Carovana (anti)americana: un amore geloso

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La Carovana dei migranti sta bussando alle porte degli Stati Uniti per dirgli “è colpa vostra se siamo stati costretti a partire”. Il sole sta sorgendo e dobbiamo continuare il nostro viaggio nella storia.

È la storia di un amore malsano tra gli Stati uniti e l’America Latina. È una storia lunga più di un secolo. È una storia che inizia nei primi del ‘900 con l’intento degli Stati Uniti di affermarsi come potenza regionale e mondiale e di trasformare i Caraibi in un agognato “Lago Americano”. È una storia che vede aumentare la dipendenza dell’America latina tra le due guerre mondiali. È una storia fatta di multinazionali, di investitori, di amministrazioni statunitensi, di organizzazioni internazionali, di dottrine, di rivoluzioni, di colpi di stato e del mito del Panamericanismo. È, ancora, la storia della guerra fredda, del narcotraffico, dei progetti allo sviluppo, della CIA e del terrorismo. La nostra Carovana, ora, può ripartire in un viaggio storico alla scoperta di una storia dove l’Antiamericanismo si è trasformato in speranza.

Alla fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti si trovarono in una posizione forte rispetto all’America Latina. Il conflitto aveva reso virtualmente impossibili le transazioni commerciali tra i latinoamericani e il resto del mondo e la guerra aveva distrutto, o gravemente indebolito, la potenza delle Nazioni che avrebbero potuto rappresentare una timida minaccia alla supremazia americana nella regione.

Roosevelt volle tradurre questo forte predominio in un’organizzazione internazionale e questo tema confluì nelle discussioni della Conferenza Panamericana di Chapultepec, Messico, del febbraio 1945. Qui si dichiarò che ogni attacco a un qualsiasi Stato americano rappresentava un attacco contro tutti gli Stati della regione. L’atto finale segnò il primo passo nella direzione di un’alleanza militare postbellica nell’emisfero occidentale.

Tutti gli Stati della Conferenza di Chapultepec presero parte alla costituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu).

Gli Stati Uniti erano fermamente convinti che, prima della conferenza, uno storico conflitto doveva essere sanato: quello tra la Dottrina Monroe – secondo cui gli Stati Uniti non tolleravano un intervento delle potenze europee negli affari dell’emisfero occidentale – e quello che avrebbe dovuto rappresentare l’internazionalismo dell’Onu.

Originariamente infatti, l’Onu avrebbe dovuto avere forti poteri sulle questioni di carattere regionale e il problema risultava dal fatto che ogni intervento degli Stati Uniti nell’America latina sarebbe potuto essere impedito dal veto della Gran Bretagna o dell’Unione sovietica.

Alla fine nello statuto dell’Onu si inserirono quattro articoli, dal 51 al 54, che negli effetti salvaguardavano la facoltà degli Stati Uniti di esercitare la propria influenza nell’emisfero occidentale senza infrangere le regole della nuova organizzazione.

Gli articoli tutelavano il diritto delle organizzazioni collettive regionali di risolvere le dispute e optare per l’autodifesa individuale o collettiva.

A questo proposito nel 1947, con gli Stati Uniti al loro apice di potenza, le Repubbliche Americane siglarono il trattato di Rio: un patto di difesa collettiva che divenne un modello per molte altre alleanze militari formate dagli Stati Uniti nel primo decennio della guerra fredda.

Il trattato di Rio quindi legittimò l’intervento americano e diede una nuova enfasi internazionalista alla dottrina Monroe.

Così nel 1951 venne costituita formalmente l’Organizzazione degli Stati Americani con lo scopo di promuovere azioni coordinate sul piano economico, politico e militare e per risolvere le dispute inter-americane.

Vi era però un forte problema per gli Stati Uniti: i nazionalismi e l’Antiamericanismo erano crescenti nei paesi dell’America Latina. Per molti, la logica della dipendenza e il predominio nella sfera commerciale delle multinazionali americane erano considerati i principali responsabili dei gravi livelli di diseguaglianza.

Ad esempio, nel 1950 il PIL dell’intera America Latina era un settimo di quello degli Stati Uniti a parità di popolazione. Sempre nello stesso anno l’America Latina rappresentava il 28% del totale delle esportazioni e il 35% delle importazioni Statunitensi. Si pensi, poi, che la quota americana sulle esportazioni di Cuba, Nicaragua e Guatemala era compresa tra il 70 e l’80% del totale.

Nella pratica il “sud” dipendeva dal “nord” e questo trend era destinato ad aumentare durante la guerra fredda anche se lo sguardo statunitense era concentrato sull’Asia e l’Europa per allontanare l’Unione Sovietica.

Un’altra questione importate era proprio l’Unione Sovietica.

La politica adottata dagli Stati uniti fu quella del contenimento. Questa venne coniata da George Kennan nei confronti del comunismo nel suo complesso e il concetto cardine era quello di contenere l’URSS (ovvero far sì che rimanesse entro i suoi confini attuali) nella speranza che le divisioni interne, il fallimento o l’evoluzione del contesto politico potessero porre fine a quella che veniva percepita come la minaccia di una forza persistentemente espansionista.

In quest’ottica è da ricordare il caso, nel 1951, del neopresidente del Guatemala Jacobo Arbenz Guzmàn, il quale provò ad introdurre un sistema di tassazione progressiva, un nuovo sistema di welfare e ad aumentare il salario dei lavoratori. A ciò aggiunse l’espropriazione di 400 mila terrenti agricoli non coltivati della United Fruit Company, compagnia americana con interessi in tutta l’America latina divenuta dal 1984 Chiquita Brands.  

La reazione della compagnia fu quella di fare pressioni al governo americano con il risultato che l’amministrazione Eisenhower approvò un piano della CIA per rovesciare il regime con esuli guatemaltechi addestrati dagli stessi Stati Uniti in basi situate in Nicaragua e in Honduras.  Sempre su questa scia, tra il 1953 e il 1954, gli Stati Uniti si fecero sponsor di una risoluzione dell’Organizzazione degli Stati Americani in cui si dichiarava che il controllo da parte comunista di qualsiasi Paese dell’emisfero occidentale fosse una minaccia per la sicurezza di tutti i membri. La risoluzione venne approvata per 17 voti contro uno: il voto del Guatemala.

Preso dall’ultima disperata mossa, Arbenz si rivolse al blocco sovietico alla ricerca di armi. Nel maggio 1954 arrivarono le armi di produzione cecoslovacca ma il mese successivo un piccolo contingente guidato da Castillo Armas attaccò dall’Honduras. Nel frattempo, gli aerei americani bombardavano Città del Guatemala.

In questo modo le terre vennero restituite alla United Fruit Company, gli oppositori di sinistra vennero arrestati e il governo guatemalteco restò un leale sostenitore degli Stati Uniti. Un alleato tale che divenne il terreno di addestramento, da parte della CIA, degli esuli cubani protagonisti nella Baia dei Porci.

L’antiamericanismo dei Latino Americani e la paura del comunismo degli Americani andavano di pari passo.

Nel 1958 gli Stati Uniti avevano dato asilo a Marcos Perez Jimenez, dittatore deposto dal Venezuela, e l’allora vicepresidente Nixon nello stesso anno fece visita alla capitale venezuelana, Caracas. Li sentì il crescente antiamericanismo e tutto lo sfogo della popolazione. Il risultato fu quello di aumentare la paura della minaccia del comunismo da parte dell’amministrazione Eisenhower che, come mossa tipica, privilegiò l’assistenza militare rispetto a quella economica, sottolineando la necessità di rendere edotta l’opinione pubblica latinoamericana dai pericoli del comunismo.

Il nazionalismo latinoamericano continuava a volere la fine dell’intromissione degli Stati Uniti negli affari interni dei Paesi e l’acquisizione di un maggiore controllo sulle proprie materie prime.

Per questo, dopo il fallimento della Baia dei porci e per evitare altri casi analoghi a Cuba, l’amministrazione Kennedy istituì il programma “L’alleanza per il Progresso”. Questo fu un programma di assistenza all’America latina avviato nel 1961 e che aspirava a un incremento del 2,5% l’anno del reddito pro capite, all’istituzione di governi democratici, a una più equa distribuzione del reddito, alla riforma agraria e alla pianificazione economica e sociale. I paesi dell’America latina impegnarono in 10 anni 80 miliardi di dollari, gli Stati uniti 20. L’alleanza venne sciolta nel 1973 dopo un decennio di risultati altalenanti.

Lo scopo centrale del progetto era quello di combattere la povertà e soddisfare bisogni fondamentali come la casa, la terra, il lavoro, la salute e la scuola. Il presupposto era che, con la creazione di un consistente ceto medio latinoamericano, la necessità delle dittature militari come scudo protettivo al comunismo sarebbe diminuita e alla fine l’intero emisfero occidentale si sarebbe trasformato in un bastione della moderna democrazia liberale. Sostanzialmente l’alleanza non mutò radicalmente i rapporti tra Nord e Sud. Era in grado di offrire solo una soluzione a lungo termine ai problemi strutturali che impedivano lo sviluppo dell’America Latina.

La mancanza di risultati immediati portò i politici americani negli anni ’60 a ricorrere a metodi di intervento diretto o clandestino per contrastare eventuali minacce alla stabilità. Un ulteriore problema fu che le autorità di molti dei paesi destinatari, come la burocrazia di governo americana e le aziende private che avevano investimenti significativi nella regione, generalmente si opponevano a qualsiasi forma di ingegneria sociale.

Alla metà degli anni sessanta, per conciliare gli interessi locali ed evitare di irritare ulteriormente i nazionalisti, gli Stati Uniti avevano abbandonato il prerequisito inziale che vincolava gli aiuti all’attuazione di riforme politiche. Ne derivò che la corruzione divenne un problema costante.

Le élite latinoamericane intascavano parte degli aiuti, si rifiutavano di impegnarsi in riforme agrarie significative e si opponevano a qualsiasi piano ad ampio raggio per l’introduzione della tassazione progressiva.

A ciò si aggiunse che i funzionari americani non avevano alcun interesse nell’agire contro le élite tradizionalmente a loro favore, mentre il Congresso aveva specificatamente vietato l’utilizzo di fondi americani per la ridistribuzione di terre ai poveri.

Un altro fattore che contribuiva al mancato raggiungimento di risultati, era rappresentato dal fatto che non vi era interesse da parte di aziende come la United Fruit Company di appoggiare politiche che avrebbero condotto all’innalzamento dei salari e al miglioramento delle condizioni sociali della forza lavoro a basso costo di Paesi come il Guatemala. Sostanzialmente, per le aziende aveva poco senso aumentare i propri costi operativi.

Gli investitori americani incoraggiavano poi i proprietari terrieri locali a usare i fondi dell’Alleanza per sviluppare coltivazioni destinate all’esportazione (come il caffè) piuttosto che per piantagioni di prodotti base (ad esempio i fagioli).

Il tragico risultato fu che, mentre le élite locali e i finanziatori americani ricavavano ampi profitti dalle esportazioni, le disponibilità alimentari insufficienti restarono un problema costante dell’America Latina.

Altro problema è che ci fu un’esplosione demografica: la natalità crebbe al 2,5% annuo. Questa però si accompagnava a un tasso di mortalità elevata.

Nel 1968 il tasso di mortalità tra i bambini al di sotto dell’anno di età era ancora di 75 su 100 in Perù, 86 in Cile e 94 in Guatemala. Per quanto riguarda il PIL i tassi di crescita nella prima metà degli anni ’60 variavano dall’1,6% della Colombia al 3,7% di El Salvador e, solitamente, i risultati di questa crescita tendevano a tradursi in più soldi per chi già ne aveva: per ogni 100 dollari di reddito in più generato, solo due arrivavano al quinto più povero della popolazione.

Questa situazione generale portò alla nascita di molti gruppi terroristici o rivoluzionari come i Sandinisti del Nicaragua, le Forze armate ribelli guatemalteche, le Forze armate di liberazione nazionale venezuelane, il Movimento del 19 aprile colombiano, il Sendero Luminoso peruviano o il Fronte di Liberazione Nazionale Farabundo Marti di El Salvador. A questo fenomeno gli Stati Uniti e la maggior parte dei governi latinoamericani risposero con la forza.

Washington fornì aiuti militari, mentre molti governi latinoamericani repressero attivamente ogni forma di malcontento e avviarono una vera e propria caccia ai guerriglieri. L’amministrazione Johnson, preoccupata dello spostamento a sinistra del maggior Paese della regione, appoggiò nel 1964 un colpo di stato militare in Brasile. In Brasile ne risultarono 20 anni di dittatura militare che terminò solo nel 1985 con nuove elezioni democratiche.

Occorre qui ricordare il caso cileno. Nel 1970, dopo l’elezione di Allende, ci fu la reazione dell’Amministrazione Nixon che percorse una prima via fatta di tangenti e manovre clandestine per evitare la conferma al ballottaggio da parte del congresso nazionale cileno di Allende e, una volta fallita questa, una seconda via volta ad incoraggiare un colpo di stato. Fallita anche questa si procedette con un terzo percorso. L’amministrazione Nixon adottò una strategia a lungo termine per rovesciare Allende e insediare in Cile un governo “amico”.

Dopo tre anni di pressioni economiche, nel corso dei quali gli aiuti americani cessarono e fu garantito un generale sostegno agli oppositori, l’esercito cileno assunse il comando del paese nel settembre 1973. La giunta, guidata dal generale Pinochet, lanciò una brutale campagna di repressione per liberare il Cile dal “cancro del marxismo”.

Ma perché il Cile era così importante? Il Cile ospitava nel 1970 investimenti di aziende americane per circa un miliardo di dollari. I timori di una nazionalizzazione avevano spinto grandi imprese, come l’International Telephone and Telegraph (ITT), a offrire alla CIA un milione di dollari per scongiurare la presidenza di Allende.

Oltre alle motivazioni economiche, ve ne era una politica. La buona riuscita del progetto politico di Allende rischiava di rilevarsi un fattore destabilizzante nella regione.

Il governo di Allende infatti, era stato un governo eletto democraticamente e non arrivato al potere tramite un colpo di stato. Allende era stato appoggiato dai socialisti e dai comunisti cileni. Poteva rappresentare un’alternativa praticabile nell’emisfero occidentale. Poteva dimostrare che il socialismo poteva prosperare senza un appoggio esterno da parte dell’Unione Sovietica.

“Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori!” furono le parole di Allende prima di morire suicida o assassinato. La guerra fredda aveva reso difficili per l’America Latina i rapporti con gli altri paesi e mantenuto la dipendenza con gli Stati Uniti. Le multinazionali continuavano a mantenere il controllo e a influenzare la politica tanto che una volta un giornalista Uruguayano disse “un paese è posseduto e dominato dal capitale che vi è investito”. Ora però abbiamo bisogno di un’altra pausa. Abbiamo ancora un ultima tappa. Tra poco ripartiremo…

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Vice-presidente Large Movements APS | Climate Change e Migration Specialist | Dottore in Relazioni Internazionali | Blogger in Geopolitica, Geoeconomia e tematiche Migratorie | Referente LM Environment

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Il conflitto in Colombia: storia del soldato che si batte per la verità

Oggi inizia dicembre, ma il caldo non accenna a darci tregua. Mi trovo in Colombia, dove sono venuta a scrivere la tesi di laurea magistrale e, per caso o per destino, ho conosciuto M.: un soldato dell’esercito nazionale che si è congedato dopo sei anni di servizio. Da quell’incontro casuale in piscina lui si è dimostrato subito incuriosito nei confronti della mia palese provenienza europea. Da allora è venuto spesso nell’appartamento che condivido con altri studenti, per farci assaggiare i piatti tipici cucinati alla perfezione, per insegnarci a ballare la salsa e la cumbia in salotto, per condividere con sincero orgoglio le tradizioni del suo Paese. La condivisione è un tratto che contraddistingue i colombiani, e M. sembra voler condividere il più possibile con noi, specialmente il suo passato travagliato, la storia del suo Paese che tanto ama. Da quando gli ho spiegato che sto analizzando i contenuti dell’accordo di pace tra il governo e la guerriglia FARC, i suoi occhi si sono illuminati e mi ha confessato di essere stato un soldato dell’esercito proprio in quel conflitto che per più di 50 anni ha dilaniato la Colombia e che nel 2016 sembra aver raggiunto una tregua. Oggi è qui per raccontarmelo. Si siede vicino a me e mi versa un bicchiere di aguapanela appena preparata. Iniziamo.  LM: “Perché hai deciso di diventare un soldato dell’Esercito Nazionale della Colombia?”  M: “A 17 anni mi sono diplomato e mi sono ritrovato di fronte a un bivio. L’idea di poter scegliere la carriera militare mi è stata data da mia zia quando mi ha parlato del suo compagno, che era un sottufficiale dell’esercito. Mi ha spiegato che chi fa parte dell’istituzione gode di diversi benefici: uno stipendio fisso, la possibilità di studiare, l’assicurazione sanitaria, la pensione dopo 25 anni di lavoro. Inoltre, a me è sempre piaciuta l’attività fisica, infatti inizialmente mi sono iscritto all’università, alla facoltà di educazione fisica. Il giorno in cui reclutavano per entrare nell’esercito ho dovuto prendere la prima decisione: andare a fare il test militare o andare a dare un esame all’università. In realtà la scelta neanche c’era: se fossi andato all’università non avrei potuto essere stabile economicamente perché non avevo il sostegno dei miei genitori poiché mia madre non aveva un lavoro in quel momento, quindi ho deciso di arruolarmi. Sono entrato nell’esercito e ho fatto esami medici, psicologici, fisici e sono andati molto bene.” “Sono stato il primo in graduatoria di tutti coloro che li hanno sostenuti nella mia area. Ero anche uno dei più giovani.“ “La prima volta che sono arrivato nell’accademia militare la sensazione che ho provato è stato di voler tornare a casa. Abbiamo viaggiato in due autobus grandi, pieni di ragazzi. Dopo più di 2 ore di viaggio, erano le 4.30 di mattina, siamo arrivati e come siamo scesi dai bus un soldato ci ha ordinato di metterci a raccogliere tutte le foglie secche dal terreno. Non sono tornato a casa allora, avevo molti occhi puntati su di me: i miei amici del quartiere, la mia famiglia che diceva in giro: «M. se n’è andato»… Mi stavo mettendo alla prova, ma se queste aspettative non ci fossero state penso che sarei tornato subito a casa. In quel momento è iniziata una delle avventure che penso non potrò mai dimenticare nella vita, che è stato l’Esercito Nazionale.”  L’accademia militare: come si diventa un soldato dell’Esercito Nazionale della Colombia  M: “Sono stato nella scuola militare per 18 mesi. Il periodo si divide in tre semestri: prima sei una recluta, poi brigadiere e infine un dragone. Nell’ultimo semestre segui un corso di controguerriglia e ci sono prove che sono molto difficili, sono sfide. Lì le percepisci come sfide, ma quando esci e vedi la realtà dei fatti, ti accorgi che sono veri e propri abusi. Ti mettono moltissima pressione psicologica, fisica e alimentare, ti colpiscono con le doghe del letto se fai qualche errore, usano la violenza per insegnare. Ad un certo punto del mio secondo semestre ho reagito contro un capitano che era appena arrivato nella scuola. Noi dormivamo pochissimo, 3-4 ore al giorno, quando riuscivamo a dormire. La sera dovevamo fare le pulizie, e quel giorno stavamo pulendo i bagni il più velocemente possibile per poi andare a dormire. Il capitano è entrato nella stanza e ci ha ordinato di fare esercizi a terra mentre lui passava tra di noi e ci prendeva a calci. Si stava avvicinando a me quando gli ho detto che se mi avesse toccato mi sarei dimenticato che lui è il comandante e io uno studente. Mi ha messo comunque un piede addosso, allora io mi sono alzato, l’ho spinto via e me ne sono andato. Ho fatto rapporto al comandante della scuola. In quel periodo stavano uscendo notizie da tutta la Colombia che nell’esercito i superiori approfittavano del loro potere per maltrattarci, nessun soldato veniva risparmiato dall’abuso. Non succedeva solo da noi, ma in tutti i battaglioni era qualcosa di molto comune.” “La prima volta che ho sentito la storia del conflitto contro la guerriglia me l’hanno raccontata lì ma, dato che mi è sempre piaciuto approfondire per conto mio, mi sono informato sulla realtà del Paese.“ “L’impressione che ne ho tratto è che i ribelli della guerriglia si erano armati per rivendicare i loro diritti di essere ascoltati dallo Stato, e che avevano un modo diverso di pensare. Ma nell’accademia quello che ti insegnano è che devi odiarli, li devi uccidere e che deve scorrere sangue. Ci sono canzoni militari che dicono: «Voglio nuotare in una piscina piena di sangue, sangue di guerrigliero. Sangue! Sangue! Rosso! Rosso! Denso! Denso! Sangue di guerrigliero!» queste canzoni lavorano la mente di tutti gli studenti della scuola e molti ne escono con quel desiderio, con quella sete di sangue. Grazie alla vita, grazie a Dio, io non sono uscito con quella sete di uccidere, perché non mi piace fare del male ad altre persone.” Il conflitto in Colombia: il debutto di M. come soldato regolare M: “Quando ho finito i tre semestri nella scuola sono uscito come comandante

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MARIA DA PENHA: LOTTA IN PRIMA LINEA PER I DIRITTI DELLE DONNE

Maria da Penha Maia Fernandes è una farmacista biochimica, attivista ed autrice brasiliana. Grazie a lei ed ai suoi 19 anni di lotta incessante, nel 2006 il Brasile emanò la legge federale numero 11340 che mira a ridurre la violenza di genere e quella domestica nello specifico. Maria nasce il 1° febbraio 1945 a Fortaleza, inizia i suoi studi in Farmacia e Biochimica all’Università Federale del Cearà e conclude gli studi in Parassitologia in Analisi Cliniche nella Facoltà di Scienze Farmaceutiche dell’Università di San Paolo nel 1977. Maria è oggi una leader dei movimenti femministi, vittima emblematica della violenza domestica. In questo articolo ripercorriamo i punti salienti della biografia della sua vita. IL CASO DI MARIA Nel maggio del 1983 l’ex marito di Maria da Penha, le sparò mentre lei dormiva causandole disabilità permanente agli arti inferiori e lasciandola paraplegica. Dopo due settimane di riabilitazione in ospedale, Maria, per paura di reclamare un divorzio o semplicemente una separazione legale, decise di tornare a casa dal marito, il quale questa volta tentò di ucciderla ricorrendo a delle scariche elettriche. Marco Antonio Riveras rimase libero per ben 19 anni prima che il governo brasiliano si rendesse conto della gravità dell’accaduto. Solo dopo anni di militanza continua ed incessante, che include la stesura di un romanzo autobiografico, Maria si vide riconoscere i propri diritti. Nel 2006, infatti, il governo brasiliano emanò una legge contro la violenza di genere domestica che porta il suo nome: “Lei de Maria da Penha”. Come già annunciato, Maria dovette sopportare 19 anni di vittimizzazione e violenza psicologica prima di essere in grado di rivendicare il proprio diritto ad esistere come donna libera ed autodeterminante. Il caso di Maria è emblematico di quanto la violenza domestica sia intrinseca in un sistema patriarcale ancora troppo incline a minimizzare episodi come quelli vissuti da Maria. Un sistema che regna sovrano in Brasile e che permette agli uomini di avere una condizione di vantaggio nelle proprie relazioni matrimoniali. LA LEGGE La “Lei Maria da Penha” numero 11.340, che fu emanata dal Presidente Lula il 7 agosto del 2006, non solo stabilisce sanzioni criminali contro i perpetratori di violenza di genere domestica, ma offre la possibilità di creare attività riabilitative nei loro confronti ed istituisce un personale specifico per il controllo di tali atti. Grazie a Maria da Penha ed attraverso questi cambiamenti legali, il Brasile ha iniziato a riconoscere la violenza domestica come una violazione dei diritti umani e ad evidenziare l’assenza di supporto alle donne vittime di violenza come un problema sistemico dell’ordinamento giudiziario brasiliano. I RISVOLTI POSITIVI DELLA LEGGE Questo caso è stato emblematico per riconoscere la violenza domestica come una tematica centrale all’interno dell’agenda pubblica brasiliana. Attraverso le politiche pubbliche sviluppate successivamente a tale legge, inoltre, dal 2006 al 2011 3.364.000 donne brasiliane sono state assistite e supportate ed oltre 331.000 uomini perseguiti con l’accusa di violenza domestica (UN Women 2011). La legge ha avuto dunque effetti positivi dal momento che ha permesso alle donne di identificare determinati atteggiamenti da parte di compagni/mariti/sconosciuti come problematici e/o lesivi. Nonostante il contributo della legge, però, in Brasile si registrano ancora numeri troppo elevati di violenze, stupri, minacce e femminicidi. L’ISTITUTO MARIA DA PENHA Maria, successivamente al tentato omicidio da parte di suo marito, ha fondato un’organizzazione non governativa che porta il suo nome e che ha la sede principale a Fortaleza ed una rappresentanza a Recife. La finalità dell’istituto è stata, ed è ancora oggi, quella di sensibilizzare politica e società nel rispetto della legge in questione. È necessario, infatti, che le regolamentazioni di questa legge vengano applicate anche nelle zone più profonde e rurali del Brasile perché tutte le donne hanno diritto allo stesso trattamento e Maria lo sottolinea ogni giorno attraverso il suo attivismo. GLI INSEGNAMENTI DI MARIA Dalla storia di Maria sembra chiaro che in Brasile regni incontrastata una cultura estremamente maschilista e patriarcale e Maria, attraverso numerose interviste, ci insegna che l’unico strumento veramente potente per sradicare questo tipo di problematica è l’educazione. Noi di Large Movements ci teniamo particolarmente ad evidenziare la preziosità di questi insegnamenti ed a rimarcare quanto siano importanti le parole e le azioni dell’attivista in questione, che ci fanno riflettere su quanto educazione e sensibilizzazione siano necessarie per rendere una legge davvero efficace. Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

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Marielle Franco per i diritti delle minoranze

Marielle Franco, all’anagrafe Marielle Francisco da Silva, è stata una politica, sociologa ed attivista dei diritti umaniche ha ricoperto il ruolo di consigliera del municipio di Rio de Janeiro fino al suo omicidio, nel 2018. Le sue battaglie al fianco delle categorie più emarginate della società brasiliana odierna hanno favorito la sua rapida ascesa nello scenario politico del Paese ed in quello internazionale, soprattutto grazie al suo attivismo per i diritti delle donne, delle persone di colore, degli abitanti delle favelas e della comunità LGBTQ+. Tuttavia, le idee di Marielle, inserite nelle dinamiche della politica brasiliana, devono aver minacciato profondamente coloro che, tre anni fa, hanno ordinato la sparatoria che le ha tolto la vita. Le origini di Marielle Franco Nata nel 1979 a Maré, Rio de Janeiro, da una famiglia di origini afroamericane, Marielle Franco cresce affrontando tutti gli svantaggi della sua categoria sociale. Maré è infatti un complesso, un cluster, di sedici slum (favelas) di Rio de Janeiro, che ospita decine di migliaia di persone con difficoltà economiche e sociali. Le forti disuguaglianze di ricchezza presenti in Brasile si percepiscono qui più che altrove, concretizzandosi in una forte e diffusa difficoltà di accesso ai servizi della sanità, al lavoro ed all’istruzione. Franco studia in una scuola pubblica serale fino al diploma. Impossibilitata ad accedere direttamente all’università, si iscrive quindi ad un esame di ammissione preliminare, ma è presto costretta ad abbandonare quella strada perché, come succede spesso alle ragazze delle favelas brasiliane, resta incinta a diciotto anni. Per tre anni Marielle Franco mette da parte la sua carriera accademica per dedicarsi unicamente alle cure della figlia abbandonata dal padre finché, nel 2002, non entra nella Pontifícia Universidade Católica do Rio de Janeiro. È proprio in questi anni che l’attivismo politico di Franco inizia a definirsi a favore di una società più inclusiva e giusta per tutti i brasiliani. “Lotta come Marielle” La società brasiliana di oggi, oltre a presentare un forte divario di ricchezza, è anche molto variegata. La presenza di molte etnie, tuttavia, coincide con una distribuzione della ricchezza non equa, che vede i brasiliani bianchi ai vertici dell’economia del Paese, lasciando gli afroamericani e le minoranze culturali a “gonfiare” le schiere degli svantaggiati che abitano gli estesi slum qui presenti. Questi conglomerati urbani si caratterizzano per una forte insicurezza a causa delle bande criminali che vi abitano. Spesso, in risposta a ciò, le autorità locali promuovono incursioni armate di forze di polizia che esercitano violenze e commettono arresti per mantenere l’ordine pubblico. La sicurezza delle favelas è il primo e maggiore tema affrontato nel discorso politico di Marielle Franco. Nel 2006 promuove una campagna a favore dell’istruzione dei giovani abitanti degli slum, richiedendo uno spostamento di fondi pubblici dal settore della sicurezza a quello dell’educazione. Lo stesso anno, Franco si avvicina alle idee politiche di Marcelo Freixo e del Partido Socialismo e Liberdade (PSOL), promuovendo il diritto alla vita di tutti, soprattutto degli abitanti delle favelas. Nel 2009 i due funzionari pubblici entrano a far parte della Commissione per i diritti umani dell’Assemblea Legislativa di Rio de Janeiro, e dal 2012 a Marielle Franco viene assegnato il coordinamento della Commissione stessa. La figura di Marielle Franco debutta così nella sfera politica del Brasile. Un’unica persona si faceva portavoce delle necessità di un ampio ventaglio di gruppi sociali: gli abitanti delle favelas, le donne, le minoranze etniche e le persone LGBTQ+, e le rivendicava attraverso la sua politica “gentile”. Non era una persona qualsiasi: era una giovane donna afroamericana, bisessuale ed originaria della maggiore favela della città. Come politica ed attivista, ha condotto una campagna senza sosta contro la spirale di violenza della polizia nelle favelas della città. Le sue azioni volte a favorire l’emancipazione delle donne e ad incentivare una migliore rappresentanza politica hanno ispirato i movimenti femministi che, con lo slogan “lute como Marielle Franco” (lotta come Marielle Franco), onorano il coraggio con cui questa donna ha portato avanti la battaglia per i diritti umani nel suo Paese. Uno dei suoi progetti di legge, denominato “se è legale deve essere reale”, si propose di potenziare i reparti maternità degli ospedali e dei centri di riferimento, evidenziando una scarsa applicazione della legge del 1940 che legittima l’aborto in determinati casi: Quando la donna è in rischio di vita; Se la gravidanza è conseguente ad una violenza sessuale; Quando il feto è anencefalico. L’impossibilità di abortire è infatti una delle cause dell’alta mortalità materna presente tra le donne brasiliane, in particolare tra le donne nere, con un basso reddito ed originarie della periferia. Martire di una guerra senza fine Marielle Franco è stata una leader sociale, si è battuta per la giustizia e l’uguaglianza, l’inclusione e la solidarietà, la bellezza della diversità. La sua brillante carriera si è brutalmente interrotta il 14 Marzo 2018, quando quattro colpi di pistola hanno raggiunto lei ed il suo autista, sulla strada di ritorno da un raduno di giovani attivisti neri. Finisce a 38 anni la vita di Marielle Franco, una persona le cui idee hanno appassionato il Brasile ed hanno fatto sperare la popolazione costituente gli strati svantaggiati della sua società in un futuro migliore. L’attivismo di Marielle le è valso molti nemici potenti. Ha condannato l’impunità che circonda le uccisioni extragiudiziali di giovani neri da parte delle forze di sicurezza e, due giorni prima della sua uccisione, aveva denunciato il ruolo della polizia nell’uccisione di un giovane uomo di colore di nome Matheus Melo. Era una delle principali critiche della gestione delle forze di polizia a Rio de Janeiro ed era a capo di una commissione cittadina incaricata di monitorarne gli interventi. Le indagini ancora in corso vengono svolte sotto massima riservatezza. Intanto, alla presidenza del Brasile è salito Jair Bolsonaro, personaggio politico dalle aperte idee misogine e razziste che non ha mai rilasciato dichiarazioni sul caso. Il 12 marzo 2019 due uomini accusati di aver ucciso Marielle e Anderson sono stati sottoposti a detenzione preventiva, ma da allora sembrano essere stati compiuti pochi progressi nel chiarire le

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La condizione delle donne in Brasile sotto il governo Bolsonaro

Il Brasile è il quinto Paese al mondo per estensione territoriale e fa parte dei BRICS, quei Paesi che stanno rapidamente aumentando il loro grado di rilevanza economica a livello internazionale. Dei 210 milioni di abitanti, molti fanno parte di tribù native o sono afroamericani, e più della metà sono donne. Il boom economico degli ultimi decenni deriva dalla dittatura militare che ha governato il Paese per ben vent’anni, fino al 1989. Il regime ha significato l’apertura del mercato finanziario del Brasile verso l’economia internazionale, favorendo la logica del profitto a discapito del rispetto per i diritti umani di minoranze e popolazioni native. La costituzione del 1988 ha restituito i diritti civili alle popolazioni brasiliane, e ha disciplinato le funzioni legislative, esecutive e giudiziarie della nuova politica. Da allora, le elezioni – democraticamente svolte – hanno portato ad un susseguirsi di presidenti di centro-sinistra che tuttavia non hanno saputo fronteggiare l’inflazione e la crisi economica che hanno colpito il paese quando crollò la dittatura. A seguito dello scandalo per corruzione che investì il partito opponente, e che portò all’impeachment della prima ed unica presidentessa donna Dilma Rousseff, Jair Bolsonaro fu eletto presidente del Brasile nel 2018. Questi è il primo presidente di estrema destra che sale al potere dalla caduta del regime di dittatura militare. Bolsonaro si presentò alla popolazione come colui che risolleverà l’economia stagnante degli ultimi anni a discapito, nuovamente, dei diritti civili dei cittadini. La sua retorica fortemente misogina rischia di annullare completamente i progressi in materia di diritti delle donne brasiliane – già di per sé piccoli – raggiunti dopo decenni di lotte femministe. Vediamo nel dettaglio come. Il femminismo brasiliano: poche conquiste non mettono a tacere le rivendicazioni Nonostante le enormi difficoltà e resistenze a loro opposte dalla società civile, i movimenti femministi brasiliani hanno vinto diverse battaglie importanti. Oltre alla grande capacità di mobilitazione delle masse, le attiviste per i diritti delle donne sono state in grado di unire le lotte contro il razzismo e, più recentemente, l’omofobia, per acquisire potenza e legittimità, e creando così un femminismo intersezionale in grado di ottenere risposte. I maggiori risultati ottenuti dai movimenti per i diritti delle donne in Brasile si riassumono nelle seguenti date: 1919 – Bertha Lutz fonda la Federazione Brasiliana per il progresso delle donne; 1939 – le donne ottengono il diritto di voto; Anni ’70 – molte donne partecipano attivamente alla lotta contro la dittatura militare; 1984 – nasce il Consiglio nazionale per la condizione della donna, che promuove una campagna di successo per includere i diritti delle donne nella Carta costituzionale; 2006 – emanazione della Legge Maria da Penha contro la violenza domestica. Nel 2015 scoppiano nuovi moti di protesta in risposta al disegno di legge 5.069/2013. La proposta rappresentava una minaccia per i diritti conquistati dalle donne poiché, se approvata definitivamente, avrebbe limitato loro l’accesso all’aborto, alla pillola del giorno dopo, alla giustizia in caso di stupro. Le mobilitazioni che seguirono furono capitanate dalle donne, e la proposta finì per essere accantonata. Oggi, la disuguaglianza di genere in Brasile si concretizza in una bassa partecipazione politica delle donne ai processi decisionali, in un vasto divario salariale ed in una scarsa garanzia dei diritti quali l’aborto, l’affidamento dei figli in caso di divorzio, l’emancipazione economica. Inoltre, la violenza contro le donne è un fenomeno molto diffuso in Brasile, basti pensare agli 1.2 milioni di casi di violenza domestica registrati nel 2017. Le parole di Marielle Franco, tratte da un discorso che avrebbe dovuto pronunciare pochi giorni dopo il suo misterioso assassinio nel 2018, mettono in luce la condizione della donna brasiliana: “Parlare di uguaglianza tra donne e uomini, ragazze e ragazzi, è parlare della vita di chi è ancora incapace di difendersi dalla violenza. E questo è molto di più dei 50.377 casi registrati nel 2016, qui, a Rio. Diversamente da quanto si parla o, purtroppo, da quanto siamo abituati a vedere nelle aule legislative, non siamo la minoranza. Siamo la maggioranza della popolazione, anche se siamo sottorappresentati in politica. Anche se possiamo guadagnare stipendi più bassi, essere relegate a posizioni inferiori, lavorare tre giorni lavorativi, essere giudicate per i nostri vestiti, essere soggette a violenza sessuale, fisica, psicologica, uccise quotidianamente dai nostri partner, non saremo messe a tacere: le nostre vite contano!” Marielle Franco: simbolo della lotta per l’emancipazione Nata e cresciuta in una favela di Rio de Janeiro, Marielle Franco si afferma sulla scena politica del Brasile grazie al suo coraggio. Come attivista ha portato avanti le battaglie per la riqualificazione degli slum, per i diritti delle donne, degli afroamericani, e delle persone LGBTQI+. Ha denunciato la brutalità della polizia, le violenze razziste, misogine ed omofobe, le violenze tutte. Ha condannato le esecuzioni extragiudiziali e si è fatta portavoce degli svantaggiati. Il 14 marzo 2018 viene assassinata a sangue freddo insieme al suo autista, da 3 pallottole che le trapassano il cranio e il collo, mentre stava rientrando da un tavolo di consultazioni. Pochi giorni prima, attraverso un post su Twitter, aveva ribadito la sua condanna alla brutalità della polizia, con una frase emblematica: “quanti ancora devono morire per porre fine a questa guerra?” La morte di Marielle Franco ha causato un moto di proteste e manifestazioni a favore delle minoranze, dei più vulnerabili della società brasiliana. Le investigazioni portate avanti nei mesi successivi hanno portato all’identificazione e l’arresto di due sospettati. Tuttavia, le indagini proseguono nel silenzio dell’attuale presidente Bolsonaro, che non ha rilasciato dichiarazioni in merito all’accaduto. L’omicidio di Marielle si aggiunge alla lista di tutti quegli attivisti per i diritti umani che vengono assassinati in molti Paesi dell’America Latina a causa del loro impegno socio-politico nel denunciare soprusi ed ingiustizie che le cosiddette “minoranze” sono costrette ad affrontare su base quotidiana. La consigliera di Rio si è guadagnata il rispetto di molte di queste “minoranze”, e la sua morte non è caduta nel silenzio, nonostante le dinamiche esatte del suo omicidio restino nascoste sotto uno spesso velo di omertà. Jair Bolsonaro: l’estrema destra torna al potere

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Le vicende del 2019 e il loro impatto sulla guerra in Colombia

In Colombia, la fase di transizione che vede l’incessante guerra civile acquietarsi verso la pace conosce una brusca frenata nel corso del 2019, dopo appena tre anni dalla firma dell’accordo bilaterale. Quali sono i nuovi ostacoli che si stanno frapponendo alla pace tra il governo e il gruppo armato rivoluzionario FARC – EP? Per rispondere alla domanda dobbiamo fare un passo indietro. La Colombia si è affacciata al nuovo millennio in una situazione di grande instabilità. I gruppi di guerriglia che si sono ribellati allo Stato, considerato inesistente in ampie zone rurali del Paese, avevano raggiunto l’apice della loro potenza. Il principale tra questi gruppi armati erano le FARC-EP (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – Ejército del Pueblo). Con la presidenza di Álvaro Uribe Vélez (non a caso soprannominato “il signore della guerra”), la situazione si è rapidamente capovolta. Le sue discusse strategie di controffensiva, nel corso dei suoi due mandati, hanno portato notevoli risultati tra cui l’inizio del declino delle FARC. Dalla sua elezione alla presidenza nel 2010, Juan Manuel Santos ha iniziato a discostarsi dalle idee politiche del suo predecessore promuovendo il dialogo con le forze rivoluzionare, fino al raggiungimento di un accordo di pace. Il trattato bilaterale affronta numerose questioni considerate le cause fondamentali di più di 50 anni di conflitto interno. Il documento elenca le varie misure che, in comune accordo, devono essere prese da entrambe le parti per stabilire la pace tra il governo il gruppo FARC. Tuttavia, pochi mesi dopo, la fine del mandato di Santos mette in discussione tutti gli sforzi effettuati fino ad allora. L’elezione di Iván Duque Márquez, stretto alleato di Uribe, e la sua manifesta intenzione di modificare l’accordo, mettono in guardia gli ex-combattenti delle FARC. Inoltre, gli avvenimenti che dal 2019 rendono la situazione in Colombia ancor più tesa, lasciano trapelare una concreta minaccia di ritorno alla guerra. Le FARC: da lotta armata a lotta politica e viceversa Innanzitutto, il disarmo della guerriglia, supervisionato da una commissione dell’ONU creata ad hoc, viene portato a termine dalla maggioranza dei membri delle FARC, ma non dalla totalità di essi. Alcune migliaia di combattenti, infatti, si sono rifiutati di scendere a patti con il governo. Gli smobilitati non sono mai usciti dalla giungla e non hanno mai abbandonato la lotta armata. Le loro azioni si sono ridimensionate, parallelamente al numero dei loro membri, ma la loro esistenza resiste al processo di pace. Le più recenti informazioni a riguardo sostengono che questi gruppi abbiano cercato riparo in Venezuela, mentre c’è chi ipotizza che possano affiliarsi ad altri gruppi di guerriglia come l’Ejército de Liberación Nacional (ELN). Ciò che è certo è che, a causa delle circostanze attuali di politica colombiana, il gruppo degli smobilitati si sta rafforzando con coloro che, dopo aver abbracciato la vita civile, hanno deciso di tornare a vivere nella selva come combattenti clandestini. Le criticità del processo di pace Se implementato, il trattato potrebbe andare incontro alle richieste dei gruppi rivoluzionari ed evitare altre vittime. Tuttavia, l’implementazione dello stesso sta incontrando numerosi ostacoli, come già accaduto in passato nella storia del conflitto colombiano. Prima tra tutti, la partecipazione politica degli ex-membri delle FARC non è stata assicurata nelle scorse elezioni. Il nuovo partito politico ha avuto uno scarsissimo rilievo, forse per la cattiva fama che il gruppo si è guadagnato attraverso i decenni. Ma soprattutto, dal momento in cui hanno abbracciato la vita civile, molti pentiti hanno visto la morte per mano di sicari. Pratica ormai molto diffusa in Colombia, gli omicidi sistematici dell’opposizione politica hanno causato la morte a circa 200 membri delle FARC e a più di 600 tra leader sociali, membri di tribù indigene e attivisti per i diritti umani, dalla firma del trattato ad oggi. La coltivazione delle terre e la gestione delle proprietà è stata la questione principale che ha causato lo scoppio e il prolungamento del conflitto nei decenni. La Riforma Rurale Integrale e la riconversione delle terre precedentemente impiegate per le coltivazioni della cocaina sono quindi il nocciolo centrale del trattato di pace. Ciononostante, l’esecuzione ed il finanziamento della stessa stanno andando a rilento, ed i contadini non si trovano affatto avvantaggiati dalle nuove condizioni. I difetti dei tribunali della Verità La questione delle vittime del conflitto non viene affrontata in maniera soddisfacente. Le spaventose cifre restano azzardate e si ipotizza che i numeri effettivi siano molto più alti. La Commissione per la Verità, non avendo carattere imperativo con le sue sanzioni, fatica a svolgere i suoi doveri. E così le vittime restano senza giustizia, i colpevoli impuniti e i cadaveri senza nome. Ma non solo, il maggior difetto del Sistema Integrale di Giustizia che si viene a costituire dalla firma dell’accordo, si identifica nel non garantire nessun tipo di protezione a coloro che vogliono testimoniare per la verità, e la triste tradizione di omicidi in Colombia fa sembrare questo sistema una trappola per chi vuole contribuire alla pace e alla giustizia. Le circostanze fin qui elencate fanno sembrare il periodo di dialogo e di concessioni reciproche che ha caratterizzato il doppio mandato del ex presidente Santos uno strappo alla violenta regola colombiana. Invece di rafforzare le basi della pace, il successore e attuale presidente Duque le mina direttamente, indirizzando la sua propaganda politica contro l’accordo con le FARC e finanziando la stessa con il Fondo per la Pace, facendo quindi uso dei fondi internazionali per fini elettorali e personali. La minaccia di un ritorno alla guerra civile in Colombia si fa dunque sempre più concreto nell’arco del 2019. Alcuni segni incoraggianti Ciononostante, non può essere ignorato l’appoggio della sfera internazionale che ha ricevuto l’accordo di pace con le FARC. Oltre all’ONU e al suo Consiglio di Sicurezza, anche singoli Stati si sono fatti promotori della pace in Colombia, impegnandosi nel cessate il fuoco bilaterale e come membri della Commissione per la Verità. Inoltre, ci sono i cittadini che dimostrano di essersi stancati della violenza, dell’assassinio sistematico dell’opposizione politica, che porta inevitabilmente alla morte della democrazia. Questa parte della popolazione con

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