Carovana (anti)americana: l’inizio di un amore malsano

La Carovana dei migranti sta bussando alle porte degli Stati Uniti per dirgli “è colpa vostra se siamo stati costretti a partire”. Questo è un altro capitolo di un rapporto difficile tra gli Stati uniti e l’America Latina. Di una storia lunga più di un secolo. È una storia che inizia nei primi del ‘900 con l’intento degli Stati Uniti di affermarsi come potenza regionale e mondiale e di trasformare i Caraibi in un agognato “Lago Americano”. È una storia che vede aumentare la dipendenza dell’America latina tra le due guerre mondiali. È una storia fatta di multinazionali, di investitori, di amministrazioni statunitensi, di organizzazioni internazionali, di dottrine, di rivoluzioni, di colpi di stato e del mito del Panamericanismo. È, ancora, la storia della guerra fredda, del narcotraffico, dei progetti allo sviluppo, della CIA e del terrorismo. La nostra Carovana, ora. può partire in un viaggio storico alla scoperta di una storia dove l’Antiamericanismo si è trasformato in speranza.

L’interventismo americano storicamente si è sviluppato in base alla dottrina Monroe, per cui gli Stati Uniti non avrebbero tollerato un intervento delle potenze europee negli affari dell’emisfero occidentale.

Il primo atto importante, come potenza regionale e nascente potenza mondiale, fu quello, nel 1898, di intraprendere la guerra contro la Spagna in merito alla questione cubana. La guerra finì dopo 4 mesi e portò all’acquisizione delle Filippine, di Portorico e di Guam. Questi avamposti risultavano vitali per poter estendere il proprio potere nel mercato cinese, dove l’ascesa giapponese cominciava a far paura alla libertà di commerciare nella regione. Altro effetto importante fu quello di avere una maggiore presa sui Caraibi con una indipendenza di Cuba, di fatto, nominale.

Nel 1904 Theodore Roosevelt, presidente degli Stati Uniti tra il 1901 e il 1909, aggiunse un corollario alla dottrina Monroe che rivendicava il diritto degli Stati Uniti di intervenire negli affari di una repubblica americana nell’eventualità che essa corresse il rischio di occupazione o intervento da parte di uno stato europeo.

Rooseveltfu un fermo sostenitore delle dottrine di Mahan e del Darwinismo sociale.

Il Darwinismo sociale è una teoria secondo cui la storia delle società umane rispondeva alla logica della sopravvivenza del più adatto. Questa teoria rappresentò il fondamento per numerose teorie sulla supremazia razziale e per i sostenitori del “fardello dell’uomo bianco”, ovvero del suo ruolo di civilizzatore.

Il pensiero di Mahan, ammiraglio statunitense, invece si concentrava sul ruolo del potere navale e del presupposto per cui lo sviluppo del commercio è essenziale in termini di aumento della potenza.

A ciò aggiunse che il mare è il mezzo più veloce ed economico per il trasporto delle merci e che, quindi, l’interesse di uno Stato è quello di sviluppare una flotta commerciale e di garantirne la sicurezza attraverso una marina militare sufficiente ad evitare che le rotte vengano distrutte da eventuali minacce esterne.

Queste due direttrici si sono tradotte da una parte con la volontà di esportare “progresso” attraverso investimenti e capitali, dall’altra di far si che questi investimenti fossero in Paesi rilevanti dal punto di vista delle rotte commerciali.

Con queste logiche l’amministrazione ottenne l’indipendenza di Panama dalla Colombia con annesso un trattato che autorizzava gli Stati Uniti a costruire e a controllare quello che diventerà in seguito il Canale di Panama nel 1913, fondamentale per ridurre i tempi delle rotte commerciali.

Per consolidare il proprio dominio sui Caraibi, poi, venne inserito l’emendamento Platt nella costituzione cubana. Tale emendamento sanciva i criteri per l’intervento negli affari cubani e consentiva agli Stati Uniti il mantenimento di una base navale a Cuba (Guantanamo).

Gli Stati Uniti hanno fatto ricorso a questo emendamento intervenendo in alcune faccende cubane nel 1906, nel 1912, nel 1917 e nel 1920. L’emendamento venne abrogato nel 1934 ma rimane ancora ad oggi il controllo della base militare di Guantanamo.

Gli Stati Uniti inoltre, assunsero il controllo delle finanze anche in tutto il territorio della Repubblica Domenicana e di Haiti – facendo ratificare a questi due Paesi l’emendamento Platt.

L’amministrazione di Woodrow Wilson (1913-1921) aveva intenzione di abbandonare l’intervento armato diretto in America Latina poiché non aveva portato i risultati sperati.

Ad esempio, poco prima della sua elezione vi fu un intervento in Nicaragua, che si concluse con l’ascesa del Generale Chamorro, dettato dalla necessità di tutelare i crescenti investimenti della United Fruit Company, dal 1984 Chiquita Brands, nella regione caraibica.

Per di più, già nel secondo decennio del ‘900 gli Stati Uniti erano riusciti a trasformare i Caraibi in un “Lago americano” e, per mantenere il controllo sulla zona, è stato necessario sostenere interventi armati.

Stessa sorte è toccata al Messico che ha visto la presenza di truppe armate dal 1914 fino al 1917, anno in cui si tennero nuove elezioni e si ratificò una nuova costituzione nella quale era facilmente riscontrabile un forte sentimento anti-americano.

Occorre mettere in rilievo che negli anni ‘20 l’influenza economica degli Stati Uniti era vastissima in America latina.

La United Fruit Company e la Standard Fruit Company (oggi Dole Fruit Company) infatti, controllavano la maggior parte dei profitti della regione. Queste due compagnie concorrevano per il predominio della regione e detenevano un forte controllo in Paesi che vennero definiti come le “repubbliche delle banane”, ovvero: Honduras, Costarica e Guatemala.

Più volte i giornalisti latinoamericani hanno accusato le compagnie di corrompere i governi nazionali per un trattamento preferenziale o per consolidare il proprio monopolio.

A ciò si aggiungono le accuse di degrado ambientale, di deforestazione, di drenaggio e impoverimento dei sistemi idrici e di devastazione della biodiversità.

Inoltre, spesso si praticava la monocoltura che, esaurendo la fertilità delle terre, alla fine portava al collasso economico oltre che alla dipendenza dall’esportazione di quel prodotto. Esportazione che spesso non creava profitto alla nazione.

Si pensi che a Cuba gli Stati Uniti erano titolari dei 2/3 della produzione di zucchero, praticamente l’unico prodotto dell’isola.

Questa logica riguardava anche le materie prime ed è così che gli Stati Uniti in Venezuela possedevano quasi la metà del petrolio e che in Cile il prezzo del rame, principale prodotto di esportazione, era direttamente deciso da Washington.

Occorre poi notare che una compagnia come la United Fruit Company non si occupava solamente di frutta ma aveva investito in ferrovie transnazionali e nelle telecomunicazioni. A ciò si aggiunga che, in questo periodo, l’America Latina riceveva il 20% dell’export totale degli Stati Uniti e nella maggior parte dei casi gli Stati dell’America latina esportavano fino anche al 90% della propria produzione negli Stati Uniti. In pratica, quella degli Stati latinoamericani era a tutti gli effetti una forte dipendenza economica.

L’impossibilità di portare stabilità nella regione e la necessità di avere governi “alleati”, oltre che al rafforzamento del Giappone nell’Oceano Pacifico, portarono gli Stati Uniti a sostenere i cosiddetti “Uomini forti” (come Batista a Cuba, la famiglia Somoza in Nicaragua e Truijillo nella Repubblica Domenicana).

Per questo con Franklin Delano Roosevelt (1933-1945) si instaurò quella che viene definita la politica del “buon vicinato” con personaggi “illustri” che si arricchivano ulteriormente mentre la popolazione era costretta a vivere nella povertà più nera.

Il folklore vede assegnare al Presidente americano la frase “Sarà pure un figlio di puttana, ma almeno è il nostro figlio di puttana”, che, al di là delle veridicità o meno della frase, rappresenta la figura dei dittatori, rappresentanti, o tutori, dell’influenza americana.

Caso particolare, però, fu quello del Messico che vide il raggiungimento di compromessi per gli attriti sul petrolio.

Con la costituzione del 1917 il Messico volle nazionalizzare le risorse, provocando l’allarme dell’azienda americana Standard Oil (da cui successivamente nacquero la ESSO e la Chevron).

In questo primo caso ci furono dei negoziati internazionali che si conclusero con l’attribuzione dei diritti di proprietà degli Stati Uniti in cambio del riconoscimento diplomatico del 1924.

Un secondo caso ci fu nel 1938 con la nazionalizzazione ad opera di Cardenas. Questa suscitò un’azione di Lobbying da parte della Standard Oil, che la vide accusare il presidente messicano di essere comunista.

Anche in questo caso ci furono nuovi negoziati che portarono nel 1941 al riconoscimento del diritto del Messico al controllo delle materie prime a fronte di un indennizzo da pagare all’azienda americana.

È da notare che ciò fu possibile solamente perché gli Stati Uniti si stavano preparando alla guerra ed avevano bisogno di alleati con molte materie prime. Ciò infatti fu dettato anche dal fatto che tra il ’30 e il ’40 erano aumentati gli acquisti del petrolio messicano da parte delle potenze dell’asse.

Sulla scia di tale ottica di “opportunità bellica”, Roosevelt tentò di consolidare il movimento panamericano.

Gli Stati Uniti sfruttarono l’attivismo dei nazisti in America latina (soprattutto in paesi come l’Argentina, il Brasile e l’Uruguay) per giustificare una maggiore cooperazione e per rivitalizzare l’Unione Panamericana nata nel 1910.

Fu così che con la dichiarazione di Panama del 1939 si delineò un perimetro di sicurezza intorno all’emisfero occidentale e si istituì un comitato di coordinamento economico. Ciò rese più facile agli Stati Uniti bloccare le transazioni tra l’America latina e i futuri nemici.

A ciò si aggiunse che gli Stati Uniti con la legge “affitti e prestiti” divennero, in un primo momento, “l’arsenale” della Gran Bretagna. Così facendo si garantirono i profitti della produzione bellica utilizzando le materie prime latinoamericane.

La situazione però peggiorò e gli Stati Uniti dovettero entrare in guerra trascinando con sé i Paesi dell’America latina. Questi ultimi erano fondamentali allo sforzo bellico per il facile accesso alle materie prime.

Fu così che i fuochi della guerra si fecero vividi in tutto il mondo rappresentando l’unica illuminazione di una lunga notte. In mezzo secolo gli Stati Uniti erano riusciti ad instaurare un rapporto controverso con una regione vastissima. Un rapporto inizialmente economico, poi politico e infine di necessità per la guerra contro le potenze dell’asse. Ma ora la nostra carovana deve riposarsi. Il viaggio è ancora lungo. I semi dell’antiamericanismo sono stati gettati e devono ancora germogliare. Tra poco riprenderemo il nostro viaggio…

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Vice-presidente Large Movements APS | Climate Change e Migration Specialist | Dottore in Relazioni Internazionali | Blogger in Geopolitica, Geoeconomia e tematiche Migratorie | Referente LM Environment

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I diritti LGBTQ+ in Brasile: leggi virtuose in una società intollerante

Le persone LGBTQ+ brasiliane vivono una condizione piuttosto singolare rispetto alle loro controparti in giro per il mondo o anche semplicemente in America Latina. Se da un lato, infatti, il Brasile può essere considerato uno dei precursori delle tutele nei confronti della comunità LGBTQ+, con le prime normative in materia che risalgono addirittura al XIX secolo, dall’altro rimane un paese le cui problematiche interne mettono spesso a rischio le persone più ai margini della società, nei quali spesso si ritrovano le minoranze sessuali. Questa tendenza non ha fatto che intensificarsi con la presidenza di Jair Bolsonaro, i cui attacchi omofobi e transfobici sono ben noti all’opinione pubblica. Nello spazio che esiste fra, da un lato, un apparato di norme ed una magistratura particolarmente virtuosi nel tutelare la comunità LGBTQ+ e, dall’altro, una società civile alle volte accogliente, alle volte violenta ed intollerante, si sviluppano le vite di queste persone che conducono, nonostante tutto, un’esistenza complicata. Quadro Legislativo e Impatto nella Società Civile Come già anticipato, la storia delle tutele legislative nei confronti della popolazione LGBTQ+ brasiliana ha inizio nel 1800, già dalla prima metà precisamente, quando nel 1830 l’allora sovrano Pietro I del Brasile promulgò il nuovo Codice penale brasiliano. Nel testo di legge riformato fu eliminato ogni riferimento al reato di sodomia, presente nel precedente impianto penale frutto del passato regime di stampo coloniale, di fatto legalizzando i rapporti fra persone dello stesso sesso. Da quella data ad oggi, il Brasile ha fornito un chiaro esempio di legislatura virtuosa ed inclusiva, con tutta una serie di tutele e concessioni che si sono susseguite negli anni e che ci permettono di affermare che in Brasile, a livello normativo, le persone LGBTQ+ godono pressappoco degli stessi diritti e garanzie della restante della popolazione.Se, infatti, dal 1969 non esiste più alcuna regola che vieti agli uomini omosessuali di servire nell’esercito (le donne potranno prestare servizio solo a partire dagli anni ‘80), è con la fine della dittatura militare nel 1985 e la promulgazione di una Costituzione liberale – che vieta espressamente ogni tipo di legge discriminatoria, sia a livello locale sia federale – che inizia effettivamente il processo di equiparazione fra persone LGBTQ+ e resto della popolazione cis-etero.Nel 1999 il Consiglio Federale di Psicologia, con una decisione certamente progressista ed in anticipo di anni anche rispetto a molti paesi occidentali, vieta espressamente il ricorso a terapie di conversione per gli omosessuali (decisione estesa nel 2018 anche alle persone transessuali in aperta opposizione ad ogni pratica transfobica).Sempre degli anni 90 (1995 nello specifico) è la prima proposta di riconoscimento delle unioni civili in Brasile che, pur non venendo approvata allora, fu seguita da diverse e numerose sentenze di tribunali locali che consentirono la registrazione di unioni civili tramite atti notarili fino al 2011, quando il Tribunale Supremo Federale legalizzò di fatto la pratica.Nel maggio del 2013, inoltre, la sentenza è stata implementata con l’istituzione del matrimonio egualitario in tutto il Brasile. A questa decisione si accompagnava l’espresso divieto, ribadito dall’allora Presidente del Tribunale Supremo Joaquim Barbosa, di negare la registrazione di un’unione civile o la conversione di quest’ultima in un matrimonio effettivo, come ancora accadeva all’interno degli studi notarili del Paese. L’equiparazione fra unioni omosessuali ed eterosessuali, in Brasile, comprende anche la materia d’immigrazione, con le prime decisioni in quest’ambito emesse agli inizi del 2000.Per quanto riguarda le adozioni per coppie dello stesso sesso, in aggiunta, sono consentite in quanto non esistono leggi che le vietino espressamente, ed eventuali norme in tal senso sarebbero inapplicabili poiché ritenute incostituzionali. Diverse sentenze nel corso degli anni hanno confermato questo orientamento della giurisprudenza brasiliana e la pratica è ormai largamente in uso nel paese.Anche le persone transessuali hanno visto realizzate negli ultimi anni alcune delle loro richieste: l’operazione di riassegnazione di genere è gratuita e garantita dallo Stato, in seguito a una sentenza che afferma che l’intervento è coperto dalla clausola costituzionale che assicura ai cittadini l’assistenza medica gratuita.Nel 2009, inoltre, la Corte Superiore di Giustizia ha stabilito che il cambio di genere legale per persone transessuali che avevano compiuto la transizione era consentito in tutto il territorio della nazione, secondo la logica per la quale permettere di sottoporsi ad un intervento di riassegnazione del genere senza poter cambiare genere e nome sulla propria documentazione costituiva una forma di pregiudizio sociale.Il primo marzo 2018, inoltre, il Tribunale Supremo Federale ha stabilito che questo diritto è esteso anche alle persone trans che non hanno completato né hanno intenzione di iniziare un percorso di transizione, garantendo la pratica per mezzo della sola autodeterminazione dell’identità psicologica della persona interessata.Ancora una volta il Brasile, legiferando in questo senso, si pone fra i primi paesi ad assicurare queste tutele per le minoranze sessuali. Percezione e Status Sociale Alla luce del quadro legislativo menzionato, si potrebbe pensare che le persone LGBTQ+ brasiliane conducano una vita tutto sommato sicura priva di pregiudizi e discriminazioni. Ma non è esattamente così.I dati rendono l’idea dell’enorme spaccatura fra una normativa che tutela ed una società che si dimostra pericolosa e discriminatoria: secondo un sondaggio di Datafolha, la percentuale di persone che credono che l’omosessualità debba essere accettata dalla società è salita dal 64% del 2014 al 74% del 2017. Eppure, il Brasile ha il tasso più alto di uccisioni di persone LGBTQ+, con oltre 380 omicidi avvenuti nel 2017 (277 solo nei primi 9 mesi, secondo Grupo Gay da Bahia), il 30% in più rispetto all’anno precedente.Secondo Human Rights Watch, nel 2013 le segnalazioni di violenze contro la popolazione LGBTQ+ sarebbero state oltre 3000. Inoltre, in Brasile il 68% delle persone LGBTQ+ ha sperimentato episodi d’omofobia sul posto di lavoro. Sempre nel 2013, LGBTQ Nation ha dichiarato che il 44% dei crimini d’odio contro le minoranze sessuali si sono verificati nel solo Brasile.Tentare di comprendere una divisione così netta fra le leggi e la società che regolano non è compito semplice. Il Brasile è uno stato laico nel quale la separazione fra Stato e Chiesa è fra le più marcate. Il paese, infatti, non ha

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Le vicende del 2019 e il loro impatto sulla guerra in Colombia

In Colombia, la fase di transizione che vede l’incessante guerra civile acquietarsi verso la pace conosce una brusca frenata nel corso del 2019, dopo appena tre anni dalla firma dell’accordo bilaterale. Quali sono i nuovi ostacoli che si stanno frapponendo alla pace tra il governo e il gruppo armato rivoluzionario FARC – EP? Per rispondere alla domanda dobbiamo fare un passo indietro. La Colombia si è affacciata al nuovo millennio in una situazione di grande instabilità. I gruppi di guerriglia che si sono ribellati allo Stato, considerato inesistente in ampie zone rurali del Paese, avevano raggiunto l’apice della loro potenza. Il principale tra questi gruppi armati erano le FARC-EP (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – Ejército del Pueblo). Con la presidenza di Álvaro Uribe Vélez (non a caso soprannominato “il signore della guerra”), la situazione si è rapidamente capovolta. Le sue discusse strategie di controffensiva, nel corso dei suoi due mandati, hanno portato notevoli risultati tra cui l’inizio del declino delle FARC. Dalla sua elezione alla presidenza nel 2010, Juan Manuel Santos ha iniziato a discostarsi dalle idee politiche del suo predecessore promuovendo il dialogo con le forze rivoluzionare, fino al raggiungimento di un accordo di pace. Il trattato bilaterale affronta numerose questioni considerate le cause fondamentali di più di 50 anni di conflitto interno. Il documento elenca le varie misure che, in comune accordo, devono essere prese da entrambe le parti per stabilire la pace tra il governo il gruppo FARC. Tuttavia, pochi mesi dopo, la fine del mandato di Santos mette in discussione tutti gli sforzi effettuati fino ad allora. L’elezione di Iván Duque Márquez, stretto alleato di Uribe, e la sua manifesta intenzione di modificare l’accordo, mettono in guardia gli ex-combattenti delle FARC. Inoltre, gli avvenimenti che dal 2019 rendono la situazione in Colombia ancor più tesa, lasciano trapelare una concreta minaccia di ritorno alla guerra. Le FARC: da lotta armata a lotta politica e viceversa Innanzitutto, il disarmo della guerriglia, supervisionato da una commissione dell’ONU creata ad hoc, viene portato a termine dalla maggioranza dei membri delle FARC, ma non dalla totalità di essi. Alcune migliaia di combattenti, infatti, si sono rifiutati di scendere a patti con il governo. Gli smobilitati non sono mai usciti dalla giungla e non hanno mai abbandonato la lotta armata. Le loro azioni si sono ridimensionate, parallelamente al numero dei loro membri, ma la loro esistenza resiste al processo di pace. Le più recenti informazioni a riguardo sostengono che questi gruppi abbiano cercato riparo in Venezuela, mentre c’è chi ipotizza che possano affiliarsi ad altri gruppi di guerriglia come l’Ejército de Liberación Nacional (ELN). Ciò che è certo è che, a causa delle circostanze attuali di politica colombiana, il gruppo degli smobilitati si sta rafforzando con coloro che, dopo aver abbracciato la vita civile, hanno deciso di tornare a vivere nella selva come combattenti clandestini. Le criticità del processo di pace Se implementato, il trattato potrebbe andare incontro alle richieste dei gruppi rivoluzionari ed evitare altre vittime. Tuttavia, l’implementazione dello stesso sta incontrando numerosi ostacoli, come già accaduto in passato nella storia del conflitto colombiano. Prima tra tutti, la partecipazione politica degli ex-membri delle FARC non è stata assicurata nelle scorse elezioni. Il nuovo partito politico ha avuto uno scarsissimo rilievo, forse per la cattiva fama che il gruppo si è guadagnato attraverso i decenni. Ma soprattutto, dal momento in cui hanno abbracciato la vita civile, molti pentiti hanno visto la morte per mano di sicari. Pratica ormai molto diffusa in Colombia, gli omicidi sistematici dell’opposizione politica hanno causato la morte a circa 200 membri delle FARC e a più di 600 tra leader sociali, membri di tribù indigene e attivisti per i diritti umani, dalla firma del trattato ad oggi. La coltivazione delle terre e la gestione delle proprietà è stata la questione principale che ha causato lo scoppio e il prolungamento del conflitto nei decenni. La Riforma Rurale Integrale e la riconversione delle terre precedentemente impiegate per le coltivazioni della cocaina sono quindi il nocciolo centrale del trattato di pace. Ciononostante, l’esecuzione ed il finanziamento della stessa stanno andando a rilento, ed i contadini non si trovano affatto avvantaggiati dalle nuove condizioni. I difetti dei tribunali della Verità La questione delle vittime del conflitto non viene affrontata in maniera soddisfacente. Le spaventose cifre restano azzardate e si ipotizza che i numeri effettivi siano molto più alti. La Commissione per la Verità, non avendo carattere imperativo con le sue sanzioni, fatica a svolgere i suoi doveri. E così le vittime restano senza giustizia, i colpevoli impuniti e i cadaveri senza nome. Ma non solo, il maggior difetto del Sistema Integrale di Giustizia che si viene a costituire dalla firma dell’accordo, si identifica nel non garantire nessun tipo di protezione a coloro che vogliono testimoniare per la verità, e la triste tradizione di omicidi in Colombia fa sembrare questo sistema una trappola per chi vuole contribuire alla pace e alla giustizia. Le circostanze fin qui elencate fanno sembrare il periodo di dialogo e di concessioni reciproche che ha caratterizzato il doppio mandato del ex presidente Santos uno strappo alla violenta regola colombiana. Invece di rafforzare le basi della pace, il successore e attuale presidente Duque le mina direttamente, indirizzando la sua propaganda politica contro l’accordo con le FARC e finanziando la stessa con il Fondo per la Pace, facendo quindi uso dei fondi internazionali per fini elettorali e personali. La minaccia di un ritorno alla guerra civile in Colombia si fa dunque sempre più concreto nell’arco del 2019. Alcuni segni incoraggianti Ciononostante, non può essere ignorato l’appoggio della sfera internazionale che ha ricevuto l’accordo di pace con le FARC. Oltre all’ONU e al suo Consiglio di Sicurezza, anche singoli Stati si sono fatti promotori della pace in Colombia, impegnandosi nel cessate il fuoco bilaterale e come membri della Commissione per la Verità. Inoltre, ci sono i cittadini che dimostrano di essersi stancati della violenza, dell’assassinio sistematico dell’opposizione politica, che porta inevitabilmente alla morte della democrazia. Questa parte della popolazione con

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Donne venezuelane alla ricerca della salute che non c’è

Il collasso dell’economia in Venezuela ha determinato una serie di congiunture interne al paese causando quello che oggi è il più grande fenomeno migratorio della storia latinoamericana. Come in ogni crisi, i gruppi sociali più vulnerabili sono quelli a risentirne maggiormente. Tra questi ci sono le donne, esposte a una cultura patriarcale fatta di violenza e minori possibilità occupazionali. Il Covid-19 ha complicato inoltre l’accesso alle cure alle donne venezuelane le quali, già prima della pandemia, presentavano specifiche necessità in termini di salute sessuale e riproduttiva.   Genere e salute nelle politiche sociali venezuelane Dal 2003 sono state promosse in Venezuela una serie di politiche sociali conosciute come Misiones Bolivarianas. Le Misiones hanno obiettivi differenti: dalla lotta contro la povertà ai programmi di alfabetizzazione, dalla salute all’acceso al credito, dall’implementazione di attività culturali e politiche a quelle in sostegno della popolazione indigena e dell’ambiente. Misión Barrio Adentro e Misión Madres de Barrio sono però le due iniziative che hanno definito negli anni il ruolo della donna e del sistema sanitario venezuelano. La prima ha determinato l’edificazione di ambulatori nelle zone rurali e urbane più depresse del paese, la seconda, invece, ha come genesi una giustificazione costituzionale.   L’art. 88 della Costituzione venezuelana, infatti, sancisce il riconoscimento sociale di una leadership femminile nella gestione e nella cura del nucleo famigliare. Lo sfondo ideologico di Madres del Barrio che mira all’indipendenza femminile è stato poi tradotto in trasferimenti monetari a sostegno delle donne disoccupate. Tuttavia, se da un lato il riconoscimento del lavoro domestico può essere considerato una conquista per i diritti delle donne, dall’altro si ammette l’esistenza di una differenza fra sessi nei ruoli sociali che tralascia, così, la multidimensionalità dell’essere donna. Alcuni dati sulla salute femminile in Venezuela Più che le politiche sociali, sono i dati che aiutano a comprendere la reale situazione delle donne venezuelane alla luce e della crisi venezuelana e dell’emergenza Covid-19. Pertanto, è possibile ricostruire un quadro generale ed obiettivo sulla salute delle donne venezuelane attraverso i report della società civile e delle organizzazioni internazionali. Da anni, infatti, non vengono pubblicate a riguardo cifre ufficiali governative. Prima di tutto, è opportuno chiarire in che stato si trova oggi il sistema sanitario venezuelano. La Encuesta Nacional de Médicos y Estudiantes de Medicina del 2017 ha rivelato che il 40% degli immatricolati nelle università di medicina venezuelane ha lasciato il paese determinando un’importante diminuzione di tale capitale umano. A questo si somma: un 70% delle strutture ospedaliere con disponibilità intermittente di acqua, un 63% di ospedali senza energia elettrica e un 50% dei laboratori diagnostici non è operativo. Rispetto alla prospettiva di genere, invece, la realtà sopra descritta si complica ulteriormente in tema di salute sessuale e riproduttiva. L’UNFPA segnala che il Venezuela è oggi il terzo paese con il maggior tasso di fecondità in età adolescenziale in America Latina e Caraibi solo dopo Ecuador e Honduras. Human Rights Watch  ha riportato che la mortalità infantile in Venezuela è aumentata del 30%, quella materna del 60%. Equivalencia en Acción, una coalizione della società civile venezuelana, ha denunciato che negli ospedali e nelle farmacie nazionali si sfiora il 100% di irreperibilità di metodi contraccettivi in un paese dove l’aborto è ancora illegale. Pertanto, la possibilità di pianificazione familiare risulta essere piuttosto difficile in Venezuela. Ciò potrebbe comportare un aumento di aborti clandestini, rischiosi per la vita della donna. Inoltre, l’incremento delle gravidanze in età adolescenziale pregiudica il proseguimento degli studi e l’inserimento regolare delle donne nel mercato del lavoro. Le conseguenze sulle donne venezuelane Data la crisi umanitaria del Paese, chi è nelle condizioni economiche e fisiche adeguate, sceglie principalmente di abbandonare il Venezuela. Tuttavia, una volta arrivati nel nuovo paese, l’accesso alle cure non è un processo immediato. Per esempio, in Colombia, primo paese di destino con quasi 2 milioni di venezuelani nel territorio, la situazione è alquanto complessa. Per ottenere l’accesso al sistema sanitario è necessario che il migrante abbia uno status migratorio regolare. Nonostante hay que quitarse el sombrero per come la Colombia abbia gestito gli ingressi dei venezuelani, il sistema di acceso alle cure è ancora troppo rigido per migliaia di migranti non regolarizzati. Ad esempio, la regolarizzazione mediante il PEP, che permetterebbe l’affiliazione a un’assicurazione medica colombiana, non è possibile per il venezuelano privo di un documento d’identità o entrato i Colombia per i punti non autorizzati. In particolare, riguardo alla popolazione venezuelana negli ospedali, 7 persone su 10 sono donne. Tale dinamica si presenta in tutte le regioni colombiane i cui ospedali registrano tra le richieste principali: assistenza alla gravidanza, al parto e cure per malattie sessualmente trasmissibili. Spesso si tratta di gravidanze a rischio per mancate assistenza prenatale dovuta al collasso del sistema sanitario in Venezuela. Infine, l’emergenza Covid-19. La pandemia ha complicato ulteriormente le possibilità di accesso a qualche forma di assistenza sanitaria. A confermare ciò, è stata la Conferenza internazionale di solidarietà sulla crisi dei rifugiati e dei migranti venezuelaniorganizzata dalla Spagna e l’Unione Europea svoltasi lo scorso 26 maggio. L’Unione ha donato 9 milioni per contenere il propagarsi del virus e 918 milioni in per i gruppi vulnerabili colpiti dalla pandemia. Tra questi rientrano migliaia di donne venezuelane che dal 2014 continuano a migrare alla ricerca del loro diritto alla salute. Fonti e approfondimenti https://www.encuestanacionaldehospitales.com/2019 https://avesawordpress.files.wordpress.com/2019/05/mujeres_limite_a4web.pdf https://colombia.unfpa.org/es/news/unfpa-presenta-el-poder-de-decidir-derechos-reproductivos-y-transici%C3%B3n-demogr%C3%A1fica https://eeas.europa.eu/headquarters/headquarters-homepage/79328/donors-conference-solidarity-venezuelan-refugees-and-migrants-countries-region-amid-covid-19_en

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Carovana (anti)americana: un amore geloso

La Carovana dei migranti sta bussando alle porte degli Stati Uniti per dirgli “è colpa vostra se siamo stati costretti a partire”. Il sole sta sorgendo e dobbiamo continuare il nostro viaggio nella storia. È la storia di un amore malsano tra gli Stati uniti e l’America Latina. È una storia lunga più di un secolo. È una storia che inizia nei primi del ‘900 con l’intento degli Stati Uniti di affermarsi come potenza regionale e mondiale e di trasformare i Caraibi in un agognato “Lago Americano”. È una storia che vede aumentare la dipendenza dell’America latina tra le due guerre mondiali. È una storia fatta di multinazionali, di investitori, di amministrazioni statunitensi, di organizzazioni internazionali, di dottrine, di rivoluzioni, di colpi di stato e del mito del Panamericanismo. È, ancora, la storia della guerra fredda, del narcotraffico, dei progetti allo sviluppo, della CIA e del terrorismo. La nostra Carovana, ora, può ripartire in un viaggio storico alla scoperta di una storia dove l’Antiamericanismo si è trasformato in speranza. Alla fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti si trovarono in una posizione forte rispetto all’America Latina. Il conflitto aveva reso virtualmente impossibili le transazioni commerciali tra i latinoamericani e il resto del mondo e la guerra aveva distrutto, o gravemente indebolito, la potenza delle Nazioni che avrebbero potuto rappresentare una timida minaccia alla supremazia americana nella regione. Roosevelt volle tradurre questo forte predominio in un’organizzazione internazionale e questo tema confluì nelle discussioni della Conferenza Panamericana di Chapultepec, Messico, del febbraio 1945. Qui si dichiarò che ogni attacco a un qualsiasi Stato americano rappresentava un attacco contro tutti gli Stati della regione. L’atto finale segnò il primo passo nella direzione di un’alleanza militare postbellica nell’emisfero occidentale. Tutti gli Stati della Conferenza di Chapultepec presero parte alla costituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu). Gli Stati Uniti erano fermamente convinti che, prima della conferenza, uno storico conflitto doveva essere sanato: quello tra la Dottrina Monroe – secondo cui gli Stati Uniti non tolleravano un intervento delle potenze europee negli affari dell’emisfero occidentale – e quello che avrebbe dovuto rappresentare l’internazionalismo dell’Onu. Originariamente infatti, l’Onu avrebbe dovuto avere forti poteri sulle questioni di carattere regionale e il problema risultava dal fatto che ogni intervento degli Stati Uniti nell’America latina sarebbe potuto essere impedito dal veto della Gran Bretagna o dell’Unione sovietica. Alla fine nello statuto dell’Onu si inserirono quattro articoli, dal 51 al 54, che negli effetti salvaguardavano la facoltà degli Stati Uniti di esercitare la propria influenza nell’emisfero occidentale senza infrangere le regole della nuova organizzazione. Gli articoli tutelavano il diritto delle organizzazioni collettive regionali di risolvere le dispute e optare per l’autodifesa individuale o collettiva. A questo proposito nel 1947, con gli Stati Uniti al loro apice di potenza, le Repubbliche Americane siglarono il trattato di Rio: un patto di difesa collettiva che divenne un modello per molte altre alleanze militari formate dagli Stati Uniti nel primo decennio della guerra fredda. Il trattato di Rio quindi legittimò l’intervento americano e diede una nuova enfasi internazionalista alla dottrina Monroe. Così nel 1951 venne costituita formalmente l’Organizzazione degli Stati Americani con lo scopo di promuovere azioni coordinate sul piano economico, politico e militare e per risolvere le dispute inter-americane. Vi era però un forte problema per gli Stati Uniti: i nazionalismi e l’Antiamericanismo erano crescenti nei paesi dell’America Latina. Per molti, la logica della dipendenza e il predominio nella sfera commerciale delle multinazionali americane erano considerati i principali responsabili dei gravi livelli di diseguaglianza. Ad esempio, nel 1950 il PIL dell’intera America Latina era un settimo di quello degli Stati Uniti a parità di popolazione. Sempre nello stesso anno l’America Latina rappresentava il 28% del totale delle esportazioni e il 35% delle importazioni Statunitensi. Si pensi, poi, che la quota americana sulle esportazioni di Cuba, Nicaragua e Guatemala era compresa tra il 70 e l’80% del totale. Nella pratica il “sud” dipendeva dal “nord” e questo trend era destinato ad aumentare durante la guerra fredda anche se lo sguardo statunitense era concentrato sull’Asia e l’Europa per allontanare l’Unione Sovietica. Un’altra questione importate era proprio l’Unione Sovietica. La politica adottata dagli Stati uniti fu quella del contenimento. Questa venne coniata da George Kennan nei confronti del comunismo nel suo complesso e il concetto cardine era quello di contenere l’URSS (ovvero far sì che rimanesse entro i suoi confini attuali) nella speranza che le divisioni interne, il fallimento o l’evoluzione del contesto politico potessero porre fine a quella che veniva percepita come la minaccia di una forza persistentemente espansionista. In quest’ottica è da ricordare il caso, nel 1951, del neopresidente del Guatemala Jacobo Arbenz Guzmàn, il quale provò ad introdurre un sistema di tassazione progressiva, un nuovo sistema di welfare e ad aumentare il salario dei lavoratori. A ciò aggiunse l’espropriazione di 400 mila terrenti agricoli non coltivati della United Fruit Company, compagnia americana con interessi in tutta l’America latina divenuta dal 1984 Chiquita Brands.   La reazione della compagnia fu quella di fare pressioni al governo americano con il risultato che l’amministrazione Eisenhower approvò un piano della CIA per rovesciare il regime con esuli guatemaltechi addestrati dagli stessi Stati Uniti in basi situate in Nicaragua e in Honduras.  Sempre su questa scia, tra il 1953 e il 1954, gli Stati Uniti si fecero sponsor di una risoluzione dell’Organizzazione degli Stati Americani in cui si dichiarava che il controllo da parte comunista di qualsiasi Paese dell’emisfero occidentale fosse una minaccia per la sicurezza di tutti i membri. La risoluzione venne approvata per 17 voti contro uno: il voto del Guatemala. Preso dall’ultima disperata mossa, Arbenz si rivolse al blocco sovietico alla ricerca di armi. Nel maggio 1954 arrivarono le armi di produzione cecoslovacca ma il mese successivo un piccolo contingente guidato da Castillo Armas attaccò dall’Honduras. Nel frattempo, gli aerei americani bombardavano Città del Guatemala. In questo modo le terre vennero restituite alla United Fruit Company, gli oppositori di sinistra vennero arrestati e il governo guatemalteco restò un leale sostenitore degli Stati Uniti. Un

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Il conflitto in Colombia: storia del soldato che si batte per la verità

Oggi inizia dicembre, ma il caldo non accenna a darci tregua. Mi trovo in Colombia, dove sono venuta a scrivere la tesi di laurea magistrale e, per caso o per destino, ho conosciuto M.: un soldato dell’esercito nazionale che si è congedato dopo sei anni di servizio. Da quell’incontro casuale in piscina lui si è dimostrato subito incuriosito nei confronti della mia palese provenienza europea. Da allora è venuto spesso nell’appartamento che condivido con altri studenti, per farci assaggiare i piatti tipici cucinati alla perfezione, per insegnarci a ballare la salsa e la cumbia in salotto, per condividere con sincero orgoglio le tradizioni del suo Paese. La condivisione è un tratto che contraddistingue i colombiani, e M. sembra voler condividere il più possibile con noi, specialmente il suo passato travagliato, la storia del suo Paese che tanto ama. Da quando gli ho spiegato che sto analizzando i contenuti dell’accordo di pace tra il governo e la guerriglia FARC, i suoi occhi si sono illuminati e mi ha confessato di essere stato un soldato dell’esercito proprio in quel conflitto che per più di 50 anni ha dilaniato la Colombia e che nel 2016 sembra aver raggiunto una tregua. Oggi è qui per raccontarmelo. Si siede vicino a me e mi versa un bicchiere di aguapanela appena preparata. Iniziamo.  LM: “Perché hai deciso di diventare un soldato dell’Esercito Nazionale della Colombia?”  M: “A 17 anni mi sono diplomato e mi sono ritrovato di fronte a un bivio. L’idea di poter scegliere la carriera militare mi è stata data da mia zia quando mi ha parlato del suo compagno, che era un sottufficiale dell’esercito. Mi ha spiegato che chi fa parte dell’istituzione gode di diversi benefici: uno stipendio fisso, la possibilità di studiare, l’assicurazione sanitaria, la pensione dopo 25 anni di lavoro. Inoltre, a me è sempre piaciuta l’attività fisica, infatti inizialmente mi sono iscritto all’università, alla facoltà di educazione fisica. Il giorno in cui reclutavano per entrare nell’esercito ho dovuto prendere la prima decisione: andare a fare il test militare o andare a dare un esame all’università. In realtà la scelta neanche c’era: se fossi andato all’università non avrei potuto essere stabile economicamente perché non avevo il sostegno dei miei genitori poiché mia madre non aveva un lavoro in quel momento, quindi ho deciso di arruolarmi. Sono entrato nell’esercito e ho fatto esami medici, psicologici, fisici e sono andati molto bene.” “Sono stato il primo in graduatoria di tutti coloro che li hanno sostenuti nella mia area. Ero anche uno dei più giovani.“ “La prima volta che sono arrivato nell’accademia militare la sensazione che ho provato è stato di voler tornare a casa. Abbiamo viaggiato in due autobus grandi, pieni di ragazzi. Dopo più di 2 ore di viaggio, erano le 4.30 di mattina, siamo arrivati e come siamo scesi dai bus un soldato ci ha ordinato di metterci a raccogliere tutte le foglie secche dal terreno. Non sono tornato a casa allora, avevo molti occhi puntati su di me: i miei amici del quartiere, la mia famiglia che diceva in giro: «M. se n’è andato»… Mi stavo mettendo alla prova, ma se queste aspettative non ci fossero state penso che sarei tornato subito a casa. In quel momento è iniziata una delle avventure che penso non potrò mai dimenticare nella vita, che è stato l’Esercito Nazionale.”  L’accademia militare: come si diventa un soldato dell’Esercito Nazionale della Colombia  M: “Sono stato nella scuola militare per 18 mesi. Il periodo si divide in tre semestri: prima sei una recluta, poi brigadiere e infine un dragone. Nell’ultimo semestre segui un corso di controguerriglia e ci sono prove che sono molto difficili, sono sfide. Lì le percepisci come sfide, ma quando esci e vedi la realtà dei fatti, ti accorgi che sono veri e propri abusi. Ti mettono moltissima pressione psicologica, fisica e alimentare, ti colpiscono con le doghe del letto se fai qualche errore, usano la violenza per insegnare. Ad un certo punto del mio secondo semestre ho reagito contro un capitano che era appena arrivato nella scuola. Noi dormivamo pochissimo, 3-4 ore al giorno, quando riuscivamo a dormire. La sera dovevamo fare le pulizie, e quel giorno stavamo pulendo i bagni il più velocemente possibile per poi andare a dormire. Il capitano è entrato nella stanza e ci ha ordinato di fare esercizi a terra mentre lui passava tra di noi e ci prendeva a calci. Si stava avvicinando a me quando gli ho detto che se mi avesse toccato mi sarei dimenticato che lui è il comandante e io uno studente. Mi ha messo comunque un piede addosso, allora io mi sono alzato, l’ho spinto via e me ne sono andato. Ho fatto rapporto al comandante della scuola. In quel periodo stavano uscendo notizie da tutta la Colombia che nell’esercito i superiori approfittavano del loro potere per maltrattarci, nessun soldato veniva risparmiato dall’abuso. Non succedeva solo da noi, ma in tutti i battaglioni era qualcosa di molto comune.” “La prima volta che ho sentito la storia del conflitto contro la guerriglia me l’hanno raccontata lì ma, dato che mi è sempre piaciuto approfondire per conto mio, mi sono informato sulla realtà del Paese.“ “L’impressione che ne ho tratto è che i ribelli della guerriglia si erano armati per rivendicare i loro diritti di essere ascoltati dallo Stato, e che avevano un modo diverso di pensare. Ma nell’accademia quello che ti insegnano è che devi odiarli, li devi uccidere e che deve scorrere sangue. Ci sono canzoni militari che dicono: «Voglio nuotare in una piscina piena di sangue, sangue di guerrigliero. Sangue! Sangue! Rosso! Rosso! Denso! Denso! Sangue di guerrigliero!» queste canzoni lavorano la mente di tutti gli studenti della scuola e molti ne escono con quel desiderio, con quella sete di sangue. Grazie alla vita, grazie a Dio, io non sono uscito con quella sete di uccidere, perché non mi piace fare del male ad altre persone.” Il conflitto in Colombia: il debutto di M. come soldato regolare M: “Quando ho finito i tre semestri nella scuola sono uscito come comandante

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