Leymah Gbowee per i diritti delle donne liberiane

Nell’Ottobre 2011 Leymah Gbowee, Ellen Johnson Sirleaf e Tawakkul Karman ricevettero il Premio Nobel per la Pace in conseguenza de “la loro lotta non violenta in favore della sicurezza delle donne e del loro diritto a partecipare al processo di pace”. Oggi parliamo di Leymah Gbowee e del suo perpetuo impegno per i diritti delle donne.

La guerra civile in Liberia:

Gbowee inizia il suo lavoro come attivista insieme al gruppo “Liberia Mass Action for Peace (LMAP)” nell’aprile 2003. La Liberia, suo paese natale era in uno stato di guerra civile da ormai 14 anni. Tutto era iniziato, nel 1989 quando Charles Taylor era entrato in Liberia e, aiutato dalle forze ribelli del Fronte Nazionale Patriottico per la Libertà, aveva minacciato la capitale, Mongrovia, e il governo di Samuel Doe. Dopo nove mesi, Doe fu ucciso e Taylor prese il potere. Questo non fermò le ostilità e nonostante Taylor vinse le elezioni presidenziali del 1997 con il 75% dei voti, quello stesso anno scoppiò una nuova guerra civile. Tra il 1989 e il 2003 morirono più di 270.000 persone, la mortalità neonatale era di 157 morti ogni 1000 nati e la mortalità infantile nei bambini minori di 5 anni era di 235 su 1000. Come conseguenza de conflitto e dell’alto tasso di mortalià infantile, l’80% della popolazione rurale fu costretto alla migrazione.

Il conflitto fu purtroppo caratterizzato dall’uso indiscriminato dello stupro da parte di tutte le parti coinvolte, comprese le truppe internazionali intervenute per ristabilire la pace. Gbowee e le altre attiviste del LMAP iniziarono quindi a protestare per le violenze: la loro retorica era basata su motivazioni concernenti il benessere dei bambini e il futuro del paese. Usarono in particolare tre tattiche: organizzarono manifestazioni pubbliche per rimarcare che le vere vittime del conflitto erano le donne e i bambini, minacciarono di spogliarsi in pubblico e costituirono un’agenda politica per la difesa dei diritti delle donne sia a livello nazionale che internazionale.

Taylor si dimise nell’Agosto 2003 e fu costretto all’esilio in Nigeria. Un accordo di pace fu firmato e nel 2005 furono tenute le elezioni presidenziali che videro la vittoria di Ellen Johnson Sirleaf: prima donna ad essere eletta presidente in uno Stato africano

Il ruolo delle donne nei negoziati di pace:

Decisive per la pace furono le azioni di Gobwee e del LMAP. Vediamo insieme perché queste donne furono così influenti. Per prima cosa le donne evidenziarono il fatto che la guerra aveva portato solo morte e distruzione. Non era una guerra per la terra, il denaro o il potere politico: era una guerra che sterminava madri e bambini. Dopodiché Gbowee e le altre attiviste misero l’accento sul loro status di madri e donne e dunque di “custodi della società”. Misero in risalto il loro ruolo di madri e sorelle degli uomini convolti nel conflitto e sottolinearono l’importanza dell’unità nazionale basata sulla famiglia. Questa retorica funzionò in quanto in Libera il ruolo delle donne, come madri, è molto forte e vi è un senso di rispetto verso coloro che sono viste come creatrici e sostenitrici della comunità e della nazione.

Gli uomini decisero dunque di presenziare ai negoziati di pace perché le loro “madri” lo avevano richiesto. Nonostante ciò, le parole da sole non furono abbastanza per portare ad un vero e proprio accordo di pace, e allora le donne passarono all’azione usando un atto ad elevato valore simbolico: si spogliarono deliberatamente in pubblico. Il 21 luglio Gbowee e le altre attiviste entrarono nell’edifico dove si svolgevano i negoziati e si sedettero fuori dalla stanza dove gli uomini stavano discutendo. Quando furono minacciate di arresto, Gbowee dichiarò che non si sarebbe opposta ma che prima si sarebbe spogliata e si sarebbe mostrata all’assemblea nuda. Successivamente spiegò che in Africa è considerata una terribile maledizione il vedere una donna, sposata e anziana, spogliarsi deliberatamente in pubblico: quell’azione avrebbe evidenziato in modo incontestabile la profonda disperazione delle donne Liberiane. Inoltre, spogliandosi, avrebbe privato gli uomini della loro “mascolinità” e della forza che avevano usato impunemente durante tutto il conflitto, stuprando e uccidendo senza ritegno. Così facendo, Gbowee si stava riappropriando della sua vita e del suo corpo, e nel frattempo smetteva di essere una vittima inerme e diventava politicamente potente e influente. Le attiviste dichiararono che avrebbero lasciato l’edifico solo quando Taylor e le altre parti coinvolte avrebbero preso attivamente parte ai negoziati. I negoziati, dunque, ripresero e infine fu trovato un accordo.

L’importanza del lavoro di Leymah Gbowee nel mondo:

Dopo la firma degli accordi di pace e la fine della guerra, Gbowee continuò i suoi sforzi politici anche fuori dai confini Liberiani. Nel 2006 fondò il Women Peace and Security Network Africa (WIPSEN-Africa) che si occupa di promuovere “la partecipazione strategica delle donne e la loro leadership nelle politiche di pace e sicurezza in Africa”.

In tutti i suoi discorsi e le sue azioni Gbowee sottolinea il potere delle donne comuni e il valore simbolico del corpo femminile. Per combattere il patriarcato e promuovere il potere delle donne come agenti di cambiamento politico, è fondamentale unirsi come donne, madri, sorelle ed esigere l’uguaglianza di genere. Noi di Large Movements condividiamo questo pensiero e abbiamo ritenuto importante condividere con voi la storia di Leymah Gbowee che ha dimostrato al mondo l’influenza che possono avere le donne nei processi di pace ed il vero potere del pacifismo.

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Talibè-Senegal

Bambini Talibè in Senegal: la vita in bilico tra abusi e accattonaggio

Per la strada di Dakar e in molte altre città del Senegal si possono osservare ragazzi impolverati, sporchi e spesso a piedi nudi che tengono in mano lattine di pomodoro vuote o ciotole di plastica per chiedere l’elemosina, nella maggior parte dei casi si tratta dei bambini Talibè. Uno studio dell’UNICEF del 2007 sull’accattonaggio dei bambini a Dakar, la capitale del Senegal , ha rilevato che oltre il 90% dei bambini sono Talibè, ad oggi però non ci sono ancora statistiche ufficiali e vengono coinvolti bambini tra gli 8 e i 15 anni. Talibè e Marabutto in Senegal Il termine Talibè nella lingua Wolof significa “discepolo” e si riferisce ai bambini che frequentano le Daara ovvero le scuole coraniche gestite dai Marabutto, coloro che insegnano i precetti dell’islam sulla base dell’apprendimento mnemonico del Corano. Le Daara in Senegal hanno garantito per secoli una buona diffusione dell’educazione islamica in tutti i segmenti della popolazione del paese dell’africa occidentale. Qui spesso però si attua la punizione fisica che per molti paesi musulmani dell’africa occidentale viene considerata una parte importante del processo educativo. Tra il Talibè e il suo Marabutto esiste un rapporto di devozione e stretta obbedienza in quanto il Marabutto offre la sua guida e la sua protezione ai propri discepoli che esprimono la propria fiducia attraverso un sostegno economico o la decima.  In Senegal la questione dei Talibè non è vista in maniera omogenea, alcuni ne promuovono la diffusione mentre altri la chiusura. A ciò si aggiunge che i genitori che decidono di mandare i figli a una Daara spesso lo fanno attraverso un affidamento di fatto, a causa delle proprie difficoltà economiche, e per offrire un futuro migliore al bambino costruendo un rapporto con la fratellanza mussulmana a cui il Marabutto appartiene e di conseguenza per preparare il bambino alla carriera di Marabutto. Occorre notare però che la formazione dei Talibè rimane essenzialmente legata ai valori dell’Africa occidentale in materia di educazione dei bambini. L’accattonaggio, le punizioni e la vita nelle Daara Originariamente l’accattonaggio dei Talibè era costituito nel chiedere cibo per integrare le scorte della Daara quando questa non poteva sostenere il proprio fabbisogno attraverso i raccolti forniti dai campi del Marabutto. Tale pratica si è evoluta dal momento in cui le Daara sono cresciute in ambiente urbano e hanno richiesto un cambiamento di reddito. In questo modo la pratica dell’elemosina ha fatto sì che i bambini dessero denaro al posto del cibo. Il problema degli abusi dei Marabutto verso i bambini Talibè in Senagal non è soggetta alla regolamentazione statale e di conseguenza alcune scuole abusano del rapporto che intercorre tra discepolo e maestro. Spesso quella che dovrebbe essere una istituzione di educazione può assumere sfaccettature negative. Alcuni Marabutto, invece di insegnare il Corano ai loro Talibè, li sfruttano per il lavoro o per l’accattonaggio forzato per le strade. In alcuni casi questo sfruttamento espone i bambini a malattie, ferite, morte, abusi fisici e sessuali all’interno o all’esterno della Daara. Human Rights Watch da un’indagine su 175 bambini Talibè in Senegal ha stimato una media di poco meno di 8 ore al giorno, ogni giorno, di accattonaggio per poter richiedere una cifra tra i 373 CFA (0,56 €) e i 445 CFA (0,67 $) nei giorni di festa. Somma difficile da raggiungere in quanto poco meno del 30% della popolazione senegalese vive con meno di 593 CFA (0,90 €) al giorno e dove il 55% vive con meno di 949 CFA (1,44 €). Oltre al denaro spesso vengono richieste quote alimentari come lo zucchero e il riso. Se tale quota non viene rispettata il rischio e quello di subire abusi fisici e ad esempio molti ragazzi mostrano cicatrici e lividi spesso dovuti all’applicazione di cavi elettrici o bastoni. Spesso però il Talibè più anziano, che diviene l’assistente del marabutto, è il responsabile per la punizione dei Talibè più giovani che non restituiscono la loro quota giornaliera o che ritornano in ritardo. Nei casi in cui il Marabutto non sorveglia i bambini, il Talibè più anziano ha potere assoluto su di questi in quanto potrà derubarli o abusare di loro fisicamente o sessualmente. In generale i bambini rischiano percosse, abusi sessuali, incatenamento, incarcerazione e numerose forme di abbandono e di pericolo in almeno 8 delle 14 regioni amministrative del Senegal. A ciò si aggiungono i rischi connessi al traffico e alla migrazione dei bambini Talibè in Africa, tra cui il trasporto illecito di gruppi di Talibè e attraverso regioni e confini nazionali. I Talibè senegalesi spesso sono sprovvisti di beni di prima necessità e alloggio, dovendo sostenere ore più lunghe di accattonaggio o dormire per strada. Le condizioni nelle stesse Daara urbane, inoltre, sono spesso caratterizzate da malnutrizione, mancanza di abbigliamento, esposizione a malattie e scarse cure igieniche. Spesso centinaia di bambini Talibè vivono in condizioni di estrema sporcizia e squallore in edifici incompiuti e privi di pareti, pavimento o finestre. Qui spazzatura, fognature e mosche intasano il terreno e l’aria e spesso i bambini dormono stipati a decine in una stanza all’aperto, la maggior parte di queste senza zanzariere e quindi a rischio di infezioni o malattie. La situazione viene aggravata dal fatto che se i bambini si ammalano, questi sono costretti a mendicare per pagarsi le proprie cure. I numerosi diritti violati Dal punto di vista del diritto vi sono numerose questioni relative ai diritti umani e ai diritti dell’infanzia, pertanto la questione dei bambini Talibè in Senegal chiama in causa diverse convenzioni internazionali. Quando parliamo dei Talibè possiamo trovarci davanti a casi di schiavitù, lavoro forzato e traffico di esseri umani. Alcune ONG sostengono che quando un Marabutto acquisisce la custodia di un Talibè per costringerlo a mendicare, questo corrisponde alla definizione di una “pratica affine alla schiavitù” come definita dalla Convenzione supplementare sull’abolizione della schiavitù (1956). Inoltre la Convenzione sul lavoro forzato e obbligatorio (1930) descrive il lavoro forzato come “un lavoro che viene esercitato da qualsiasi persona sotto minaccia di qualsiasi sanzione e per la quale la persona in questione non si

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Ilaria-Alpi-Miran-Hrovatin-Somalia

L’omicidio di Ilaria Alpi e l’inchiesta sul traffico di rifiuti tossici in Somalia

Il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia, è stata assassinata, insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin, Ilaria Alpi. La giornalista dal 1992 effettuò diverse missioni per conto del TG3 per raccontare la missione di pace delle Nazioni Unite “Restore Hope” e il contesto somalo della guerra civile scoppiata a seguito della caduta del regime di Siad Barre nel 1991. Le indagini del Caso Alpi-Hrovatin si sono concentrate sull’ultimo reportage della giornalista che sarebbe dovuto andare in onda la sera del 20 marzo. Di quel reportage rimangono solo frammenti e filmati incompleti in quanto la versione integrale non arrivò mai in Italia. Di quell’omicidio ancora non è chiaro né il movente, né il mandante, né gli esecutori. Tra i principali protagonisti del Caso Alpi-Hrovatin si ricorda Giancarlo Marocchino, traportatore piemontese che per anni è stato un influente imprenditore di Mogadiscio. Per il SISMI, secondo una delle note declassificate, era “un imprenditore abile e furbo” in grado di lavorare per tutti e di districarsi nella Somalia sconvolta dalla guerra civile. Secondo il SISMI si occupava di logistica ed era sospettato di trafficare in armi e rifiuti tossici e radioattivi, sospetti che al momento non trovano un riscontro giudiziario. Sullo sfondo dell’indagine occorre inoltre tenere a mente il contesto somalo e in particolar modo il coinvolgimento Italiano in Somalia. La relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, approvata nel febbraio del 2006, ha analizzato diverse causali dell’omicidio tenendo in conto anche il fondamentalismo e la criminalità nel paese. Grazie ad un’analisi dei taccuini di Ilaria Alpi si è cercato di ricostruire i temi dell’ultimo reportage in modo da proseguire su tre linee di indagine: il traffico di armi, il traffico di rifiuti tossici e gli effetti della cooperazione italiana in Somalia. La cooperazione Italiana in Somalia Prima dell’inizio della guerra civile in Somalia l’Italia fu una stretta alleata del governo di Siad Barre, presidente-dittatore somalo fino al 1991, a cui vendeva armi che sono state accumulate in diversi magazzini del paese e che sono stati oggetto di interesse delle milizie e dei signori della guerra a seguito della caduta del regime. In generale si riconosce che l’Italia ha sostenuto economicamente e politicamente Siad Barre anche nel momento in cui il regime appariva completamente screditato agli occhi dell’opinione pubblica internazionale e alla maggioranza del popolo somalo. Tra le linee di indagine della Alpi rientrava la cooperazione dell’Italia con i paesi in via di sviluppo e in particolar modo con la Somalia. La giornalista era interessata al fenomeno degli aiuti in generale ed alla modalità di distribuzione degli stessi, oltre al fatto che essi potessero essere stati utilizzati per arricchimenti illeciti anziché per lo scopo per cui erano stati erogati. In particolar modo la Alpi era interessata alla strada Garoe-Bosaso e al progetto di pesca della Shifco. La cooperazione allo sviluppo in favore della Somalia fu voluta dal parlamento italiano nel 1979 con l’elargizione di ingenti finanziamenti. In particolar modo durante il periodo 1986-1989 il volume degli investimenti italiani in Somalia e nel corno d’Africa è aumentato in modo esponenziale per poi interrompersi con l’esplosione della guerra civile nel 1992. La relazione conclusiva della commissione parlamentare sostiene che nel decennio 1981-1990 l’80% dei fondi è stato destinato alla realizzazione di progetti definiti “fisici”. Di questi il 49% è stato destinato alla costruzione di grandi infrastrutture, il 21% alla realizzazione di investimenti produttivi e il 15% a investimenti definiti “socio-comunitari” (progetti che possono essere considerati a beneficio della popolazione). Tale assetto della cooperazione italiana è stato segnato da difetti di programmazione e mancanza di coordinamento con le iniziative multilaterali e internazionali. L’effettiva riuscita di queste iniziative di cooperazione, inoltre, è stata pesantemente minata dalla prerogativa alla tutela di interessi particolari che aziende, lobbies e gruppi di pressione italiane avevano in Somali e che non tenevano in conto i bisogni reali del paese. L’analisi di queste politiche di cooperazione internazionale è stata condotta durante la stagione di Tangentopoli. In questo quadro alcune inchieste fecero emergere una realtà nella quale gli stanziamenti per la Cooperazione con i Paesi in via di sviluppo erano una parte non trascurabile di tutto il sistema tangentizio italiano. Le indagini permisero di scoprire progetti costosi e inutili, stanziamenti multimiliardari, tangenti e traffici di ogni genere tra cui quello di armi verso la Somalia. A tal proposito la Commissione parlamentare di inchiesta sulla cooperazione con i Paesi in via di sviluppo del 1994 si recò in missione a Gibuti, in Somalia e in Kenya dal 29 gennaio al 31 gennaio del 1996. Il resoconto dei lavori sottolineò che ci furono molti errori di gestione e che molti soldi erano andati nelle mani sbagliate. Tra le opere più controverse finanziate dal governo italiano pertanto rientrano la strada Garoe-Bosaso e il porto di Bosaso, nonché il progetto di pesca oceanica e la relativa società di pesca “Shifco”. Per quanto riguarda la strada, il costo medio per chilometro è stato pari a 605 milioni, sproporzionato rispetto alle medie di spesa sul territorio italiano ma anche rispetto alle altre strade realizzate con i fondi della cooperazione allo sviluppo nel corno d’africa. Dall’altra parte all’inizio del 1979 si provò ad intraprendere un progetto di pesca oceanica che fu segnato da disastri e insuccessi. Venne così creata la società “Shifco” che dispose il trasferimento dei pescherecci dopo la guerra anti-Barre del ’90 nelle acque del golfo di Aden. Vi è un sospetto che tale iniziativa, caratterizzata da errori di progettazione gravi, sia servita soprattutto ad arricchire, non necessariamente per vie illecite, gruppi privati italiani e somali. La pista del Traffico di Armi in Somalia Ilaria Alpi prima di intraprendere il suo ultimo viaggio aveva individuato la zona di Bosaso, città portuale nel nord della Somalia, come una zona “giornalisticamente interessante” ed aveva intenzione di approfondire i temi legati al traffico di armi e l’intreccio con la “mala cooperazione” e il traffico di rifiuti tossici. Perseguendo questo obiettivo, la Alpi condusse indagini sulle navi della Shifco alla ricerca di riscontri. In particolar

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L’espropriazione dei diritti delle donne in Etiopia

In Etiopia, come in altre società tradizionali, il valore delle donne è misurato in base al loro ruolo di madri e mogli. Nelle città come nelle campagne, la divisione dei ruoli tra uomo e donna è ben definita, affidando al primo un controllo completo sulla vita della moglie che, costretta alla sfera domestica, raramente partecipa alla vita comunitaria. Nelle situazioni più estreme l’uomo esercita un controllo sul corpo stesso della donna, che troppo spesso viene sottoposto a tremende violazioni. Questa sottomissione istituzionalizzata del genere femminile risale ai tempi dell’occupazione italiana del Paese. I coloni bianchi hanno infatti giocato un ruolo importante nel fortificare il sistema patriarcale all’interno dei diversi gruppi etnici che popolano il Paese. Soprattutto a partire dal 1940, gli occupanti stranieri usavano le donne locali come concubine per fini di sfruttamento sessuale, usando la forza e la violenza quando queste si opponevano. Della donna etiope si parlava largamente anche in Italia, poiché veniva menzionata come uno dei motivi per cui era giusto emigrare nei territori di nuova occupazione. Il sessismo si è fatto così strada nella società etiope e rimane tutt’oggi una grave piaga da abbattere per permettere uno sviluppo realmente sostenibile in questo Paese. Oggi, Large Movements cercherà di far luce sulle caratteristiche che accomunano le donne etiopi, segnalando le maggiori difficoltà verso la parità di genere e le più gravi violazioni dei loro diritti umani che, come purtroppo succede in molti Paesi, restano saldamente ancorate alla società attraverso leggi, usanze e tradizioni che scoraggiano l’emancipazione della donna. I diversi livelli della discriminazione di genere Secondo il Global Gender Gap Report, pubblicato nel 2018 dal Global Economic Forum, l’Etiopia si classifica al 117° posto su 149 paesi, evidenziando uno stallo rispetto all’anno precedente sulla riduzione del divario di genere, già ampio in maniera allarmante. Il report analizza le disparità di genere utilizzando indicatori quantitativi in quattro contesti sociali utili a misurare la possibilità per le donne di auto-determinarsi e di rendersi indipendenti: 1. L’accesso al lavoro (indipendenza economica); 2. L’accesso all’educazione elementare, media e superiore, compresa l’università; 3. L’accesso alle cure sanitarie ed all’aborto; 4. La partecipazione attiva nella vita politica del Paese. Vediamo adesso le maggiori difficoltà che le donne affrontano negli ambiti sopraelencati, evidenziando anche le peggiori violazioni di diritti umani perpetrate ai loro danni all’interno della società odierna dell’Etiopia. 1. L’accesso al lavoro Le immense difficoltà di accesso alla professione riscontrate dalle donne etiopi vengono evidenziate dal tasso di occupazione femminile, che oscilla tra il 40 ed il 50%. Di questa percentuale, la grande maggioranza dei lavori corrisponde all’agricoltura ed all’allevamento, se non ad attività informali di scarsa rilevanza per l’economia famigliare. Inoltre, il restante della popolazione femminile si occupa delle attività di cura della casa e della famiglia – che vengono omesse dal conteggio perché non remunerate – ma non per questo non altrettanto faticose e degradanti. Tra queste, riteniamo opportuno menzionare il trasporto di carichi pesanti come le taniche d’acqua per decine di chilometri. Il divario di genere nel mercato del lavoro etiope è dunque elevatissimo, e questa condizione viene denunciata dal Report sull’Etiopia realizzato dalla Convenzione sull’Eliminazione di tutte le forme di Discriminazione contro le Donne (CEDAW), che condanna il controllo e lo sfruttamento delle donne compiuto secondo l’ideologia dominante in Etiopia. Questo risulta dunque determinante nell’impedire che la donna raggiunga uno status di indipendenza ed auto-determinazione. Le cause principali vengono identificate nelle pratiche di distribuzione delle risorse e delle opportunità e nella divisione del lavoro che non rispondono ai bisogni delle donne, bensì vanno ad alimentare il divario di genere. Il ruolo di subordinazione delle donne viene accentuato da politiche sociali, culturali ed educative che non garantiscono la loro tutela o che non vengono effettivamente attuate, andando peraltro a peggiorare la situazione di povertà nazionale. Nonostante la legge federale garantisca il diritto di pari accesso alla terra per uomini e donne, nella realtà dei fatti questa non viene applicata poiché le donne sono escluse dalla proprietà terriera, di fatto ostacolata anche per gli uomini a causa della nazionalizzazione della terra avvenuta nei primi anni ‘90. Infatti, il 70% delle donne sposate non ha possibilità di gestire i frutti del proprio lavoro agricolo poiché questo spetta al marito. La percentuale acquista rilievo se contestualizzata nella presenza schiacciante di lavori rurali del settore primario, rispetto agli altri settori, che da impiego a più del 65% della popolazione totale etiope. La difficoltà di accesso alle risorse è concreta: il livello di povertà e sottosviluppo della maggioranza delle famiglie è originato dalla carenza di risorse idriche derivanti anche dalle frequenti siccità; l’acqua viene recuperata e trasportata come possibile, pur significando viaggi lunghi e faticosi affrontati, spesso, dalle donne e dai bambini. 2. L’accesso all’istruzione In Etiopia quasi metà della popolazione è analfabeta. In un contesto fortemente rurale in cui i bambini abbandonano gli studi per poter portare un aiuto economico in casa, le donne sono i soggetti più colpiti dalla rinuncia all’istruzione. La scuola è frequentata in prevalenza da ragazzi soprattutto a partire dal livello secondario: la durata media di un percorso di studi di una studentessa in Etiopia è infatti di soli 8 anni, sempre secondo quanto evidenziato dal Report della CEDAW. La causa dell’abbandono scolastico della bambina a volte corrisponde con il matrimonio, spesso con un uomo di età molto più avanzata. I matrimoni precoci – o matrimoni forzati – sono un fenomeno largamente diffuso in Etiopia, a discapito della legge che stabilisce a 18 l’età minima per le nozze. A volte a questo segue una gravidanza precoce e l’impossibilità di varcare le mura domestiche per iniziare la carriera professionale. Secondo the World Factbook nel 2020 il tasso di fertilità è di oltre 4 figli per donna – in confronto, in Italia ammonta a 1.3 figli per donna -, dato comunque in miglioramento rispetto alla media di 7 figli registrata quaranta anni fa. Recentemente il Dipartimento di Genere del Ministero dell’Istruzione, in collaborazione con il Forum for African Women’s Education, ha introdotto una serie di programmi ed iniziative volte a scoraggiare

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INCHIESTA SUL CAMPO PROFUGHI DI KAKUMA: inferno terrestre per i migranti LGBTQ+

Per questo approfondimento abbiamo intervistato Tobias Pellicciari, Direttore di International Support – Human Rights “Migration and Asylum Program in Europe”. Tobias lavora da anni nel settore dell’accoglienza di migranti e rifugiati in Europa, con una particolare attenzione alle minoranze sessuali. Grazie alla sua esperienza ed alle interviste ad alcune delle vittime svolte dal team di LMPride, in questo articolo di inchiesta siamo in grado di restituire un quadro completo di quelle che sono le condizioni in cui i migranti LGBTQ+ sono costretti a vivere in Kenya. Ci focalizziamo in particolar modo sul campo profughi di Kakuma, gestito dall’Alto Commissariato per i Rifugiati – anche noto come UNHCR. Noi di Large Movements abbiamo già raccontato di come l’omofobia in Kenya sia una problematica tuttora presente in qualsiasi strato ed aspetto della società e del vivere civile e di come la comunità LGBTQ+ kenyota sia fortemente stigmatizzata ed emarginata. In questa intervista invece, vogliamo far luce sulle condizioni di migranti e richiedenti asilo che, scappati dal proprio Paese di origine, per lo più dall’Uganda, vengono discriminati in ragione del proprio orientamento sessuale ed identità di genere. Anche questi richiedenti vengono ospitati all’interno del campo profughi gestito da UNHCR a Kakuma. Fotografia dell’area Kakuma si trova nell’area nordoccidentale del Kenya, precisamente nella contea di Turkana, nella Rift Valley. Il campo profughi che si trova vicino alla città è stato fondato nel 1992 per ospitare 16.000 tra ragazzi e ragazze in fuga dalla guerra in Sudan. Oggi ospita più di 200.000 persone, diventando così uno dei campi profughi più grande al mondo. L’area in cui il campo sorge è prevalentemente arida e fortemente soggetta agli effetti dei cambiamenti climatici, che rendono quasi del tutto incoltivabili i terreni, sempre più minacciati dall’avanzamento del deserto. Il campo profughi di Kakuma è stato allestito in una zona isolata e fuori dai centri di aggregazione della città perché, a detta del governo keniota, in questo modo si tutela la sicurezza sia della popolazione locale che degli ospiti del campo. Questo rende ancor più difficile per rifugiati e richiedenti asilo che si trovano a Kakuma poter accedere a tutta una serie di servizi essenziali (ospedale, impiego ecc…). Per di più, le condizioni di vita all’interno del campo sono al limite – se non al di sotto – di ogni standard minimo di dignità umana: ci sono spesso infestazioni di insetti, il cibo scarseggia e la situazione igienico-sanitaria è al collasso. Le già ostiche condizioni di vita delle persone residenti a Kakuma, si complicano ancora di più, se ci si focalizza sulla comunità LGBTQ+ e sugli ospiti del campo che attendono l’asilo. Molte di queste persone, anche se non tutte, sono ospitate in settori separati (denominati anche “blocchi”) rispetto al restante dei residenti di Kakuma, per meglio garantirne la sicurezza – a detta del personale dell’UNHCR. Cosa vuol dire vivere a Kakuma per una persona LGBTQ+ Secondo i ragazzi intervistati, l’ulteriore isolamento in cui versa la comunità LGBTQ+ presente a Kakuma ha aggravato le condizioni di vita di questa categoria vulnerabile di migranti. L’averli posti in blocchi separati infatti, li ha resi più visibili e, quindi, più facilmente riconoscibili dagli altri ospiti in quanto LGBTQ+. Questi ultimi provengono molto spesso dagli stessi Paesi di origine dei richiedenti queer – prevalentemente Uganda e Somalia – quindi sono portati a mettere in atto gli stessi comportamenti omofobi, le stesse violenze e le vessazioni che hanno spinto gli ospiti LGBTQ+ di Kakuma a lasciare la propria terra. Rendendoli maggiormente visibili – confinandoli tutti nella stessa area – dunque, l’UNHCR avrebbe aumentato di fatto il rischio per i migranti LGBTQ+ di subire persecuzione e violenza. Questi atti violenti e brutali sono perpetrati all’ordine del giorno all’interno del campo di Kakuma e tutte le vittime con le quali abbiamo parlato lamentano di non aver ricevuto una vera e propria protezione da UNHCR che, molto spesso, non risponde alle loro richieste di aiuto e/ tutela. La situazione non è migliore per coloro che non risiedono nei blocchi separati. Questi ultimi, infatti, sono comunque noti agli altri ospiti come persone queer e sono soggetti agli stessi attacchi ed alle stesse violenze. Molti migranti LGBTQ+ di Kakuma si sono ritrovati a vivere fuori dalle baracche, dormendo all’aria aperta per proteggersi a vicenda, se non addirittura per strada a Nairobi. In questo modo si sentono comunque più sicuri rispetto a dormire negli alloggi loro assegnati nel campo. Molto spesso tra loro ci sono donne lesbiche con i loro figli, anche loro vengono sottoposti alle stesse violenze subite dalle loro madri. La decisione di dormire all’esterno arriva dopo una serie di roghi appiccati dagli altri residenti agli alloggi dei migranti queer, mentre gli stessi dormivano all’interno. Emblematico, come la situazione sia fuori controllo all’interno del campo e delle gravi mancanze del personale di UNHCR nella tutela di questa categoria vulnerabile di migranti, fu il caso del rogo del 15 marzo 2021, nel quale due ragazzi omosessuali sono stati bruciati vivi da altri residenti del campo di Kakuma. Per due lunghi giorni, UNHCR non ha neanche fornito una vera e propria assistenza sanitaria alle vittime dell’incendio, rimasti nel campo senza nemmeno avere accesso ad appropriate cure mediche. Dopo una fortissima pressione da parte di International Support – Human Rights, UNHCR ha trasferito i due ragazzi in ambulanza in un ospedale distante 125km da Kakuma, nonostante il personale stesso dell’ambulanza e la comunità locale avessero indicato l’ospedale di Nairobi come l’unico equipaggiato per curare la tipologia di ustioni riportate dai due ospiti. Finalmente, il 18 marzo, UNHCR – su pressione della Commissione Europea, allertata da Tobias – ha trasportato le vittime all’ospedale di Nairobi in eliambulanza. Purtroppo, uno dei due ragazzi è morto a seguito delle gravissime ustioni riportate e, soprattutto, della mancata assistenza medica tempestiva ed adeguata. L’unica dichiarazione rilasciata da UNHCR a seguito di questa tragedia risale a quasi un mese dopo ed è consistita in una generica richiesta alle autorità kenyote di investigare. Le indagini hanno immediatamente portato al riconoscimento dell’aggressore, che però ad oggi è ancora a

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Cos'è Boko Haram - Large Movements

Boko Haram: Bambini Kamikaze e diritti violati

In Nigeria le violazioni da parte di Boko Haram contro i bambini sono numerose e tra queste vi sono l’uccisione, la mutilazione, il reclutamento forzato, il rapimento, la violenza sessuale e gli attacchi contro scuole ed ospedali. Le Nazioni Unite hanno riscontrato oltre 3.000 violazioni da parte di Boko Haram contro i bambini nel nord-est del paese tra gennaio 2017 e dicembre 2019, tra cui oltre 1.000 bambini uccisi e l’uso di oltre 200 bambini per attacchi suicidi. L’efferatezza del terrorismo rappresenta un grave rischio per i diritti dei minori in Africa e nel Sahel. “L’Assalto all’educazione occidentale” e la violazione dei diritti dei minori in Nigeria Boko Haram ha gravemente violato la salute e i diritti dei bambini in Nigeria. Tra il 2009 e il 2015 l’organizzazione terroristica ha attaccato e distrutto più di 900 scuole e portato alla chiusura di più di 1.500 istituti per l’istruzione in quello che è stato definito come un vero e proprio “assalto contro l’educazione occidentale”. Solo tra il 20 febbraio e il primo marzo 2012 Boko Haram ha dato alle fiamme 12 scuole elementari, spesso attraverso attacchi coordinati contro più scuole. A seguito di questi attacchi si stima che 5.000 studenti non sono più potuti andare a scuola. In seguito a quegli attacchi un presunto portavoce di Boko Haram, Abul Qaqa, ha affermato che gli attacchi erano una risposta a quelli subiti dalle scuole coraniche ed all’arresto di insegnati islamici da parte delle forze di sicurezza. A tal proposito, si rileva che i funzionari nigeriani hanno a lungo accusato alcuni insegnati islamici del Nord-Est della Nigeria di utilizzare le scuole coraniche come luogo di reclutamento e formazione dei nuovi membri di Boko Haram. Occorre evidenziare che gli attacchi alle scuole ostacolano l’accesso all’istruzione di migliaia di bambini in Nigeria. I bambini da una parte rischiano la vita, dall’altra potrebbero vedere le scuole chiuse e abbandonare del tutto il percorso scolastico. Anche quando le classi riprendono dopo un attacco, la qualità dell’istruzione ne risente poiché gli studenti e gli insegnanti hanno paura e il materiale didattico viene danneggiato. Infine le minacce degli attacchi possono anche costringere le scuole vicine a chiudere o i genitori a tenere i figli a casa. A ciò si aggiunge che, a partire dal 2014, Boko Haram ha iniziato a rapire bambini e bambine da queste scuole per affiliarli all’organizzazione terroristica e costringerli ad affiancare i militanti, spesso per compiere attentanti suicidi. Un ulteriore pericolo per i diritti dei bambini è stato rappresentato dalla Civilian Joint Task Force (CJTF), gruppo locale formatosi nel 2013 per sostenere le forze di sicurezza nigeriane e contrastare le azioni di Boko Haram. Il gruppo è stato accusato di abusi come l’uccisione di uomini accanto ad una fossa comune, la deviazione di cibo destinato a famiglie affamate, il pestaggio di uomini e violenze sessuali sistematiche contro le donne. A ciò si aggiunge che la Civilian Joint Task Force nel 2016 è stata elencata negli allegati del Rapporto annuale del Segretariato generale per i bambini e i conflitti armati per il reclutamento e l’utilizzo dei bambini. Nel 2017 il gruppoha siglato, insieme ad UNICEF, un Piano d’Azione in cui si è impegnato a mettere in atto una serie di misure per porre fine e prevenire il reclutamento e l’utilizzo di bambini attraverso l’identificazione e la liberazione di tutti i bambini all’interno delle file del gruppo e l’istruzione dei suoi membri di non reclutare o ricorrere in alcun modo a bambini in futuro. Recentemente la Civilian Joint Task Force è stata elogiata dal gruppo di lavoro del Consiglio di sicurezza sui bambini ed i conflitti armati in quanto avrebbe facilitato il disimpegno di 2.203 ragazzi dalle sue fila. A ciò si aggiungerebbe il fatto che le Nazioni Unite non hanno riscontrato nuovi casi di reclutamento da parte del gruppo. L’educazione secondo Boko Haram Come già è evidente dal nome per Boko Haram – solitamente tradotto con “l’educazione occidentale è proibita” – il tema dell’educazione è fondamentale: l’organizzazione terroristica disapprova totalmente l’istruzione occidentale e impone lo studio secondo i precetti della Shari’a. L’educazione secondo Boko Haram può essere unicamente religiosa e riservata solo al genere maschile e per questo motivo attacca gli istituti femminili o gli istituti di cui non riesce a controllare il percorso di studio o che usano i libri di testo occidentali. Ciò farebbe parte della strategia di Boko Haram per imporre una forma molto rigorosa di Shari’a in Nigeria così da porre fine alla corruzione del governo ed alla diseguaglianza economica. Entrambe causate, secondo l’organizzazione, dalla cultura occidentale e dall’occidentalizzazione della Nigeria. L’educazione, inoltre, è importante perché i minori nei gruppi terroristici, a differenza dei bambini soldato, vengono sottoposti ad un intenso indottrinamento ideologico. I minori che finiscono nelle mani di Boko Haram infatti, imparano a desiderare di voler essere parte dell’organizzazione terroristica ed imparano ad odiare tutto ciò che viene considerato di origine occidentale, tramite la coercizione e l’esposizione prolungata alla “cultura del martirio”. Ai bambini viene quindi insegnato a resistere, lottare e soffrire per la vittoria finale e che il martirio non è un mezzo o una tattica di guerra, bensì un fine e un’impresa comunitaria. Boko Haram sottopone i bambini ad un intenso addestramento spirituale in cui vengono celebrati i dettagli della Jihad e si ricordano le ricompense che i martiri avranno nell’Al di là insieme alla propria famiglia, quest’ultima al contempo godrà di benefici durante la vita. Infine i bambini vengono addestrati all’uso delle armi e vengono iniziati al massacro, dapprima come testimoni poi come esecutori diretti. Il fenomeno dei bambini Kamikaze nella regione del lago Ciad Nell’ultimo decennio si è tristemente assistito all’allarmante crescita del fenomeno dei bambini kamikaze nella regione del lago Ciad, al confine tra Ciad, Camerun, Niger e Nigeria. Nel 2018 l’UNICEF ha dichiarato che Boko Haram utilizza i prigionieri civili per effettuare gli attentati suicidi e che un crescente numero di questi sono bambini: nel 2017 la percentuale di minori impiegati negli attentati è quadruplicata rispetto l’anno precedente. Altro dato tragico relativo in

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Diritti LGBTQ+ in Sudan

Il Sudan, che letteralmente significa “Terra dei Neri”, è uno Stato a maggioranza arabo-musulmana, la quale detta l’orientamento politico e religioso del Paese. Il processo di islamizzazione avviato il secolo scorso ha portato a discriminazioni che hanno fondamento nell’apparato legislativo e che hanno colpito non solo le minoranze etniche e religiose ma anche i membri appartenenti alla comunità LGBTQ+. Quadro Legislativo ed Impatto nella Società Civile Sebbene in Sudan non siano presenti esplicite leggi contro l’omosessualità, la sodomia è descritta come reato nel Codice penale del Sudan ed è punita con sanzioni severissime. Fino ad un passato drammaticamente recente, tra l’altro, era ancora prevista la pena di morte come punizione per un rapporto omosessuale.  Nel Codice penale sudanese la disciplina giuridica dei rapporti omosessuali è contenuta nell’articolo 148 dellasezione Reati di Sodomia, parte del quale recita: “Chiunque commetta l’atto di sodomia, sarà passibile di reclusione fino a cinque anni”. Per di più, in caso di recidiva sono previste pene progressivamente più severe, fino all’ergastolo. Grazie al lavoro degli attivisti ed il costante dissenso di una sempre più crescente parte della popolazione sudanese, nell’agosto 2020 il governo ha ceduto alle forti pressioni della società civile ed ha varato diversi emendamenti al Codice penale, dichiarando di voler “abolire tutte le leggi che violano i diritti umani dei sudanesi”. Tra i vari emendamenti è stata compresa una modifica al suddetto articolo 148, che ha definitivamente eliminato la pena di morte e la fustigazione dalle sanzioni previste per i rapporti omosessuali.  Menzione a parte poi, merita l’articolo 151 del Codice penale del Sudan che disciplina gli Atti Osceni, criminalizzando i rapporti sessuali non assimilabili alla sodomia e prevedendo per coloro colti in fragranza di reato la reclusione fino ad un anno – senza distinzione di pena tra donne e uomini.  Conseguentemente i membri della comunità LGBTQ+ non possono celebrare alcun tipo di unione né sono tra le categorie tutelate dalle leggi antidiscriminazione. Il Codice penale del Sudan non viene significativamente riformato dal 1991, quando i conflitti erano ancora aspri ed il governo cercava sempre più consensi da parte della popolazione musulmana integralista che domandava l’applicazione stringente dei principi della Sharia. Solo con la recente deposizione di Al-Bashir, autocrate al potere per quasi 30 anni, avvenuta nel 2019, si è potuta intravedere una speranza di cambiamento. Attualmente infatti, il Sudan è in continuo subbuglio: la stabilità governativa è precaria e gli scontri tra forze armate e civili sono sempre più frequenti.  Nonostante questo però, la lotta per la parità dei diritti della comunità LGBTQ+ in Sudan è ancora lunga dal concludersi vittoriosamente dal momento che l’omosessualità è ancora considerata un reato.  Percezione e Status Sociale Oltre a violare numerosi articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il Sudan ha sempre votato contro ogni proposta di risoluzione a favore di diritti LGBTQ+ avanzata dalle Nazioni Unite. Oltre alla repressione istituzionalizzata, ciò che rende ancora più difficile la vita degli individui appartenenti alla comunità LGBTQ+ in Sudan è l’intolleranza e l’omofobia radicate nella società. Tra le radici del problema un ruolo fondamentale lo gioca la religione. La maggior parte della popolazione, come abbiamo visto, è di fede musulmana conservatrice e come tale osteggia l’attribuzione dei diritti civili e sociali alle persone LGBTQ+. Per di più, sono grandemente frequenti gli episodi di maltrattamenti, non solo da parte delle autorità, ma soprattutto da parte delle famiglie delle persone che decidono di “uscire allo scoperto”. La tendenza generale è infatti quella di tenere nascosto il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere, al fine di autotutelarsi il più possibile. In una società in cui l’omosessualità è criminalizzata e le discussioni sulla sessualità sono tabù, internet è diventato uno dei modi in cui è possibile soddisfare le esigenze di informazione delle persone LGBTQIA+ e un luogo in cui possono creare connessioni e trovare sostegno e comprensione. Il Sudan però, è un Paese in cui i media tradizionali sono strettamente controllati dal governo ed il libero flusso di informazioni online viene spesso percepito come una minaccia dalle autorità. Per questo motivo, in momenti di instabilità o crisi il governo vara misure come la censura o la completa chiusura dell’accesso ad internet, per impedire a certe informazioni di circolare tra la popolazione. Queste restrizioni della libertà di informazione dei cittadini dunque, influiscono negativamente sull’attività della società civile e limitano la diffusione di informazioni in merito all’educazione sessuale e civile ed al godimento dei pieni diritti di uguaglianza da parte di ciascun cittadino sudanese. Questa attività di censura ha determinato la terminazione delle attività della prima associazione LGBTQ+ del Sudan, Freedom Sudan che fu fondata nel 2006 ma che risulta inattiva da vari anni. Un’altra organizzazione sta portando avanti il testimone: Bedayaa, che si rivolge agli individui LGBTQ+ della Valle del Nilo, regione collocata tra l’Egitto e il Sudan. Questa associazione è stata fondata nel luglio 2010 da volontari che hanno riconosciuto le somiglianze tra le lotte in questi due Paesi, in particolare per quanto riguarda la criminalizzazione e  la percezione religioso-culturale degli omosessuali. In ultimo, dal 2012 è sorta un’altra associazione – la Rainbow Sudan – che si batte per i diritti di tutti, compresi quelli di donne e bambini. Come dichiara il suo fondatore Mohamed infatti, nonostante “in questo momento il Paese non sia pronto ad aprirsi alle tematiche LGBTQ+, non abbiamo perso la speranza di farcela”. È evidente che la lotta per un futuro senza odio e discriminazioni non accenna a fermarsi, noncurante degli ostacoli da sormontare, e la comunità LGBTQ+ del Sudan è pronta a far sentire la propria voce. Se ti è piaciuto l’articolo, CondividiCi!

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