Carovana (anti)americana: un amore geloso

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La Carovana dei migranti sta bussando alle porte degli Stati Uniti per dirgli “è colpa vostra se siamo stati costretti a partire”. Il sole sta sorgendo e dobbiamo continuare il nostro viaggio nella storia.

È la storia di un amore malsano tra gli Stati uniti e l’America Latina. È una storia lunga più di un secolo. È una storia che inizia nei primi del ‘900 con l’intento degli Stati Uniti di affermarsi come potenza regionale e mondiale e di trasformare i Caraibi in un agognato “Lago Americano”. È una storia che vede aumentare la dipendenza dell’America latina tra le due guerre mondiali. È una storia fatta di multinazionali, di investitori, di amministrazioni statunitensi, di organizzazioni internazionali, di dottrine, di rivoluzioni, di colpi di stato e del mito del Panamericanismo. È, ancora, la storia della guerra fredda, del narcotraffico, dei progetti allo sviluppo, della CIA e del terrorismo. La nostra Carovana, ora, può ripartire in un viaggio storico alla scoperta di una storia dove l’Antiamericanismo si è trasformato in speranza.

Alla fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti si trovarono in una posizione forte rispetto all’America Latina. Il conflitto aveva reso virtualmente impossibili le transazioni commerciali tra i latinoamericani e il resto del mondo e la guerra aveva distrutto, o gravemente indebolito, la potenza delle Nazioni che avrebbero potuto rappresentare una timida minaccia alla supremazia americana nella regione.

Roosevelt volle tradurre questo forte predominio in un’organizzazione internazionale e questo tema confluì nelle discussioni della Conferenza Panamericana di Chapultepec, Messico, del febbraio 1945. Qui si dichiarò che ogni attacco a un qualsiasi Stato americano rappresentava un attacco contro tutti gli Stati della regione. L’atto finale segnò il primo passo nella direzione di un’alleanza militare postbellica nell’emisfero occidentale.

Tutti gli Stati della Conferenza di Chapultepec presero parte alla costituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu).

Gli Stati Uniti erano fermamente convinti che, prima della conferenza, uno storico conflitto doveva essere sanato: quello tra la Dottrina Monroe – secondo cui gli Stati Uniti non tolleravano un intervento delle potenze europee negli affari dell’emisfero occidentale – e quello che avrebbe dovuto rappresentare l’internazionalismo dell’Onu.

Originariamente infatti, l’Onu avrebbe dovuto avere forti poteri sulle questioni di carattere regionale e il problema risultava dal fatto che ogni intervento degli Stati Uniti nell’America latina sarebbe potuto essere impedito dal veto della Gran Bretagna o dell’Unione sovietica.

Alla fine nello statuto dell’Onu si inserirono quattro articoli, dal 51 al 54, che negli effetti salvaguardavano la facoltà degli Stati Uniti di esercitare la propria influenza nell’emisfero occidentale senza infrangere le regole della nuova organizzazione.

Gli articoli tutelavano il diritto delle organizzazioni collettive regionali di risolvere le dispute e optare per l’autodifesa individuale o collettiva.

A questo proposito nel 1947, con gli Stati Uniti al loro apice di potenza, le Repubbliche Americane siglarono il trattato di Rio: un patto di difesa collettiva che divenne un modello per molte altre alleanze militari formate dagli Stati Uniti nel primo decennio della guerra fredda.

Il trattato di Rio quindi legittimò l’intervento americano e diede una nuova enfasi internazionalista alla dottrina Monroe.

Così nel 1951 venne costituita formalmente l’Organizzazione degli Stati Americani con lo scopo di promuovere azioni coordinate sul piano economico, politico e militare e per risolvere le dispute inter-americane.

Vi era però un forte problema per gli Stati Uniti: i nazionalismi e l’Antiamericanismo erano crescenti nei paesi dell’America Latina. Per molti, la logica della dipendenza e il predominio nella sfera commerciale delle multinazionali americane erano considerati i principali responsabili dei gravi livelli di diseguaglianza.

Ad esempio, nel 1950 il PIL dell’intera America Latina era un settimo di quello degli Stati Uniti a parità di popolazione. Sempre nello stesso anno l’America Latina rappresentava il 28% del totale delle esportazioni e il 35% delle importazioni Statunitensi. Si pensi, poi, che la quota americana sulle esportazioni di Cuba, Nicaragua e Guatemala era compresa tra il 70 e l’80% del totale.

Nella pratica il “sud” dipendeva dal “nord” e questo trend era destinato ad aumentare durante la guerra fredda anche se lo sguardo statunitense era concentrato sull’Asia e l’Europa per allontanare l’Unione Sovietica.

Un’altra questione importate era proprio l’Unione Sovietica.

La politica adottata dagli Stati uniti fu quella del contenimento. Questa venne coniata da George Kennan nei confronti del comunismo nel suo complesso e il concetto cardine era quello di contenere l’URSS (ovvero far sì che rimanesse entro i suoi confini attuali) nella speranza che le divisioni interne, il fallimento o l’evoluzione del contesto politico potessero porre fine a quella che veniva percepita come la minaccia di una forza persistentemente espansionista.

In quest’ottica è da ricordare il caso, nel 1951, del neopresidente del Guatemala Jacobo Arbenz Guzmàn, il quale provò ad introdurre un sistema di tassazione progressiva, un nuovo sistema di welfare e ad aumentare il salario dei lavoratori. A ciò aggiunse l’espropriazione di 400 mila terrenti agricoli non coltivati della United Fruit Company, compagnia americana con interessi in tutta l’America latina divenuta dal 1984 Chiquita Brands.  

La reazione della compagnia fu quella di fare pressioni al governo americano con il risultato che l’amministrazione Eisenhower approvò un piano della CIA per rovesciare il regime con esuli guatemaltechi addestrati dagli stessi Stati Uniti in basi situate in Nicaragua e in Honduras.  Sempre su questa scia, tra il 1953 e il 1954, gli Stati Uniti si fecero sponsor di una risoluzione dell’Organizzazione degli Stati Americani in cui si dichiarava che il controllo da parte comunista di qualsiasi Paese dell’emisfero occidentale fosse una minaccia per la sicurezza di tutti i membri. La risoluzione venne approvata per 17 voti contro uno: il voto del Guatemala.

Preso dall’ultima disperata mossa, Arbenz si rivolse al blocco sovietico alla ricerca di armi. Nel maggio 1954 arrivarono le armi di produzione cecoslovacca ma il mese successivo un piccolo contingente guidato da Castillo Armas attaccò dall’Honduras. Nel frattempo, gli aerei americani bombardavano Città del Guatemala.

In questo modo le terre vennero restituite alla United Fruit Company, gli oppositori di sinistra vennero arrestati e il governo guatemalteco restò un leale sostenitore degli Stati Uniti. Un alleato tale che divenne il terreno di addestramento, da parte della CIA, degli esuli cubani protagonisti nella Baia dei Porci.

L’antiamericanismo dei Latino Americani e la paura del comunismo degli Americani andavano di pari passo.

Nel 1958 gli Stati Uniti avevano dato asilo a Marcos Perez Jimenez, dittatore deposto dal Venezuela, e l’allora vicepresidente Nixon nello stesso anno fece visita alla capitale venezuelana, Caracas. Li sentì il crescente antiamericanismo e tutto lo sfogo della popolazione. Il risultato fu quello di aumentare la paura della minaccia del comunismo da parte dell’amministrazione Eisenhower che, come mossa tipica, privilegiò l’assistenza militare rispetto a quella economica, sottolineando la necessità di rendere edotta l’opinione pubblica latinoamericana dai pericoli del comunismo.

Il nazionalismo latinoamericano continuava a volere la fine dell’intromissione degli Stati Uniti negli affari interni dei Paesi e l’acquisizione di un maggiore controllo sulle proprie materie prime.

Per questo, dopo il fallimento della Baia dei porci e per evitare altri casi analoghi a Cuba, l’amministrazione Kennedy istituì il programma “L’alleanza per il Progresso”. Questo fu un programma di assistenza all’America latina avviato nel 1961 e che aspirava a un incremento del 2,5% l’anno del reddito pro capite, all’istituzione di governi democratici, a una più equa distribuzione del reddito, alla riforma agraria e alla pianificazione economica e sociale. I paesi dell’America latina impegnarono in 10 anni 80 miliardi di dollari, gli Stati uniti 20. L’alleanza venne sciolta nel 1973 dopo un decennio di risultati altalenanti.

Lo scopo centrale del progetto era quello di combattere la povertà e soddisfare bisogni fondamentali come la casa, la terra, il lavoro, la salute e la scuola. Il presupposto era che, con la creazione di un consistente ceto medio latinoamericano, la necessità delle dittature militari come scudo protettivo al comunismo sarebbe diminuita e alla fine l’intero emisfero occidentale si sarebbe trasformato in un bastione della moderna democrazia liberale. Sostanzialmente l’alleanza non mutò radicalmente i rapporti tra Nord e Sud. Era in grado di offrire solo una soluzione a lungo termine ai problemi strutturali che impedivano lo sviluppo dell’America Latina.

La mancanza di risultati immediati portò i politici americani negli anni ’60 a ricorrere a metodi di intervento diretto o clandestino per contrastare eventuali minacce alla stabilità. Un ulteriore problema fu che le autorità di molti dei paesi destinatari, come la burocrazia di governo americana e le aziende private che avevano investimenti significativi nella regione, generalmente si opponevano a qualsiasi forma di ingegneria sociale.

Alla metà degli anni sessanta, per conciliare gli interessi locali ed evitare di irritare ulteriormente i nazionalisti, gli Stati Uniti avevano abbandonato il prerequisito inziale che vincolava gli aiuti all’attuazione di riforme politiche. Ne derivò che la corruzione divenne un problema costante.

Le élite latinoamericane intascavano parte degli aiuti, si rifiutavano di impegnarsi in riforme agrarie significative e si opponevano a qualsiasi piano ad ampio raggio per l’introduzione della tassazione progressiva.

A ciò si aggiunse che i funzionari americani non avevano alcun interesse nell’agire contro le élite tradizionalmente a loro favore, mentre il Congresso aveva specificatamente vietato l’utilizzo di fondi americani per la ridistribuzione di terre ai poveri.

Un altro fattore che contribuiva al mancato raggiungimento di risultati, era rappresentato dal fatto che non vi era interesse da parte di aziende come la United Fruit Company di appoggiare politiche che avrebbero condotto all’innalzamento dei salari e al miglioramento delle condizioni sociali della forza lavoro a basso costo di Paesi come il Guatemala. Sostanzialmente, per le aziende aveva poco senso aumentare i propri costi operativi.

Gli investitori americani incoraggiavano poi i proprietari terrieri locali a usare i fondi dell’Alleanza per sviluppare coltivazioni destinate all’esportazione (come il caffè) piuttosto che per piantagioni di prodotti base (ad esempio i fagioli).

Il tragico risultato fu che, mentre le élite locali e i finanziatori americani ricavavano ampi profitti dalle esportazioni, le disponibilità alimentari insufficienti restarono un problema costante dell’America Latina.

Altro problema è che ci fu un’esplosione demografica: la natalità crebbe al 2,5% annuo. Questa però si accompagnava a un tasso di mortalità elevata.

Nel 1968 il tasso di mortalità tra i bambini al di sotto dell’anno di età era ancora di 75 su 100 in Perù, 86 in Cile e 94 in Guatemala. Per quanto riguarda il PIL i tassi di crescita nella prima metà degli anni ’60 variavano dall’1,6% della Colombia al 3,7% di El Salvador e, solitamente, i risultati di questa crescita tendevano a tradursi in più soldi per chi già ne aveva: per ogni 100 dollari di reddito in più generato, solo due arrivavano al quinto più povero della popolazione.

Questa situazione generale portò alla nascita di molti gruppi terroristici o rivoluzionari come i Sandinisti del Nicaragua, le Forze armate ribelli guatemalteche, le Forze armate di liberazione nazionale venezuelane, il Movimento del 19 aprile colombiano, il Sendero Luminoso peruviano o il Fronte di Liberazione Nazionale Farabundo Marti di El Salvador. A questo fenomeno gli Stati Uniti e la maggior parte dei governi latinoamericani risposero con la forza.

Washington fornì aiuti militari, mentre molti governi latinoamericani repressero attivamente ogni forma di malcontento e avviarono una vera e propria caccia ai guerriglieri. L’amministrazione Johnson, preoccupata dello spostamento a sinistra del maggior Paese della regione, appoggiò nel 1964 un colpo di stato militare in Brasile. In Brasile ne risultarono 20 anni di dittatura militare che terminò solo nel 1985 con nuove elezioni democratiche.

Occorre qui ricordare il caso cileno. Nel 1970, dopo l’elezione di Allende, ci fu la reazione dell’Amministrazione Nixon che percorse una prima via fatta di tangenti e manovre clandestine per evitare la conferma al ballottaggio da parte del congresso nazionale cileno di Allende e, una volta fallita questa, una seconda via volta ad incoraggiare un colpo di stato. Fallita anche questa si procedette con un terzo percorso. L’amministrazione Nixon adottò una strategia a lungo termine per rovesciare Allende e insediare in Cile un governo “amico”.

Dopo tre anni di pressioni economiche, nel corso dei quali gli aiuti americani cessarono e fu garantito un generale sostegno agli oppositori, l’esercito cileno assunse il comando del paese nel settembre 1973. La giunta, guidata dal generale Pinochet, lanciò una brutale campagna di repressione per liberare il Cile dal “cancro del marxismo”.

Ma perché il Cile era così importante? Il Cile ospitava nel 1970 investimenti di aziende americane per circa un miliardo di dollari. I timori di una nazionalizzazione avevano spinto grandi imprese, come l’International Telephone and Telegraph (ITT), a offrire alla CIA un milione di dollari per scongiurare la presidenza di Allende.

Oltre alle motivazioni economiche, ve ne era una politica. La buona riuscita del progetto politico di Allende rischiava di rilevarsi un fattore destabilizzante nella regione.

Il governo di Allende infatti, era stato un governo eletto democraticamente e non arrivato al potere tramite un colpo di stato. Allende era stato appoggiato dai socialisti e dai comunisti cileni. Poteva rappresentare un’alternativa praticabile nell’emisfero occidentale. Poteva dimostrare che il socialismo poteva prosperare senza un appoggio esterno da parte dell’Unione Sovietica.

“Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori!” furono le parole di Allende prima di morire suicida o assassinato. La guerra fredda aveva reso difficili per l’America Latina i rapporti con gli altri paesi e mantenuto la dipendenza con gli Stati Uniti. Le multinazionali continuavano a mantenere il controllo e a influenzare la politica tanto che una volta un giornalista Uruguayano disse “un paese è posseduto e dominato dal capitale che vi è investito”. Ora però abbiamo bisogno di un’altra pausa. Abbiamo ancora un ultima tappa. Tra poco ripartiremo…

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Vice-presidente Large Movements APS | Climate Change e Migration Specialist | Dottore in Relazioni Internazionali | Blogger in Geopolitica, Geoeconomia e tematiche Migratorie | Referente LM Environment

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CONFLITTI SOCIALI MAI SOPITI: El Salvador cade in una nuova ondata di violenza

Sabato 26 marzo 2022 resterà nei ricordi dei salvadoregni come la giornata più violenta degli ultimi venti anni. In poche ore, in El Salvador sono stati riportati 62 omicidi in tutto il territorio nazionale. Per far fronte alla grave emergenza, il 27 marzo l’Assemblea Legislativa ha approvato il Regime di Eccezione, su iniziativa del Presidente Nayib Bukele espressa nel Consiglio dei ministri. Questo Regime sarebbe dovuto durare per un periodo di trenta giorni ma è stato rinnovato di mese in mese ed è tutt’ora in vigore. Attraverso questo Decreto, sono state sospese le garanzie costituzionali tipiche di una società realmente democratica quali: la libertà di associazione e di riunione (art. 7 della Costituzione della Repubblica, p. 2-3); il diritto all’informazione (art. 7 della Costituzione della Repubblica, p. 2-3); il diritto all’informazione sui motivi della detenzione e della difesa (art. 12 inc. 2 Cn, p. 3); il limite di 72 ore alla detenzione amministrativa (art. 13 inc. 2 Cn, p. 3-4) e l’inviolabilità della corrispondenza e delle telecomunicazioni (art. 24 Cn, p. 5). Per provare a capire come si è arrivati a questa rapida escalation degli eventi, è necessario fare una panoramica degli attori coinvolti. LE MARAS SALVADOREGNE Le origini di questi gruppi criminali organizzati risalgono alla fine del conflitto civile culminato con la firma degli Accordi di Pace nel 1992. A pochi anni dall’abbandono della violenza come mezzo politico, il governo statunitense, che aveva assunto un ruolo centrale nel conflitto salvadoregno, avviò una politica di deportazione dei criminali verso i loro Paesi di origine. I membri delle bande californiane rientrati così in Salvador, portarono con loro i modelli organizzativi tipici della criminalità statunitense e questi inevitabilmente finirono per influenzare i gruppi criminali qui presenti, trasformandoli in un fenomeno più organizzato, complesso e violento. Le nuove bande, note come “maras” o “pandillas”, crebbero rapidamente segnando profondamente il periodo postbellico in El Salvador. La violenza legata al fenomeno della mara salvadoregna scorre in quattro direzioni: la guerra tra bande rivali, la violenza delle bande contro le comunità, la violenza dello Stato verso le maras e le risposte violente di queste verso lo Stato. Abitare in un determinato territorio definisce l’appartenenza ad una pandilla piuttosto che ad un’altra, anche se si tratta di pochi isolati di distanza. Questi spazi sono fuori dal controllo statale e qui si sviluppa la vita criminale salvadoregna. L’accesso alle zone è controllato e limitato a certi orari del giorno, scanditi da un rigido coprifuoco. La popolazione che vive in queste zone è costretta a pagare le continue estorsioni che alimentano economicamente il fenomeno delle maras. Questo potere coercitivo che si è affermato incontrastato, unito alla violenza ed alle continue minacce, costringe migliaia di persone ad abbandonare il proprio quartiere, la propria città od il proprio Paese. L’innegabile impatto che le pandillas hanno sulla vita quotidiana del Salvador ha significato, nell’arco degli anni, un periodico tentativo di negoziazione condotto dal governo con l’obiettivo di contrastare il fenomeno. APPROCCIO DEI GOVERNI PRECEDENTI Le istituzioni pubbliche affrontano il problema su base quotidiana, senza però esser riusciti finora a risolverlo definitivamente. Nel 2003, quando c’era al governo il Partito ARENA – di orientamento nazionalista, conservatore e neoliberista – fu introdotta per la prima volta la repressione come strategia per eliminare le maras. Così, per i successivi cinque anni, furono incarcerati i principali esponenti dei gruppi criminali. La reazione politica causò, oltre al sovraffollamento dei penitenziari, una forzata ridistribuzione dei poteri all’interno delle bande criminali che, proprio da dentro le carceri, riformarono il loro sistema interno, fino addirittura a potenziarlo. Nel 2011, il primo governo del FMLN – attuale partito politico di sinistra, ispirato al rivoluzionario Augustin Farabundo Martì, ex guerrigliero nel conflitto terminato nel 1992 – ha sperimentato un nuovo approccio per affrontare il problema delle maras: una sorta di distensione che ha compreso, tra i vari interventi, anche il trasferimento dei leader in carceri di minore sicurezza a fronte di un impegno degli stessi affinché il tasso di omicidi perpetrati dai loro affiliati diminuisse. Sebbene questa tregua promossa dall’allora partito al governo abbia effettivamente portato ad una riduzione esponenziale e mai vista prima del numero di omicidi in Salvador, non è mai stata accettata dall’opinione pubblica e dall’establishment politico – compresi alcuni funzionari e leader dello stesso FMLN. Diffidenza giustificata anche dal fatto che i politici che avevano promosso questa strategia, non hanno mai chiarito del tutto il ruolo effettivo del governo in questo accordo con le maras, fugando così una volta per tutti i dubbi circa la totale trasparenza e bonarietà dell’operazione. Nel 2014 un altro cambio di governo ha riportato le pandillas nelle prigioni di massima sicurezza, attribuendo loro lo status di organizzazioni terroristiche. La risposta di questi gruppi criminal non si è fatta attendere. Il 2015 infatti, è stato contraddistinto da grandi violenze e da omicidi, soprattutto di poliziotti e militari salvadoregni. A loro volta, la polizia ed i militari hanno cominciato ad adottare strategie sempre più tipiche di un Paese in guerra, arrivando ad perpetrare procedure di controllo del territorio non completamente legali. NAYIB BUKELE E LA GUERRA CONTRO IL TERRORISMO Le elezioni presidenziali del 2019 vedono vincere Nayib Bukele, candidato indipendente del partito Nuevas Ideas – partito promotore di un conservatorismo sociale diametralmente opposto al sistema politico che si era affermato fino a quel momento tra i partiti in precedenza menzionati. La schiacciante vittoria, conquistata anche grazie alla promessa di combattere duramente la violenza delle maras, ha permesso a Bukele di cambiare la politica salvadoregna dall’interno, attuando riforme economiche – molto famosa, anche e soprattutto per le critiche che ha attirato sulla sua presidenza, è quella relativa ai Bitcoin – ma anche giudiziarie ed afferenti al settore della sicurezza nazionale. Nello scorso 2021, in occasione del debutto della nuova Assemblea Legislativa, Bukele ha ordinato la destituzione di cinque magistrati della Camera costituzionale e del procuratore generale, tramite quello che è stato definito un “Autocolpo di Stato”. Al loro posto sono stati inseriti funzionari di fiducia di Nuevas Ideas. In generale, le strategie politiche intraprese finora

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I migranti venezuelani in Colombia

Con 4,6 milioni di persone che hanno lasciato il Venezuela in seguito alla crisi politica ed economica degli ultimi anni, in America Latina è in corso una crisi migratoria senza precedenti. In un’epoca di ostilità, chiusura e innalzamento di muri, la vicina Colombia ha assorbito circa 1,8 milioni di migranti venezuelani, praticando finora una politica di solidarietà, ovviamente non senza contraddizioni. La crisi venezuelana Sono finiti gli anni del boom economico venezuelano, quando il paese caraibico rappresentava, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), una delle destinazioni preferite dai migranti interni latinoamericani. La situazione si è rovesciata, ora dalla Repubblica Bolivariana del Venezuela si parte. Lo hanno fatto circa 4,6 milioni di persone in pochi anni e l’UNHCR stima che arriveranno a 6,5 milioni entro fine 2020, quasi il 20% della popolazione venezuelana. Le ragioni dell’esodo, secondo nel mondo solo a quello siriano, sembrano evidenti se si pensa che l’economia venezuelana si è ridotta di due terzi dal 2013 al 2019 e che il Paese è entrato da qualche anno in un periodo di profonda instabilità politica, oltre che economica. Significativo il fatto che il presidente venezuelano, Nicolás Maduro, prosecutore del c.d. socialismo bolivariano di Hugo Chávez, non sia riconosciuto dalla maggior parte della comunità internazionale e che lo scorso anno il principale leader dell’opposizione Juan Guaidó si sia autoproclamato presidente, in un tentativo fallito di prendere il potere. Le cause dell’attuale situazione venezuelana sono complesse e molteplici: l’iperinflazione, le sanzioni dettate dagli Stati Uniti, il debito accumulato negli anni, la mancanza di democrazia nelle politiche governative, un sistema economico basato da lungo tempo quasi esclusivamente sulla produzione di petrolio, fortuna e condanna del Paese. Le radici geopolitiche di una crisi non sono mai semplici da rintracciare in America Latina, forse il maggior terreno di scontro ideologico tra capitalismo e socialismo, storicamente dilaniata da accaparramenti, corruzione ed ingerenze esterne. Ciò che è certo sono i fatti, la crisi politico-economica ha costretto il Venezuela a condizioni di estrema povertà e di mancanza di beni di prima necessità, come cibo e medicinali e la popolazione sta abbandonando in massa il Paese. La migrazione in Colombia Quasi l’80% dei migranti venezuelani si trovano in America Latina e il Paese che ne ha assorbiti di più è la vicina Colombia, al confine ovest del paese caraibico, seguita da Perù, Cile, Ecuador, Brasile e Argentina. Secondo i dati ufficiali di Migración Colombia, a dicembre 2019 erano più di 1.771.000 i venezuelani presenti nel Paese, di cui circa 220.000 minori. A differenza di altri paesi sudamericani, la Colombia non era abituata a ricevere migranti, al contrario erano i colombiani ad emigrare in cerca di una vita migliore, lontana dalla guerra civile che ha dilaniato il Paese per decenni. Proprio il Venezuela più di tutti ha accolto i rifugiati colombiani, attirati anche dalla sua passata prosperità economica. Nonostante un rapporto dell’UNHCR del 2019 mostri come, negli ultimi anni, i rientri in patria dei colombiani espatriati in Venezuela siano aumentati sostanzialmente, la memoria storica colombiana non ha dimenticato l’accoglienza ricevuta. L’idea di ricambiare il favore, legata forse alla presa di coscienza dell’inevitabilità del fenomeno migratorio venezuelano, ha portato la Colombia ad adottare politiche migratorie abbastanza aperte. Nel 2016, ad esempio, sono stati istituiti i Permessi speciali di permanenza (Pep), che permettono ai migranti venezuelani di godere di diritti fondamentali, quali l’accesso a lavoro, sanità e istruzione. Tali permessi sono risultati ancora più utili in ragione dell’impossibilità per i venezuelani di rinnovare i propri documenti, dato il congelamento dei rapporti diplomatici tra Colombia e Venezuela e la conseguente chiusura delle ambasciate. Risale all’estate 2019 un altro provvedimento del governo colombiano elogiato dalle organizzazioni umanitarie, ovvero la concessione della cittadinanza a 24mila bambini nati in Colombia da donne venezuelane, con effetto ex-post anche sulle nascite che avverranno nei prossimi due anni. Le cifre che la Colombia sta investendo per gestire il recente fenomeno migratorio sono alte, e difficili da sostenere per un paese che deve affrontare le conseguenze di un conflitto duro a morire. Ciononostante a livello regionale sono stati instituiti dei meccanismi per coordinare e facilitare l’inclusione legale, sociale ed economica dei cittadini venezuelani. I governi dei paesi latinoamericani maggiormente interessati dall’arrivo dei venezuelani, hanno infatti congiuntamente lanciato il Piano di risposta regionale umanitaria per rifugiati e migranti 2020 (RMRP), uno strumento che intende coordinare e raccogliere i fondi per gestire il flusso migratorio. Un delicato equilibrio La popolazione colombiana ha inizialmente reagito positivamente all’accoglienza dei migranti venezuelani, ma sembra che negli ultimi mesi siano aumentati i casi di xenofobia e stigmatizzazione. In una società come quella colombiana, fortemente provata dal conflitto armato e da una crescente stratificazione sociale, i migranti venezuelani si sono andati ad aggiungere alla fascia di popolazione più marginalizzata, quella che popola le periferie delle grandi città.  In particolare, secondo le autorità colombiane, il 90% dei venezuelani in Colombia lavora nell’economia informale. D’altronde, secondo il Dipartimento amministrativo nazionale di statistica, il 47,2% degli stessi colombiani lavora nell’informalità e nella precarietà. La nuova situazione emergenziale creatasi con la pandemia di COVID-19 ha ulteriormente complicato la situazione dei migranti venezuelani. Il presidente colombiano Ivàn Duque il 13 marzo 2020 ha temporaneamente chiuso le frontiere per arginare il diffondersi del nuovo coronavirus, ma gli oltre duemila chilometri di confine che separano i due paesi, in parte zone isolate ed interessate dal conflitto armato, sono difficili da controllare. Il rischio è maggiore per i migranti non legalmente registrati in Colombia, circa la metà dei quasi due milioni presenti sul territorio, secondo una stima di Migración Colombia. Questi ultimi non hanno quindi accesso alle prestazioni sanitarie, oltre ad essere costantemente a rischio di violenza, sfruttamento, lavoro minorile, reclutamento da parte dei gruppi armati e tratta. In ultimo, una conseguenza del COVID-19, riguarda gruppi di migranti venezuelani che stanno cercando di tornare in patria nelle ultime settimane. Le misure di quarantena adottate dal governo colombiano, per il momento previste fino al 27 aprile, hanno bloccato l’economia informale e alcuni migranti, ormai senza lavoro, preferiscono tornare a casa, seppur nelle disastrose

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La condizione delle donne in Perù sta migliorando grazie alle riforme

In Perù, come in gran parte dei Paesi dell’America Latina, la parità di genere all’interno della società è impedita dalla presenza del fenomeno del machismo. Nonostante le donne possano godere dei diritti di base, come quello di voto e di proprietà, nella struttura stessa delle comunità è presente un fattore culturale e sociologico che ostacola l’emancipazione delle donne in tutti gli ambiti della società: il machismo, appunto. Questo fenomeno, largamente diffuso in tutto il continente (ma anche nel resto del mondo), è identificabile nel tasso di alfabetizzazione, nella difficoltà di accesso alla professione ed alla sanità e nella scarsa partecipazione politica delle donne peruviane, ed è maggiormente presente nelle zone rurali del Paese. Nelle zone più remote, dove le differenze sociali tra i due generi raggiungono il loro picco, gli stereotipi machisti fanno breccia nella coscienza comunitaria molto più che nelle grandi città. È qui che la maggior parte della popolazione associa la donna alla sfera domestica, assegnandole, forse inconsciamente, il ruolo di madre e moglie, e togliendole così il diritto di scegliere il proprio destino. Fin dalla tenera età, le bambine peruviane perdono l’aspirazione ad uno stile di vita diverso da quello tradizionale, ed il loro rendimento scolastico ne risente. Nei centri abitati più piccoli è estremamente difficile incontrare una donna in posizioni di potere, sia nella professione che nella politica. La carenza di esempi da imitare rafforza la convinzione che la donna debba rinchiudersi nel focolare domestico, lasciando ai soli uomini la possibilità di intraprendere una carriera professionale. Secondo le stime di Statista, nel 2021, il Perù si è classificato 17° nell’indice di divario di genere (Gender Gap Index), su 26 Paesi dell’America Latina. Procederemo ora ad analizzare la possibilità di accesso della donna peruviana ai vari ambiti della società, evidenziando quelli in cui il machismo è preponderante nell’impedire la parità di genere. Istruzione, professione e politica: analisi del divario di genere Nel 2020 un’inchiesta di the World Bank ha registrato in Perù una differenza di 5 punti percentuali tra l’alfabetizzazione maschile (97% circa), e quella femminile (92%) nella popolazione superiore ai 15 anni di età. Entrambi le percentuali, sebbene si mantengano in crescita, hanno conosciuto un rallentamento nell’ultimo anno di pandemia da COVID-19, in cui la popolazione si è vista costretta a rinunciare all’istruzione per far fronte alla crisi che ne deriva. Il divario di genere è maggiore nelle zone rurali ed all’interno delle comunità indigene che parlano le lingue native; tuttavia anche qui si assiste ad un miglioramento grazie alle riforme delle leggi consuetudinarie degli ultimi decenni, che stanno aprendo il mondo professionale alle nuove generazioni di donne, spronandole quindi a proseguire gli studi. Dopo la promulgazione di queste riforme anche la percentuale di partecipazione delle donne alla forza lavoro è migliorata, raggiungendo il 70.6% dello scorso anno, secondo le stime dell’International Labour Organization. Il Perù illustra come le riforme legali – soprattutto se accompagnate da un calo della fertilità – possano effettivamente guidare un aumento della partecipazione femminile al mondo del lavoro e dell’inclusione finanziaria, portando benefici anche al PIL del Paese. Tuttavia, i vincoli economici e culturali continuano a limitare le opportunità professionali delle donne. Nonostante il Paese vanti uno dei divari di genere più esigui dell’America Latina per quanto riguarda l’accesso all’impiego, le donne peruviane tendono ad essere relegate allo svolgimento dei lavori meno pagati come l’infermieristica e l’insegnamento. Per di più, le responsabilità domestiche e le necessità di cura dei famigliari limitano ulteriormente le loro opzioni di lavoro. Nel 2015 le donne hanno guadagnato circa il 19% in meno degli uomini per reddito orario; divario che aumenta ulteriormente se consideriamo le donne indigene. Nelle comunità povere, rurali ed indigene infatti, prevalgono i lavori tipici dell’economia informale, formata da piccole e medie imprese a conduzione familiare (solamente il 30% di queste imprese sono formali). Questo significa che gran parte delle donne si affacciano in una posizione di estrema vulnerabilità nei confronti dei rischi del mercato. Queste donne infatti, restano escluse dalle politiche governative per promuovere e proteggere l’impiego femminile, e dall’alfabetizzazione finanziaria – necessaria per sviluppare concretamente le loro attività e/o farle rientrare nell’economia formale. I dati del governo mostrano che il 60% di tutte le lavoratrici del Paese continuano a lavorare nell’economia informale, e solo il 15% ha una copertura sanitaria, mentre solo il 4% gode di benefici pensionistici. Il Paese vanta una politica di congedo di maternità di novantotto giorni e altri programmi per sostenere le madri lavoratrici, tuttavia le donne che lavorano nel settore informale non ne beneficiano. Per quanto riguarda la situazione politica, le donne hanno guadagnato il diritto di voto in Perù nel 1955, uno degli ultimi Paesi della regione Latino-americana. Nonostante ciò, il Paese sta avanzando concretamente sulla strada della rappresentanza politica paritaria attraverso la promulgazione di riforme che hanno reso obbligatori i criteri di parità e di alternanza dalle elezioni generali del 2021. È a partire dall’approvazione della legge n. 31030 che le liste presidenziali devono avere almeno una donna o un uomo nella loro composizione, posti in modo alternato, con l’obiettivo di raggiungere un sistema di pari rappresentanza nella composizione e nell’agenda politica entro il 2031. Attualmente ci sono diverse strategie impiegate per monitorare l’implementazione della legge e la partecipazione femminile. Uno degli strumenti creati a questo proposito è la Línea de Investigación de la Dirección Nacional de Educación y Formación Cívica Ciudadana (DNEF), che analizza le informazioni sui processi elettorali al fine di migliorarne la diffusione tra i cittadini e i media, con l’obiettivo di influenzare il rafforzamento del sistema politico e della democrazia. Secondo un’inchiesta realizzata lo scorso marzo dalla DNEF, le scorse elezioni parlamentari hanno visto la presenza di 3 donne su 16 posizioni nel Congresso andino. La proporzione ha conosciuto un miglioramento negli ultimi anni grazie alle quote elettorali. Tuttavia occorre evidenziare che le posizioni ricoperte da donne nelle liste elettorali si mantengono di basso livello. Sicurezza e sanità per le donne: le note dolenti del Gender Gap in Perù La violenza contro le donne è un fenomeno preoccupante in

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La lezione argentina del fiume Matanza-Riachuelo: la necessità di cambiare prospettiva per tutelare l’ambiente

In generale le società di tutto il mondo riconoscono dei diritti agli esseri viventi e agli esseri umani in primis. La tipologia dei diritti che vengono riconosciuti varia a seconda delle culture, delle tradizioni, dei sistemi politici ed ideologici di ogni società, ma, secondo i cosiddetti giusnaturalisti, è comunemente accettata l’esistenza di alcuni diritti fondamentali che prescindono dall’ordinamento giuridico a cui appartengono. Tali diritti vengono definiti come “diritti di natura”. Quindi ci si domanda: esistono dei “diritti ambientali” tra i diritti di natura? La risposta è controversa e per niente scontata. Negli ultimi anni si sono fatti dei passi in avanti e il tema dell’ambiente non rappresenta più un discorso elitario di cui solo scienziati ed attivisti parlano. I movimenti di tutela dell’ambiente si sono diffusi a livello globale, l’agenda politica internazionale ha fissato tra le priorità assolute quella di ridurre il cambiamento climatico e fronteggiare i conseguenti disastri ambientali. È chiaramente riconoscibile come questo tema abbia preso piede in maniera realmente preponderante nel dibattito politico ad ogni livello, ma tutto ciò non sempre si traduce in un vero e proprio riconoscimento dei diritti dell’ambiente. Non vi è ancora un’opinione univoca che confermi e delinei se e quali essi siano, o almeno, è spesso discussa e trova controversie derivanti da esigenze e contesti molto variegati. C’è chi focalizza l’attenzione maggiormente sugli effetti che un danno ambientale provoca sull’uomo, chi sugli animali e chi più genericamente sul Pianeta, complicando quindi l’attribuzione di tali diritti a soggetti specifici. In generale, i diritti sono sempre inseriti nel binomio diritti-doveri che possono ricadere sullo stesso soggetto o meno. Nel campo dei diritti dell’ambiente l’individuazione di entrambe le posizioni risulta complessa e rimane un problema in molti casi irrisolvibile. A ciò si aggiunge che i diritti dell’ambiente sono riconosciuti in maniera eterogenea nei vari Paesi del mondo e ciò è dovuto sicuramente a sensibilità tuttora molto differenti. Si pensi che alcuni ordinamenti hanno sentito l’urgenza di riconoscere i diritti dell’ambiente prima di altri per motivi che li toccano più da vicino, mentre altri continuano a schivare la questione per interessi economici e politici, che infatti si impongono sui più deboli interessi sociali ed ambientali, spesso schiacciandoli. Tra i Paesi che sono attivati nella ricerca di una maggiore tutela dei diritti dell’ambiente vi sono alcuni paesi dell’America Latina, tra cui l’Argentina, dove nel 2004 un gruppo di residenti del bacino del fiume Matanza-Riachuelo (nella provincia di Buenos Aires) ha sollevato la questione relativa all’inquinamento dell’area dovuto alle attività di 44 aziende lì operanti. Il fine non era solo quello di protestare nei confronti delle aziende, bensì di vedersi riconosciuti dei diritti fino ad allora inesistenti, o perlomeno non considerati, derivanti dal danneggiamento subito a causa dell’inquinamento del bacino. Le rivendicazioni non riguardavano esclusivamente il risarcimento per i danni già prodotti da tali attività, ma avevano una visione più di lungo termine. I ricorrenti richiedevano un incremento della qualità della vita, la riparazione del disastro causato e la prevenzione di quelli futuri come impegni fondamentali che la Corte Suprema argentina, davanti alla quale era stato presentato il caso, dovesse riconoscere e far applicare da parte delle autorità di Governo e degli enti locali. Il caso in questione rappresenta una vittoria sul piano del riconoscimento dei diritti dell’ambiente in capo ad una certa comunità affetta direttamente da un disastro ambientale o dal danneggiamento della qualità dell’ambiente da parte di altri soggetti, che in quell’occasione furono indicati come lo Stato, la Provincia di Buenos Aires e la città di Buenos Aires. Il danno ambientale è ricaduto sull’intera collettività, che ne è stata quindi vittima e che ha rivendicato il diritto ad una compensazione, alla cessazione delle attività inquinanti e all’effettuazione di rimedi per restaurare la condizione precedente. Da quel momento la Corte ha stabilito un piano di azione che l’ACUMAR (l’agenzia del governo responsabile del bacino del fiume Matanza-Riachuelo) deve mettere in pratica. Tra gli scopi del piano vi sono quello di avviare un’azione di disseminazione di informazioni pubbliche, di controllare l’inquinamento prodotto dalle industrie, di ripulire le discariche, di espandere l’offerta di acqua, di sviluppare un piano di sanità emergenziale e di adottare un sistema di misurazione internazionale per valutare il rispetto degli obiettivi del piano (Mendoza Beatriz Silva et al vs. State of Argentina et al on damages (damages resulting from environmental pollution of Matanza/Riachuelo river, 2008). Quanto accaduto attorno al fiume Matanza-Riachuelo ha posto le condizioni per affrontare le questioni ambientali in tutto il territorio nazionale sottoponendole ad una nuova prospettiva ovvero quella di difesa della qualità della vita, della salute collettiva e di promozione dei diritti umani a più ampio raggio, includendo quindi anche quelli che derivano da aspetti ambientali, che hanno ricadute considerevoli anche sui diritti economici, sociali e culturali. Da una rivendicazione locale è scaturita la necessità di prevedere a livello nazionale un maggiore impegno da parte delle autorità competenti, che nella fattispecie è rappresentata dall’ACUMAR, e ha permesso di allargare la partecipazione della società civile nel processo di elaborazione e monitoraggio di politiche di stampo ambientale e non solo. Per permettere una più ampia partecipazione della società civile, requisito fondamentale è l’accesso all’informazione, il quale favorisce una visione chiara del problema da analizzare, stimolandone la discussione e la successiva risoluzione attraverso l’attivazione di pratiche collettive. Quanto esposto finora è un limpido esempio di come il valore attribuito e condiviso dell’ambiente da parte di una collettività ne rafforzi l’agire sul piano politico e sociale, consentendo il raggiungimento di risultati che, presi nel complesso, in grado di costruire gradualmente una società globale più rispettosa e riconoscente nei confronti della natura. Forse è necessario ancora stimolare una visione più olistica del sistema in cui vive l’essere umano, ovvero che includa ogni singola parte del Pianeta e ne curi la vita, l’esistenza e la preservazione, invece di tendere alla sua devastazione a discapito di qualcosa o qualcun altro, in modo tale da non avere alcun dubbio su se e quali sono i diritti che gli appartengono. Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

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