La rotta del Mediterraneo Occidentale

Tra il 17 e il 18 maggio 2021, in quasi 24 ore,  circa 8 mila persone sono entrate nell’enclave spagnola di Ceuta, punto finale della rotta del Mediterraneo occidentale, per richiedere asilo in Europa. Lì migliaia di migranti hanno cercato di superare l’unica frontiera che unisce l’Africa all’Europa rischiando l’ipotermia e la morte. Solo nei primi 6 mesi del 2021 sono stati registrati 13.483 arrivi lungo la rotta del Mediterraneo occidentale ma i dati, offerti da FRONTEX e dal Ministero dell’Interno spagnolo, non comprendono gli arrivi a Ceuta del 17 e del 18 maggio poiché il governo spagnolo ha schierato l’esercito e rimandato indietro quasi la metà delle persone che hanno tentato l’attraversamento.

La rotta del Mediterraneo Occidentale

Secondo l’Agenzia Europea per il controllo delle Frontiere Esterne (FRONTEX) sono otto le principali rotte che rifugiati e migranti percorrono nel tentativo di raggiungere l’Unione Europea: 1) la rotta orientale; 2) la rotta balcanica; 3) la rotta circolare; 4) la rotta atlantica; 5) la rotta del Mar Nero; 6) la rotta del Mediterraneo centrale; 7) la rotta del Mediterraneo orientale; 8) e la rotta del Mediterraneo occidentale.

La rotta del Mediterraneo occidentale  si riferisce agli arrivi in Spagna sia attraverso il Mediterraneo verso la Spagna continentale, sia verso le enclave spagnole di Ceuta e Melilla nell’Africa settentrionale. Chi sceglie di percorrere questa rotta, transita attraverso il Marocco, il Sahara Occidentale, la Mauritania e l’Algeria per raggiungere l’Europa.

La rotta del Mediterraneo occidentale nel 2018 è stata la rotta maggiormente utilizzata ma, da allora, il numero degli arrivi è costantemente diminuito a causa dei maggiori sforzi del Marocco nella lotta contro la migrazione irregolare, la cooperazione di Spagna ed Unione Europea con il Paese maghrebino e la pandemia legata al Covid-19.

Le frontiere sono sorvegliate dalle autorità marocchine, per nulla toccate dalle Primavere Arabe, in cambio di finanziamenti economici da parte del Governo di Madrid, garantendo un’intensa azione di contrasto ai flussi migratori provenienti dall’Africa subsahariana.

A ciò, si aggiunge il sostegno di FRONTEX al governo spagnolo attraverso il controllo delle sue frontiere esterne continentali con l’ausilio di operazioni marittime congiunte, come ad esempio l’Operazione Indalo.

Dopo gli eventi del maggio 2021 e la distensione dei rapporti con la Spagna, il Marocco ha cominciato ad erigere recinzioni di filo spinato alla frontiere di Ceuta.

L’entrata in massa di migranti sembrerebbe essere causato da una crisi diplomatica nata dopo che il governo spagnolo ha accolto sul proprio territorio Brahim Ghali, leader del Fronte Polisario. La questione riguarda il riconoscimento del Sahara occidentale in quanto provincia marocchina e la distensione dei rapporti tra i due Paesi è avvenuta in seguito alle dimissione del Ministro degli Affari esteri spagnola Arancha González Laya e la nomina di José Manuel Albares come nuovo Ministro.

L’azione marocchina sembrerebbe quindi essere stata un vero e proprio ricatto diplomatico a spese di migliaia di esseri umani ed il nuovo filo spinato non esclude che ciò riaccada in futuro.

La rotta del Mediterraneo Occidentale: le migrazioni come arma sulla questione del Sahara Occidentale

La rotta del Mediterraneo Occidentale sembrerebbe essere stata usata, nonostante le smentite ufficiali, come arma diplomatica ed alle origini della crisi del maggio 2021 sembrerebbe esserci stato un allentamento dei controlli alle frontiere da parte della polizia marocchina.

La mossa del governo di Rabat sembrerebbe essere una risposta alla decisione spagnola di accogliere sul suo territorio il leader del Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro, meglio noto come Fronte Polisario, ovvero del movimento indipendentista del Sahara Occidentale che ha  lo scopo di ottenere la realizzazione del diritto all’autodeterminazione per il popolo Sahrawi.

La questione della sovranità sul Sahara occidentale è al centro di una disputa da molto tempo e, dopo il riconoscimento da parte dell’amministrazione Trump della sovranità marocchina sul territorio, il Marocco sta facendo sempre più pressione affinché l’Unione Europea riconosca la sua sovranità.

Sahara spagnolo, province del sud, Repubblica Araba Sahrawi Democratica e Sahara occidentale sono tutti nomi che indicano la medesima porzione di territorio e ognuna traduce uno specifico “progetto politico” degli attori che hanno agito su di esso.

La questione del Sahara occidentale assume un ruolo di primo piano solo recentemente, con la fine del dominio coloniale spagnolo nel 1975.

Il periodo coloniale aveva visto un confronto tra gli spagnoli e la popolazione locale dei Sahrawi, un rapporto che vedeva colonizzatori e colonizzati. Negli ultimi anni della dominazione spagnola, anche a causa di questo scontro, il popolo Sahrawi ha iniziato a riconoscersi in un processo di costruzione nazionale e si sono compattati attorno al progetto indipendentista del Fronte Polisario.

La fine della dominazione spagnola ha però complicato vicenda e gli attori regionali, primi tra tutti il Marocco e la Mauritania,  colsero l’occasione per far valere le proprie rivendicazioni sul territorio Sahariano. Nel 1975 si giunse a una situazione di compromesso e venne sottoscritto l’accordo tripartito Ispano-Marocchino-Mauritano che di fatto spartì i domini spagnoli tra il Marocco e la Mauritania, suscitando il contrasto con le Nazioni Unite in quanto non si era data la possibilità al popolo Sahrawi di far valere il proprio diritto all’autodeterminazione come garantito dalla Risoluzione n.1514 del 1960.

Dopo la spartizione, il Fronte Polisario decise di proseguire l’obiettivo indipendentista con una strategia più strutturata dal punto di vista politico e militare.

Nel 1976 venne proclamata la Repubblica Araba Sahrawi Democratica, si costituì un governo in esilio presso il campo profughi di Tindouf in Algeria e si riorganizzò l’assetto militare con lo scopo di effettuare azioni di guerriglia contro i due Paesi del Maghreb.

Presto la Mauritania ebbe problemi a mantenere l’occupazione a causa delle proprie fragilità politiche ed economiche  e nel 1979 optò per il ritiro dal territorio. Il Marocco di risposta annesse repentinamente tutto il territorio e lo denominò “Province del Sud”.

Da allora la questione del Sahara Occidentale si è identificata nello scontro tra il Marocco, che vuole vedere riconosciuta la sovranità sulle province del Sud, e i Sahrawi, che vogliono vedersi riconosciuto il diritto all’autodeterminazione ed alla propria indipendenza.

I motivi dietro all’interesse Marocchino sull’area sono molteplici.

Dopo l’indipendenza dalla Francia avvenuta nel 1956, in Marocco iniziò un periodo di fermento nazionalista che confluì in una politica di recupero dei territori del Sahara e nella strategia di riconquista del “Grande Marocco, un mito nazionalista che prevedeva l’annessione di: Sahara Spagnolo, Mauritania, la regione Nord-occidentale dell’Algeria e quella settentrionale del Mali.

Oltre alle mire ideologiche vi erano anche quelle economiche in quanto si tratta di territori ricchi di miniere di ferro e di rame, di petrolio e, soprattutto nel Sahara Occidentale, di giacimenti di Fosfato, risorsa di cui il Marocco deteneva la leadership del mercato internazionale all’epoca del ritiro spagnolo.

Il tema dell’integrità territoriale e della riconquista delle frontiere storiche per raccogliere il consenso generale sulla popolazione non si è mai spento, pur passando attraverso fallimenti politici. Tra il 1981 e il 1986 il Marocco per giunta, ha costruito un muro di difesa a protezione del cosiddetto “triangolo utile”(El Aaiun, Smara, Bu Craa), ricco di giacimenti di fosfato e risorse. La maggiore sicurezza dalle azioni di guerriglia ha portato a maggiori interventi di sviluppo e investimenti determinando il controllo di fatto del Marocco sull’area.

Tutto ciò è importante in quanto il mito del “Grande Marocco” è utilizzato ancora oggi in vista delle elezioni che si terranno nel Settembre 2021: i partiti nazionalisti durante la campagna elettorale hanno utilizzato, oltre alla questione del Sahara occidentale, quella della rivendicazione del territorio spagnolo, dichiarando le città autonome di Ceuta e Melilla come “presidi occupati” dalla Spagna.

Il fervore nazionalista e gli interessi economici sull’area fanno sì che la questione del Sahara Occidentale rimanga ancora un obiettivo importante della politica estera marocchina.

Di conseguenza, migliaia di persone rischierebbero in futuro di essere “utilizzate” nuovamente come mezzo di pressione sui governi europei al fine di raggiungere questo obiettivo ed accumulare consenso politico al proprio interno.

L’esternalizzazione delle frontiere sulla rotta del Mediterraneo occidentale

Oltre alla questione del Sahara Occidentale, negli interessi del Marocco vi è la questione legata ai fondi dei Paesi europei verso i Paesi di origine e transito dei migranti per la gestione esterna delle frontiere. Di conseguenza l’allentamento dei controlli potrebbe essere stato utilizzato per negoziare un ulteriore aumento dei finanziamenti.

É da notare che l’Unione Europea in risposta agli eventi del maggio 2021 si è “fatta sentire” attraverso il suo Commissario per gli Affari Interni, Ylva Johansson, che ha ammesso che l’afflusso di migliaia di persone attraverso il confine di Ceuta è “preoccupante”.

Il Commissario europeo ha ricordato che il confine della Spagna con il Marocco è anche la frontiera dell’Unione Europea. Al 2021 il Marocco è beneficiario di sette progetti finanziati dall’Unione Europea in materia di migrazione, per un valore totale di 182,9 milioni di euro. Quasi la totalità dei finanziamenti (circa 175 milioni di euro) è destinata a “migliorare” la gestione della migrazione. Secondo un documento pubblicato da El Pais, il Marocco vorrebbe avere un ruolo centrale nell’esternalizzazione dei confini, e per questo chiede un budget di 450 milioni all’anno per un totale di 3,5 miliardi in 7 anni.

Alla negoziazione tra Marocco e l’Unione Europea si aggiunge quella tra il Marocco e la Spagna. Non a caso, infatti, il governo di Pedro Sánchez nel pieno della crisi ha annunciato di aver approvato 30 milioni di euro per il “supporto alla gestione dei flussi migratori”.

Oltre ai finanziamenti però, la Spagna ha fatto frequentemente uso della forza ed anche durante la crisi ha risposto con un dispiegamento delle forze militari, operando di fatto dei respingimenti sistematici denominati “devoluciones en caliente” (espulsioni a caldo) a ridosso della frontiera.

Si tratterebbe di una pratica contraria al diritto internazionale dei diritti umani e dei diritti di rifugiati e migranti.

Si trattatterebbe di una violazione del principio di non respingimento, violazione oggetto di analisi della controversa sentenza del febbraio del 2020 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sul caso N.D. e N.T. c. SPAGNA (Ricorsi nn. 8675/15 e 8697/15).

Di fronte a questa terribile condotta però, la Commissione Europea ha rilasciato dichiarazioni su quanto stava avvenendo senza ricordare che si trattava di procedure illegali, venendo così meno al suo ruolo di garante dei diritti all’interno dell’Unione Europea.

Uomini, non merci

Delle vicende di Ceuta una delle immagini che ci dovremmo portare dietro come simbolo dell’Europa che vogliamo è l’abbraccio tra due esseri umani, quello che la stampa internazionale ha definito come un abbraccio tra un migrante ed una volontaria.

Si tratta di un’immagine che riconosce l’altro nella sua umanità, nelle sue speranze e nelle sue paure. Si tratta di un abbraccio che accoglie l’altro in quanto essere umano e non come un numero o una merce di scambio.

Quello che preoccupa della gestione migratoria portata avanti dall’Unione Europea è che sempre più spesso il corpo di donne, uomini, bambini e minori rischia di diventare uno strumento di trattativa per mire geopolitiche, economiche e nazionaliste.

Fonti e approfondimenti

Camilli E., Ceuta, arrivi record nell’enclave spagnola. “Una crisi diplomatica sulla pelle delle persone”

Sempere A., Il Marocco erige recinzioni alla frontiera di Ceuta e mantiene i suoi impegni con l’UE

Consiglio Europeo – Rotte del Mediterraneo occidentale e dell’Africa occidentale

Pagnini M.P., Terranova G., Geopolitica delle rotte migratorie tra criminalità e umanesimo in un mondo digitale, Aracne editrice, 2018

Castels S., De Haas H., Miller M.J., The age of migration. International Population Movements in the Modern World, 2014

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Vice-presidente Large Movements APS | Climate Change e Migration Specialist | Dottore in Relazioni Internazionali | Blogger in Geopolitica, Geoeconomia e tematiche Migratorie | Referente LM Environment

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Nagorno-Karabakh: una terra perennemente in conflitto

Il Karabakh (in azero Karabakh “giardino nero”) è una regione sita nella Transcaucasia, senza sbocco sul mare e facente parte dell’Altopiano Armeno. Più precisamente, si trova a sud-est della catena montuosa del Caucaso minore tra i fiumi Kura e Araz. Il territorio è diviso in due parti: una pianeggiante chiamata Basso Karabakh e l’altra montuosa, teatro di guerra nell’ultimo secolo, ovvero il Nagorno Karabakh. Gli albori Le prime tracce storiche di insediamento nel territorio risalgono al IV secolo a.C. quando il Karabakh era parte dell’Albània Caucasica. Il territorio di questo stato si espandeva dal Caucaso a nord, fino al fiume Araz a sud e dal mar Caspio a est, all’Iberia ad ovest. Questo stato era condiviso da diverse etnie principalmente turcofone, caucasiche e iraniche e, nello specifico, nella regione montana del Karabakh, chiamata Artsakh (o secondo alcune fonti antiche Orkhistena), vivevano Gargari, Uti, Unni, Cazari e Basili, alcuni dei quali ancora oggi presenti nel territorio. Dal 313 l’Albània Caucasica adottò come religione il Cristianesimo e questo permise allo stato di rimanere indipendente fino al VIII secolo. Infatti, dall’invasione araba lo stato transcaucasico diventa islamico, tranne nell’Artsakh dove la popolazione riuscì a mantenere la propria religione grazie alla forte influenza dell’Impero bizantino nel Caucaso meridionale, il quale istituì la Chiesa albàna caucasica. Tra il IX e il XIV secolo il Karabakh è stato parte di stati governati dai Sagidi, Salaridi, Sheddadidi, Atabeghi e Gialairidi. Solo dal XII secolo la regione venne rinominata con il nome di Qarabağ, ma solo dal XV secolo inizia a far parte del primo stato azerbaigiano che si chiamava Garagoyunlu poi diventato Ak Koyunlu. In questo periodo il reggente del Garagoyunlu conferì alla stirpe dei Jalalidi (che governarono la regione fino alla fine del XV) il titolo di melik, ossia di reggente. È interessante sottolineare che la dinastia azera ha fatto ricorso ad un titolo nobiliare tipicamente armeno, a riprova della forte commistione tra le due culture in questo periodo. Dal XVI secolo la dinastia Safavide prende il controllo di tutto il territorio del Karabakh, fino alla metà del XVIII secolo quando nell’antica Albània Caucasica si formarono dei khanati tra i quali c’era il khanato del Karabakh. Questo khanato era popolato da azerbaigiani musulmani e da albàni caucasici cristiani. La Transcaucasia al centro degli interessi delle potenze mondiali Dalla fine del XVIII fino agli inizi del XIX secolo la Transcaucasia diventò territorio di scontro fra la Russia, l’Iran e l’Impero Ottomano. Alcuni territori si difesero fino alla fine, altri invece furono costretti ad accettare dei patti di vassallaggio. Tra questi, il Karabakh passò sotto il controllo della Russia il 4 maggio del 1805. Secondo fonti russe del 1810 nel Karabakh vivevano circa 9500 famiglie azerbaigiane e 2500 armene. Ed è proprio in questo periodo che iniziano ad originarsi le ragioni che porteranno poi al conflitto. Il territorio transcaucasico prima della conquista russa faceva parte dell’Impero Ottomano, che proteggeva chiunque fosse musulmano creando i cosiddetti khanati – equiparabili a regioni indipendenti, rette da un sovrano autonomo chiamato Khan. Tutte quelle popolazioni che non godevano di grande protezione all’interno dell’Impero Ottomano invece, sostennero l’avanzata russa. Tra queste ultime vi erano anche gli armeni che speravano così di poter ottenere un territorio dove istituire uno stato armeno indipendente. Le varie battaglie che ne conseguirono però, portarono a un’emigrazione di massa di armeni dall’Iran e dall’Impero Ottomano verso i nuovi territori conquistati. Secondo lo storico russo Shavrov, tra il 1828 e il 1830 furono trasferiti 40.000 armeni dalla Persia e 84.000 dall’Impero ottomano. La seconda “ondata” di armeni arrivò dopo la guerra tra Turchia e Russia del 1877-1879, periodo nel quale si verificò una deportazione di massa degli armeni verso la Russia. La popolazione armena venne sfruttata da tutte le maggiori potenze dell’epoca: la Russia si serviva degli armeni ortodossi per avere uno sbocco verso Sud per il Mediterraneo, così da bloccare il passaggio verso l’India alla Gran Bretagna; la Gran Bretagna faceva appello agli armeni protestanti nel tentativo di ottenere un passaggio migliore verso l’India; infine la Francia si serviva degli armeni cattolici per proteggere i propri interessi nel Medio Oriente. Finita la guerra russo-ottomana venne firmato il trattato di pace di Santo Stefano il 3 marzo del 1878. La Russia fece inserire una clausola con la quale gli ottomani erano costretti a riformare i vilayet (province dell’Impero Ottomano) dove vivevano gli armeni aggiungendo la condizione che le truppe russe sarebbero rimaste a difesa dei territori occupati fino a che dette riforme territoriali non venivano messe in atto. Questa dura presa di posizione russa non fu ben accolta dai britannici, che la percepivano come minaccia diretta ai propri interessi nel Vicino Oriente. La clausola fu dunque rettificata in peius: nei territori dove si trovavano gli armeni furono stanziate le truppe di tutte le grandi potenze partecipanti al congresso di Berlino. Gli armeni, nel tentativo di ottenere la salvezza ed un territorio sul quale costituire un nuovo stato armeno, rifiutarono l’appoggio russo e si affidarono alla Gran Bretagna. La superpotenza però, una volta ottenuta l’isola di Cipro dalla Turchia, non si curò più degli armeni e questi rimasero bloccati ed isolati in Transcaucasia senza vedersi riconosciuto nessuno stato. La nuova realtà transcaucasica In reazione al tradimento inglese, fu creato il partito Hunchak (Campana) nel 1887 a Ginevra, basato sui principi marxisti e composto esclusivamente da armeni provenienti dalla Russia. Successivamente nel 1890 a Tbilisi venne fondata la Federazione dei rivoluzionari armeni conosciuta come Dashnak, di stampo tipicamente socialista. Queste due organizzazioni avevano come obiettivo quello di creare nelle sei province orientali dell’Impero Ottomano uno stato unico di matrice socialista che si sarebbe chiamato Armenia Turca, ma questo era solo l’inizio: infatti l’obiettivo finale era quello di riconquistare i vecchi territori del Regno di Armenia del I secolo a.C. Dal momento che i Dashnak erano un gruppo terroristico, per raggiungere questo obiettivo gli stessi non esitavano ad usare la forza nei confronti di chiunque si fosse opposto. Non avendo avuto fortuna in Anatolia, i Dashnak si spostarono in Transcaucasia: iniziarono allora

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La rotta del Mediterraneo Centrale

Secondo il report “Missing migrants” dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM), il Mediterraneo centrale è sempre più mortale a causa dell’assenza delle navi ONG e di navi di ricerca e soccorso dei governi europei. Attualmente, le operazioni di soccorso sono spesso svolte dalle autorità libiche e tunisine e il report evidenzia come, per il secondo anno consecutivo, vi sia un aumento dell’attività dei Paesi nordafricani: sono 23.117 le persone recuperate nei primi sei mesi del 2020, mentre sono 31.500 le persone recuperate nei primi sei mesi del 2021. Chi viene recuperato dalle autorità nordafricane rischia di subire tortura, trattamenti inumani e degradanti od il rimpatrio verso il Paese di origine, dove possono incorrere in ulteriori violazioni. La rotta del Mediterraneo Centrale Secondo l’Agenzia Europea per il controllo delle Frontiere Esterne (FRONTEX), sono otto le principali rotte che rifugiati e migranti percorrono nel tentativo di raggiungere l’Unione Europea: 1) la rotta orientale; 2) la rotta balcanica; 3) la rotta circolare; 4) la rotta atlantica; 5) la rotta del Mar Nero; 6) la rotta del Mediterraneo occidentale; 7) la rotta del Mediterraneo orientale; 8) e la rotta del Mediterraneo centrale. La rotta del Mediterraneo centrale coinvolge le frontiere marittime di Libia, Tunisia, Malta e Italia, costituendo uno spazio di 400 km circa. Il Mediterraneo centrale però costituisce solamente la parte finale di un lungo viaggio che spesso dura tra i 2 ed i 5 anni. Prima di arrivare in Libia o in Tunisia, chi migra ha intrapreso una delle 5 rotte migratorie terrestri che dall’Africa Subsahariana portano all’Italia. Ognuna di queste rotte attraversa il deserto del Sahara e passa o nella cittadina di Agadez, in Niger, per chi parte dal Sahel occidentale o per Khartoum, la capitale del Sudan, per chi parte dal Sahel orientale. Il protagonismo del Mediterraneo Centrale nelle migrazioni del XXI secolo La rotta del Mediterraneo Centrale ha iniziato ad assumere un ruolo rilevante a seguito della caduta del Muro di Berlino. Fino a quel momento, la maggior parte dei flussi migratori verso l’Europa proveniva dalla frontiera orientale, ovvero dai Paesi dell’Ex-Unione Sovietica. La cosiddetta epoca del bipolarismo ha avuto effetti anche nel continente africano, dove i due blocchi combattevano guerre per procura e finanziavano le élite locali. Di conseguenza, le pressioni politiche ed economiche, le forniture di armi, i mercenari e talvolta interventi militari diretti sono stati fattori che hanno contribuito al sorgere di nuovi conflitti od all’inasprimento di quelli storici. Al termine di questa epoca – e di conseguenza dei finanziamenti da parte degli Stati Uniti o dell’Unione Sovietica – si aprirono nuovi teatri di crisi a causa di una nuova instabilità politica a cui si susseguirono crisi umanitarie, conflitti e fenomeni di persecuzione verso le minoranze e gli oppositori politici. Questo cambiamento dello scenario geopolitico ha portato, da una parte, a nuovi flussi migratori e, dall’altra, a ripensare le politiche d’immigrazione nei Paesi del Nord del mondo. É bene notare però che la gran parte dei flussi migratori africani si svolgono, prima più di oggi, all’interno del continente e, nella maggior parte dei casi, l’Europa non è la destinazione finale programmata all’inizio del viaggio. Fino ai primi anni 2000 vi erano importanti sistemi regionali di migrazioni che nei decenni si sono costruiti attorno a centri economici africani in crescita, come nel caso della Libia. Questo Paese ha infatti storicamente rappresentato un’importante destinazione dei flussi migratori africani e, fino al 2011, non era affatto una meta di transito. Ciò era dovuto, almeno fino alla seconda metà degli anni ‘90, alla politica promossa dal Colonnello Gheddafi volta a favorire i cosiddetti migranti economici provenienti dall’Africa subsahariana al fine di impiegarli nel comparto petrolifero ed edilizio. Dal 2000 però, gli africani subsahariani hanno cominciato sempre più ad essere vittime della xenofobia e delle violente rivolte anti-immigrazione che dilagavano nel Paese. Si assistette ad una escalation di violenze nei confronti dei subsahariani  che sfociarono in espulsioni, detenzioni arbitrarie e tortura. Ciò spinse a nuovi fenomeni migratori verso altri Stati del Nord Africa o l’Europa. Nonostante ciò, la Libia ha continuato ad essere un’importante destinazione fino al 2011. Le cosiddette Primavere Arabe hanno riconfigurato ulteriormente i flussi migratori contemporanei facendo registrare un aumento esponenziale dei numeri sulle rotte marittime migratorie del Mediterraneo. Le proteste hanno infatti portato alla caduta di regimi ultra-decennali (come ad esempio Mubarak in Egitto, Ben Alì in Tunisia e Gheddafi in Libia) che a loro volta hanno portato ad una instabilità politica che ha contribuito ad aumentare i movimenti di popolazione tra le due sponde del Mediterraneo. Nel caso libico, il violento conflitto tra le milizie di Gheddafi ed i ribelli ha causato il ritorno in massa dei lavoratori migranti verso paesi sub-sahariani, come il Niger, il Mali e il Ciad. Ciò ha avuto effetti sulla stabilità di altri Paesi, ad esempio il ritorno dei Tuareg dalla Libia al Mali sembrerebbe aver incoraggiato la ribellione Tuareg nel nord del Mali. Dopo la caduta del regime di Gheddafi, la Libia è caduta in una crisi senza fine e si è trasformata, ancora più di prima, in un porto franco per trafficanti di esseri umani, per la criminalità organizzata e per le milizie che si scontrano per prendere il potere. A pagare questo vuoto politico sono nuovamente le migliaia di persone provenienti dall’Africa sub-sahariana che per anni hanno lavorato in Libia. Queste all’indomani della morte del Colonnello si sono ritrovati in un vero e proprio limbo subendo violazioni dei diritti e violenze. A ciò si aggiunge che la debolezza politica della Libia e la possibilità dei trafficanti di infiltrarsi nelle istituzioni, come ad esempio nel caso del noto trafficante di esseri umani Al-Bija accolto in Italia come esponente della Guardia costiera libica, hanno reso la rotta del Mediterraneo centrale più appetibile per la criminalità organizzata. Qui infatti, i trafficanti possono agire indisturbati e sfruttare o ricattare coloro che decidono di intraprendere il viaggio. Ciò accade in misura minore nella rotta del Mediterraneo Occidentale, dove il governo Spagnolo finanzia  il governo del Marocco, e nella rotta del Mediterraneo Orientale, dove

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I Rohingya: la minoranza invisibile

Tra le grandi crisi umanitarie del nostro tempo quella che coinvolge i Rohingya del Myanmar è tra le meno conosciute. Pur avendo acquisito rilevanza sulla scena internazionale solo nel 2017, le violenze e le discriminazioni che hanno costretto più di un milione e mezzo di persone al dislocamento forzato in Bangladesh hanno origini lontane, facendo tristemente conquistare ai Rohingya la denominazione di “minoranza più perseguitata al mondo”. Clandestini nel proprio paese Le origini dei Rohingya sono contese e da sempre strumentalmente usate dal Myanmar (Ex-Birmania) per negare sistematicamente i loro diritti. Gli stessi dati che li riguardano sono incerti per lo stesso motivo, i Rohingya sono invisibili anche agli occhi delle statistiche governative, non venendo inclusi nei censimenti nazionali. Da quello che si può ricostruire di questa etnia “invisibile” è che i Rohingya sono una minoranza musulmana sunnita che risiede nell’area dello Stato di Rakhine, nel Myanmar a maggioranza buddista, da molto tempo. Sull’identificazione precisa di questa temporalità vi sono varie opinioni. Alcuni storici fanno risalire la presenza di questo popolo nell’Ex-Birmania al XII secolo, mentre la teoria portata avanti da coloro che li respingono è che siano discendenti di un gruppo musulmano proveniente dall’allora Bengala ed emigrato nel Rakhine durante la colonizzazione britannica. Ciò che è certo è che la loro presenza sul territorio si sia intensificata durante il periodo coloniale, da quando il Myanmar è stato amministrato come una provincia indiana. Alla base della discriminazione dei Rohingya vi è proprio il non riconoscimento della loro appartenenza al Paese in cui vivono da secoli. Nonostante le politiche portate avanti dai regimi che si sono susseguiti in Myanmar a seguito dell’indipendenza, nel 1948, siano sempre state repressive nei confronti delle diverse minoranze etniche e religiose, quelle verso i Rohingya sono state particolarmente violente, arrivando a negare loro il più basilare dei diritti, la nazionalità birmana. I Rohingya non rientrano, infatti, nei 135 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti dalla legge del 1982 decretata dall’allora regime militare del generale Ne Win, venendo condannati ad un’esistenza di perenne clandestinità, privati del diritto al voto, all’istruzione superiore, al libero spostamento sul territorio nazionale. I Rohingya sono quindi destinati all’apolidia, a meno che non riescano a dimostrare la loro presenza sul territorio prima del 1824, anno di annessione all’India britannica. Nel corso dei regimi militari che si sono susseguiti in Myanmar, un clima di intolleranza si è aggiunto alla mancanza di diritti, provocando distruzione di abitazioni e luoghi di culto, saccheggi, stupri e omicidi etnici. I crimini dei militari hanno costretto migliaia di Rohingya a fuggire verso gli stati confinanti, primo tra tutti il vicino Bangladesh, con ondate migratorie nel 1978 e nel 1991-92, periodi caratterizzati da una particolare escalation di violenze. Il picco della crisi Le elezioni parlamentari che si sono tenute nel 2015 hanno costituito un punto di svolta per il Myanmar, vedendo la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, la leader dell’opposizione costretta in regime di detenzione per più di 15 anni e vincitrice del premio Nobel per la Pace nel 1991. Nonostante tra le alte cariche governative fosse ormai presente una personalità quale quella della Suu Kyi, la violenza governativa verso i Rohingya non si è arrestata. Le violenze e i rastrellamenti su base etnica sono aumentati negli ultimi anni costringendo, già nel dicembre 2016, circa ventimila persone a fuggire in Bangladesh. Sono stati pero gli avvenimenti dell’estate 2017 a diffondere il dramma dei Rohingya a livello internazionale e discutere sulla tesi di genocidio rispetto alle violenze nei loro confronti.  Le nuove ondate di repressione governativa si sono scatenate in risposta alle azioni armate del gruppo ribelle ARSA, Arakan Rohingya Salvation Army. In particolare, l’attacco ad un check-point della polizia, il 25 agosto 2017, ha scatenato una reazione durissima dell’esercito birmano rivolta indiscriminatamente a tutta la popolazione civile Rohingya del Rakhine. Secondo i dati delle Nazioni Unite i militari hanno distrutto quasi 300 villaggi e perpetuato migliaia di violenze ed uccisioni a danni di uomini, donne e bambini. Dal 25 agosto al 7 settembre 2017 si stima che oltre 700.000 Rohingya abbiano lasciato il paese, circa metà della popolazione totale stimata. Nonostante alcune migliaia di persone si siano rifugiate anche in Thailandia e in Malaysia, la maggioranza di essi hanno raggiunto il Bangladesh, sia via terra, attraversando il fiume Naf, che via mare. Qui si sono aggiunti agli oltre 300.000 profughi già presenti nel distretto di Cox’s Bazar, provincia di Chittagong. Fino a marzo 2019, quando il Bangladesh ha chiuso le frontiere, migliaia di Rohingya hanno continuato a varcare il confine, costretti in condizioni di vita degradanti. Nonostante l’allestimento di campi d’accoglienza e la fornitura di alcuni servizi essenziali da parte del governo e delle organizzazioni internazionali presenti sul territorio, i Rohingya vivono in situazioni di grave sovraffollamento e non hanno acceso al mercato del lavoro legale, né tantomeno al sistema scolastico e sanitario. D’altra parte il Bangladesh non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 e dunque la popolazione non vede riconosciuti neanche formalmente i propri diritti in quanto rifugiati. Dopo le prime dimostrazioni di solidarietà, inoltre, a Cox’s Bazar è cresciuto il malcontento della popolazione locale rispetto all’alto numero di profughi.  Il Bangladesh è infatti tra i paesi più poveri tra quelli che ospitano il maggior numero di rifugiati, 1,1 milioni, e presenta forti carenze in quanto a servizi, infrastrutture e occupazione. Ad oggi secondo il Piano di risposta congiunta (JRP) 2020 dell’UNHCR per la crisi umanitaria dei Rohingya, circa 855.000 rifugiati risiedono in 34 campi formali nel distretto di Cox’s Bazar, ormai congestionato, e si stima che il 55% di loro siano bambini. La situazione nei campi resta molto precaria, aumentano tra l’altro le famiglie di rifugiati che si indebitano per sopravvivere, passando dal 35% a luglio 2018 al 69% ad agosto 2019. Nel corso degli anni inoltre, vari gruppi jihadisti hanno occupato il vuoto spesso lasciato dalle istituzioni, distribuendo beni e servizi nei campi e reclutando i Rohingya tra le loro file. Un futuro incerto Con il 2020 le sorti

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Frontiera-Bangladesh-India-Large-Movements

Frontiera India-Bangladesh: il confine più pazzo del mondo

Tra India e Bangladesh sorge, con i suoi 4156 km,  il quinto confine più lungo del mondo e su cui insiste la barriera più lunga costruita. I territori che vengono separati da questa barriera sono densamente popolati e in molte zone il terreno è coltivato il più vicino possibile alla recinzione. In molti punti la barriera è a doppio strato e la tecnologia ha semplificato tutta una serie di attività che avrebbero richiesto centinaia di ore lavorative per il monitoraggio, la segnalazione e l’intervento delle autorità.  Nonostante i rischi la recinzione non scoraggia i migranti dal tentativo di attraversamento, sia per chi vuole raggiungere l’India, sia per chi vuole raggiungere il Bangladesh. Negli ultimi anni la frontiera tra Bangladesh e India è diventato il simbolo del costo umano e di sangue delle barriere. Lungo il confine si è registrato l’aumento di insicurezza dei migranti e delle violenze da loro subite nel tentativo di attraversamento, come nel caso della morte della quindicenne Felani Khatun nel 2011. Qui i problemi della cosiddetta immigrazione illegale si sono intrecciati con la questione delle enclavi, soprattutto a seguito dell’accordo del 2015. Quattro anni dopo l’accordo di semplificazione del confine, avvenuta con uno scambio di terre tra i due paesi, molti di coloro che hanno scelto di trasferirsi piuttosto che cambiare la propria cittadinanza hanno visto tradite le proprie aspettative. Secondo un censimento indiano del 2011 sono state circa 53 mila le persone travolte dagli effetti del trattato. Tali problematiche si inseriscono nel tema più ampio della lotta all’immigrazione clandestina portata avanti dall’India. La storia dei Chhit mahal tra Bangladesh e India Un aspetto particolare e problematico lungo il confine tra Bangladesh e India sono state le enclavi, conosciute come chhit mahal (briciole di terra). In generale si chiamano Enclave i territori che sono all’interno di uno stato ma sono appartenenti ad un altro stato, mentre per Exclave si intendono quei territori di uno stato che sono all’esterno di questo. La differenza delle due nozioni risiede dal punto di vista che si assume ma descrivono lo stesso fenomeno, ovvero la porzione di territorio di uno stato che però è all’interno di un altro. Per esempio se una porzione di territorio del Bangladesh è all’interno dell’India si tratterà al contempo di una Exclave Bangladina (un territorio nazionale posto al di fuori, quindi ex dai confini politici) e un Enclave Indiana (quindi una porzione di territorio all’interno della nazione indiana, En, ma non sotto la sua giurisdizione). Secondo le leggenda popolare l’origine di queste “briciole di terra” era dovuta al fatto che Maharaja e Nababbi se le giocassero a scacchi. Secondo i dati storici le Chhit Mahal erano il risultato degli effetti di un trattato del 1713 tra il regno di Cooch Behar e l’Impero Moghul, con cui i Moghul hanno posto fine a una guerra senza determinare un confine per i quali i territori fossero definiti come conquistati o persi. La questione confinaria si è consolidata a seguito dell’indipendenza dell’India, avvenuta nel 1947, con l’annessione del Cooch Behar all’India e del Rangpur al Pakistan Orientale, che divenne lo stato del Bangladesh nel 1971. L’indipendenza aveva comunque lasciato in sospeso la situazione delle enclavi, tra queste la più problematica era rappresentata da una enclave che conteneva tre contro-enclave e una contro-contro enclave nel territorio del Rangpur. In altre parole si trattava di un enclave di terzo livello: un enclave, circondata da un’enclave, circondata da un’enclave circondata da un altro stato. Questa apparteneva all’India ed era conosciuta come Dhahala Khagrabari. Abbiamo provato a rappresentare questa specifica situazione con la mappa qui sotto. Vi era un pezzo di India dalla dimensione di 0,69 ettari, nel territorio del Bangladesh che era esso stesso in un pezzo di territorio indiano dentro allo stato del Bangladesh. Per questo motivo la semplificazione del confine diventò una questione importante per entrambi i governi e nel 1958 si cercò di arrivare ad un accordo tra Jawaharlal Nehru, primo ministro indiano, e Feroz Khan Noon, primo ministro del Pakistan. L’accordo prevedeva uno scambio tra India e Pakistan senza tenere in conto la perdita o il guadagno di territorio ma la questione venne trasformata in un caso della Corte suprema Indiana che stabilì la necessità di un emendamento costituzionale per il trasferimento del territorio. A causa però del deterioramento delle relazioni tra India e Pakistan la questione rimase irrisolta. La situazione cambiò quando, dopo anni di discriminazioni da parte del Pakistan occidentale, nel 1971 i bengalesi del Pakistan orientale iniziarono a chiedere l’indipendenza. Il governo pakistano tentò di sopprimere il movimento indipendentista e milioni di persone persero la vita o cercarono rifugio in India. Fu così che a causa dei continui attriti l’India appoggiò l’indipendenza della regione bengalese e fu il primo stato a riconoscere il neonato Bangladesh, diventandone il principale interlocutore in politica estera. Nel 1974 fu firmato l’Accordo per la delimitazione dei confini terrestri tra Indira Gandhi e Mujibur Rahman, che prevedeva lo scambio di enclavi. Il Bangladesh ratificò rapidamente l’accordo nel 1974, ma l’India non riuscì a farlo. Lo scambio avrebbe dovuto interessare 111 enclavi indiani in territorio bangladino, circa 17 mila acri, e 51 enclavi bangladine in territorio indiano, circa 7 mila acri. Nel 2011 si riapre la questione confinaria con la firma da parte dell’India del Protocollo aggiuntivo per l’accordo sui confini terrestri del 1974. Entrambe le nazioni hanno annunciato l’intenzione di scambiare le 162 enclavi, dando ai residenti la possibilità di scegliere la propria nazionalità. Il passaggio successivo venne rappresentato dall’introduzione della legge costituzionale, nota come 119° emendamento, alla camera alta del parlamento indiano nel 2013. La legge ha visto la dura opposizione dei gruppi nazionalisti dell’Assam ma alla fine il disegno di legge è stata approvato dalla Commissione permanente per gli affari esterni nel 2014. Nel maggio 2015 la legge ha concluso l’iter legislativo ed è stato cosi approvato il 199° emendamento. In questo modo il 6 giugno del 2015 è stato possibile ratificare l’accordo, conosciuto come Land Boundary Agreement, che ha comportato lo scambio di territorio tra i due

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Frontiera greco turca

LA FRONTIERA GRECO-TURCA: genesi di una nuova crisi migratoria

La crisi che vede come disperati protagonisti i rifugiati bloccati alla frontiera tra la Turchia e la Grecia dimostra ancora una volta il divario esistente tra il diritto internazionale ed europeo in materia di asilo e la sua effettiva implementazione. Il 27 febbraio 2020, il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato che le frontiere erano aperte e che i rifugiati non sarebbero più stati fermati nel loro tentativo di raggiungere l’Europa. In risposta al provvedimento turco, tra le 10.000 e le 20.000 persone, perlopiù profughi siriani, ma anche afghani, iraniani e iracheni, hanno quindi raggiunto la frontiera nord-est della Turchia, dove il fiume Evros crea un confine naturale con la Grecia, e dunque con l’Unione europea (Ue). Ad aspettarli le forze di sicurezza greche determinate a non farli passare, anche a costo di attuare misure durissime. Sono presenti ovviamente soggetti vulnerabili quali bambini/e ed anziani/e o semplicemente persone scappate da aree di conflitto e costrette a vivere lontano da casa in condizioni di indeterminatezza e povertà. Ma facciamo un passo indietro per sintetizzare il contesto geopolitico che ha portato a questa situazione, partendo proprio dal ruolo della Turchia. La Turchia: avamposto d’Europa Dall’inizio del conflitto siriano, ormai nove anni fa, la Turchia è il paese che più di tutti ha accolto i profughi in fuga dalla guerra, al momento ospita circa 4 milioni di migranti, di cui 3,6 milioni di siriani. Infatti, nonostante la Turchia non sia nota per il rispetto dei diritti umani, il Paese ha applicato, fino alla chiusura della frontiera nel 2015, una politica di “porta aperta” rispetto ai profughi provenienti dalla Siria. È necessario spiegare perché in questo caso non sia corretto, almeno formalmente, parlare di rifugiati. La Turchia, infatti, pur avendo ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, lo ha fatto con una clausola che ne limita l’applicazione alle persone provenienti dall’Europa, portando i milioni di profughi di guerra a non usufruire ufficialmente dello status di rifugiato, seppur acquisendo altri tipi di protezione. Questo è uno dei motivi che denota la poca credibilità dell’accordo del 2016 stipulato tra l’Unione europea e la Turchia. In seguito al grande flusso migratorio che ha interessato l’Europa nel 2015, l’Ue ha proposto alla Turchia di fungere da barriera per l’arrivo dei migranti, soprattutto siriani. In cambio di 6 miliardi di euro e di passi avanti nel processo di adesione all’Ue, la Turchia ha accettato di far rientrare i richiedenti asilo presenti soprattutto sulle isole greche. D’altro canto l’accordo prevedeva per ogni profugo siriano rimandato in Turchia dalla Grecia, il trasferimento di un altro siriano dalla Turchia all’Unione europea attraverso dei canali umanitari. L’accordo Ue – Turchia non è stato rispettato del tutto da parte di entrambi gli attori coinvolti. Se l’Unione aveva promesso il reinsediamento di circa 70.000 profughi siriani presenti in Turchia, risulta che quelli effettivi siano stati 25.000. Anche la Turchia d’altra parte non sembra aver portato avanti i rientri in Turchia dei siriani presenti in Grecia. Questo delicato quadro ha subito uno svolta in seguito alle conseguenze della tragica situazione che sta vivendo la provincia siriana di Idlib, a ridosso del sud della Turchia, ultimo territorio ribelle rimasto fuori dal regime di Assad. La Turchia, dal 2016, è in parte coinvolta nel conflitto siriano tramite operazioni militari nel nord del Paese le quali, se da una parte hanno come obiettivo il rientro dei profughi siriani, dall’altro celano la volontà di contrastare i territori a maggioranza curda e le Unità di protezione popolare (Ypg). L’esercito turco è presente anche nella provincia di Idlib per monitorare l’area. Qui, dal dicembre 2019, l’esercito di Assad, supportato dalla Russia, sta bombardando indiscriminatamente colpendo soprattutto civili che non hanno alternativa se non fuggire verso i confini turchi. In questo contesto sono rimasti uccisi a fine febbraio 2020 ad Idlib, da parte dell’aviazione siriana, più di trenta soldati turchi. Di fronte a questa escalation di tensione, il governo turco si è ritrovato, isolato a livello internazionale e con un calo di consenso dovuto in parte alla questione migratoria e alle ricadute sociali ed economiche che ne conseguono, ad affrontare l’arrivo di una nuova ondata di sfollati dall’area di Idlib. Erdoğan ha deciso così di utilizzare i profughi presenti nel suo territorio per attirare l’attenzione dell’Unione europea. Quale modo migliore se non aprire unilateralmente il confine con la Grecia nell’era delle frontiere chiuse? Confini violenti Ad accogliere i profughi, che si sono precipitati dalla Turchia al confine con la Grecia dopo aver saputo dell’apertura della frontiera, è stato il filo spinato e le guardie frontaliere greche, armate di gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Oltre al confine terrestre, rappresentato dal fiume Evros, migliaia di migranti si sono diretti sulle isole greche di fronte alle coste turche, in particolare Lesbo, Kos e Samos, e anche in mare le forze di sicurezza greche hanno adottato misure inaccettabili, speronando i gommoni dei migranti e sparando proiettili in acqua rivolti verso di essi. Nel frattempo la tensione sulle isole è diventata altissima, poiché la nuova ondata di arrivi si inserisce in una situazione preesistente di sovraffollamento e di disagio. Basti pensare al campo d’accoglienza di Lesbo, pensato per tremila persone, ma che ne accoglie al momento 21mila.  Sulle isole greche stanno aumentando, inoltre, attacchi violenti a migranti, attivisti ed operatori umanitari da parte dei militanti del partito di estrema destra Alba Dorata e non solo. In ultimo l’incendio, probabilmente doloso, della scuola dell’ong svizzera One Happy Family, un centro che ogni giorno accoglieva fino a 800 migranti. La risposta europea In risposta all’apertura della frontiera da parte della Turchia, il 1° marzo il Primo Ministro greco, Mītsotakī, ha annunciato la sospensione della presa in carico delle domande di asilo per un mese e ha dichiarato l’espulsione di chiunque entri irregolarmente nel Paese. L’Ue ha appoggiato la Grecia, e durante la sua visita al confine con la Turchia, Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione europea, ha definito la Grecia “lo scudo d’Europa”. L’Unione si è impegnata a sostenere la Grecia con un finanziamento di 700

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