Carovana (anti)americana: l’inizio di un amore malsano

La Carovana dei migranti sta bussando alle porte degli Stati Uniti per dirgli “è colpa vostra se siamo stati costretti a partire”. Questo è un altro capitolo di un rapporto difficile tra gli Stati uniti e l’America Latina. Di una storia lunga più di un secolo. È una storia che inizia nei primi del ‘900 con l’intento degli Stati Uniti di affermarsi come potenza regionale e mondiale e di trasformare i Caraibi in un agognato “Lago Americano”. È una storia che vede aumentare la dipendenza dell’America latina tra le due guerre mondiali. È una storia fatta di multinazionali, di investitori, di amministrazioni statunitensi, di organizzazioni internazionali, di dottrine, di rivoluzioni, di colpi di stato e del mito del Panamericanismo. È, ancora, la storia della guerra fredda, del narcotraffico, dei progetti allo sviluppo, della CIA e del terrorismo. La nostra Carovana, ora. può partire in un viaggio storico alla scoperta di una storia dove l’Antiamericanismo si è trasformato in speranza.

L’interventismo americano storicamente si è sviluppato in base alla dottrina Monroe, per cui gli Stati Uniti non avrebbero tollerato un intervento delle potenze europee negli affari dell’emisfero occidentale.

Il primo atto importante, come potenza regionale e nascente potenza mondiale, fu quello, nel 1898, di intraprendere la guerra contro la Spagna in merito alla questione cubana. La guerra finì dopo 4 mesi e portò all’acquisizione delle Filippine, di Portorico e di Guam. Questi avamposti risultavano vitali per poter estendere il proprio potere nel mercato cinese, dove l’ascesa giapponese cominciava a far paura alla libertà di commerciare nella regione. Altro effetto importante fu quello di avere una maggiore presa sui Caraibi con una indipendenza di Cuba, di fatto, nominale.

Nel 1904 Theodore Roosevelt, presidente degli Stati Uniti tra il 1901 e il 1909, aggiunse un corollario alla dottrina Monroe che rivendicava il diritto degli Stati Uniti di intervenire negli affari di una repubblica americana nell’eventualità che essa corresse il rischio di occupazione o intervento da parte di uno stato europeo.

Rooseveltfu un fermo sostenitore delle dottrine di Mahan e del Darwinismo sociale.

Il Darwinismo sociale è una teoria secondo cui la storia delle società umane rispondeva alla logica della sopravvivenza del più adatto. Questa teoria rappresentò il fondamento per numerose teorie sulla supremazia razziale e per i sostenitori del “fardello dell’uomo bianco”, ovvero del suo ruolo di civilizzatore.

Il pensiero di Mahan, ammiraglio statunitense, invece si concentrava sul ruolo del potere navale e del presupposto per cui lo sviluppo del commercio è essenziale in termini di aumento della potenza.

A ciò aggiunse che il mare è il mezzo più veloce ed economico per il trasporto delle merci e che, quindi, l’interesse di uno Stato è quello di sviluppare una flotta commerciale e di garantirne la sicurezza attraverso una marina militare sufficiente ad evitare che le rotte vengano distrutte da eventuali minacce esterne.

Queste due direttrici si sono tradotte da una parte con la volontà di esportare “progresso” attraverso investimenti e capitali, dall’altra di far si che questi investimenti fossero in Paesi rilevanti dal punto di vista delle rotte commerciali.

Con queste logiche l’amministrazione ottenne l’indipendenza di Panama dalla Colombia con annesso un trattato che autorizzava gli Stati Uniti a costruire e a controllare quello che diventerà in seguito il Canale di Panama nel 1913, fondamentale per ridurre i tempi delle rotte commerciali.

Per consolidare il proprio dominio sui Caraibi, poi, venne inserito l’emendamento Platt nella costituzione cubana. Tale emendamento sanciva i criteri per l’intervento negli affari cubani e consentiva agli Stati Uniti il mantenimento di una base navale a Cuba (Guantanamo).

Gli Stati Uniti hanno fatto ricorso a questo emendamento intervenendo in alcune faccende cubane nel 1906, nel 1912, nel 1917 e nel 1920. L’emendamento venne abrogato nel 1934 ma rimane ancora ad oggi il controllo della base militare di Guantanamo.

Gli Stati Uniti inoltre, assunsero il controllo delle finanze anche in tutto il territorio della Repubblica Domenicana e di Haiti – facendo ratificare a questi due Paesi l’emendamento Platt.

L’amministrazione di Woodrow Wilson (1913-1921) aveva intenzione di abbandonare l’intervento armato diretto in America Latina poiché non aveva portato i risultati sperati.

Ad esempio, poco prima della sua elezione vi fu un intervento in Nicaragua, che si concluse con l’ascesa del Generale Chamorro, dettato dalla necessità di tutelare i crescenti investimenti della United Fruit Company, dal 1984 Chiquita Brands, nella regione caraibica.

Per di più, già nel secondo decennio del ‘900 gli Stati Uniti erano riusciti a trasformare i Caraibi in un “Lago americano” e, per mantenere il controllo sulla zona, è stato necessario sostenere interventi armati.

Stessa sorte è toccata al Messico che ha visto la presenza di truppe armate dal 1914 fino al 1917, anno in cui si tennero nuove elezioni e si ratificò una nuova costituzione nella quale era facilmente riscontrabile un forte sentimento anti-americano.

Occorre mettere in rilievo che negli anni ‘20 l’influenza economica degli Stati Uniti era vastissima in America latina.

La United Fruit Company e la Standard Fruit Company (oggi Dole Fruit Company) infatti, controllavano la maggior parte dei profitti della regione. Queste due compagnie concorrevano per il predominio della regione e detenevano un forte controllo in Paesi che vennero definiti come le “repubbliche delle banane”, ovvero: Honduras, Costarica e Guatemala.

Più volte i giornalisti latinoamericani hanno accusato le compagnie di corrompere i governi nazionali per un trattamento preferenziale o per consolidare il proprio monopolio.

A ciò si aggiungono le accuse di degrado ambientale, di deforestazione, di drenaggio e impoverimento dei sistemi idrici e di devastazione della biodiversità.

Inoltre, spesso si praticava la monocoltura che, esaurendo la fertilità delle terre, alla fine portava al collasso economico oltre che alla dipendenza dall’esportazione di quel prodotto. Esportazione che spesso non creava profitto alla nazione.

Si pensi che a Cuba gli Stati Uniti erano titolari dei 2/3 della produzione di zucchero, praticamente l’unico prodotto dell’isola.

Questa logica riguardava anche le materie prime ed è così che gli Stati Uniti in Venezuela possedevano quasi la metà del petrolio e che in Cile il prezzo del rame, principale prodotto di esportazione, era direttamente deciso da Washington.

Occorre poi notare che una compagnia come la United Fruit Company non si occupava solamente di frutta ma aveva investito in ferrovie transnazionali e nelle telecomunicazioni. A ciò si aggiunga che, in questo periodo, l’America Latina riceveva il 20% dell’export totale degli Stati Uniti e nella maggior parte dei casi gli Stati dell’America latina esportavano fino anche al 90% della propria produzione negli Stati Uniti. In pratica, quella degli Stati latinoamericani era a tutti gli effetti una forte dipendenza economica.

L’impossibilità di portare stabilità nella regione e la necessità di avere governi “alleati”, oltre che al rafforzamento del Giappone nell’Oceano Pacifico, portarono gli Stati Uniti a sostenere i cosiddetti “Uomini forti” (come Batista a Cuba, la famiglia Somoza in Nicaragua e Truijillo nella Repubblica Domenicana).

Per questo con Franklin Delano Roosevelt (1933-1945) si instaurò quella che viene definita la politica del “buon vicinato” con personaggi “illustri” che si arricchivano ulteriormente mentre la popolazione era costretta a vivere nella povertà più nera.

Il folklore vede assegnare al Presidente americano la frase “Sarà pure un figlio di puttana, ma almeno è il nostro figlio di puttana”, che, al di là delle veridicità o meno della frase, rappresenta la figura dei dittatori, rappresentanti, o tutori, dell’influenza americana.

Caso particolare, però, fu quello del Messico che vide il raggiungimento di compromessi per gli attriti sul petrolio.

Con la costituzione del 1917 il Messico volle nazionalizzare le risorse, provocando l’allarme dell’azienda americana Standard Oil (da cui successivamente nacquero la ESSO e la Chevron).

In questo primo caso ci furono dei negoziati internazionali che si conclusero con l’attribuzione dei diritti di proprietà degli Stati Uniti in cambio del riconoscimento diplomatico del 1924.

Un secondo caso ci fu nel 1938 con la nazionalizzazione ad opera di Cardenas. Questa suscitò un’azione di Lobbying da parte della Standard Oil, che la vide accusare il presidente messicano di essere comunista.

Anche in questo caso ci furono nuovi negoziati che portarono nel 1941 al riconoscimento del diritto del Messico al controllo delle materie prime a fronte di un indennizzo da pagare all’azienda americana.

È da notare che ciò fu possibile solamente perché gli Stati Uniti si stavano preparando alla guerra ed avevano bisogno di alleati con molte materie prime. Ciò infatti fu dettato anche dal fatto che tra il ’30 e il ’40 erano aumentati gli acquisti del petrolio messicano da parte delle potenze dell’asse.

Sulla scia di tale ottica di “opportunità bellica”, Roosevelt tentò di consolidare il movimento panamericano.

Gli Stati Uniti sfruttarono l’attivismo dei nazisti in America latina (soprattutto in paesi come l’Argentina, il Brasile e l’Uruguay) per giustificare una maggiore cooperazione e per rivitalizzare l’Unione Panamericana nata nel 1910.

Fu così che con la dichiarazione di Panama del 1939 si delineò un perimetro di sicurezza intorno all’emisfero occidentale e si istituì un comitato di coordinamento economico. Ciò rese più facile agli Stati Uniti bloccare le transazioni tra l’America latina e i futuri nemici.

A ciò si aggiunse che gli Stati Uniti con la legge “affitti e prestiti” divennero, in un primo momento, “l’arsenale” della Gran Bretagna. Così facendo si garantirono i profitti della produzione bellica utilizzando le materie prime latinoamericane.

La situazione però peggiorò e gli Stati Uniti dovettero entrare in guerra trascinando con sé i Paesi dell’America latina. Questi ultimi erano fondamentali allo sforzo bellico per il facile accesso alle materie prime.

Fu così che i fuochi della guerra si fecero vividi in tutto il mondo rappresentando l’unica illuminazione di una lunga notte. In mezzo secolo gli Stati Uniti erano riusciti ad instaurare un rapporto controverso con una regione vastissima. Un rapporto inizialmente economico, poi politico e infine di necessità per la guerra contro le potenze dell’asse. Ma ora la nostra carovana deve riposarsi. Il viaggio è ancora lungo. I semi dell’antiamericanismo sono stati gettati e devono ancora germogliare. Tra poco riprenderemo il nostro viaggio…

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Vice-presidente Large Movements APS | Climate Change e Migration Specialist | Dottore in Relazioni Internazionali | Blogger in Geopolitica, Geoeconomia e tematiche Migratorie | Referente LM Environment

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Carovana (anti)americana: un amore geloso

La Carovana dei migranti sta bussando alle porte degli Stati Uniti per dirgli “è colpa vostra se siamo stati costretti a partire”. Il sole sta sorgendo e dobbiamo continuare il nostro viaggio nella storia. È la storia di un amore malsano tra gli Stati uniti e l’America Latina. È una storia lunga più di un secolo. È una storia che inizia nei primi del ‘900 con l’intento degli Stati Uniti di affermarsi come potenza regionale e mondiale e di trasformare i Caraibi in un agognato “Lago Americano”. È una storia che vede aumentare la dipendenza dell’America latina tra le due guerre mondiali. È una storia fatta di multinazionali, di investitori, di amministrazioni statunitensi, di organizzazioni internazionali, di dottrine, di rivoluzioni, di colpi di stato e del mito del Panamericanismo. È, ancora, la storia della guerra fredda, del narcotraffico, dei progetti allo sviluppo, della CIA e del terrorismo. La nostra Carovana, ora, può ripartire in un viaggio storico alla scoperta di una storia dove l’Antiamericanismo si è trasformato in speranza. Alla fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti si trovarono in una posizione forte rispetto all’America Latina. Il conflitto aveva reso virtualmente impossibili le transazioni commerciali tra i latinoamericani e il resto del mondo e la guerra aveva distrutto, o gravemente indebolito, la potenza delle Nazioni che avrebbero potuto rappresentare una timida minaccia alla supremazia americana nella regione. Roosevelt volle tradurre questo forte predominio in un’organizzazione internazionale e questo tema confluì nelle discussioni della Conferenza Panamericana di Chapultepec, Messico, del febbraio 1945. Qui si dichiarò che ogni attacco a un qualsiasi Stato americano rappresentava un attacco contro tutti gli Stati della regione. L’atto finale segnò il primo passo nella direzione di un’alleanza militare postbellica nell’emisfero occidentale. Tutti gli Stati della Conferenza di Chapultepec presero parte alla costituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu). Gli Stati Uniti erano fermamente convinti che, prima della conferenza, uno storico conflitto doveva essere sanato: quello tra la Dottrina Monroe – secondo cui gli Stati Uniti non tolleravano un intervento delle potenze europee negli affari dell’emisfero occidentale – e quello che avrebbe dovuto rappresentare l’internazionalismo dell’Onu. Originariamente infatti, l’Onu avrebbe dovuto avere forti poteri sulle questioni di carattere regionale e il problema risultava dal fatto che ogni intervento degli Stati Uniti nell’America latina sarebbe potuto essere impedito dal veto della Gran Bretagna o dell’Unione sovietica. Alla fine nello statuto dell’Onu si inserirono quattro articoli, dal 51 al 54, che negli effetti salvaguardavano la facoltà degli Stati Uniti di esercitare la propria influenza nell’emisfero occidentale senza infrangere le regole della nuova organizzazione. Gli articoli tutelavano il diritto delle organizzazioni collettive regionali di risolvere le dispute e optare per l’autodifesa individuale o collettiva. A questo proposito nel 1947, con gli Stati Uniti al loro apice di potenza, le Repubbliche Americane siglarono il trattato di Rio: un patto di difesa collettiva che divenne un modello per molte altre alleanze militari formate dagli Stati Uniti nel primo decennio della guerra fredda. Il trattato di Rio quindi legittimò l’intervento americano e diede una nuova enfasi internazionalista alla dottrina Monroe. Così nel 1951 venne costituita formalmente l’Organizzazione degli Stati Americani con lo scopo di promuovere azioni coordinate sul piano economico, politico e militare e per risolvere le dispute inter-americane. Vi era però un forte problema per gli Stati Uniti: i nazionalismi e l’Antiamericanismo erano crescenti nei paesi dell’America Latina. Per molti, la logica della dipendenza e il predominio nella sfera commerciale delle multinazionali americane erano considerati i principali responsabili dei gravi livelli di diseguaglianza. Ad esempio, nel 1950 il PIL dell’intera America Latina era un settimo di quello degli Stati Uniti a parità di popolazione. Sempre nello stesso anno l’America Latina rappresentava il 28% del totale delle esportazioni e il 35% delle importazioni Statunitensi. Si pensi, poi, che la quota americana sulle esportazioni di Cuba, Nicaragua e Guatemala era compresa tra il 70 e l’80% del totale. Nella pratica il “sud” dipendeva dal “nord” e questo trend era destinato ad aumentare durante la guerra fredda anche se lo sguardo statunitense era concentrato sull’Asia e l’Europa per allontanare l’Unione Sovietica. Un’altra questione importate era proprio l’Unione Sovietica. La politica adottata dagli Stati uniti fu quella del contenimento. Questa venne coniata da George Kennan nei confronti del comunismo nel suo complesso e il concetto cardine era quello di contenere l’URSS (ovvero far sì che rimanesse entro i suoi confini attuali) nella speranza che le divisioni interne, il fallimento o l’evoluzione del contesto politico potessero porre fine a quella che veniva percepita come la minaccia di una forza persistentemente espansionista. In quest’ottica è da ricordare il caso, nel 1951, del neopresidente del Guatemala Jacobo Arbenz Guzmàn, il quale provò ad introdurre un sistema di tassazione progressiva, un nuovo sistema di welfare e ad aumentare il salario dei lavoratori. A ciò aggiunse l’espropriazione di 400 mila terrenti agricoli non coltivati della United Fruit Company, compagnia americana con interessi in tutta l’America latina divenuta dal 1984 Chiquita Brands.   La reazione della compagnia fu quella di fare pressioni al governo americano con il risultato che l’amministrazione Eisenhower approvò un piano della CIA per rovesciare il regime con esuli guatemaltechi addestrati dagli stessi Stati Uniti in basi situate in Nicaragua e in Honduras.  Sempre su questa scia, tra il 1953 e il 1954, gli Stati Uniti si fecero sponsor di una risoluzione dell’Organizzazione degli Stati Americani in cui si dichiarava che il controllo da parte comunista di qualsiasi Paese dell’emisfero occidentale fosse una minaccia per la sicurezza di tutti i membri. La risoluzione venne approvata per 17 voti contro uno: il voto del Guatemala. Preso dall’ultima disperata mossa, Arbenz si rivolse al blocco sovietico alla ricerca di armi. Nel maggio 1954 arrivarono le armi di produzione cecoslovacca ma il mese successivo un piccolo contingente guidato da Castillo Armas attaccò dall’Honduras. Nel frattempo, gli aerei americani bombardavano Città del Guatemala. In questo modo le terre vennero restituite alla United Fruit Company, gli oppositori di sinistra vennero arrestati e il governo guatemalteco restò un leale sostenitore degli Stati Uniti. Un

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Il conflitto in Colombia: storia del soldato che si batte per la verità

Oggi inizia dicembre, ma il caldo non accenna a darci tregua. Mi trovo in Colombia, dove sono venuta a scrivere la tesi di laurea magistrale e, per caso o per destino, ho conosciuto M.: un soldato dell’esercito nazionale che si è congedato dopo sei anni di servizio. Da quell’incontro casuale in piscina lui si è dimostrato subito incuriosito nei confronti della mia palese provenienza europea. Da allora è venuto spesso nell’appartamento che condivido con altri studenti, per farci assaggiare i piatti tipici cucinati alla perfezione, per insegnarci a ballare la salsa e la cumbia in salotto, per condividere con sincero orgoglio le tradizioni del suo Paese. La condivisione è un tratto che contraddistingue i colombiani, e M. sembra voler condividere il più possibile con noi, specialmente il suo passato travagliato, la storia del suo Paese che tanto ama. Da quando gli ho spiegato che sto analizzando i contenuti dell’accordo di pace tra il governo e la guerriglia FARC, i suoi occhi si sono illuminati e mi ha confessato di essere stato un soldato dell’esercito proprio in quel conflitto che per più di 50 anni ha dilaniato la Colombia e che nel 2016 sembra aver raggiunto una tregua. Oggi è qui per raccontarmelo. Si siede vicino a me e mi versa un bicchiere di aguapanela appena preparata. Iniziamo.  LM: “Perché hai deciso di diventare un soldato dell’Esercito Nazionale della Colombia?”  M: “A 17 anni mi sono diplomato e mi sono ritrovato di fronte a un bivio. L’idea di poter scegliere la carriera militare mi è stata data da mia zia quando mi ha parlato del suo compagno, che era un sottufficiale dell’esercito. Mi ha spiegato che chi fa parte dell’istituzione gode di diversi benefici: uno stipendio fisso, la possibilità di studiare, l’assicurazione sanitaria, la pensione dopo 25 anni di lavoro. Inoltre, a me è sempre piaciuta l’attività fisica, infatti inizialmente mi sono iscritto all’università, alla facoltà di educazione fisica. Il giorno in cui reclutavano per entrare nell’esercito ho dovuto prendere la prima decisione: andare a fare il test militare o andare a dare un esame all’università. In realtà la scelta neanche c’era: se fossi andato all’università non avrei potuto essere stabile economicamente perché non avevo il sostegno dei miei genitori poiché mia madre non aveva un lavoro in quel momento, quindi ho deciso di arruolarmi. Sono entrato nell’esercito e ho fatto esami medici, psicologici, fisici e sono andati molto bene.” “Sono stato il primo in graduatoria di tutti coloro che li hanno sostenuti nella mia area. Ero anche uno dei più giovani.“ “La prima volta che sono arrivato nell’accademia militare la sensazione che ho provato è stato di voler tornare a casa. Abbiamo viaggiato in due autobus grandi, pieni di ragazzi. Dopo più di 2 ore di viaggio, erano le 4.30 di mattina, siamo arrivati e come siamo scesi dai bus un soldato ci ha ordinato di metterci a raccogliere tutte le foglie secche dal terreno. Non sono tornato a casa allora, avevo molti occhi puntati su di me: i miei amici del quartiere, la mia famiglia che diceva in giro: «M. se n’è andato»… Mi stavo mettendo alla prova, ma se queste aspettative non ci fossero state penso che sarei tornato subito a casa. In quel momento è iniziata una delle avventure che penso non potrò mai dimenticare nella vita, che è stato l’Esercito Nazionale.”  L’accademia militare: come si diventa un soldato dell’Esercito Nazionale della Colombia  M: “Sono stato nella scuola militare per 18 mesi. Il periodo si divide in tre semestri: prima sei una recluta, poi brigadiere e infine un dragone. Nell’ultimo semestre segui un corso di controguerriglia e ci sono prove che sono molto difficili, sono sfide. Lì le percepisci come sfide, ma quando esci e vedi la realtà dei fatti, ti accorgi che sono veri e propri abusi. Ti mettono moltissima pressione psicologica, fisica e alimentare, ti colpiscono con le doghe del letto se fai qualche errore, usano la violenza per insegnare. Ad un certo punto del mio secondo semestre ho reagito contro un capitano che era appena arrivato nella scuola. Noi dormivamo pochissimo, 3-4 ore al giorno, quando riuscivamo a dormire. La sera dovevamo fare le pulizie, e quel giorno stavamo pulendo i bagni il più velocemente possibile per poi andare a dormire. Il capitano è entrato nella stanza e ci ha ordinato di fare esercizi a terra mentre lui passava tra di noi e ci prendeva a calci. Si stava avvicinando a me quando gli ho detto che se mi avesse toccato mi sarei dimenticato che lui è il comandante e io uno studente. Mi ha messo comunque un piede addosso, allora io mi sono alzato, l’ho spinto via e me ne sono andato. Ho fatto rapporto al comandante della scuola. In quel periodo stavano uscendo notizie da tutta la Colombia che nell’esercito i superiori approfittavano del loro potere per maltrattarci, nessun soldato veniva risparmiato dall’abuso. Non succedeva solo da noi, ma in tutti i battaglioni era qualcosa di molto comune.” “La prima volta che ho sentito la storia del conflitto contro la guerriglia me l’hanno raccontata lì ma, dato che mi è sempre piaciuto approfondire per conto mio, mi sono informato sulla realtà del Paese.“ “L’impressione che ne ho tratto è che i ribelli della guerriglia si erano armati per rivendicare i loro diritti di essere ascoltati dallo Stato, e che avevano un modo diverso di pensare. Ma nell’accademia quello che ti insegnano è che devi odiarli, li devi uccidere e che deve scorrere sangue. Ci sono canzoni militari che dicono: «Voglio nuotare in una piscina piena di sangue, sangue di guerrigliero. Sangue! Sangue! Rosso! Rosso! Denso! Denso! Sangue di guerrigliero!» queste canzoni lavorano la mente di tutti gli studenti della scuola e molti ne escono con quel desiderio, con quella sete di sangue. Grazie alla vita, grazie a Dio, io non sono uscito con quella sete di uccidere, perché non mi piace fare del male ad altre persone.” Il conflitto in Colombia: il debutto di M. come soldato regolare M: “Quando ho finito i tre semestri nella scuola sono uscito come comandante

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La condizione delle donne in Perù sta migliorando grazie alle riforme

In Perù, come in gran parte dei Paesi dell’America Latina, la parità di genere all’interno della società è impedita dalla presenza del fenomeno del machismo. Nonostante le donne possano godere dei diritti di base, come quello di voto e di proprietà, nella struttura stessa delle comunità è presente un fattore culturale e sociologico che ostacola l’emancipazione delle donne in tutti gli ambiti della società: il machismo, appunto. Questo fenomeno, largamente diffuso in tutto il continente (ma anche nel resto del mondo), è identificabile nel tasso di alfabetizzazione, nella difficoltà di accesso alla professione ed alla sanità e nella scarsa partecipazione politica delle donne peruviane, ed è maggiormente presente nelle zone rurali del Paese. Nelle zone più remote, dove le differenze sociali tra i due generi raggiungono il loro picco, gli stereotipi machisti fanno breccia nella coscienza comunitaria molto più che nelle grandi città. È qui che la maggior parte della popolazione associa la donna alla sfera domestica, assegnandole, forse inconsciamente, il ruolo di madre e moglie, e togliendole così il diritto di scegliere il proprio destino. Fin dalla tenera età, le bambine peruviane perdono l’aspirazione ad uno stile di vita diverso da quello tradizionale, ed il loro rendimento scolastico ne risente. Nei centri abitati più piccoli è estremamente difficile incontrare una donna in posizioni di potere, sia nella professione che nella politica. La carenza di esempi da imitare rafforza la convinzione che la donna debba rinchiudersi nel focolare domestico, lasciando ai soli uomini la possibilità di intraprendere una carriera professionale. Secondo le stime di Statista, nel 2021, il Perù si è classificato 17° nell’indice di divario di genere (Gender Gap Index), su 26 Paesi dell’America Latina. Procederemo ora ad analizzare la possibilità di accesso della donna peruviana ai vari ambiti della società, evidenziando quelli in cui il machismo è preponderante nell’impedire la parità di genere. Istruzione, professione e politica: analisi del divario di genere Nel 2020 un’inchiesta di the World Bank ha registrato in Perù una differenza di 5 punti percentuali tra l’alfabetizzazione maschile (97% circa), e quella femminile (92%) nella popolazione superiore ai 15 anni di età. Entrambi le percentuali, sebbene si mantengano in crescita, hanno conosciuto un rallentamento nell’ultimo anno di pandemia da COVID-19, in cui la popolazione si è vista costretta a rinunciare all’istruzione per far fronte alla crisi che ne deriva. Il divario di genere è maggiore nelle zone rurali ed all’interno delle comunità indigene che parlano le lingue native; tuttavia anche qui si assiste ad un miglioramento grazie alle riforme delle leggi consuetudinarie degli ultimi decenni, che stanno aprendo il mondo professionale alle nuove generazioni di donne, spronandole quindi a proseguire gli studi. Dopo la promulgazione di queste riforme anche la percentuale di partecipazione delle donne alla forza lavoro è migliorata, raggiungendo il 70.6% dello scorso anno, secondo le stime dell’International Labour Organization. Il Perù illustra come le riforme legali – soprattutto se accompagnate da un calo della fertilità – possano effettivamente guidare un aumento della partecipazione femminile al mondo del lavoro e dell’inclusione finanziaria, portando benefici anche al PIL del Paese. Tuttavia, i vincoli economici e culturali continuano a limitare le opportunità professionali delle donne. Nonostante il Paese vanti uno dei divari di genere più esigui dell’America Latina per quanto riguarda l’accesso all’impiego, le donne peruviane tendono ad essere relegate allo svolgimento dei lavori meno pagati come l’infermieristica e l’insegnamento. Per di più, le responsabilità domestiche e le necessità di cura dei famigliari limitano ulteriormente le loro opzioni di lavoro. Nel 2015 le donne hanno guadagnato circa il 19% in meno degli uomini per reddito orario; divario che aumenta ulteriormente se consideriamo le donne indigene. Nelle comunità povere, rurali ed indigene infatti, prevalgono i lavori tipici dell’economia informale, formata da piccole e medie imprese a conduzione familiare (solamente il 30% di queste imprese sono formali). Questo significa che gran parte delle donne si affacciano in una posizione di estrema vulnerabilità nei confronti dei rischi del mercato. Queste donne infatti, restano escluse dalle politiche governative per promuovere e proteggere l’impiego femminile, e dall’alfabetizzazione finanziaria – necessaria per sviluppare concretamente le loro attività e/o farle rientrare nell’economia formale. I dati del governo mostrano che il 60% di tutte le lavoratrici del Paese continuano a lavorare nell’economia informale, e solo il 15% ha una copertura sanitaria, mentre solo il 4% gode di benefici pensionistici. Il Paese vanta una politica di congedo di maternità di novantotto giorni e altri programmi per sostenere le madri lavoratrici, tuttavia le donne che lavorano nel settore informale non ne beneficiano. Per quanto riguarda la situazione politica, le donne hanno guadagnato il diritto di voto in Perù nel 1955, uno degli ultimi Paesi della regione Latino-americana. Nonostante ciò, il Paese sta avanzando concretamente sulla strada della rappresentanza politica paritaria attraverso la promulgazione di riforme che hanno reso obbligatori i criteri di parità e di alternanza dalle elezioni generali del 2021. È a partire dall’approvazione della legge n. 31030 che le liste presidenziali devono avere almeno una donna o un uomo nella loro composizione, posti in modo alternato, con l’obiettivo di raggiungere un sistema di pari rappresentanza nella composizione e nell’agenda politica entro il 2031. Attualmente ci sono diverse strategie impiegate per monitorare l’implementazione della legge e la partecipazione femminile. Uno degli strumenti creati a questo proposito è la Línea de Investigación de la Dirección Nacional de Educación y Formación Cívica Ciudadana (DNEF), che analizza le informazioni sui processi elettorali al fine di migliorarne la diffusione tra i cittadini e i media, con l’obiettivo di influenzare il rafforzamento del sistema politico e della democrazia. Secondo un’inchiesta realizzata lo scorso marzo dalla DNEF, le scorse elezioni parlamentari hanno visto la presenza di 3 donne su 16 posizioni nel Congresso andino. La proporzione ha conosciuto un miglioramento negli ultimi anni grazie alle quote elettorali. Tuttavia occorre evidenziare che le posizioni ricoperte da donne nelle liste elettorali si mantengono di basso livello. Sicurezza e sanità per le donne: le note dolenti del Gender Gap in Perù La violenza contro le donne è un fenomeno preoccupante in

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“SOS Colombia”: la repressione silenziosa di un popolo stanco

SOS Colombia è lo slogan intonato dai manifestanti silenziati con la forza dalla polizia in occasione delle proteste contro il governo. Il 28 aprile scorso, infatti, centinaia di migliaia di cittadini colombiani sono scesi nelle piazze e nelle strade delle città per protestare contro le nuove riforme proposte dal governo di Iván Duque. Dopo pochi giorni dall’inizio delle manifestazioni pacifiche, le forze di polizia e le forze speciali hanno attaccato i civili, dando il via ad una repressione violenta che è proseguita indomita per oltre due mesi. Dove eravamo rimasti Con Large Movements abbiamo ampiamente parlato della Colombia, evidenziando luci ed ombre dell’attualità socio-politica ed economica di questo Paese posizionato al nord dell’America Latina, in un luogo strategico per le connessioni tra il continente e la superpotenza statunitense. Oggi riprendiamo il discorso perché la tregua tra il governo e la guerriglia FARC-EP siglata nel 2016 rischia di rivelarsi uno specchio per le allodole per tutti coloro che vogliono vivere in pace in un Paese che da oltre 60 anni si fa la guerra. Ed è proprio dalla narrazione sulla pace e sulla guerra, per noi raccontata da M., che l’ha vissuta sulla sua pelle, che riprendiamo a parlare della Colombia, perché mai come adesso è necessario farlo. Nel 2018 sale alla presidenza colombiana Iván Duque Márquez, personaggio asceso dalle fila di Uribe, il “Signore della Guerra”. La politica di Duque si dimostra da subito in contrasto con quella di Santos, suo predecessore e fautore degli accordi di pace di due anni prima. La tensione interna al Paese torna presto a salire, e dal novembre del 2019 i cittadini dimostrano il loro malcontento con le prime manifestazioni pubbliche contro il governo. Il Covid in Colombia: la risposta del governo Lo scoppio della pandemia da COVID-19 ha significato un collasso del sistema sanitario colombiano, ed una gestione dell’emergenza sanitaria poco efficiente a livello nazionale. Nonostante i tentativi di arginarne la diffusione portati avanti dai singoli comuni, il virus ha colpito ad oggi quasi 5 milioni di persone, causando oltre 120 mila vittime e facendo della Colombia il terzo Paese del continente per numero di decessi associati al nuovo virus. Sicuramente la responsabilità del fallimento del sistema sanitario ricade sul governo e sui poteri politici, ma parte della colpa è attribuibile ai cittadini che non hanno rispettato le norme di sicurezza messe in atto dai poteri centrali, in segno di forte sfiducia nei confronti di questi. I numeri associati alla crisi economica conseguente al lockdown sono spaventosi: a maggio 2020 il livello di disoccupazione ha raggiunto il 21,4%, con oltre 5 milioni di persone che hanno perso il lavoro in un solo mese. Lo stop di gran parte delle attività commerciali ha colpito maggiormente la classe medio-bassa, andando a gravare sul divario di ricchezza già imponente in Colombia. Per fronteggiare l’emergenza il governo centrale ha investito il 4.1% del PIL in aiuti e forme di finanziamento per le categorie più vulnerabili della popolazione, ampliando così il debito pubblico del 15% circa (dati aggiornati ad aprile 2021, secondo il Fondo Monetario Internazionale). L’aumento vertiginoso del debito pubblico costituisce un grande problema per un Paese che negli ultimi decenni ha faticato molto per migliorare la propria presenza nel quadro economico e finanziario internazionale. L’aumento del divario nelle finanze del governo mette a repentaglio la fiducia che le agenzie di rating hanno nella capacità della Colombia di pagare il suo debito, con un crollo dei finanziamenti esteri che ne potrebbe conseguire. La proposta di riforma del sistema tributario Per far fronte alla situazione allarmante, a distanza di appena un anno dal dilagare della prima ondata di pandemia nel Paese, il presidente Duque ha presentato un progetto di riforma del settore tributario (la terza del suo mandato), stavolta accompagnata da una proposta di cambiamento del servizio sanitario nazionale. L’obiettivo prefisso – da molto considerato ambizioso – è di recuperare il 2% del PIL e di privatizzare il settore sanitario, lasciando esclusi i più poveri da un servizio di qualità. Le modifiche alle imposte si articolerebbero in due modalità: da una parte ampliando la base dei contribuenti in base al reddito ed a partire da chi guadagna circa 700 dollari americani al mese; dall’altra estendendo l’imposta sul valore aggiunto (IVA) di alcune categorie di prodotti, tra cui quelli elettronici e del trasporto. Tra le varie proposte, il Ministero delle Finanze presenta quella di inserire una “tassa temporanea e di solidarietà” per chi possiede un patrimonio superiore a 1,3 milioni di dollari, dell’1% o del 2% in base alla portata del patrimonio stesso. Se da un lato si vuole tassare la ricchezza, dall’altro si avanza la proposta di creare un reddito di cittadinanza come ammortizzatore sociale, nonché di rendere permanenti i programmi sociali creati con la pandemia. Per quanto, all’apparenza, la riforma andrebbe a gravare maggiormente sulla classe medio-alta, il ceto più povero non ne resterebbe immune. Questo, costituito in gran parte da persone che vivono alla giornata ed appena in grado di procurarsi di che mangiare, si è letteralmente ridotto alla fame con la chiusura delle attività e l’imposizione della quarantena nazionale. Pertanto, il progetto di riforma presentato da Duque è stato interpretato dalla popolazione come un altro colpo alla povertà del Paese. Ma non solo: questa terza riforma fiscale rappresenterebbe l’ennesima promessa non mantenuta dal presidente, che in campagna elettorale aveva dichiarato che non avrebbe aumentato la pressione fiscale, ma anzi che avrebbe potuto addirittura diminuirla. SOS Colombia: proteste pacifiche e repressioni violente Dopo la presentazione pubblica del progetto di riforme, la popolazione ha reagito. Sull’onda delle prime proteste contro il governo del 2019, i cittadini si sono organizzati in marce di dissenso e manifestazioni pacifiche nelle città della Colombia. Precisamente il 28 aprile del 2021, i cittadini si sono riversati nelle strade, chiedendo la revoca dei progetti di riforma e piuttosto dell’istituzione di un reddito di base universale al livello del salario minimo nazionale; aiuti aggiuntivi alle piccole imprese e la proibizione dell’utilizzo del glifosato negli erbicidi, che sta impoverendo il terreno e mettendo sul

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Resistere al Covid e alle politiche di Bolsonaro: la condizione delle popolazioni indigene brasiliane

Cosa ci viene in mente quando pensiamo alla pandemia dovuta al virus COVID-19? Innanzitutto, alle migliaia di morti che ha causato in tutto il mondo e successivamente al lockdown, che ha costretto ognuno a rimanere rinchiuso nella propria abitazione, sottoposto a restrizioni della propria libertà di movimento per limitare i contagi. Questa condizione ha portato molti a concentrarsi sulla esperienza drammatica del proprio Paese, mettendo da parte ciò che accadeva (e purtroppo continua ad accadere) dall’altra parte del mondo. Infatti, la bassa attenzione rivolta alle categorie più vulnerabili ha permesso ad alcuni governi centrali di esercitare ancor più pressioni verso le stesse, come nel caso del Brasile verso le popolazioni indigene, le quali si sono ritrovate a dover affrontare delle sfide più grandi di quelle a cui erano già sottoposte. L’anno peggiore per i territori indigeni: tra lotta al Covid e interessi economici Non è un caso che il 2020 sia risultato l’anno peggiore per le Indigenous Land e Conservation Units dal 2008: ben 188 000 ettari di foresta sono stati completamente distrutti nei territori appartenenti alle popolazioni indigene del Brasile. Questa moltitudine di popolazioni (circa 170 etnie differenti) vive in vaste riserve protette che rappresentano il 13,8% del territorio nazionale, in buona parte concentrato in Amazzonia. La deforestazione è un attacco diretto da parte delle lobby verso la sopravvivenza delle popolazioni indigene, alle quali vengono sottratte tutte le terre che non rientravano sotto la loro giurisdizione o erano disputate prima del 5 ottobre del 1988, data in cui fu emanata la Costituzione brasiliana. Ciò dimostra le chiare intenzioni del governo brasiliano, seguito dal FUNAI (Fondazione nazionale dell’Indio, organo del governo brasiliano preposto all’elaborazione e all’implementazione delle politiche riguardanti i popoli indigeni) e dal Commissario della Polizia Federale a contrastare qualsiasi demarcazione di nuove terre indigene. Proprio il presidente del FUNAI, il cui ruolo dovrebbe essere quello di mappatura, protezione e prevenzione di invasioni dei territori indigeni, ha esordito: “(…) servirà smettere di incoraggiare gli indigeni a formare cooperative per sviluppare attività economiche sulle loro terre. Una delle nostre priorità sono le attività minerarie.” È quindi evidente che la visione colonialista verso persone e risorse è alla base della politica brasiliana da decenni, con un certo peggioramento negli ultimi anni in cui, con il penultimo presidente Michel Temel (2016-2019) e successivamente con l’attuale Jair Bolsonaro (2019-oggi), solamente una approvazione di terre destinate alle popolazioni indigene è stata concessa (e non durante il mandato del presidente in carica). A quanto pare gli interessi puramente economici sovrastano di gran lunga le esigenze di autonomia e tutela di popolazioni che, al contrario, si propongono come difensori della natura e dell’equilibrio degli ecosistemi. Anzi, queste persone vengono percepite come il maggiore ostacolo allo sviluppo neoliberale del paese, in preda alle logiche di deturpazione di terre, land grabbing e razzializzazione delle popolazioni autoctone. I fattori elencati influiscono negativamente sugli effetti del COVID19 su queste specifiche popolazioni, come è stato pubblicato nell’articolo scientifico del 12 aprile 2021 di “Frontiers in Psychiatry”. Lo scarso accesso ai servizi sanitari per le popolazioni indigene brasiliane La condizione di estrema vulnerabilità delle popolazioni indigene è estremizzata dalla pandemia del Coronavirus, la quale ha ridotto ulteriormente i diritti di questi individui come singoli e come comunità, soprattutto limitandone l’accesso alle cure non solo all’interno delle terre indigene ma anche escludendo dalla copertura sanitaria coloro che vivono nelle aree urbane, giustificando la scelta come a favore di cure più vicine alla tradizione culturale indigena. Tali disposizioni sono state predisposte direttamente dal Ministro della Salute e dal suo Ministero (MOH), aggravando la situazione soprattutto nella zona dell’Amazzonia, dove vive il maggior numero di etnie. Non solo, oltre alle cure negate o quasi inesistenti, il MOH ha registrato 22 127 casi e 330 morti tra le popolazioni indigene, riportando dei dati fallati come dimostrato da quelli raccolti dal COIAB (Coordinamento delle Organizzazioni Indigene dell’Amazzonia Brasiliana) dove i casi di infezione ammontano a 25 356 e quelli di morti a 670 (più del doppio). In linea con quanto appena esposto, è il caso di ricordare che, nel pieno della pandemia a gennaio 2021, con in media 1293 contagi giornalieri nel paese, Bolsonaro considerava il virus causa di un “semplice raffreddore” e ha rifiutato di applicare i protocolli consigliati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Il risultato di tali scelte è che le disuguaglianze tra le popolazioni indigene e il resto della popolazione sono state accentuate, aggravando la posizione delle prime rispetto alla seconda in quanto esposte a rischi più elevati di infezioni, morti e con limitate risorse in grado di curare i malati da COVID19. Fortunatamente il COIAB ha messo in atto l’Emergency Action Plan, una serie di azioni di prevenzione, guida e sostegno in risposta alla pandemia che sono di grande aiuto per le popolazioni indigene. In un Paese come il Brasile, le popolazioni indigene sono inquadrate come gli ultimi degli ultimi, in ogni campo, compreso quello sanitario, dove lo scopo dovrebbe essere in ogni caso la salute pubblica al fine di tutelare il benessere di una intera nazione e dell’umanità. A tal proposito, Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore dell’OMS, ha rivolto l’attenzione proprio alle popolazioni indigene, in concomitanza con l’aggravarsi della crisi sanitaria in Brasile, suggerendo di dare priorità all’applicazione di misure concrete che assicurino la protezione di queste popolazioni e la creazione di un fondo di emergenza. In Brasile, il governo ha agito controcorrente a quanto raccomandato dall’OMS, smantellando il sistema sanitario e non garantendo alcun dispositivo di sicurezza agli operatori sanitari che si sono occupati attivamente di curare le popolazioni indigene. Le notizie più recenti riguardano la fase di vaccinazione che, in tutto il Paese e in particolare in Amazzonia, non è ancora iniziata o procede a rilento, con conseguenze per tutto il mondo, poichè la mancata vaccinazione è veicolo di nuove varianti del virus. Un elemento non così evidente ma sicuramente presente e da non sottovalutare è il fatto che la pandemia ha consolidato il razzismo nei confronti delle popolazioni indigene, permettendo la violazione incontrollata di numerosi loro diritti finora garantiti

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Land Grabbing Piantagione

Il Brasile e l’Ossimoro degli Agricoltori Senza Terra: Le Nuove Frontiere del Land Grabbing.

Immagina di avere una fattoria, tua da generazioni, dove insieme ad altre famiglie coltivate la terra ed usate quei prodotti per provvedere al sostentamento tuo e della tua famiglia. Ora immagina di far parte di una popolazione indigena, vivi in Amazzonia, conosci il mondo al di fuori ma rimani legato alle tue tradizioni ed al rispetto ed alla protezione della natura intorno a te, come i tuoi antenati hanno fatto per generazioni prima di te. Consideri inoltre sacra quella terra su cui cammini perché ricolma della storia stessa dei tuoi antenati. Infine, immagina che la terra con cui provvedi al sostentamento della tua famiglia, oppure, la terra sacra per i tuoi antenati ti venga estirpata, strappata dalle tue mani in meno di ventiquattro ore. Non riesci nemmeno a difenderti a riguardo perché hanno usato degli stratagemmi legali per riuscire a rubarti la terra. Tutto ciò che rimane è la tua casa. Quella non la possono abbattere, l’unico problema è che ora non puoi più mangiare. Inoltre, i campi dove potevi coltivare, quella terra per te sacra ormai è nelle loro mani. Tutta la bellezza che trovavi su di essa, data anche dalla vasta diversità di colture che lavoravi è ormai persa. Soppiantata, al suo posto, da un immensa vastità di soia o canna da zucchero. Questa è la realtà che vivono centinaia di agricoltori in Brasile. Una realtà causata dal fenomeno del land grabbing – che potete trovare spiegato qui. Un fenomeno che da più di dieci anni ha cambiato la faccia dell’agricoltura brasiliana. La crisi finanziaria del 2008, e nello stesso anno, la crisi alimentare che ha colpito vaste regioni del mondo, ha messo in luce la posizione strategica del Brasile. La disponibilità delle risorse naturali, essenziali a soddisfare i bisogni della popolazione di tutto il mondo dal 2008 è rientrata prepotentemente all’interno dell’agenda internazionale. Quindi, paesi abbondanti di queste risorse, come il Brasile, hanno guadagnato una posizione strategica grazie alla loro capacità di fornire cibo per soddisfare la crescente domanda mondiale. Le corporazioni agroalimentari, non che un cospicuo numero di paesi, preoccupati per la loro sicurezza alimentare e per la loro dipendenza dai mercati alimentari internazionali, hanno quindi deciso di acquisire terreni agricoli in giro per il mondo per produrre cibo da esportare. Nel 2012, la Land Matrix Partnership, ha identificato oltre 1200 affari da parte di investitori stranieri per l’accaparramento della terra che coprono 83,2 milioni di ettari, ossia l’1,7% dei terreni agricoli del mondo. Oltre il 60% di questi accordi sono stati siglati in Africa. Si può quindi affermare, che il land grabbing globale è un trasferimento massiccio di risorse vitali per la produzione di cibo dalle comunità rurali ad una ricca élite globale. Tramite questi affari, famiglie ed intere comunità stanno perdendo le loro fattorie e le loro foreste, ed i loro sistemi agricoli e pastorali, che producono cibo per la popolazione locale, vengono spazzati via per far posto a vaste piantagioni industriali che producono cibo per l’esportazione. Molti di questi affari, stanno accadendo in paesi dove l’insicurezza alimentare e l’accesso alla terra, al cibo ed all’acqua sono già criticità che i paesi stanno affrontando. Inoltre, gli agricoltori a cui viene strappata la terra vengono raramente consultati, in quanto molti di questi affari vengono conclusi a porte chiuse fra gli ufficiali del governo e gli investitori stranieri. In Brasile, le corporazioni che vogliono investire nella terra ricorrono a dei processi illegali di land grabbing conosciuti come “grilagem” per acquisire le terre e stabilire le piantagioni anche nell’altopiano delle chapadas. Grilagem, che letteralmente definisce l’accaparramento illegale delle terre, implica l’uso di connessioni politiche e documenti falsi per rivendicare i titoli terrieri. Alcuni casi, definiti supergrilagem, superano addirittura il milione di ettari di terra accaparrata. Questa pratica è diffusa soprattutto nella regione del MATOPIBA – un’area che abbraccia quattro Stati, rispettivamente Maranhão, Tocantins, Piauí e Bahia, dove al suo interno troviamo il bioma del Cerrado, una grande savana tropicale ricca per la sua biodiversità. La metodologia utilizzata dai land grabbers è quella di recintare le terre delle chapadas, sfrattare i suoi abitanti, dispiegare delle forze di sicurezza privata al fine di trattenere le comunità che precedentemente abitavano al di fuori di queste terre e poi acquisire la proprietà tramite la corruzione dei notai o di qualche funzionario del governo. Infine, l’intento di questi cosiddetti grileiros è di vendere le terre che hanno accaparrato ad altri individui o corporazioni che susseguentemente vi stabiliranno delle piantagioni di soia o canna da zucchero. Per le comunità locali è molto difficoltoso rivendicare le proprie terre, in quanto la legge brasiliana non riconosce diritti di proprietà sulle terre alle comunità ancestrali. Dette terre, infatti, vengono riconosciute come suolo pubblico, proprietà dello stato sulla quale le comunità tradizionali possono risiedere. È esattamente sulla base di questa contraddizione giuridica che si giustifica legalmente il land grabbing. Inoltre, di solito, i grileiros ricorrono alla violenza verso individui che potrebbero tentare di opporre resistenza. Di fatto, ci sono numerose segnalazioni di coercizione e minacce, aggressioni e persino di decessi avvenuti per mano dei grileiros e dei loro scagnozzi. Tuttavia, la perdita di accesso alle terre che deriva dal fenomeno del land grabbing non è l’unico problema. Infatti, senza le risorse della terra delle chapadas molte piccole comunità agricole hanno perso tutti i mezzi di sostentamento e si sono dovute trasferire nelle città per cercare lavoro o nelle pericolose miniere di diamanti. Le piantagioni, infatti, garantiscono pochi posti di lavoro solo quando inizialmente è necessario sgomberare la terre, poi, la forma di produzione estremamente meccanizzata non lascia molti posti di lavoro disponibili. Inoltre, una volta espropriate le terre, le piantagioni intensive adottate e la conseguente perdita estrema di biodiversità nelle chapadas hanno l’effetto di distruggere anche le foreste e le paludi, provocando così il prosciugamento dei fiumi della regione. Questo è il quadro in cui le comunità tradizionali devono sopravvivere, ciononostante, la mancanza di cibo ed acqua non è l’unico problema. Infatti, la scarsità di acqua dei fiumi non ancora essiccati che arriva a queste comunità

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