Nagorno-Karabakh: una terra perennemente in conflitto

bandiera nagorno karabakh

Il Karabakh (in azero Karabakh “giardino nero”) è una regione sita nella Transcaucasia, senza sbocco sul mare e facente parte dell’Altopiano Armeno. Più precisamente, si trova a sud-est della catena montuosa del Caucaso minore tra i fiumi Kura e Araz. Il territorio è diviso in due parti: una pianeggiante chiamata Basso Karabakh e l’altra montuosa, teatro di guerra nell’ultimo secolo, ovvero il Nagorno Karabakh.

Gli albori

Le prime tracce storiche di insediamento nel territorio risalgono al IV secolo a.C. quando il Karabakh era parte dell’Albània Caucasica. Il territorio di questo stato si espandeva dal Caucaso a nord, fino al fiume Araz a sud e dal mar Caspio a est, all’Iberia ad ovest. Questo stato era condiviso da diverse etnie principalmente turcofone, caucasiche e iraniche e, nello specifico, nella regione montana del Karabakh, chiamata Artsakh (o secondo alcune fonti antiche Orkhistena), vivevano Gargari, Uti, Unni, Cazari e Basili, alcuni dei quali ancora oggi presenti nel territorio.

Dal 313 l’Albània Caucasica adottò come religione il Cristianesimo e questo permise allo stato di rimanere indipendente fino al VIII secolo. Infatti, dall’invasione araba lo stato transcaucasico diventa islamico, tranne nell’Artsakh dove la popolazione riuscì a mantenere la propria religione grazie alla forte influenza dell’Impero bizantino nel Caucaso meridionale, il quale istituì la Chiesa albàna caucasica.

Tra il IX e il XIV secolo il Karabakh è stato parte di stati governati dai Sagidi, Salaridi, Sheddadidi, Atabeghi e Gialairidi. Solo dal XII secolo la regione venne rinominata con il nome di Qarabağ, ma solo dal XV secolo inizia a far parte del primo stato azerbaigiano che si chiamava Garagoyunlu poi diventato Ak Koyunlu. In questo periodo il reggente del Garagoyunlu conferì alla stirpe dei Jalalidi (che governarono la regione fino alla fine del XV) il titolo di melik, ossia di reggente. È interessante sottolineare che la dinastia azera ha fatto ricorso ad un titolo nobiliare tipicamente armeno, a riprova della forte commistione tra le due culture in questo periodo.

Dal XVI secolo la dinastia Safavide prende il controllo di tutto il territorio del Karabakh, fino alla metà del XVIII secolo quando nell’antica Albània Caucasica si formarono dei khanati tra i quali c’era il khanato del Karabakh. Questo khanato era popolato da azerbaigiani musulmani e da albàni caucasici cristiani.

La Transcaucasia al centro degli interessi delle potenze mondiali

Dalla fine del XVIII fino agli inizi del XIX secolo la Transcaucasia diventò territorio di scontro fra la Russia, l’Iran e l’Impero Ottomano. Alcuni territori si difesero fino alla fine, altri invece furono costretti ad accettare dei patti di vassallaggio. Tra questi, il Karabakh passò sotto il controllo della Russia il 4 maggio del 1805. Secondo fonti russe del 1810 nel Karabakh vivevano circa 9500 famiglie azerbaigiane e 2500 armene.

Ed è proprio in questo periodo che iniziano ad originarsi le ragioni che porteranno poi al conflitto. Il territorio transcaucasico prima della conquista russa faceva parte dell’Impero Ottomano, che proteggeva chiunque fosse musulmano creando i cosiddetti khanati – equiparabili a regioni indipendenti, rette da un sovrano autonomo chiamato Khan. Tutte quelle popolazioni che non godevano di grande protezione all’interno dell’Impero Ottomano invece, sostennero l’avanzata russa. Tra queste ultime vi erano anche gli armeni che speravano così di poter ottenere un territorio dove istituire uno stato armeno indipendente.

Le varie battaglie che ne conseguirono però, portarono a un’emigrazione di massa di armeni dall’Iran e dall’Impero Ottomano verso i nuovi territori conquistati. Secondo lo storico russo Shavrov, tra il 1828 e il 1830 furono trasferiti 40.000 armeni dalla Persia e 84.000 dall’Impero ottomano. La seconda “ondata” di armeni arrivò dopo la guerra tra Turchia e Russia del 1877-1879, periodo nel quale si verificò una deportazione di massa degli armeni verso la Russia.

La popolazione armena venne sfruttata da tutte le maggiori potenze dell’epoca: la Russia si serviva degli armeni ortodossi per avere uno sbocco verso Sud per il Mediterraneo, così da bloccare il passaggio verso l’India alla Gran Bretagna; la Gran Bretagna faceva appello agli armeni protestanti nel tentativo di ottenere un passaggio migliore verso l’India; infine la Francia si serviva degli armeni cattolici per proteggere i propri interessi nel Medio Oriente.

Finita la guerra russo-ottomana venne firmato il trattato di pace di Santo Stefano il 3 marzo del 1878. La Russia fece inserire una clausola con la quale gli ottomani erano costretti a riformare i vilayet (province dell’Impero Ottomano) dove vivevano gli armeni aggiungendo la condizione che le truppe russe sarebbero rimaste a difesa dei territori occupati fino a che dette riforme territoriali non venivano messe in atto. Questa dura presa di posizione russa non fu ben accolta dai britannici, che la percepivano come minaccia diretta ai propri interessi nel Vicino Oriente. La clausola fu dunque rettificata in peius: nei territori dove si trovavano gli armeni furono stanziate le truppe di tutte le grandi potenze partecipanti al congresso di Berlino.

Gli armeni, nel tentativo di ottenere la salvezza ed un territorio sul quale costituire un nuovo stato armeno, rifiutarono l’appoggio russo e si affidarono alla Gran Bretagna. La superpotenza però, una volta ottenuta l’isola di Cipro dalla Turchia, non si curò più degli armeni e questi rimasero bloccati ed isolati in Transcaucasia senza vedersi riconosciuto nessuno stato.

La nuova realtà transcaucasica

In reazione al tradimento inglese, fu creato il partito Hunchak (Campana) nel 1887 a Ginevra, basato sui principi marxisti e composto esclusivamente da armeni provenienti dalla Russia. Successivamente nel 1890 a Tbilisi venne fondata la Federazione dei rivoluzionari armeni conosciuta come Dashnak, di stampo tipicamente socialista. Queste due organizzazioni avevano come obiettivo quello di creare nelle sei province orientali dell’Impero Ottomano uno stato unico di matrice socialista che si sarebbe chiamato Armenia Turca, ma questo era solo l’inizio: infatti l’obiettivo finale era quello di riconquistare i vecchi territori del Regno di Armenia del I secolo a.C.

Regno di Armenia I secolo a.C.

Dal momento che i Dashnak erano un gruppo terroristico, per raggiungere questo obiettivo gli stessi non esitavano ad usare la forza nei confronti di chiunque si fosse opposto. Non avendo avuto fortuna in Anatolia, i Dashnak si spostarono in Transcaucasia: iniziarono allora i primi scontri con gli azerbaigiani, grandemente supportati dalle forze russe che cercavano così di estendere il loro potere.

Le prime violenze si verificarono a Baku il 6 febbraio del 1905 e continuarono anche l’anno successivo in altre regioni, coinvolgendo tutte le popolazioni transcaucasiche – armeni inclusi. Questo clima di violenza si propagò fino al Nagorno Karabakh, dove vi furono dai 3100 alle 10000 vittime a seconda delle fonti, ma principalmente si trattava di musulmani.

Prima della Prima Guerra Mondiale i politici armeni dell’Anatolia si erano di nuovo schierati dalla parte della Russia, nella speranza che la stessa li aiutasse a creare un’Armenia indipendente – desiderio questo supportato anche dal Dashnak. Durante la Prima Guerra Mondiale, la Russia fu affiancata dall’esercito armeno – arruolato direttamente dal Dashnak e radunante tutti i dissidenti armeni dell’esercito ottomano. A questo punto l’armata turca retrocesse ed il ministro degli interni ottomano reagì emanando un mandato d’arresto nei confronti di tutti i leader politici armeni ed ordinandone la deportazione al di fuori dei territori dell’impero ed il sequestro di tutte le armi, in modo da prevenire scontri tra armeni e musulmani. Conseguentemente l’Impero Ottomano deportò l’intera popolazione armena in reazione all’invasione armena della città di Van, il 1° giugno 1915.

La rivoluzione di febbraio del 1917 portò alla creazione della Repubblica Federale Democratica Transcaucasica che comprendeva Georgia, Armenia e Azerbaigian. Il territorio veniva interamente gestito dalla nascente nuova Russia.

Il Dashnak riuscì ad infiltrarsi non solo all’interno della rivoluzione sovietica ma anche nella capitale azerbaigiana, iniziando a collaborare con la Comune di Baku, partito socialista che aveva portato gli ideali della rivoluzione nel Caucaso. Quest’ultimo partito, in quanto portatore degli ideali sovietici, era contrario a qualsiasi imposizione religiosa e quindi si opponeva al Musavat, partito che cercava di difendere il popolo musulmano in Azerbaigian e che rivendicava l’autonomia dalla Russia.

La Comune di Baku non riuscì ad ostacolare la nascita di una nuova repubblica proclamata il 28 maggio 1918. Infatti la repubblica di Azerbaigian venne costituita grazie all’aiuto dell’Impero Ottomano, che liberò il paese dai bolscevichi, dal Dashnak e dai socialisti. Successivamente le truppe inglesi sostituirono quelle ottomane, riconoscendo il territorio del Nagorno Karabakh come parte integrante del territorio azerbaigiano. Nello stesso giorno in cui si costituiva la prima repubblica azerbaigiana, anche l’Armenia si rese indipendente. Il 26 agosto 1919 l’assemblea armena del Nagorno Karabakh riconobbe ufficialmente il governo azerbaigiano, a patto che gli venisse garantita l’autonomia culturale all’interno della regione. La firma dell’accordo fu uno dei primi motivi di scontro tra i due paesi per la contesa del Nagorno Karabakh.

Ad aumentare i motivi di conflitto fu la mancanza di indipendenza, dal momento che tutte le repubbliche che si erano costituite durante questo periodo non vennero riconosciute dagli alleati fino al 1920 perché sostenevano l’idea di una Russia unita e indivisibile solo se liberale, invece la questione armena era un problema dell’Impero Ottomano. Solo quando Kemal Ataturk stava per costituire la nuova Turchia e i bolscevichi erano vicini alla vittoria, gli alleati riconobbero de facto le tre repubbliche, e tra queste solo la Georgia venne riconosciuta de jure il 27 gennaio 1921.

Dopo l’annessione della Transcaucasia all’URSS, il territorio fu diviso in diverse repubbliche socialiste e soprattutto venne costituita la regione autonoma del Nagorno Karabakh all’interno del RSS azerbaigiano, poiché vi erano ancora molti scontri tra azerbaigiani e armeni. I popoli all’interno della regione autonoma convivevano senza problemi – dato che quello, come abbiamo visto, era sempre stato un luogo di incontro tra varie culture – ma i due stati continuavano una lotta senza fine.

Durante tutto il periodo del controllo sovietico, la RSS armena tentò varie volte di richiedere il controllo del Nagorno Karabakh, ma senza alcun risultato. Per lo stato centrale infatti, non c’era nessun motivo valido per modificare l’assetto della sfera di influenza, anche perché all’interno della regione autonoma venne mantenuto l’armeno come lingua ufficiale. Infatti, nella NKAO i media garantivano trasmissioni radio e televisive in armeno.

Dal 1987 la questione del Nagorno Karabakh tornò alla luce dopo l’espulsione forzata degli azerbaigiani da parte dell’Armenia. Questo nuovo episodio portò di nuovo alla violenza e soprattutto ad una guerra senza confini che ancora oggi si rianima e viene sedata ogni volta a seguito di un intervento esterno. L’RSS armeno aveva nuovamente richiesto allo stato centrale l’annessione della NKAO per salvare la popolazione armena ottenendola nel 1989, invano poiché nello stesso anno assistiamo al crollo dell’URSS.

I due punti di vista

I due stati nel giustificare le ragioni della riaccensione delle tensioni, ricorrono sempre a motivazioni che variano dalla componente culturale alla politica, dalla storia alla geografia, spesso senza arrivare a una soluzione reale e senza dare pace a una terra che sembra destinata a vivere in perenne conflitto.

In un discorso del 23 giugno 2004 davanti all’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa Robert Kocharjan, ministro armeno, dichiarò:

il Karabakh non è mai stato parte dell’Azerbaigian indipendente. Durante il crollo dell’Unione Sovietica si formarono due stati distinti: la Repubblica dell’Azerbaigian, sorta sul territorio della RSS dell’Azerbaigian, e la Repubblica del Nagorno Karabakh, sorta sul territorio della Regione Autonoma del Nagorno Karabakh. L’origine di tali stati ha una base giuridica simile ma da quel momenti in poi l’integrità nazionale dell’Azerbaigian non ha niente in comune con la Repubblica del Nagorno Karabakh.

D’altra parte gli azerbaigiani riportano una serie di concetti giuridici che contrastano quelli armeni.

Entrambi gli schieramenti quindi, non propongono soluzioni per “distendere gli animi” e dare al Nagorno Karabakh la pace che si merita dopo quasi 100 anni di continui scontri, che hanno causato migliaia di morti tra i civili. Ad oggi lo scontro iniziato nel settembre 2020 è concluso ma, come abbiamo visto, la miccia del conflitto potrebbe riaccendersi da un momento all’altro, specie perché l’accordo di pace siglato agli inizi di novembre – grazie all’intervento della Russia – sembra più essere una tregua momentanea ed è servito principalmente per ristabilire l’influenza russa sul territorio.

Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

Avatar photo

Conoscere è resistere!

Condividi questo articolo e aiutaci a diffondere i nostri contenuti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Puoi continuare ad approfondire attraverso i nostri articoli:

In un viaggio di viaggi. Fare volontariato a Calais.

Oggi andiamo ad esplorare il nord della Francia, a neanche tre ore dalla capitale, a Calais, una città apparentemente uguale al resto delle città francesi. Da sei anni a questa parte Calais è però diventata un porto d’arrivo per migliaia di rifugiati che sognano le coste inglesi. Le condizioni in cui vengono accolti e costretti a vivere sono uno scandalo dal punto di vista della dignità umana, denunciato a più riprese da organizzazioni umanitarie in tutta Europa. Le polemiche crescono ma le soluzioni reali sembrano ancora essere lontane. Una vasta rete di ONG francesi ed inglesi è l’unica vera fonte di salvezza per i rifugiati di Calais. Large Movements vuole promuovere un dialogo vivo e vero con i rifugiati, e ha deciso così di intraprendere un’esperienza sul campo di Calais, attivandosi con una delle principali ONG inglesi. Qui, la maggior parte dei migranti proviene dall’Afghanistan, Eritrea, Iran, Iraq e Sud Sudan. Per lo più sono uomini, tra i 16 ed i 40 anni. Questo perché i governi di provenienza impongono loro il servizio militare obbligatorio e l’unica via per sottrarsene è la fuga. Tra tutti i paesi in Europa, nonostante la Brexit e la barriera linguistica, l’Inghilterra resta tra le mete predilette e viene percepita da queste persone come la speranza per migliori condizioni di vita grazie al facile accesso al mondo del lavoro. Purtroppo, quest’ultimo, come testimoniano molti dei rifugiati, è il mondo del lavoro in nero, che non richiede tutti quei documenti e procedure burocratiche i cui tempi di attesa spesso superano quelli del viaggio per raggiungere le coste europee. Tra le ragioni che ispirano ad intraprendere un’esperienza di volontariato a Calais è proprio la posizione di questa realtà, scenario di una delle crisi umanitarie più gravi in Europa. L’espressione “crisi umanitaria” è normalmente associata a paesi lontani, a territori sperduti e contaminati dalla guerra. Eppure, la (non) gestione degli arrivi di immigrati in Francia ha fatto sì che il confine franco-inglese si sia trasformato in un luogo dove è scoppiata una profonda crisi umanitaria, violando diritti e principi fondamentali. La tristemente nota “Giungla di Calais” si trova nel dipartimento di Grand-Synthe, a Dunkerk, ad una ventina di km dal centro di Calais. Dallo smantellamento del 2016 in realtà, della Giungla rimangono soltanto delle tracce. Oggi i rifugiati si trovano in varie zone di accampamento tra il centro e fuori città, privi di una struttura di riferimento come ai tempi della Giungla. Le zone di accampamento sono infatti enormi aree che si sviluppano dove intorno non vi è assolutamente nulla oppure accanto a grandi centri commerciali, dove le ONG attive sul territorio organizzano quotidianamente la distribuzione di cibo e beni essenziali come vestiti, coperte o tende. Oltre all’ex Giungla di Calais, le distribuzioni avvengono in più punti della città: le piazzole situate sia di fronte l’ospedale principale sia nelle vicinanze del tunnel della Manica sono due tra questi. Il tunnel giunge fino in Inghilterra ed è da qui che tutte le notti molti rifugiati provano a salire su di un camion nel disperato tentativo di raggiungere la terra anglosassone. Dal 2017 il Comune ha messo a disposizione un servizio di docce per i migranti e, per i mesi più freddi, un sistema di dormitori per proteggersi dalla morsa del gelo. Tuttavia, la convivenza in stretti spazi e sotto il controllo di personale francese non è sempre la scelta prediletta dai migranti. Infatti, nel corso degli anni si sono ripetuti scontri e violente discussioni che hanno fatto chiudere o sospendere i servizi. Risale allo scorso gennaio la denuncia delle maggiori ONG circa l’attivazione di questi servizi perché, secondo la legge nazionale, spetta al prefetto decidere l’attivazione – e quindi anche l’interruzione o la sospensione – di questi servizi ma non sempre questa funzione è considerata una priorità nell’agenda amministrativa. A Calais lo stereotipo europeo del migrante – al quale la maggioranza della popolazione occidentale in qualche modo è assuefatta a causa del continuo bombardamento informatico e mediatico che lo diffonde quotidianamente – viene a cadere fin dal primo giorno. Si incontrano storie di persone che vogliono rivendicare un destino ingiusto, perché nati in paesi la cui miseria e violenza non ha permesso loro di vivere una vita degna di essere chiamata tale. I più giovani non hanno potuto frequentare la scuola ma riescono ad imparare da autodidatti l’inglese, a volte anche il francese o l’italiano, con una dizione ed una padronanza quasi perfetta. I più anziani lasciano spesso carriere brillanti nell’ambito della ristorazione o dell’estetica. È sorprendente ad esempio come i parrucchieri curino l’aspetto dei loro compagni anche sotto la neve o con il freddo che rende i campi immense distese di ghiaccio. Operare in un luogo del genere permette anche di scoprire la diversità delle nazioni di provenienza dei rifugiati e la loro organizzazione in territorio straniero. Gli Afghani, insieme agli Iracheni, Curdi ed Iraniani si “impongono” sul resto degli altri rifugiati dato il loro carattere particolarmente forte. Ad esempio, nelle attività sportive accade spesso che i Sudanesi o gli Eritrei siano esclusi o mal visti, a causa della loro esile forma fisica. Per quanto riguarda invece l’organizzazione delle comunità, gli Eritrei hanno una loro interna gerarchia: vi è un capo eletto che ogni giorno si occupa di ripartire i vari beni ricevuti. Interessante è anche capire come la popolazione di Calais percepisce e descrive lo scenario. Un primo elemento è legato allo scenario politico locale: dal 2008 Natacha Bouchart, rappresentante repubblicana, è il sindaco di Calais e fin da subito ha adottato una serie di misure per contrastare l’arrivo clandestino dei migranti, invocando un continuo scambio di informazioni con le autorità inglesi ed invocando che le stesse si assumano le proprie responsabilità in merito alla regolarizzazione dei flussi migratori. Il sindaco ha anche più volte denunciato l’operato delle organizzazioni perché “si servono dei migranti per esistere”. Al di là del discorso politico, vi è una parte dei cittadini di Calais che si lamenta della reputazione che ha ormai acquisito la loro città. “Calais viene ormai unicamente

Leggi Tutto »

La rotta del Mediterraneo Centrale

Secondo il report “Missing migrants” dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM), il Mediterraneo centrale è sempre più mortale a causa dell’assenza delle navi ONG e di navi di ricerca e soccorso dei governi europei. Attualmente, le operazioni di soccorso sono spesso svolte dalle autorità libiche e tunisine e il report evidenzia come, per il secondo anno consecutivo, vi sia un aumento dell’attività dei Paesi nordafricani: sono 23.117 le persone recuperate nei primi sei mesi del 2020, mentre sono 31.500 le persone recuperate nei primi sei mesi del 2021. Chi viene recuperato dalle autorità nordafricane rischia di subire tortura, trattamenti inumani e degradanti od il rimpatrio verso il Paese di origine, dove possono incorrere in ulteriori violazioni. La rotta del Mediterraneo Centrale Secondo l’Agenzia Europea per il controllo delle Frontiere Esterne (FRONTEX), sono otto le principali rotte che rifugiati e migranti percorrono nel tentativo di raggiungere l’Unione Europea: 1) la rotta orientale; 2) la rotta balcanica; 3) la rotta circolare; 4) la rotta atlantica; 5) la rotta del Mar Nero; 6) la rotta del Mediterraneo occidentale; 7) la rotta del Mediterraneo orientale; 8) e la rotta del Mediterraneo centrale. La rotta del Mediterraneo centrale coinvolge le frontiere marittime di Libia, Tunisia, Malta e Italia, costituendo uno spazio di 400 km circa. Il Mediterraneo centrale però costituisce solamente la parte finale di un lungo viaggio che spesso dura tra i 2 ed i 5 anni. Prima di arrivare in Libia o in Tunisia, chi migra ha intrapreso una delle 5 rotte migratorie terrestri che dall’Africa Subsahariana portano all’Italia. Ognuna di queste rotte attraversa il deserto del Sahara e passa o nella cittadina di Agadez, in Niger, per chi parte dal Sahel occidentale o per Khartoum, la capitale del Sudan, per chi parte dal Sahel orientale. Il protagonismo del Mediterraneo Centrale nelle migrazioni del XXI secolo La rotta del Mediterraneo Centrale ha iniziato ad assumere un ruolo rilevante a seguito della caduta del Muro di Berlino. Fino a quel momento, la maggior parte dei flussi migratori verso l’Europa proveniva dalla frontiera orientale, ovvero dai Paesi dell’Ex-Unione Sovietica. La cosiddetta epoca del bipolarismo ha avuto effetti anche nel continente africano, dove i due blocchi combattevano guerre per procura e finanziavano le élite locali. Di conseguenza, le pressioni politiche ed economiche, le forniture di armi, i mercenari e talvolta interventi militari diretti sono stati fattori che hanno contribuito al sorgere di nuovi conflitti od all’inasprimento di quelli storici. Al termine di questa epoca – e di conseguenza dei finanziamenti da parte degli Stati Uniti o dell’Unione Sovietica – si aprirono nuovi teatri di crisi a causa di una nuova instabilità politica a cui si susseguirono crisi umanitarie, conflitti e fenomeni di persecuzione verso le minoranze e gli oppositori politici. Questo cambiamento dello scenario geopolitico ha portato, da una parte, a nuovi flussi migratori e, dall’altra, a ripensare le politiche d’immigrazione nei Paesi del Nord del mondo. É bene notare però che la gran parte dei flussi migratori africani si svolgono, prima più di oggi, all’interno del continente e, nella maggior parte dei casi, l’Europa non è la destinazione finale programmata all’inizio del viaggio. Fino ai primi anni 2000 vi erano importanti sistemi regionali di migrazioni che nei decenni si sono costruiti attorno a centri economici africani in crescita, come nel caso della Libia. Questo Paese ha infatti storicamente rappresentato un’importante destinazione dei flussi migratori africani e, fino al 2011, non era affatto una meta di transito. Ciò era dovuto, almeno fino alla seconda metà degli anni ‘90, alla politica promossa dal Colonnello Gheddafi volta a favorire i cosiddetti migranti economici provenienti dall’Africa subsahariana al fine di impiegarli nel comparto petrolifero ed edilizio. Dal 2000 però, gli africani subsahariani hanno cominciato sempre più ad essere vittime della xenofobia e delle violente rivolte anti-immigrazione che dilagavano nel Paese. Si assistette ad una escalation di violenze nei confronti dei subsahariani  che sfociarono in espulsioni, detenzioni arbitrarie e tortura. Ciò spinse a nuovi fenomeni migratori verso altri Stati del Nord Africa o l’Europa. Nonostante ciò, la Libia ha continuato ad essere un’importante destinazione fino al 2011. Le cosiddette Primavere Arabe hanno riconfigurato ulteriormente i flussi migratori contemporanei facendo registrare un aumento esponenziale dei numeri sulle rotte marittime migratorie del Mediterraneo. Le proteste hanno infatti portato alla caduta di regimi ultra-decennali (come ad esempio Mubarak in Egitto, Ben Alì in Tunisia e Gheddafi in Libia) che a loro volta hanno portato ad una instabilità politica che ha contribuito ad aumentare i movimenti di popolazione tra le due sponde del Mediterraneo. Nel caso libico, il violento conflitto tra le milizie di Gheddafi ed i ribelli ha causato il ritorno in massa dei lavoratori migranti verso paesi sub-sahariani, come il Niger, il Mali e il Ciad. Ciò ha avuto effetti sulla stabilità di altri Paesi, ad esempio il ritorno dei Tuareg dalla Libia al Mali sembrerebbe aver incoraggiato la ribellione Tuareg nel nord del Mali. Dopo la caduta del regime di Gheddafi, la Libia è caduta in una crisi senza fine e si è trasformata, ancora più di prima, in un porto franco per trafficanti di esseri umani, per la criminalità organizzata e per le milizie che si scontrano per prendere il potere. A pagare questo vuoto politico sono nuovamente le migliaia di persone provenienti dall’Africa sub-sahariana che per anni hanno lavorato in Libia. Queste all’indomani della morte del Colonnello si sono ritrovati in un vero e proprio limbo subendo violazioni dei diritti e violenze. A ciò si aggiunge che la debolezza politica della Libia e la possibilità dei trafficanti di infiltrarsi nelle istituzioni, come ad esempio nel caso del noto trafficante di esseri umani Al-Bija accolto in Italia come esponente della Guardia costiera libica, hanno reso la rotta del Mediterraneo centrale più appetibile per la criminalità organizzata. Qui infatti, i trafficanti possono agire indisturbati e sfruttare o ricattare coloro che decidono di intraprendere il viaggio. Ciò accade in misura minore nella rotta del Mediterraneo Occidentale, dove il governo Spagnolo finanzia  il governo del Marocco, e nella rotta del Mediterraneo Orientale, dove

Leggi Tutto »

La frontiera Stati Uniti – Messico: muri visibili e invisibili

In quattro anni di presidenza, Donald Trump non ha mai fatto mistero delle sue intenzioni di chiudere definitivamente la frontiera con il Messico, a sud degli Stati Uniti. La costruzione del muro che separa questi due Paesi, già iniziata negli anni ‘90, è stata infatti uno dei punti saldi della sua campagna elettorale. Questa prevedeva l’implementazione della barriera per impedire l’immigrazione dall’America Latina, con un forte impatto sulle risorse economiche e ambientali, nonché sui diritti umani. A livello mediatico la sua feroce retorica contro l’immigrazione ha suscitato scalpore. Secondo le sue dichiarazioni, non solo il muro sarebbe stato finanziato dai messicani, ma lo stesso status di immigrato sarebbe stato ridefinito legalmente tramite l’imposizione di norme più restrittive. La sua politica migratoria si sarebbe basata sul rimpatrio e l’incarcerazione di centinaia di migliaia di persone. Nell’arco del suo mandato presidenziale egli ha effettivamente rafforzato la barriera di confine, ostacolando ulteriormente l’immigrazione attraverso legislazioni e burocrazie. Questo non ha impedito a migliaia di sudamericani di avventurarsi nella traversata dell’America centrale, nel tentativo di scavalcare la barriera, mettendo a rischio la propria vita e la propria incolumità nella disperata ricerca di una protezione. Le cause della migrazione Il passato coloniale del continente americano ha plasmato la situazione sociopolitica ed economica odierna in maniera decisiva. Le popolazioni precolombiane furono infatti sterminate o confinate in zone isolate dai nuovi coloni europei del XVI secolo, i quali si incaricarono così di riscrivere da zero la storia della società americana. La nascita degli Stati Uniti come federazione di stati sovrani ha spostato l’ago della bilancia geopolitica da est a ovest. Con la sua escalation a superpotenza mondiale, l’influenza statunitense sul resto del continente è stata determinante nell’impedire lo sviluppo dei Paesi del sud. La condizione economica che ne è emersa ha visto dunque gli Stati Uniti prendere il controllo della produzione, del commercio e della manodopera del sud. Alla stessa maniera, dal punto di vista sociopolitico, l’America Latina e centrale sono sempre state soggette all’interventismo degli USA nelle questioni interne. La sua prepotente influenza sul resto del continente ha dato forma ad una società molto ineguale, con delle forti élite di imprenditori e politici benestanti che governano sulle grandi masse di popolazione svantaggiata, carente di qualsiasi tipo di assistenza sociale e relativamente povera. Queste sono le motivazioni principali che hanno destato un forte sentimento antiamericano nelle popolazioni dell’America centrale e del sud. Tuttavia – per le stesse ragioni – migliaia di persone ogni anno lasciano la propria casa e si incamminano verso nord. Il muro che divide gli Stati Uniti dal Messico è dunque un muro mentale, oltre che fisico. Questo non solo divide i due Paesi e i rispettivi continenti, ma anche due società, due ideologie di vita opposte. I privilegiati dagli svantaggiati, ed i governanti dai governati. Ed è per questo che molte persone rischiano la vita per scavalcare quel muro. La rotta verso la frontiera Stati Uniti – Messico Il muro di confine è solo il traguardo di un lungo viaggio. La rotta migratoria che interessa la regione inizia dai Paesi del centro America, prevalentemente dall’Honduras ed El Salvador, attraversa il Messico e raggiunge la frontiera. Il cammino è ricco di ostacoli e pericoli. Chi viaggia da solo rischia di essere rapinato, rapito o addirittura ucciso dalle gang criminali che militano in queste zone e che sono concausa della migrazione in sé. Al confine, poi, dove non c’è il muro c’è il deserto più caldo del Messico. La frontiera occidentale con gli Stati Uniti, infatti, si trova in mezzo al deserto di Sonora. Molti migranti terminano la loro traversata proprio qui, soccombendo al caldo, alla disidratazione, alla fame e alla stanchezza. Secondo i dati raccolti dall’associazione No More Deaths, che si occupa di soccorrere i migranti nelle zone desertiche di Sonora, in quattro anni sono stati rinvenuti 1086 cadaveri. Il conteggio, includendo solo i corpi rinvenuti dagli ufficiali della polizia di frontiera (Border Patrol) in territorio statunitense, non risulta accurato poiché taglia fuori tutti coloro che hanno perso la vita in terre messicane. L’entità della tragedia che ogni anno si abbatte su questa regione ha fatto sì che alcune organizzazioni si interessassero al fenomeno migratorio in corso. Oltre No More Deaths, anche Humane Borders si occupa di assistere i migranti in difficoltà. Più a monte del processo migratorio, in Honduras, l’associazione Pueblos Sin Fronteras organizza la partenza dell’esodo, raccogliendo e accompagnando carovane di vari popoli caraibici, da San Pedro Sula fino alla frontiera Messico – Stati Uniti. Così, migliaia di migranti marciano insieme attraverso il Guatemala e poi il Messico nel tentativo di scappare dalla violenza, dalla povertà e dalla repressione politica subìta nel proprio Paese. L’immigrazione negli Stati Uniti La presidenza di Donald Trump ha buttato benzina sul fuoco della questione dei migranti, intavolando una guerra economica e diplomatica contro il Messico. Dopo il rifiuto a contribuire al muro, il presidente messicano Enrique Peña Nieto ha ceduto alle minacce di bloccare le rimesse degli immigrati, di alzare i dazi e le tasse sulle domande di visto e di applicare tariffe commerciali sfavorevoli al Messico. Dal 2018 il presidente ha intrapreso la scelta strategica di bloccare la carovana in territorio messicano. Alcuni migranti vengono rimpatriati, altri si fermano in Messico in attesa di una risposta alla richiesta di asilo negli Stati Uniti. Altri ancora decidono di fermarsi qui in pianta stabile, accettando l’offerta di un permesso di soggiorno temporaneo che possa permettere loro di trovare un lavoro e ricevere assistenza medica. Anche chi è riuscito a scavalcare il muro spesso finisce per essere “riconsegnato” al Messico. Nel 2019 più di 60mila persone sono state espulse dal territorio statunitense. Dal 2018 il governo di Trump, tramite la politica “zero tolerance”, ha inaugurato la pratica di divisione delle famiglie di migrati alla frontiera. Questa prevede la separazione tra i clandestini adulti e i propri figli. I primi vengono incarcerati, mentre i minorenni vengono affidati in custodia a strutture apposite situate in tutto il Paese. La dichiarazione di un alto funzionario giuridico dell’entourage di Trump lascia

Leggi Tutto »