rappresentante della comunità LGBTQ+ di Bogotà, López si impegna verso una società più inclusiva e rispettosa delle minoranze. In particolare, le sue proposte sono:

  • identificare, prevenire ed eradicare ogni forma di discriminazione e di violenza per orientamento sessuale ed identità di genere;
  • sviluppare processi di sensibilizzazione nei confronti delle imprese, delle pubbliche amministrazioni, delle forze dell’ordine, dei servizi di salute e del settore educativo per combattere la stigmatizzazione e la discriminazione;
  • promuovere il rispetto della diversità sociale in ogni ambito.

Nel suo programma politico si legge: “a Bogotà tutti abbiamo il diritto di essere felici, non importa chi amiamo.”

Pinki Khatun

A un primo sguardo più superficiale il Bangladesh, con la sua legislazione di origine coloniale che ancora criminalizza i rapporti fra persone dello stesso sesso, sembrerebbe il luogo meno adatto per una storia di liberazione ed affermazione trans. E invece è proprio così!

Nel 2019 proprio a Kotchandpur, un sottodistretto (upazila) della parte sud-occidentale del paese, la candidata hijra Pinki Khatun, 37 anni, ha trionfato alle elezioni per la vice-presidenza del consiglio comunale battendo il suo avversario con uno scarto di circa 4000 voti.

Per comprendere la grandiosità di questa notizia, ad ogni modo, è forse necessario fare un passo indietro: come detto già in precedenza, il Bangladesh è un paese che tuttora criminalizza le relazioni ed i rapporti fra persone dello stesso sesso. E tuttavia è anche un paese in cui molto di recente la comunità LGBTQ+ ha ottenuto le prime vittorie in fatto di visibilità e rappresentazione. Fra queste, va assolutamente ricordata la storica decisione del governo bengalese del 2013 di permettere a tutte le persone hijra di identificarsi come terzo genere nella documentazione ufficiale. Le hijra sono un’identità femminile appartenente alla cultura bengalese composta perlopiù da persone nate biologicamente uomini che non si identificano nel sesso di assegnazione ma trascendono i confini del semplice binarismo di genere. Pinki Khatun, la 37enne protagonista della nostra storia, è anche lei una hijra, la prima in tutta la storia del Bangladesh a venire eletta in una carica pubblica.

La sua storia è tanto straordinaria quanto eccezionale: prima della carriera politica, Pinki lavorava presso un negozio di stoffe ed aveva alle spalle un matrimonio ormai finito. Tre anni prima della sua vittoria, inizia la sua vita politica militando tra le fila dell’Awami League (Lega Popolare, il partito laico di centro-sinistra al governo) ed è attualmente la coordinatrice di Kotchandpur per la Jobo Mohila League (il fronte femminile dell’Awami League), il suo impegno civico, inoltre, le è valso la nomina di presidente del comitato direttivo di una scuola elementare locale. La sua famiglia ha sempre sostenuto la sua attività politica e l’ha molto supportata nella sua campagna elettorale, svolta in buona parte porta a porta. Il trionfo nelle elezioni comunali è anche dovuto, Pinki ne è sicura, all’affetto che i cittadini di Kotchandpur le riservano, considerandola ormai una confidente vicina alle istanze della popolazione. La neo-eletta vicepresidente del consiglio comunale di Kotchandpur, inoltre, è tanto certa dell’amore dei suoi concittadini per lei quanto del fatto che essere così ben voluta e accettata dalla propria famiglia e dalla sua comunità fa di lei una hijra privilegiata, un’eccezione e non la regola. Infatti, le persone hijra in Bangladesh rappresentano una categoria sociale molto marginalizzata e, nonostante il recente riconoscimento da parte del governo, ancora oppressa. Che Pinki sia la prima hijra in tutta la storia del paese a venire eletta a una carica pubblica è di vitale importanza proprio per questo: è ella stessa una persona hijra e non ne ha mai fatto mistero, fra i punti della sua campagna elettorale che le è valsa la nomina, ci sono la tutela e la difesa dei diritti delle donne in difficoltà, la lotta alla droga e l’impegno per assicurare a tutte le persone hijra una vita dignitosa e onorevole. La vittoria di Pinki è il segnale che anche in Bangladesh è giunta l’ora di aprire le cariche pubbliche alle persone LGBTQ+ così che attraverso di loro si possano promuovere l’uguaglianza, l’accettazione, il rispetto reciproco ed i diritti civili in tutto il Bangladesh.

Mounir Baatour

Nei Paesi arabo-islamici la popolazione LGBTQ+ vive nella più assoluta illegalità. La loro esistenza è segnata da discriminazioni estese e spesso violente, che spingono la maggior parte dei cittadini arcobaleno a nascondersi o, nei casi più estremi, ad emigrare, andando incontro così a maltrattamenti e violazioni anche più gravi.

Anche in Tunisia le istituzioni portano avanti politiche e leggi dallo stampo omo-bi-transfobico, come denunciato da Human Rights Watch. Nello specifico, qui le più gravi violazioni dei diritti delle persone LGBTQ+ si concretizzano in:

  • Condanne fino a tre anni di reclusione per condotta omosessuale, anche consensuale, e per atti considerati contrari alla “moralità” ed alla “decenza”;
  • Esami anali forzati volti al riconoscimento della condotta omosessuale;
  • Mancato riconoscimento delle persone transgender;
  • Arresti arbitrari sulla base di un’espressione di genere non normativa;
  • Molestie e boicottaggi delle organizzazioni a favore dei diritti delle persone LGBTQ+.

In un contesto di tale oppressione, l’attivismo di Mounir Baatour è indispensabile.

Baatour nasce nel 1970 ed intraprende gli studi in giurisprudenza, diventando avvocato di professione ed attivista per i diritti della sua comunità. Nel 2013 la sua ascesa in politica è ostacolata dall’accusa di sodomia ai danni di un minorenne che, nonostante le smentite, lo porta in carcere per tre mesi.

Nel 2015 fonda l’associazione Shams per i diritti delle persone LGBTQ+, della quale è oggi presidente. Come avvocato della comunità arcobaleno, Baatour e la sua associazione si cimentano in diverse battaglie per la depenalizzazione dell’omosessualità.

Nel 2017 le autorità tunisine si sono impegnate a porre fine ai test anali come prova di omosessualità, anche se nella realtà dei fatti questa procedura – ormai condannata come tortura – viene ancora effettuata nei tribunali. Baatour, ormai politico di alto livello, invita i giudici ed i medici a rifiutarsi di effettuare questi test. Con la sua voce denuncia l’impunità che avvolge i crimini contro persone percepite come omosessuali o transgender, e l’impossibilità di questi di godere di diritti basilari come la salute, l’istruzione ed il lavoro, proprio a causa dell’incontrollata discriminazione presente in Tunisia. La lotta contro l’omofobia di Mounir Baatour gli ha fatto vincere, insieme alla camerunense Alice Nkom, il premio Idaho France del 2018.

L’8 agosto 2019 Baatour annuncia la sua candidatura alle elezioni presidenziali per il Partito Liberale, diventando così il primo aspirante presidente di un Paese musulmano ad essere apertamente gay. Nonostante l’attenzione mediatica che questo ha comportato, la candidatura non è stata accettata dall’autorità elettorale tunisina, che lo ha rifiutato senza fornire ulteriori spiegazioni.

Purtroppo essere LGBTQ+ in alcuni Paesi del mondo significa anche questo. La brillante carriera di Mounir Baatour è stata ostacolata in moltissimi modi: dal carcere, al rifiuto della candidatura senza motivazioni. Anche l’associazione Shams ha subito intimidazioni e tentativi di boicottaggio. Nel 2020 Baatour è stato costretto a chiedere asilo politico alla Francia, a causa delle minacce di morte ricevute da parte degli islamisti.

Ma ciò che accomuna le storie di Mounir, Pinki e Claudia, ciò che resta di tutte le loro esperienze di vita è l’importanza di persistere nella lotta per la visibilità e l’accettazione. Le loro nomine ci dimostrano che è possibile, anche in paesi meno tolleranti, portare avanti le istanze delle minoranze sessuali perché, oltre la repressione, l’oppressione e la privazione dei propri diritti, resta una verità solida e incontestabile: ovunque, in ogni angolo del mondo, le persone LGBTQ+ esistono e la loro voce non sarà messa a tacere ancora per molto!

Se ti è piaciuto l’articolo, CondividiCi!

Conoscere è resistere!

Condividi questo articolo e aiutaci a diffondere i nostri contenuti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Puoi continuare ad approfondire attraverso i nostri articoli:

La russificazione: come la Russia influisce nella vita degli altri stati

La russificazione è quel processo che ha portato all’adozione della lingua e della cultura russa nei paesi che sono stati dominati a vario titolo dal paese eurasiatico. Grazie a questa che può essere definita una vera e propria strategia di conquista, infatti, la Russia – come la Turchia – è riuscita ad aumentare il suo potere ed estendere la sua influenza nei territori limitrofi. Gli effetti più immediati della russificazione sono direttamente visibili nei paesi dell’ex URSS dove, soprattutto in alcune regioni di importanza strategica, la maggioranza della popolazione è russa – esempio lampante in tal senso è il Donbass in Ucraina. Per massimizzare il successo del processo di russificazione, infatti, un buon numero di cittadini russi veniva fatta insediare nel nuovo territorio, andando poi a ricoprire incarichi amministrativi nello stesso. Proprio grazie alla presenza della popolazione russa nel tessuto amministrativo-burocratico di un determinato luogo, permetteva di imporre la lingua e la cultura russa. Questo modello ha permesso alla Russia di conquistare e mantenere il controllo e l’influenza su regioni che a volte erano a migliaia di chilometri dalle due città principali dello Stato: Mosca e San Pietroburgo. Ma facciamo un passo indietro nel tempo iniziando ad analizzare i primi esempi di russificazione. Il Khanato di Kazan’ Fino al 1500 la Russia era ancora la grande potenza che conosciamo oggi, tanto è vero che fu dominata dall’impero mongolo per circa 250 anni. Dopo questo dominio, nell’area cominciarono a porsi le basi per la nascita dell’Impero zarista che nel tempo, a sua volta, porterà alla costituzione dell’Unione Sovietica. Fu proprio al periodo del dominio mongolo che risale la nascita del processo di conquista che è stato poi perfezionato in seguito: la russificazione. Quando l’impero mongolo conquistava un nuovo territorio, infatti, lasciava ai superstiti una scelta: venire uccisi o diventare schiavi – recentemente sono state ritrovate prove degli stermini di Rjazan’, Torzhok e Kozelesk da parte dei mongoli conseguenti a questa tecnica di conquista. Una volta fatta schiava od uccisa la popolazione poi, i mongoli spazzavano via tutti i riferimenti culturali di quei territori, arrivando anche a distruggere città e fortezze. La scelta dei territori da conquistare non era affatto lasciata al caso: l’armata di Gengis Khan, infatti, era solita occupare i territori più importanti dal punto di vista del sostentamento – ad esempio, occuparono la steppa russa meridionale, il territorio più fertile della zona. Un altro elemento fondamentale di questo processo di “pulizia culturale” adottato dai mongoli – che verrà poi ripreso direttamente dal modello russo – era l’imposizione di una forte tassazione gravante su tutti i “non mongoli”, così da assicurarsi che gli stessi non avessero le risorse necessarie per rovesciare l’impero. Questa forte influenza ha portato anche all’adozione di termini mongoli nell’ambito dell’amministrazione e della finanza, come il termine jarlik – che oggi vuol dire “marchio di fabbrica o timbro doganale” ma che deriva da una parola mongola che significa “ordine scritto del Khan” e rappresentava un qualche tipo di concessione di privilegi che lo stesso elargiva – ed il termine dengi e denga – “denaro” e “moneta coniata”. In buona sostanza, quindi, fu proprio la grande influenza mongola a trasformare la vecchia Russia divisa e debole, nella super potenza monolitica che conosciamo oggi. La differenza tra le due potenze fu semplicemente una: il rapporto con il proprio popolo. Da un lato, i mongoli non avevano nessun rapporto con il popolo e non erano interessati a che questi adottassero i loro costumi o la loro religione (dal momento che la scelta era tra la morte e la schiavitù, infatti, l’annientamento culturale avveniva ugualmente e con il minor sforzo). Dall’altro lato, i russi improntarono il loro modello espansionistico e di conquista proprio sull’adozione da parte della popolazione dei costumi e della religione russa – alla stregua dell’Impero Romano. Questa differenza tra le due tattiche di conquista era dovuta alle differenti origini storiche e sociali delle due popolazioni. I mongoli erano dei nomadi clanici, senza delle vere e proprie radici culturali stabili e ben radicate da dover preservare. I russi, invece, formavano una società agricola complessa che prevedeva una gestione bene più difficile delle semplici razzie e scorribande nomadi. A causa di questa mancanza di stabilità e solidità della struttura sociale, dunque, l’impero mongolo iniziò a deteriorarsi verso il 1500 e ciò permise ad alcune delle terre conquistate – tra cui anche la Cina – di iniziare a “rialzare la testa”. Anche la Russia beneficiò del crollo dell’impero mongolo e la sua rinascita ufficiale si fa risalire al 1547, anno in cui ebbe inizio il regno di Ivan IV, anche detto il Terribile il quale, autoproclamandosi Zar – e non principe come in passato – di Russia e della terza Roma, ovvero Mosca, assunse il pieno controllo del nuovo Stato. Fu proprio durante il regno di Ivan il Terribile quindi, che vengono poste le basi dell’Impero zarista in quanto lo Zar diventa una figura indipendente e gerarchicamente superiore rispetto alla Chiesa, determinando così una scissione ufficiale del potere temporale da quello spirituale. Per di più, Ivan IV scacciò l’esercito mongolo dai territori limitrofi, partendo proprio dal Khanato di Kazan’. L’assedio dello stesso nel 1551 diede la possibilità al neo-nato Stato russo di stabilire il suo primo avamposto: a ridosso della stessa Kazan’. È proprio con l’arrivo di Ivan il Terribile, quindi, che il modello di russificazione comincia a delinearsi, determinando importanti conquiste – da un punto di vista sia strategico che economico – per la Russia. È interessante notare che lo Zar, dal momento in cui prese il potere, cercò anzitutto di riannettere quei territori che erano caduti in mano ai mongoli perché fu proprio in questa fase che iniziarono ad essere poste le basi per quel processo che poi divenne una costante: la russificazione. Le mire espansionistiche dello Zar non si fermarono solo ai territori conquistati dai mongoli, ma si estendevano anche a quelli conquistati da altre popolazioni come, ad esempio, i Livoni – che conquistarono la regione della città di Dorpat, l’odierna Tartu. La conquista del Caucaso Come

Leggi Tutto »