Uganda: Porto Sicuro o Polvere sotto al Tappeto? Ne parliamo con Maëlle Noir

Sentiamo spesso parlare del conflitto nella Repubblica Democratica del Congo, come in Sud Sudan o delle continue violenze e rappresaglie in Repubblica Centraficana. Sappiamo gravemente poco, però, delle persone che scappano da questi conflitti, dei rifugiati, delle loro condizioni, e soprattutto delle condizioni delle donne che si ritrovano a fuggire per salvare le proprie vite e le proprie famiglie. Per questo oggi vorremmo porre l’accento su una parte spesso tralasciata nelle narrative dei conflitti: le persone che sono spinte a fuggire da questi contesti e che nella stragrande maggioranza dei casi, contrariamente a quanto spesso viene falsamente sostenuto, rimangono in Africa cercando asilo in Stati confinanti e non scelgono di affrontare il pericolossissimo viaggio verso l’Europa. Uno dei Paesi africani che accoglie una grande quantità di persone in fuga è l’Uganda.

Oggi ne parliamo con Maëlle Noir, dottoranda dell’Irish Research Council presso l’Irish Centre for Human Rights dell’Università di Galway. La sua ricerca affronta la questione della violenza nei confronti delle donne rifugiate attraverso una prospettiva femminista intersezionale e decoloniale, esplorando la rilevanza di un approccio femminista al diritto come alternativa alla prassi legale nel contesto dei rifugiati urbani ugandesi.

Maëlle ha una vasta esperienza nel campo dell’advocacy e della ricerca comunitaria, poiché negli ultimi cinque anni ha lavorato con diverse organizzazioni nazionali e locali della società civile in India, Irlanda, Francia e Uganda.  È anche assistente di ricerca part-time nell’ambito del progetto Horizon dell’Unione Europea su democrazia e politica, collaborando con ricercatori in Slovacchia, Austria, Italia e Irlanda.

Ciao Maëlle, è un piacere averti qui con noi. Innanzitutto, vorrei chiederti della popolazione rifugiata che raggiunge l’Uganda. Quali sono le principali nazionalità che chiedono asilo in Uganda, qual è la procedura per richiedere asilo nel Paese e dove sono accolti i rifugiati?

È importante iniziare dicendo che in Uganda risiedono oltre 1,5 milioni di rifugiati, cifra che ne fa la prima popolazione di rifugiati in Africa e la quarta al mondo. Ciò si spiega con la posizione geografica dell’Uganda, crocevia di diverse zone di conflitto nei Paesi vicini, tra cui la Repubblica Democratica del Congo (RDC), il Sud Sudan, la Somalia, l’Etiopia, il Burundi, l’Eritrea, il Ruanda, ecc. L’Uganda ha anche una lunga storia di “politica di porte aperte”, sostenuta finanziariamente e politicamente dal Nord globale che sostiene lo Stato nell’accogliere i rifugiati in fuga dai conflitti e dalle persecuzioni.

Per quanto riguarda la nazionalità, il Sud Sudan, la Repubblica Democratica del Congo e la Somalia sono i Paesi di origine predominanti per i rifugiati in Uganda, in quanto costituiscono rispettivamente il 57,1%, il 32% e il 4,1% della popolazione totale rifugiata. Tuttavia, quando si tratta di rifugiati urbani, solitamente localizzati nella capitale Kampala, nella parte meridionale del Paese, questi sono principalmente Somali, Congolesi, Eritrei, Sud Sudanesi, Burundiani ed Etiopi.

Il Refugee Act ugandese del 2006 amplia la definizione di rifugiato fornita dalla Convenzione sui Rifugiati del 1951 e dalla Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana del 1969 che disciplina gli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa, includendo il criterio del genere. Pertanto, chiunque si trovi al di fuori del proprio Paese d’origine, a causa di aggressioni esterne, occupazione, dominazione straniera od eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico, ed abbia il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale, opinione politica o genere, può ottenere lo status di rifugiato.

La procedura per richiedere asilo in Uganda varia a seconda che il richiedente asilo desideri stabilirsi in un campo (che spesso viene concesso sulla base dello status di rifugiato prima facie o “automatico” ossia, di gruppi di persone che provengono da uno Stato che l’UNHCR ha riconosciuto soddisfare i requisiti oggettivi che giustificano la presupposizione dello status di rifugiato. Per queste persone dunque, dovrebbe essere più semplice e veloce ottenere lo status perché l’onere probatorio della situazione nel Paese di origine è del tutto inesistente. Si sono intenzionalmente lasciate le virgolette sul termine automatico però, perché nella realtà questa presunzione non viene quasi mai applicata) o in città (rifugiato non prima facie, al contrario, individui non appartententi alla modalità “automatica”), ma in entrambi i casi rimane relativamente semplice. Per lo status di rifugiato “automatico”, i richiedenti asilo che raggiungono il confine vengono trasferiti in uno dei numerosi centri di accoglienza del Paese per un breve colloquio con un agente dell’Ufficio del Primo Ministro (OPM) prima della registrazione e dell’ottenimento dello status di rifugiato. Questo processo dura da pochi giorni ad un massimo di un paio di settimane, a meno che non ci sia un afflusso particolarmente importante di rifugiati. È più difficile ottenere lo status di rifugiato “non-automatico”, soprattutto per potersi stabilire in una città. Il richiedente asilo deve registrarsi presso l’OPM e sottoporsi a una serie di colloqui con diversi interlocutori, tra cui un ufficiale di polizia e un funzionario dell’OPM incaricato di esaminare lo status, seguiti da un esame finale del caso da parte del Comitato per l’ammissibilità del rifugiato. Secondo l’UNHCR, nel 2022 circa l’87,5% delle domande di status di rifugiato è stato accolto. A titolo di confronto, nel 2022 in Italia oltre l’80% dei richiedenti asilo si è visto negare lo status di rifugiato.

Parlando dei campi profughi ugandesi, quali sono le condizioni di accoglienza nei campi?

L’Uganda è spesso elogiata dalla comunità internazionale e dai media per le sue condizioni di accoglienza esemplari che favoriscono un “porto sicuro” o addirittura un “paradiso” per i rifugiati.

In effetti, sulla carta e in conformità con il Comprehensive Refugee Response Framework, i richiedenti asilo che hanno ottenuto lo status di rifugiato ricevono automaticamente un appezzamento di terreno da coltivare, l’accesso all’istruzione ed all’assistenza sanitaria gratuita, nonché il diritto al lavoro ed alla libertà di movimento.

Tuttavia, sappiamo che la teoria di solito differisce drasticamente dalla pratica ed è il caso anche del contesto dei rifugiati in Uganda. La politica di non confinamento (non-encampment policy), apparentemente progressista, promossa dal Comprehensive Refugee Response Framework, non è molto ben attuata in quanto la libertà di movimento rimane condizionata all’ottenimento di un permesso rilasciato dall’OPM e dall’UNHCR. Nell’insediamento, il sussidio monetario ammonta attualmente a 13.000 scellini ugandesi al mese, pari a circa 3,50 euro. I servizi sanitari e scolastici sono sottofinanziati e insufficienti, quindi non tutti hanno accesso ad un’assistenza sanitaria ed un’istruzione adeguate. Inoltre, gli insediamenti sono descritti come luoghi di violenza elevata, soprattutto contro le donne e le comunità LGBTQ+. Sono stati segnalati anche casi di violenza di genere e sfruttamento sessuale perpetrati da operatori umanitari incaricati di ripartire le risorse.

Il messaggio promosso dalla comunità internazionale sull’Uganda e sulle sue politiche di non confinamento quale “porto sicuro” per i rifugiati riflette anche un discorso coloniale e razzista perpetrato nel Nord del mondo.  Un esempio delle “eccezionali condizioni di accoglienza” in Uganda che viene spesso presentato, soprattutto dai media occidentali, è l’assegnazione gratuita ai rifugiati di un appezzamento di terra, riducendo l’unica attività professionale degli stessi all’agricoltura. 

Le informazioni fornite qui sopra non si basano sull’osservazione, poiché la mia ricerca si concentra esclusivamente sui rifugiati urbani, ma derivano da letteratura scientifica e dalle testimonianze fornite dagli intervistati della mia ricerca che sono fuggiti dagli insediamenti in cerca di una vita più pacifica e priva di violenza.

A questo proposito, puoi parlarci dell’accesso all’assistenza per i casi di violenza di genere e se e quali sono le politiche in atto nel Paese che possono ostacolare un approccio sensibile alle questioni di genere?

Sebbene le leggi e le politiche ugandesi sulla determinazione dello status di rifugiato e la sua protezione sembrino tenere conto della dimensione di genere dell’esperienza migratoria, la loro attuazione manca in modo cruciale di una sensibilità di genere e culturale. Infatti, abbiamo visto che la Legge sui Rifugiati del 2006 è particolarmente progressista, in quanto aggiunge come motivo di asilo la violazione delle pratiche discriminatorie di genere. La violenza e gli abusi di genere sono affrontati anche nel quadro del Comprehensive Refugee Response.

Nel caso dei rifugiati che si trovano negli insediamenti, le strutture che si occupano di violenza di genere sono spesso molto lontane e i rifugiati non possono permettersi di viaggiare su una boda-boda (“motocicletta” in Uganda) per denunciare un caso alla polizia. Se le sopravvissute raggiungono la stazione di polizia, molte riferiscono di non venire credute o addirittura di ricevere richieste di denaro per registrare il caso. A volte i partner attuativi dell’UNHCR sono presenti in loco, ma non dispongono di risorse sufficienti e non possono occuparsi di tutte le denunce.

Sia negli insediamenti che nel contesto urbano, la ricerca empirica dimostra che gli operatori dei servizi contro la violenza di genere non sono sufficientemente formati per adottare pratiche sensibili alla dimensione di genere. I partecipanti alla mia ricerca (sia sopravvissuti che operatori dei servizi per rifugiati) hanno riferito molti casi di ritraumatizzazione e normalizzazione della violenza, favoriti da una persistente cultura di incredulità nei confronti delle istanze dei rifugiati. Il fenomeno si spiega anche a causa della mancanza di una comprensione strutturale e intersezionale della violenza di genere contro le rifugiate. Infatti, il genere e lo status di migrante si intersecano per creare una forma unica di discriminazione che richiede a sua volta una forma unica di compensazione. Anche altri sistemi di oppressione possono contribuire al perpetrarsi della violenza e al modo in cui questa viene affrontata dagli operatori, come la transfobia, l’abilismo, il colorismo, il tribalismo, ecc.

In Uganda, inoltre, si osserva un monopolio istituzionalizzato da parte delle organizzazioni internazionali e ugandesi per la fornitura di servizi. Le organizzazioni selezionate dall’Ufficio del Primo Ministro (OPM) e registrate secondo la legge sulle ONG del 2016 sono le uniche a potersi occupare dei rifugiati. Ciò ha particolari effetti sulle questioni di genere, poiché l’OPM detiene un notevole controllo sui prestatori di servizi contro la violenza sessuale e sull’assegnazione dei fondi.

In un audit del 2018 dell’Office of Internal Oversight Services (OIOS) delle Nazioni Unite sono stati riscontrati numerosi accordi riguardanti la rappresentanza ugandese e l’OPM, tra cui la selezione di partner che si erano impegnati in attività fraudolente ed in una cattiva gestione dei finanziamenti nel 2016 ed altri che non erano stati raccomandati dalla Commissione per la gestione e l’attuazione dei partenariati istituita dalla rappresentanza UNHCR. Secondo quanto emerso dalla verifica, inoltre, il numero di rifugiati è stato gonfiato di 300.000 unità per attirare maggiori finanziamenti internazionali.

Per questo motivo, spesso le donne rifugiate vengono assistite da personale poco qualificato e alle sopravvissute può essere addirittura negato l’accesso ai servizi. In effetti, un tema ricorrente emerso durante le interviste è che gli operatori dell’UNHCR e dei partner attuativi spesso non credono alle sopravvissute, in quanto i rifugiati spesso mentono per ottenere il reinsediamento.  In effetti, i “sopravvissuti alla tortura e/o alla violenza di genere” e le “donne e le ragazze a rischio” sono categorie di riferimento per il reinsediamento. Tuttavia, solo lo 0,034% della popolazione totale dei rifugiati in Uganda è stato reinsediato nel 2022.

Pertanto, molte rifugiate sostengono che le politiche ugandesi costringerebbero le donne rifugiate in uno stato di vulnerabilità come modo per attrarre finanziamenti internazionali senza destinarli alle rifugiate stesse. Molte hanno l’impressione che le loro storie vengano utilizzate per interessi finanziari, finendo per oggettificare le sopravvissute e replicare i meccanismi di potere vigenti nel contesto della violenza interpersonale.

Ciò va analizzato alla luce di un fenomeno più ampio di esternalizzazione dei confini, in base al quale gli Stati del Nord del mondo “investono” nella cosiddetta “crisi migratoria” in modo da contenere i rifugiati nel Sud del mondo, con un impatto diretto sul diritto delle donne rifugiate di essere libere dalla violenza (tra le altre cose).

Una delle notizie principali dell’anno scorso riguardante i rifugiati urbani è stata l’enorme repressione nel quartiere di Gargaresh a Tripoli, dove la polizia libica ha fatto irruzione nelle case e nei rifugi temporanei e ha rastrellato oltre 5.000 uomini, donne e bambini provenienti dall’Africa subsahariana, trattenendoli in condizioni disumane e degradanti in cui dilagavano torture e violenze sessuali. Tuttavia, a parte questa notizia, sappiamo poco dei rifugiati urbani e delle loro condizioni nelle città. Potresti approfondire le condizioni di vita delle donne rifugiate al di fuori dei campi profughi in Uganda?

Sì, è vero che i rifugiati urbani e soprattutto le donne rifugiate che vivono in città sono i soggetti dimenticati della protezione offerta in materia di rifugiati, sia nelle leggi e nelle politiche che nella letteratura. La spiegazione è da ricercare in una visione stereotipata dei rifugiati che vivono sistematicamente in campi o insediamenti e dipendono dagli aiuti umanitari come destinatari passivi della carità.

In Uganda, circa l’8% della popolazione totale di rifugiati vive in città, principalmente a Kampala, e quasi la metà dei rifugiati urbani sono donne. I rifugiati devono dimostrare di essere economicamente autosufficienti per ottenere il permesso di trasferirsi in città, fatto che costituisce una discriminazione nei confronti dei rifugiati basata sullo status economico – forma di discriminazione che colpisce in modo particolare le donne.

Le condizioni di vita dei rifugiati in città sono particolarmente difficili a causa di un diffuso clima di fobia nei confronti dei rifugiati e di tensioni con le comunità ospitanti. In effetti, a causa della narrativa del “porto sicuro” accuratamente costruita, i rifugiati sono spesso ritenuti in una posizione privilegiata, beneficiando di un sussidio monetario, di assistenza sanitaria, di istruzione gratuita e di un terreno. Detto questo, non appena un rifugiato si stabilisce in città, non ha più diritto a tali aiuti umanitari. Molti rifugiati cercano di avviare un’attività commerciale, ma riferiscono di non sentirsi supportati dai cittadini che a loro volta lottano per vivere in condizioni dignitose. In aggiunta sono stati segnalati anche casi di sfruttamento delle difficoltà finanziarie, anche per quanto riguarda la possibilità di ottenere un alloggio o un lavoro.

In generale, tutti i partecipanti alla mia ricerca testimoniano di aver subito discriminazioni a causa della loro condizione di rifugiati, ma sono soprattutto le donne che si trovano nel mezzo di diverse forme di oppressione a causa della loro transidentità, della loro disabilità o del loro status di lavoratrici sessuali, ad esempio. Molte donne rifugiate testimoniano casi di corruzione e sfruttamento sessuale da parte delle forze di polizia e del personale medico governativo, che chiedono alle donne somme di denaro o rapporti sessuali in cambio di un servizio che non dovrebbe essere venduto.

Noi di Large Movements APS ringraziamo Maëlle per questa intervista, e ci impegnamo ad approfondire ulteriormente un tema ancora poco trattato ma – come abbiamo visto durante questa intervista – che ha un enorme impatto in termini di diritti umani e di questione di genere.

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La diga GIBE III : le caratteristiche del progetto e il contesto etiope

In un contesto globale caratterizzato da un lento ma progressivo abbandono delle fonti fossili, progetti energetici rinnovabili trovano sempre più spazio soprattutto in aree caratterizzate da un processo di industrializzazione ancora in corso e dal tentativo di accelerare il proprio sviluppo economico. Uno degli strumenti più utilizzati per produrre energia a partire dagli anni Cinquanta ad oggi sono le dighe, affiancate spesso da impianti di irrigazione per piantagioni intensive. Nella narrazione mediatica vengono presentate come “energia pulita”, in quanto le emissioni di gas climalteranti sono legate al solo processo di costruzione delle infrastrutture e non alla fase di funzionamento della diga stessa. Nonostante ciò, infrastrutture del genere, soprattutto se di dimensioni imponenti, sono state e sono tutt’ora una delle principali cause di distruzione di interi ecosistemi e sfollamento delle popolazioni locali interessate dai progetti. Uno studio del 2000 stimava che in tutto il mondo le grandi dighe abbiano portato tra i 40 e gli 80 milioni di persone a migrare forzatamente, dati che vanno sicuramente aggiornati e calati nel contesto odierno alla luce dell’aumento dell’utilizzo di questa fonte energetica. È questo il caso della Diga Gibe III, la più grande mai costruita in Etiopia e una delle più alte del pianeta. In questo articolo verranno prese in analisi le caratteristiche di questa infrastruttura e come essa si colloca all’interno del contesto etiope. In un secondo articolo verranno poi presi in considerazione gli effetti diretti e indiretti, e sociali e ambientali che essa ha generato e potrebbe produrre in futuro. Caratteristiche di Gibe III Gibe III da sola ha aumentato dell’85% la produzione di energia in Etiopia con 1870Mw di potenza installata complessiva e una produzione prevista di 6500Gwh/anno. Collocata sul fiume Omo, si inserisce in una progettazione più ampia di altre quattro dighe di cui Gibe I e II sono state già realizzate e Gibe IV e V sono in via di pianificazione. L’enormità di questi progetti e il fatto che insistono tutti in un contesto naturale fragile e popolato prevalentemente da gruppi indigeni ha fatto sì che l’infrastruttura divenisse estremamente controversa per l’elevatissimo impatto sociale e ambientale che questa ha determinato.  L’ipotesi di realizzare una diga di tali dimensioni risale ai primi anni del 2000. I lavori sono stati iniziati nel 2006 e il completamento dell’infrastruttura si è raggiunto già nel 2015. Il progetto prevede sia un impianto idroelettrico che uno di irrigazione di vaste piantagioni industriali collocate sopra le terre ancestrali delle tribù locali. L’impianto è di proprietà dell’azienda nazionale Ethiopian Electric Power Corporation, la quale ha assegnato direttamente e senza gara pubblica l’appalto a Salini Impregilo, azienda italiana che dagli anni 50 opera in Etiopia e che sembra detenere il controllo assoluto sulla realizzazione di impianti idroelettrici nel quadrante essendosi già occupata tra le altre di realizzare Gibe I e II e avendo ricevuto fondi da parte della cooperazione italiana e da vari organismi di finanziamento internazionale per la realizzazione di questi megaprogetti. Rispetto ai finanziamenti di Gibe III, sebbene all’inizio si ipotizzasse di poter fare affidamento sulla Banca Mondiale, sulla Banca Europea per gli Investimenti (BEI), e sulla African Development Bank, queste hanno deciso di ritirarsi dal progetto per numerose irregolarità legate soprattutto alla trasparenza nell’assegnazione dell’appalto a Salini e alla mancanza di una valutazione di impatto ambientale e sociale credibile. È da notare come l’Etiopia sia completamente dipendente dagli aiuti esteri corrispondendo essi al 90% del budget nazionale. Alla Banca Mondiale e alla BEI è subentrata la Industrial and Commercial Bank of China (ICBC) la quale non si è posta gli stessi problemi e ha deciso di procedere comunque con un finanziamento di 420milioni di dollari al progetto. Nonostante il costo originario dell’infrastruttura fosse stimato intorno ai 1.5 Miliardi di dollari, alcuni studi riportano un costo che si aggirerebbe sui 2 Miliardi. Da questi sono escluse le infrastrutture legate alla rete elettrica per l’esportazione verso il Kenya che verranno invece coperte in parte dalla Banca Mondiale con un finanziamento che si aggira tra i 600 e gli 800 milioni di dollari. Quest’ultimo elemento spinge inevitabilmente a riflettere sul ruolo che questa infrastruttura riveste nell’economia etiope. Contesto energetico etiope Secondo la IEA nel 2019 l’Etiopia ha prodotto 14.456 Gwh di elettricità attraverso le proprie dighe, ovvero il 95% dell’elettricità prodotta nel paese, a fronte di un consumo di 10.700 Gwh nello stesso anno. La tendenza negli anni precedenti è simile mostrando come ad ogni aumento dei consumi sia seguito un aumento importante anche delle capacità produttive e viceversa, determinando quindi un surplus di energia prodotta rispetto ai bisogni interni che viene dunque esportata verso i paesi circostanti. L’obiettivo ultimo è di esportare un totale di 900Mw tra Sudan, Djibouti e Kenya, 500Mw dei quali andrebbero a quest’ultimo, e sul lungo periodo punterebbe ad arrivare anche ad Egitto, Eritrea, Yemen e altri paesi dell’Africa del Sud ed Est. La produzione di 6500Gwh annui associati a Gibe III va dunque a coprire prevalentemente questo bisogno di export più che andare ad incontrare una crescente domanda interna di energia, dimostrando come la realizzazione di un impianto di tali dimensioni non sia poi strettamente necessario. Come si evince dai dati riportati, l’Etiopia consuma i 2/3 dell’elettricità che produce. Dunque, Gibe III sembrerebbe essere una infrastruttura la cui realizzazione viene promossa per lo sviluppo dell’Etiopia, ma che se calata nei bisogni energetici etiopi contemporanei, risulta essere sovradimensionata. Questi dati mostrano un ulteriore problema: la produzione interna totale di energia elettrica è di circa 15.000 Gwh con i restanti 550Gwh prodotti tramite energia eolica e, in minima parte, solare.  Questo dato descrive una fortissima dipendenza del paese dall’Energia idroelettrica rendendolo estremamente vulnerabile a eventuali eventi imprevisti nel settore. La compresenza di queste mega dighe, e l’inevitabile effetto negativo in termini di dissesto idrogeologico, assieme alle caratteristiche geologiche dell’area, secondo alcuni studi farebbero pensare ad un’alta probabilità che si possano verificare terremoti di magnitudo compreso tra il 7 e l’8 nel giro dei prossimi cinquanta anni. Questo dato metterebbe fortemente a rischio la sicurezza energetica del paese in quanto eventuali danneggiamenti a

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LA PIRATERIA SOMALA

La pirateria somala viene spesso descritta solo ed esclusivamente come criminale, e se invece espletasse anche un’altra funzione, ossia quella di guardiani del mare? In questo articolo si cercherà di indagare la natura del fenomeno nonostante le fonti che risaltano una visione alternativa a quella diffusa internazionalmente siano poche. Il tentativo sarà dunque, quello di individuare gli indizi funzionali a definire la pirateria non solo come criminale, ma come “forza” di difesa alternativa delle acque, servizio di cui il Governo di Transizione non riesce a farsi carico pienamente. Contesto storico La pirateria moderna, che si è sviluppata soprattutto in aree geopoliticamente strategiche, ha assunto tutti i caratteri della definizione storica di “predone del mare”. A differenza dei suoi analoghi, la pirateria somala ha acquisito caratteristiche diverse che l’hanno resa un fenomeno particolarmente difficile da studiare e, soprattutto, da debellare. Queste differenze sono dovute alla presenza di molti fattori e, in particolare, alla situazione politica in cui la Somalia si trova. Ciò, infatti, ha dato luogo a tutta una serie di fenomeni chiave nello sviluppo della pirateria. La complessità della situazione somala quindi sta proprio nell’esistenza e nella sovrapposizione di diverse dinamiche, locali ma anche regionali ed internazionali che rendono necessario un approccio onnicomprensivo. In questa sede, tuttavia, si affronterà solo uno dei tanti aspetti di questo fenomeno e, in particolare, si cercherà di rispondere alla questione sulla natura della pirateria sviluppatasi in questo contesto. Usando termini somali, si cercherà di capire se ricadono nella categoria di burcad badeed, stricto sensu “predoni del mare”, o badaadinta badah, “salvatori del mare”. Da quando nel 2012 gli sforzi congiunti della comunità internazionale sono riusciti a debellare questo problema, il sequestro della petroliera Aris 13 del 2017, ha riportato nuovamente l’attenzione, assopita da anni, sull’area, facendo presagire anche un ritorno della pirateria. Questo attacco, tuttavia, sembra aver rappresentato solo una breve parentesi dovuta probabilmente all’abbassamento della guardia delle misure intraprese sino ad allora e al ritiro delle forze NATO della missione “Ocean Shield”, terminata nel 2016. Ma se questo fosse solo il sintomo di un ritorno che potrebbe essere ancora più pericolo del precedente? Per questo motivo potrebbe essere utile capire la natura degli atti dei pirati somali e comprendere se il ruolo iniziale di difensori del mare sia scomparso durante l’evoluzione che la pirateria ha subito, divenendo finalizzato solo ed esclusivamente ad azioni di depredazione, oppure se questo sia stato solo “nascosto” per legittimare in maniera più semplice le azioni svolte della comunità internazionale. Tale tentativo, tuttavia, risulterà molto difficile per la scarsità di dati e di notizie svincolate dall’”occhio europeo”. In questa sede, pertanto, si proverà a fornire solamente uno spunto di riflessione. Pescatori o professionisti? Quando nel 1991 si venne a creare un vuoto politico nel paese, dovuto alla caduta del regime di Siad Barre, fu subito evidente che venne anche a mancare una struttura centralizzata in grado di avere un controllo efficace su tutto il territorio somalo e, consequenzialmente, sulle sue acque. Fu di questa situazione che attori esterni, principalmente pescherecci europei e cinesi ed organizzazioni criminali, iniziarono ad approfittare. La pesca intensiva e lo scarico di rifiuti tossici hanno rappresentato le motivazioni principali che hanno spinto i pescatori locali ad improvvisare attacchi disorganizzati verso gli estranei invasori. Nonostante ciò, la depredazione straniera non può essere definita come la sola motivazione, a questa, infatti, si aggiunge un quadro molto più complesso: la mancanza di uno Stato centralizzato in grado di farsi carico dei bisogni della società, un’organizzazione clanica della società somala che si pone come rappresentante differente di ordine e portatore di principi di organizzazione politica differenti da quelli dello Stato moderno e post-moderno, e uno stato di povertà e crisi umanitaria notevole. Fino agli anni 2000, quindi, si parla più di un fenomeno finalizzato alla sopravvivenza, in cui il confine tra pirata, pescatore e contrabbandiere è molto labile. Si può perciò ipotizzare che in questa fase, nonostante la popolazione che traeva il suo sostentamento dal mare abbia raggiunto livelli di frustrazione notevoli dovuti alle attività illegali di pesca straniere, non sia tuttavia riuscita a creare una struttura tale da poter essere considerata come “guardiana delle acque”. In questi anni, infatti, si è assistito principalmente al fenomeno che è stato definito come “pirateria d’opportunità”, deducibile soprattutto dalla sua discontinuità, dalla poca redditività degli attacchi e dal corto raggio d’azione. Non si può comunque escludere che proprio in questo periodo iniziarono a formarsi e svilupparsi i gruppi di pirateria di stampo criminale che siamo abituati a conoscere. Infatti, secondo un ex leader pirata somalo, Farah Hirsi Kulan “Boya”, il passaggio ad una pirateria professionalizzata avviene già nel 1994. Da pirati d’opportunità a vera e propria guardia costiera? Dai primi attacchi sporadici e disorganizzati, le attività piratesche in pochi anni cambiarono totalmente divenendo un business molto redditizio. Molti affermano che c’è stato un passaggio da un fenomeno di protesta ad uno, solo ed esclusivamente, basato sul profitto, anche se, potrebbe non essere esattamente così.  In un contesto politico come quello somalo, il Governo Federale di Transizione è l’unico potere istituzionale e riconosciuto a livello internazionale che, nonostante ciò, non è in grado di estendere la propria autorità oltre Mogadiscio, permettendo ad altri tipi di “organizzazioni politiche” di subentrare nel controllo dello spazio. 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La voce queer di Kakuma: la storia di J.

Nei nostri due precedenti articoli abbiamo parlato dei diritti LGBTQ+ in Kenya e delle violazioni dei diritti umani che avvengono all’interno del campo profughi di Kakuma.  Proseguendo, dunque, l’inchiesta che Large Movements APS sta portando avanti insieme ad International Support Human Rights, in questa sezione di approfondimento cercheremo di analizzare la situazione specifica di J., nome di fantasia di uno degli ospiti gay di Kakuma con i quali abbiamo avuto modo di parlare.  Come tanti altri che vivono a Kakuma, J. ha lasciato il suo Paese d’origine a causa delle discriminazioni subite da amici e familiari in ragione della sua omosessualità, per cercare rifugio nel vicino Kenya. Speranza e desiderio di libertà lo hanno accompagnato lungo il suo viaggio, ma la realtà delle cose si è rivelata molto più cruda e dura di quanto potesse immaginarsi. La testimonianza di J. Durante l’intervista, J. ha utilizzato frequentemente le parole contenute nella cosiddetta “Word Cloud” (letteralmente “nuvola di parole”) rappresentata di seguito. Le parole più evidenti sono quelle che J. ha utilizzato con maggiore frequenza durante l’intervista. Come possiamo notare facilmente, questi vocaboli ci restituiscono una fotografia particolarmente amara della cruda realtà che J. e gli altri ospiti LGBTQ+ di Kakuma sono costretti a sopportare:  Arrivo a Kakuma. J. è un cittadino ugandese, costretta a scappare dal suo Paese in quanto, a causa della sua omosessualità, ha subito violenze da parte di amici, familiari e dal governo nazionale. È fuggito così in Kenya ed è arrivato a Kakuma il 3 marzo 2020. Una volta lì, l’amministrazione del campo gli ha confiscato il passaporto e la carta d’identità nazionale che, ad oggi, non gli è stata ancora restituita. Successivamente, è rimasto per 20 giorni nell’area di prima accoglienza per poi essere successivamente trasferito all’interno del campo vero e proprio. Già nell’area di accoglienza, J. racconta di aver ricevuto le prime minacce di morte da parte di altri rifugiati che lo hanno spaventato a tal punto da ricordare ancora la grandissima paura provata al momento del trasferimento nel campo di Kakuma con il resto degli ospiti. L’incendio e le prime violenze. Il 13 aprile la casa in cui alloggiava è stata data alle fiamme e, dopo essere svenuto a causa del fumo, J. è stato portato all’ospedale del campo dalla polizia, risvegliandovisi il giorno successivo. Qui ci racconta di essere stato molestato dal personale dell’ospedale, i quali sostenevano che non sarebbe avvenuto alcun rogo se le persone LGBTQ+ non vivessero a Kakuma. Il giorno dopo l’incidente alcuni membri dello staff di UNHCR e del governo kenyota si sono recati sul posto per valutare la situazione, assicurando a J. che avrebbero agito quanto prima contro i responsabili. Ad oggi, J. è ancora in attesa di aggiornamenti circa lo stato delle indagini.  Poche settimane dopo, continua l’intervistato, mentre lui ed alcuni suoi compagni stavano raccogliendo l’acqua, sono stati aggrediti e picchiati da alcuni cittadini etiopi ospiti del campo. Gli aggressori sostenevano che gli ospiti omosessuali di Kakuma non potessero bere la loro stessa acqua, altrimenti li avrebbero contaminati. Anche in questo caso, J. ha denunciato l’aggressione alla polizia del campo, che gli ha assicurato che avrebbe avviato delle indagini e che avrebbe richiamato tutte le vittime dell’aggressione successivamente per raccoglierne le testimonianze. Una volta recatisi nuovamente dalla polizia del campo però, alle vittime è stato chiesto di togliersi le scarpe e sono stati costretti a trascorrere la notte in cella. La mattina dopo sono stati portati alla stazione di polizia di Kakuma, dove gli agenti presenti li hanno chiamati froci di fronte agli altri detenuti. Questo li ha esposti ad ancora ulteriori pericoli dal momento che sono stati costretti a rimanere – immotivatamente – per tre giorni in cella con persone potenzialmente omofobe alle quali la loro omosessualità era stata rivelata.  Dopo essere tornati all’interno del campo, J. ed altre persone hanno continuato a denunciare nuovi casi di aggressione, ricevendo sempre la stessa risposta: non essendoci abbastanza prove a supporto di quanto denunciato dalle vittime, nessuna azione formale può essere intrapresa dalla polizia kenyota né dallo staff di UNHCR di Kakuma. Gli attacchi continuano, ma nessuno lo ascolta. Il 27 aprile 2020 J. ed altre persone LGBTQ+ residenti a Kakuma si sono recate presso la struttura dell’UNHCR chiedendo protezione, ma le loro richieste sono state definite delle “semplici” proteste non autorizzate e come tali neanche esaminate. Dopo poco tempo da questi fatti, J. ed altri membri della comunità LGBTQ+ di Kakuma hanno subito ulteriori aggressioni da parte dei residenti del campo. Durante questi attacchi, J. è stato ferito al basso ventre riportando lesioni talmente gravi da costringerlo ad urinare sangue per molti mesi ed è anche stato gravemente ferito al braccio (aggredito con un machete mentre recuperava il telefono dall’area di ricarica del campo). A seguito di quegli attacchi repressivi, continua J., altre 40 persone sono state portate in ospedale.  Il 15 marzo 2021, J. è stato nuovamente attaccato con una bomba molotov durante la notte. Ha trascorso dieci mesi in ospedale per riprendersi da quell’aggressione, mentre riceveva molestie dal personale e cure mediche scadenti dall’ospedale, con medicazioni mancate delle ferite al punto che le sue “gambe hanno iniziato a marcire”. È stato poi trasferito in una struttura privata a Nairobi, dove la sua sicurezza non era ancora garantita perché sia lui che gli altri ospiti, erano costantemente minacciati di subire nuovi attacchi nel futuro a causa del loro orientamento sessuale.  Naturalmente, tutta questa situazione è stata denunciata da J. all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ed alle autorità del Kenya, senza che venisse intrapresa alcuna azione per fornirgli la protezione di cui ha diritto.  L’attesa. Dopo gli attacchi, J. ha chiesto di essere trasferito in una struttura più sicura. È stato poi intervistato per il riconoscimento dello status di rifugiato nel febbraio 2022. Ora è in attesa della conferma della sua condizione di rifugiato. Procedura questa che, secondo quanto gli è stato detto, avrebbe dovuto richiedere un massimo di sei mesi ma per la quale non ha ancora ricevuto esito.  Le condizioni di vita a Kakuma si sono rivelate a

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INCHIESTA SUL CAMPO PROFUGHI DI KAKUMA: inferno terrestre per i migranti LGBTQ+

Per questo approfondimento abbiamo intervistato Tobias Pellicciari, Direttore di International Support – Human Rights “Migration and Asylum Program in Europe”. Tobias lavora da anni nel settore dell’accoglienza di migranti e rifugiati in Europa, con una particolare attenzione alle minoranze sessuali. Grazie alla sua esperienza ed alle interviste ad alcune delle vittime svolte dal team di LMPride, in questo articolo di inchiesta siamo in grado di restituire un quadro completo di quelle che sono le condizioni in cui i migranti LGBTQ+ sono costretti a vivere in Kenya. Ci focalizziamo in particolar modo sul campo profughi di Kakuma, gestito dall’Alto Commissariato per i Rifugiati – anche noto come UNHCR. Noi di Large Movements abbiamo già raccontato di come l’omofobia in Kenya sia una problematica tuttora presente in qualsiasi strato ed aspetto della società e del vivere civile e di come la comunità LGBTQ+ kenyota sia fortemente stigmatizzata ed emarginata. In questa intervista invece, vogliamo far luce sulle condizioni di migranti e richiedenti asilo che, scappati dal proprio Paese di origine, per lo più dall’Uganda, vengono discriminati in ragione del proprio orientamento sessuale ed identità di genere. Anche questi richiedenti vengono ospitati all’interno del campo profughi gestito da UNHCR a Kakuma. Fotografia dell’area Kakuma si trova nell’area nordoccidentale del Kenya, precisamente nella contea di Turkana, nella Rift Valley. Il campo profughi che si trova vicino alla città è stato fondato nel 1992 per ospitare 16.000 tra ragazzi e ragazze in fuga dalla guerra in Sudan. Oggi ospita più di 200.000 persone, diventando così uno dei campi profughi più grande al mondo. L’area in cui il campo sorge è prevalentemente arida e fortemente soggetta agli effetti dei cambiamenti climatici, che rendono quasi del tutto incoltivabili i terreni, sempre più minacciati dall’avanzamento del deserto. Il campo profughi di Kakuma è stato allestito in una zona isolata e fuori dai centri di aggregazione della città perché, a detta del governo keniota, in questo modo si tutela la sicurezza sia della popolazione locale che degli ospiti del campo. Questo rende ancor più difficile per rifugiati e richiedenti asilo che si trovano a Kakuma poter accedere a tutta una serie di servizi essenziali (ospedale, impiego ecc…). Per di più, le condizioni di vita all’interno del campo sono al limite – se non al di sotto – di ogni standard minimo di dignità umana: ci sono spesso infestazioni di insetti, il cibo scarseggia e la situazione igienico-sanitaria è al collasso. Le già ostiche condizioni di vita delle persone residenti a Kakuma, si complicano ancora di più, se ci si focalizza sulla comunità LGBTQ+ e sugli ospiti del campo che attendono l’asilo. Molte di queste persone, anche se non tutte, sono ospitate in settori separati (denominati anche “blocchi”) rispetto al restante dei residenti di Kakuma, per meglio garantirne la sicurezza – a detta del personale dell’UNHCR. Cosa vuol dire vivere a Kakuma per una persona LGBTQ+ Secondo i ragazzi intervistati, l’ulteriore isolamento in cui versa la comunità LGBTQ+ presente a Kakuma ha aggravato le condizioni di vita di questa categoria vulnerabile di migranti. L’averli posti in blocchi separati infatti, li ha resi più visibili e, quindi, più facilmente riconoscibili dagli altri ospiti in quanto LGBTQ+. Questi ultimi provengono molto spesso dagli stessi Paesi di origine dei richiedenti queer – prevalentemente Uganda e Somalia – quindi sono portati a mettere in atto gli stessi comportamenti omofobi, le stesse violenze e le vessazioni che hanno spinto gli ospiti LGBTQ+ di Kakuma a lasciare la propria terra. Rendendoli maggiormente visibili – confinandoli tutti nella stessa area – dunque, l’UNHCR avrebbe aumentato di fatto il rischio per i migranti LGBTQ+ di subire persecuzione e violenza. Questi atti violenti e brutali sono perpetrati all’ordine del giorno all’interno del campo di Kakuma e tutte le vittime con le quali abbiamo parlato lamentano di non aver ricevuto una vera e propria protezione da UNHCR che, molto spesso, non risponde alle loro richieste di aiuto e/ tutela. La situazione non è migliore per coloro che non risiedono nei blocchi separati. Questi ultimi, infatti, sono comunque noti agli altri ospiti come persone queer e sono soggetti agli stessi attacchi ed alle stesse violenze. Molti migranti LGBTQ+ di Kakuma si sono ritrovati a vivere fuori dalle baracche, dormendo all’aria aperta per proteggersi a vicenda, se non addirittura per strada a Nairobi. In questo modo si sentono comunque più sicuri rispetto a dormire negli alloggi loro assegnati nel campo. Molto spesso tra loro ci sono donne lesbiche con i loro figli, anche loro vengono sottoposti alle stesse violenze subite dalle loro madri. La decisione di dormire all’esterno arriva dopo una serie di roghi appiccati dagli altri residenti agli alloggi dei migranti queer, mentre gli stessi dormivano all’interno. Emblematico, come la situazione sia fuori controllo all’interno del campo e delle gravi mancanze del personale di UNHCR nella tutela di questa categoria vulnerabile di migranti, fu il caso del rogo del 15 marzo 2021, nel quale due ragazzi omosessuali sono stati bruciati vivi da altri residenti del campo di Kakuma. Per due lunghi giorni, UNHCR non ha neanche fornito una vera e propria assistenza sanitaria alle vittime dell’incendio, rimasti nel campo senza nemmeno avere accesso ad appropriate cure mediche. Dopo una fortissima pressione da parte di International Support – Human Rights, UNHCR ha trasferito i due ragazzi in ambulanza in un ospedale distante 125km da Kakuma, nonostante il personale stesso dell’ambulanza e la comunità locale avessero indicato l’ospedale di Nairobi come l’unico equipaggiato per curare la tipologia di ustioni riportate dai due ospiti. Finalmente, il 18 marzo, UNHCR – su pressione della Commissione Europea, allertata da Tobias – ha trasportato le vittime all’ospedale di Nairobi in eliambulanza. Purtroppo, uno dei due ragazzi è morto a seguito delle gravissime ustioni riportate e, soprattutto, della mancata assistenza medica tempestiva ed adeguata. L’unica dichiarazione rilasciata da UNHCR a seguito di questa tragedia risale a quasi un mese dopo ed è consistita in una generica richiesta alle autorità kenyote di investigare. Le indagini hanno immediatamente portato al riconoscimento dell’aggressore, che però ad oggi è ancora a

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Leymah Gbowee per i diritti delle donne liberiane

Nell’Ottobre 2011 Leymah Gbowee, Ellen Johnson Sirleaf e Tawakkul Karman ricevettero il Premio Nobel per la Pace in conseguenza de “la loro lotta non violenta in favore della sicurezza delle donne e del loro diritto a partecipare al processo di pace”. Oggi parliamo di Leymah Gbowee e del suo perpetuo impegno per i diritti delle donne. La guerra civile in Liberia: Gbowee inizia il suo lavoro come attivista insieme al gruppo “Liberia Mass Action for Peace (LMAP)” nell’aprile 2003. La Liberia, suo paese natale era in uno stato di guerra civile da ormai 14 anni. Tutto era iniziato, nel 1989 quando Charles Taylor era entrato in Liberia e, aiutato dalle forze ribelli del Fronte Nazionale Patriottico per la Libertà, aveva minacciato la capitale, Mongrovia, e il governo di Samuel Doe. Dopo nove mesi, Doe fu ucciso e Taylor prese il potere. Questo non fermò le ostilità e nonostante Taylor vinse le elezioni presidenziali del 1997 con il 75% dei voti, quello stesso anno scoppiò una nuova guerra civile. Tra il 1989 e il 2003 morirono più di 270.000 persone, la mortalità neonatale era di 157 morti ogni 1000 nati e la mortalità infantile nei bambini minori di 5 anni era di 235 su 1000. Come conseguenza de conflitto e dell’alto tasso di mortalià infantile, l’80% della popolazione rurale fu costretto alla migrazione. Il conflitto fu purtroppo caratterizzato dall’uso indiscriminato dello stupro da parte di tutte le parti coinvolte, comprese le truppe internazionali intervenute per ristabilire la pace. Gbowee e le altre attiviste del LMAP iniziarono quindi a protestare per le violenze: la loro retorica era basata su motivazioni concernenti il benessere dei bambini e il futuro del paese. Usarono in particolare tre tattiche: organizzarono manifestazioni pubbliche per rimarcare che le vere vittime del conflitto erano le donne e i bambini, minacciarono di spogliarsi in pubblico e costituirono un’agenda politica per la difesa dei diritti delle donne sia a livello nazionale che internazionale. Taylor si dimise nell’Agosto 2003 e fu costretto all’esilio in Nigeria. Un accordo di pace fu firmato e nel 2005 furono tenute le elezioni presidenziali che videro la vittoria di Ellen Johnson Sirleaf: prima donna ad essere eletta presidente in uno Stato africano.  Il ruolo delle donne nei negoziati di pace: Decisive per la pace furono le azioni di Gobwee e del LMAP. Vediamo insieme perché queste donne furono così influenti. Per prima cosa le donne evidenziarono il fatto che la guerra aveva portato solo morte e distruzione. Non era una guerra per la terra, il denaro o il potere politico: era una guerra che sterminava madri e bambini. Dopodiché Gbowee e le altre attiviste misero l’accento sul loro status di madri e donne e dunque di “custodi della società”. Misero in risalto il loro ruolo di madri e sorelle degli uomini convolti nel conflitto e sottolinearono l’importanza dell’unità nazionale basata sulla famiglia. Questa retorica funzionò in quanto in Libera il ruolo delle donne, come madri, è molto forte e vi è un senso di rispetto verso coloro che sono viste come creatrici e sostenitrici della comunità e della nazione. Gli uomini decisero dunque di presenziare ai negoziati di pace perché le loro “madri” lo avevano richiesto. Nonostante ciò, le parole da sole non furono abbastanza per portare ad un vero e proprio accordo di pace, e allora le donne passarono all’azione usando un atto ad elevato valore simbolico: si spogliarono deliberatamente in pubblico. Il 21 luglio Gbowee e le altre attiviste entrarono nell’edifico dove si svolgevano i negoziati e si sedettero fuori dalla stanza dove gli uomini stavano discutendo. Quando furono minacciate di arresto, Gbowee dichiarò che non si sarebbe opposta ma che prima si sarebbe spogliata e si sarebbe mostrata all’assemblea nuda. Successivamente spiegò che in Africa è considerata una terribile maledizione il vedere una donna, sposata e anziana, spogliarsi deliberatamente in pubblico: quell’azione avrebbe evidenziato in modo incontestabile la profonda disperazione delle donne Liberiane. Inoltre, spogliandosi, avrebbe privato gli uomini della loro “mascolinità” e della forza che avevano usato impunemente durante tutto il conflitto, stuprando e uccidendo senza ritegno. Così facendo, Gbowee si stava riappropriando della sua vita e del suo corpo, e nel frattempo smetteva di essere una vittima inerme e diventava politicamente potente e influente. Le attiviste dichiararono che avrebbero lasciato l’edifico solo quando Taylor e le altre parti coinvolte avrebbero preso attivamente parte ai negoziati. I negoziati, dunque, ripresero e infine fu trovato un accordo. L’importanza del lavoro di Leymah Gbowee nel mondo: Dopo la firma degli accordi di pace e la fine della guerra, Gbowee continuò i suoi sforzi politici anche fuori dai confini Liberiani. Nel 2006 fondò il Women Peace and Security Network Africa (WIPSEN-Africa) che si occupa di promuovere “la partecipazione strategica delle donne e la loro leadership nelle politiche di pace e sicurezza in Africa”. In tutti i suoi discorsi e le sue azioni Gbowee sottolinea il potere delle donne comuni e il valore simbolico del corpo femminile. Per combattere il patriarcato e promuovere il potere delle donne come agenti di cambiamento politico, è fondamentale unirsi come donne, madri, sorelle ed esigere l’uguaglianza di genere. Noi di Large Movements condividiamo questo pensiero e abbiamo ritenuto importante condividere con voi la storia di Leymah Gbowee che ha dimostrato al mondo l’influenza che possono avere le donne nei processi di pace ed il vero potere del pacifismo. Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

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