La rotta del Mediterraneo Occidentale

Tra il 17 e il 18 maggio 2021, in quasi 24 ore,  circa 8 mila persone sono entrate nell’enclave spagnola di Ceuta, punto finale della rotta del Mediterraneo occidentale, per richiedere asilo in Europa. Lì migliaia di migranti hanno cercato di superare l’unica frontiera che unisce l’Africa all’Europa rischiando l’ipotermia e la morte. Solo nei primi 6 mesi del 2021 sono stati registrati 13.483 arrivi lungo la rotta del Mediterraneo occidentale ma i dati, offerti da FRONTEX e dal Ministero dell’Interno spagnolo, non comprendono gli arrivi a Ceuta del 17 e del 18 maggio poiché il governo spagnolo ha schierato l’esercito e rimandato indietro quasi la metà delle persone che hanno tentato l’attraversamento.

La rotta del Mediterraneo Occidentale

Secondo l’Agenzia Europea per il controllo delle Frontiere Esterne (FRONTEX) sono otto le principali rotte che rifugiati e migranti percorrono nel tentativo di raggiungere l’Unione Europea: 1) la rotta orientale; 2) la rotta balcanica; 3) la rotta circolare; 4) la rotta atlantica; 5) la rotta del Mar Nero; 6) la rotta del Mediterraneo centrale; 7) la rotta del Mediterraneo orientale; 8) e la rotta del Mediterraneo occidentale.

La rotta del Mediterraneo occidentale  si riferisce agli arrivi in Spagna sia attraverso il Mediterraneo verso la Spagna continentale, sia verso le enclave spagnole di Ceuta e Melilla nell’Africa settentrionale. Chi sceglie di percorrere questa rotta, transita attraverso il Marocco, il Sahara Occidentale, la Mauritania e l’Algeria per raggiungere l’Europa.

La rotta del Mediterraneo occidentale nel 2018 è stata la rotta maggiormente utilizzata ma, da allora, il numero degli arrivi è costantemente diminuito a causa dei maggiori sforzi del Marocco nella lotta contro la migrazione irregolare, la cooperazione di Spagna ed Unione Europea con il Paese maghrebino e la pandemia legata al Covid-19.

Le frontiere sono sorvegliate dalle autorità marocchine, per nulla toccate dalle Primavere Arabe, in cambio di finanziamenti economici da parte del Governo di Madrid, garantendo un’intensa azione di contrasto ai flussi migratori provenienti dall’Africa subsahariana.

A ciò, si aggiunge il sostegno di FRONTEX al governo spagnolo attraverso il controllo delle sue frontiere esterne continentali con l’ausilio di operazioni marittime congiunte, come ad esempio l’Operazione Indalo.

Dopo gli eventi del maggio 2021 e la distensione dei rapporti con la Spagna, il Marocco ha cominciato ad erigere recinzioni di filo spinato alla frontiere di Ceuta.

L’entrata in massa di migranti sembrerebbe essere causato da una crisi diplomatica nata dopo che il governo spagnolo ha accolto sul proprio territorio Brahim Ghali, leader del Fronte Polisario. La questione riguarda il riconoscimento del Sahara occidentale in quanto provincia marocchina e la distensione dei rapporti tra i due Paesi è avvenuta in seguito alle dimissione del Ministro degli Affari esteri spagnola Arancha González Laya e la nomina di José Manuel Albares come nuovo Ministro.

L’azione marocchina sembrerebbe quindi essere stata un vero e proprio ricatto diplomatico a spese di migliaia di esseri umani ed il nuovo filo spinato non esclude che ciò riaccada in futuro.

La rotta del Mediterraneo Occidentale: le migrazioni come arma sulla questione del Sahara Occidentale

La rotta del Mediterraneo Occidentale sembrerebbe essere stata usata, nonostante le smentite ufficiali, come arma diplomatica ed alle origini della crisi del maggio 2021 sembrerebbe esserci stato un allentamento dei controlli alle frontiere da parte della polizia marocchina.

La mossa del governo di Rabat sembrerebbe essere una risposta alla decisione spagnola di accogliere sul suo territorio il leader del Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro, meglio noto come Fronte Polisario, ovvero del movimento indipendentista del Sahara Occidentale che ha  lo scopo di ottenere la realizzazione del diritto all’autodeterminazione per il popolo Sahrawi.

La questione della sovranità sul Sahara occidentale è al centro di una disputa da molto tempo e, dopo il riconoscimento da parte dell’amministrazione Trump della sovranità marocchina sul territorio, il Marocco sta facendo sempre più pressione affinché l’Unione Europea riconosca la sua sovranità.

Sahara spagnolo, province del sud, Repubblica Araba Sahrawi Democratica e Sahara occidentale sono tutti nomi che indicano la medesima porzione di territorio e ognuna traduce uno specifico “progetto politico” degli attori che hanno agito su di esso.

La questione del Sahara occidentale assume un ruolo di primo piano solo recentemente, con la fine del dominio coloniale spagnolo nel 1975.

Il periodo coloniale aveva visto un confronto tra gli spagnoli e la popolazione locale dei Sahrawi, un rapporto che vedeva colonizzatori e colonizzati. Negli ultimi anni della dominazione spagnola, anche a causa di questo scontro, il popolo Sahrawi ha iniziato a riconoscersi in un processo di costruzione nazionale e si sono compattati attorno al progetto indipendentista del Fronte Polisario.

La fine della dominazione spagnola ha però complicato vicenda e gli attori regionali, primi tra tutti il Marocco e la Mauritania,  colsero l’occasione per far valere le proprie rivendicazioni sul territorio Sahariano. Nel 1975 si giunse a una situazione di compromesso e venne sottoscritto l’accordo tripartito Ispano-Marocchino-Mauritano che di fatto spartì i domini spagnoli tra il Marocco e la Mauritania, suscitando il contrasto con le Nazioni Unite in quanto non si era data la possibilità al popolo Sahrawi di far valere il proprio diritto all’autodeterminazione come garantito dalla Risoluzione n.1514 del 1960.

Dopo la spartizione, il Fronte Polisario decise di proseguire l’obiettivo indipendentista con una strategia più strutturata dal punto di vista politico e militare.

Nel 1976 venne proclamata la Repubblica Araba Sahrawi Democratica, si costituì un governo in esilio presso il campo profughi di Tindouf in Algeria e si riorganizzò l’assetto militare con lo scopo di effettuare azioni di guerriglia contro i due Paesi del Maghreb.

Presto la Mauritania ebbe problemi a mantenere l’occupazione a causa delle proprie fragilità politiche ed economiche  e nel 1979 optò per il ritiro dal territorio. Il Marocco di risposta annesse repentinamente tutto il territorio e lo denominò “Province del Sud”.

Da allora la questione del Sahara Occidentale si è identificata nello scontro tra il Marocco, che vuole vedere riconosciuta la sovranità sulle province del Sud, e i Sahrawi, che vogliono vedersi riconosciuto il diritto all’autodeterminazione ed alla propria indipendenza.

I motivi dietro all’interesse Marocchino sull’area sono molteplici.

Dopo l’indipendenza dalla Francia avvenuta nel 1956, in Marocco iniziò un periodo di fermento nazionalista che confluì in una politica di recupero dei territori del Sahara e nella strategia di riconquista del “Grande Marocco, un mito nazionalista che prevedeva l’annessione di: Sahara Spagnolo, Mauritania, la regione Nord-occidentale dell’Algeria e quella settentrionale del Mali.

Oltre alle mire ideologiche vi erano anche quelle economiche in quanto si tratta di territori ricchi di miniere di ferro e di rame, di petrolio e, soprattutto nel Sahara Occidentale, di giacimenti di Fosfato, risorsa di cui il Marocco deteneva la leadership del mercato internazionale all’epoca del ritiro spagnolo.

Il tema dell’integrità territoriale e della riconquista delle frontiere storiche per raccogliere il consenso generale sulla popolazione non si è mai spento, pur passando attraverso fallimenti politici. Tra il 1981 e il 1986 il Marocco per giunta, ha costruito un muro di difesa a protezione del cosiddetto “triangolo utile”(El Aaiun, Smara, Bu Craa), ricco di giacimenti di fosfato e risorse. La maggiore sicurezza dalle azioni di guerriglia ha portato a maggiori interventi di sviluppo e investimenti determinando il controllo di fatto del Marocco sull’area.

Tutto ciò è importante in quanto il mito del “Grande Marocco” è utilizzato ancora oggi in vista delle elezioni che si terranno nel Settembre 2021: i partiti nazionalisti durante la campagna elettorale hanno utilizzato, oltre alla questione del Sahara occidentale, quella della rivendicazione del territorio spagnolo, dichiarando le città autonome di Ceuta e Melilla come “presidi occupati” dalla Spagna.

Il fervore nazionalista e gli interessi economici sull’area fanno sì che la questione del Sahara Occidentale rimanga ancora un obiettivo importante della politica estera marocchina.

Di conseguenza, migliaia di persone rischierebbero in futuro di essere “utilizzate” nuovamente come mezzo di pressione sui governi europei al fine di raggiungere questo obiettivo ed accumulare consenso politico al proprio interno.

L’esternalizzazione delle frontiere sulla rotta del Mediterraneo occidentale

Oltre alla questione del Sahara Occidentale, negli interessi del Marocco vi è la questione legata ai fondi dei Paesi europei verso i Paesi di origine e transito dei migranti per la gestione esterna delle frontiere. Di conseguenza l’allentamento dei controlli potrebbe essere stato utilizzato per negoziare un ulteriore aumento dei finanziamenti.

É da notare che l’Unione Europea in risposta agli eventi del maggio 2021 si è “fatta sentire” attraverso il suo Commissario per gli Affari Interni, Ylva Johansson, che ha ammesso che l’afflusso di migliaia di persone attraverso il confine di Ceuta è “preoccupante”.

Il Commissario europeo ha ricordato che il confine della Spagna con il Marocco è anche la frontiera dell’Unione Europea. Al 2021 il Marocco è beneficiario di sette progetti finanziati dall’Unione Europea in materia di migrazione, per un valore totale di 182,9 milioni di euro. Quasi la totalità dei finanziamenti (circa 175 milioni di euro) è destinata a “migliorare” la gestione della migrazione. Secondo un documento pubblicato da El Pais, il Marocco vorrebbe avere un ruolo centrale nell’esternalizzazione dei confini, e per questo chiede un budget di 450 milioni all’anno per un totale di 3,5 miliardi in 7 anni.

Alla negoziazione tra Marocco e l’Unione Europea si aggiunge quella tra il Marocco e la Spagna. Non a caso, infatti, il governo di Pedro Sánchez nel pieno della crisi ha annunciato di aver approvato 30 milioni di euro per il “supporto alla gestione dei flussi migratori”.

Oltre ai finanziamenti però, la Spagna ha fatto frequentemente uso della forza ed anche durante la crisi ha risposto con un dispiegamento delle forze militari, operando di fatto dei respingimenti sistematici denominati “devoluciones en caliente” (espulsioni a caldo) a ridosso della frontiera.

Si tratterebbe di una pratica contraria al diritto internazionale dei diritti umani e dei diritti di rifugiati e migranti.

Si trattatterebbe di una violazione del principio di non respingimento, violazione oggetto di analisi della controversa sentenza del febbraio del 2020 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sul caso N.D. e N.T. c. SPAGNA (Ricorsi nn. 8675/15 e 8697/15).

Di fronte a questa terribile condotta però, la Commissione Europea ha rilasciato dichiarazioni su quanto stava avvenendo senza ricordare che si trattava di procedure illegali, venendo così meno al suo ruolo di garante dei diritti all’interno dell’Unione Europea.

Uomini, non merci

Delle vicende di Ceuta una delle immagini che ci dovremmo portare dietro come simbolo dell’Europa che vogliamo è l’abbraccio tra due esseri umani, quello che la stampa internazionale ha definito come un abbraccio tra un migrante ed una volontaria.

Si tratta di un’immagine che riconosce l’altro nella sua umanità, nelle sue speranze e nelle sue paure. Si tratta di un abbraccio che accoglie l’altro in quanto essere umano e non come un numero o una merce di scambio.

Quello che preoccupa della gestione migratoria portata avanti dall’Unione Europea è che sempre più spesso il corpo di donne, uomini, bambini e minori rischia di diventare uno strumento di trattativa per mire geopolitiche, economiche e nazionaliste.

Fonti e approfondimenti

Camilli E., Ceuta, arrivi record nell’enclave spagnola. “Una crisi diplomatica sulla pelle delle persone”

Sempere A., Il Marocco erige recinzioni alla frontiera di Ceuta e mantiene i suoi impegni con l’UE

Consiglio Europeo – Rotte del Mediterraneo occidentale e dell’Africa occidentale

Pagnini M.P., Terranova G., Geopolitica delle rotte migratorie tra criminalità e umanesimo in un mondo digitale, Aracne editrice, 2018

Castels S., De Haas H., Miller M.J., The age of migration. International Population Movements in the Modern World, 2014

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Vice-presidente Large Movements APS | Climate Change e Migration Specialist | Dottore in Relazioni Internazionali | Blogger in Geopolitica, Geoeconomia e tematiche Migratorie | Referente LM Environment

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Bosnia Croazia Confine

Bosnia: L’urlo disperato dalla foresta innevata

Dopo mesi di respingimenti sistematici al confine fra la Croazia e la Bosnia, migliaia di richiedenti asilo sono costretti a sopravvivere nelle gelide foreste bosniache. L’Ufficio dell’Alto Rappresentante per i Rifugiati delle Nazioni Unite ha dichiarato: “L’ufficio è allarmato per la frequenza crescente con cui i rifugiati e i richiedenti asilo vengono espulsi e respinti alle frontiere terrestri e marittime dell’Europa, e chiede agli Stati di indagare e fermare queste pratiche” Effettivamente, i numeri e gli incessanti casi che continuano ad essere raccontati sia fra le prime pagine delle testate giornalistiche, che ai tavoli delle varie organizzazioni internazionali, che sono direttamente sul campo al fine di aiutare i rifugiati e gli sfollati, confermano tali attestazioni. Fra i casi più eclatanti e terrificanti di questi mesi bisogna soffermarsi sulla Bosnia-Erzegovina. Negli ultimi anni il paese è stato prettamente “di transito”, ossia uno stato che i rifugiati e richiedenti asilo attraversano per poi raggiungere le loro destinazioni finali lungo la Rotta Balcanica. Quest’ultima consiste nel tragitto che parte dai paesi d’origine ed attraversa la Grecia e tutti i paesi balcanici per arrivare in Europa. Dal momento che la Bosnia non è stata una delle principali protagoniste della prima grande ondata migratoria – la cosiddetta “crisi migratoria del 2015” – non era molto preparata a fronteggiare un arrivo massivo di migranti e richiedenti asilo. Il Paese non ha a disposizione centri d’accoglienza e forniture di prima necessità tali da poter ospitare tutti i richiedenti asilo che si trovano sul proprio territorio in questo momento. Ad ogni modo, ancora oggi la Bosnia continua a rimanere un paese di transito, questo perché ultima meta dei richiedenti asilo – dopo essere passati per la Grecia i cui confini esterni con la Turchia rappresentano una costante minaccia per gli equilibri geopolitici tra l’Europa e lo stato di Ankara che peggiora ulteriormente le condizioni di vita dei migranti– rimane l’Europa, percepita come luogo sicuro in virtù della presenza di maggiori servizi di accoglienza e quindi di maggiore stabilità. Sfortunatamente i continui respingimenti alla frontiera con la Croazia, condotti in maniera sistematica e spesso violenta dalla polizia croata, hanno costretto migliaia di richiedenti asilo a rimanere per mesi in Bosnia, dove ora trovano rifugio in condizioni al limite dell’umano e che, molto spesso, non rispettano gli standard umanitari di base. Ma cosa sono i Respingimenti, anche detti “Push-Backs”? I respingimenti, o push-backs, sono uno dei mezzi maggiormente utilizzati dagli Stati di frontiera durante le procedure di controllo dell’immigrazione ed avvengono sulla linea di confine o al di fuori del territorio dello Stato stesso. Questa ed altre procedure, infatti prendono il nome di pratiche d’immigrazione extraterritoriale. I respingimenti possono essere di due tipi: terrestri o marittimi. In mare un respingimento avviene quando, dopo che un gommone con a bordo migranti viene riconosciuto, viene abbordato dalla guardia costiera e susseguentemente trainato dalla stessa fino a raggiungere le acque territoriali dalle quali si presume che il gommone sia partito. Lo scopo ultimo è quello di far desistere i migranti – che secondo il diritto del mare, si trovano in una situazione di “distress”, ovvero difficoltà, in quanto lo stesso gomone è così sovraffollato che il rischio di affondare è elevato– nel ritentare il viaggio che li porterebbe in un porto sicuro. Uno dei primi casi, concernenti questa forma di respingimento è stato affrontato dalla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) in Xhavara et al., dove, nel 1997, nel respingere una barca ricolma di migranti albanesi, una nave della Marina Italiana, ha tentato una manovra di respingimento che ha portato al ribaltamento della barca stessa ed alla successiva morte di 58 richiedenti asilo. La Corte CEDU, in questo caso ha condannato lo Stato italiano per la violazione dell’Articolo 2 della Convenzione – diritto alla vita – in quanto il fatale incidente era stato causato direttamente dalla nave delle Marina Militare italiana. Altro famosissimo caso in cui la nostra Marina Militare si è resa protagonista è il caso Hirsi Jammaa, concernente sempre un respingimento avvenuto nel 2009, quando un gommone con a bordo migranti provenienti dalla Libia, era stato abbordato ed i migranti che trasportava erano stati fatti salire sulla nave militare italiana. A questo punto la nave li porta forzatamente in Libia, dove di alcuni di loro si perdono completamente le tracce, altri sono caduti vittime del traffico di esseri umani, mentre altri ancora sono stati rispediti nei loro paesi d’origine. Dal momento che la giurisdizione su una nave battente bandiera italiana è dell’Italia – quindi a bordo valgono le stesse leggi che valgono sul suolo nazionale – la Corte ha condannato l’Italia che non ha applicato come avrebbe dovuto tutte quelle norme provenienti dal Dritto Internazionale, dai vari trattati sui Diritti Umani e dal Diritto Europeo. Similarmente, i respingimenti su terra avvengono proprio quando la polizia di confine di un determinato paese, controlla i richiedenti asilo e li blocca o li rispedisce all’interno dello stato confinante, senza, applicare le norme sopracitate. Ma che leggi ci sono a protezione dei richiedenti asilo? La Convenzione di Ginevra del 1951, sullo status dei rifugiati, è uno dei trattati che maggiormente impone agli stati firmatari di bilanciare la loro sovranità territoriale e quindi, il loro potere sul territorio. Potere che, per altro, permette all’autorità statale di decidere chi può o non può entrare, con alcune garanzie di protezione da riservare anche a coloro che non sono classificati come cittadini. Infatti, anche se l’Articolo 14 – sul diritto d’asilo – della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo viene considerato un “diritto vuoto” dal momento che tale concessione è comunque subordinata alla discrezionalità dello Stato, d’altra parte gli stati firmatari e ratificanti della Convenzione di Ginevra hanno il dovere di garantire l’accesso alle procedure d’asilo e su di loro vige il divieto di respingere (non refoulment) gli individui che potrebbero essere esposti ad un serio rischio di persecuzione qualora fossero costretti a rientrare nel paese dal quale sono scappati. Questa “sfida” alla sovranità statale, può essere ritrovata sia nell’articolo 31 che 33 della Convenzione sullo status dei rifugiati.

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In un viaggio di viaggi. Fare volontariato a Calais.

Oggi andiamo ad esplorare il nord della Francia, a neanche tre ore dalla capitale, a Calais, una città apparentemente uguale al resto delle città francesi. Da sei anni a questa parte Calais è però diventata un porto d’arrivo per migliaia di rifugiati che sognano le coste inglesi. Le condizioni in cui vengono accolti e costretti a vivere sono uno scandalo dal punto di vista della dignità umana, denunciato a più riprese da organizzazioni umanitarie in tutta Europa. Le polemiche crescono ma le soluzioni reali sembrano ancora essere lontane. Una vasta rete di ONG francesi ed inglesi è l’unica vera fonte di salvezza per i rifugiati di Calais. Large Movements vuole promuovere un dialogo vivo e vero con i rifugiati, e ha deciso così di intraprendere un’esperienza sul campo di Calais, attivandosi con una delle principali ONG inglesi. Qui, la maggior parte dei migranti proviene dall’Afghanistan, Eritrea, Iran, Iraq e Sud Sudan. Per lo più sono uomini, tra i 16 ed i 40 anni. Questo perché i governi di provenienza impongono loro il servizio militare obbligatorio e l’unica via per sottrarsene è la fuga. Tra tutti i paesi in Europa, nonostante la Brexit e la barriera linguistica, l’Inghilterra resta tra le mete predilette e viene percepita da queste persone come la speranza per migliori condizioni di vita grazie al facile accesso al mondo del lavoro. Purtroppo, quest’ultimo, come testimoniano molti dei rifugiati, è il mondo del lavoro in nero, che non richiede tutti quei documenti e procedure burocratiche i cui tempi di attesa spesso superano quelli del viaggio per raggiungere le coste europee. Tra le ragioni che ispirano ad intraprendere un’esperienza di volontariato a Calais è proprio la posizione di questa realtà, scenario di una delle crisi umanitarie più gravi in Europa. L’espressione “crisi umanitaria” è normalmente associata a paesi lontani, a territori sperduti e contaminati dalla guerra. Eppure, la (non) gestione degli arrivi di immigrati in Francia ha fatto sì che il confine franco-inglese si sia trasformato in un luogo dove è scoppiata una profonda crisi umanitaria, violando diritti e principi fondamentali. La tristemente nota “Giungla di Calais” si trova nel dipartimento di Grand-Synthe, a Dunkerk, ad una ventina di km dal centro di Calais. Dallo smantellamento del 2016 in realtà, della Giungla rimangono soltanto delle tracce. Oggi i rifugiati si trovano in varie zone di accampamento tra il centro e fuori città, privi di una struttura di riferimento come ai tempi della Giungla. Le zone di accampamento sono infatti enormi aree che si sviluppano dove intorno non vi è assolutamente nulla oppure accanto a grandi centri commerciali, dove le ONG attive sul territorio organizzano quotidianamente la distribuzione di cibo e beni essenziali come vestiti, coperte o tende. Oltre all’ex Giungla di Calais, le distribuzioni avvengono in più punti della città: le piazzole situate sia di fronte l’ospedale principale sia nelle vicinanze del tunnel della Manica sono due tra questi. Il tunnel giunge fino in Inghilterra ed è da qui che tutte le notti molti rifugiati provano a salire su di un camion nel disperato tentativo di raggiungere la terra anglosassone. Dal 2017 il Comune ha messo a disposizione un servizio di docce per i migranti e, per i mesi più freddi, un sistema di dormitori per proteggersi dalla morsa del gelo. Tuttavia, la convivenza in stretti spazi e sotto il controllo di personale francese non è sempre la scelta prediletta dai migranti. Infatti, nel corso degli anni si sono ripetuti scontri e violente discussioni che hanno fatto chiudere o sospendere i servizi. Risale allo scorso gennaio la denuncia delle maggiori ONG circa l’attivazione di questi servizi perché, secondo la legge nazionale, spetta al prefetto decidere l’attivazione – e quindi anche l’interruzione o la sospensione – di questi servizi ma non sempre questa funzione è considerata una priorità nell’agenda amministrativa. A Calais lo stereotipo europeo del migrante – al quale la maggioranza della popolazione occidentale in qualche modo è assuefatta a causa del continuo bombardamento informatico e mediatico che lo diffonde quotidianamente – viene a cadere fin dal primo giorno. Si incontrano storie di persone che vogliono rivendicare un destino ingiusto, perché nati in paesi la cui miseria e violenza non ha permesso loro di vivere una vita degna di essere chiamata tale. I più giovani non hanno potuto frequentare la scuola ma riescono ad imparare da autodidatti l’inglese, a volte anche il francese o l’italiano, con una dizione ed una padronanza quasi perfetta. I più anziani lasciano spesso carriere brillanti nell’ambito della ristorazione o dell’estetica. È sorprendente ad esempio come i parrucchieri curino l’aspetto dei loro compagni anche sotto la neve o con il freddo che rende i campi immense distese di ghiaccio. Operare in un luogo del genere permette anche di scoprire la diversità delle nazioni di provenienza dei rifugiati e la loro organizzazione in territorio straniero. Gli Afghani, insieme agli Iracheni, Curdi ed Iraniani si “impongono” sul resto degli altri rifugiati dato il loro carattere particolarmente forte. Ad esempio, nelle attività sportive accade spesso che i Sudanesi o gli Eritrei siano esclusi o mal visti, a causa della loro esile forma fisica. Per quanto riguarda invece l’organizzazione delle comunità, gli Eritrei hanno una loro interna gerarchia: vi è un capo eletto che ogni giorno si occupa di ripartire i vari beni ricevuti. Interessante è anche capire come la popolazione di Calais percepisce e descrive lo scenario. Un primo elemento è legato allo scenario politico locale: dal 2008 Natacha Bouchart, rappresentante repubblicana, è il sindaco di Calais e fin da subito ha adottato una serie di misure per contrastare l’arrivo clandestino dei migranti, invocando un continuo scambio di informazioni con le autorità inglesi ed invocando che le stesse si assumano le proprie responsabilità in merito alla regolarizzazione dei flussi migratori. Il sindaco ha anche più volte denunciato l’operato delle organizzazioni perché “si servono dei migranti per esistere”. Al di là del discorso politico, vi è una parte dei cittadini di Calais che si lamenta della reputazione che ha ormai acquisito la loro città. “Calais viene ormai unicamente

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bandiera nagorno karabakh

Nagorno-Karabakh: una terra perennemente in conflitto

Il Karabakh (in azero Karabakh “giardino nero”) è una regione sita nella Transcaucasia, senza sbocco sul mare e facente parte dell’Altopiano Armeno. Più precisamente, si trova a sud-est della catena montuosa del Caucaso minore tra i fiumi Kura e Araz. Il territorio è diviso in due parti: una pianeggiante chiamata Basso Karabakh e l’altra montuosa, teatro di guerra nell’ultimo secolo, ovvero il Nagorno Karabakh. Gli albori Le prime tracce storiche di insediamento nel territorio risalgono al IV secolo a.C. quando il Karabakh era parte dell’Albània Caucasica. Il territorio di questo stato si espandeva dal Caucaso a nord, fino al fiume Araz a sud e dal mar Caspio a est, all’Iberia ad ovest. Questo stato era condiviso da diverse etnie principalmente turcofone, caucasiche e iraniche e, nello specifico, nella regione montana del Karabakh, chiamata Artsakh (o secondo alcune fonti antiche Orkhistena), vivevano Gargari, Uti, Unni, Cazari e Basili, alcuni dei quali ancora oggi presenti nel territorio. Dal 313 l’Albània Caucasica adottò come religione il Cristianesimo e questo permise allo stato di rimanere indipendente fino al VIII secolo. Infatti, dall’invasione araba lo stato transcaucasico diventa islamico, tranne nell’Artsakh dove la popolazione riuscì a mantenere la propria religione grazie alla forte influenza dell’Impero bizantino nel Caucaso meridionale, il quale istituì la Chiesa albàna caucasica. Tra il IX e il XIV secolo il Karabakh è stato parte di stati governati dai Sagidi, Salaridi, Sheddadidi, Atabeghi e Gialairidi. Solo dal XII secolo la regione venne rinominata con il nome di Qarabağ, ma solo dal XV secolo inizia a far parte del primo stato azerbaigiano che si chiamava Garagoyunlu poi diventato Ak Koyunlu. In questo periodo il reggente del Garagoyunlu conferì alla stirpe dei Jalalidi (che governarono la regione fino alla fine del XV) il titolo di melik, ossia di reggente. È interessante sottolineare che la dinastia azera ha fatto ricorso ad un titolo nobiliare tipicamente armeno, a riprova della forte commistione tra le due culture in questo periodo. Dal XVI secolo la dinastia Safavide prende il controllo di tutto il territorio del Karabakh, fino alla metà del XVIII secolo quando nell’antica Albània Caucasica si formarono dei khanati tra i quali c’era il khanato del Karabakh. Questo khanato era popolato da azerbaigiani musulmani e da albàni caucasici cristiani. La Transcaucasia al centro degli interessi delle potenze mondiali Dalla fine del XVIII fino agli inizi del XIX secolo la Transcaucasia diventò territorio di scontro fra la Russia, l’Iran e l’Impero Ottomano. Alcuni territori si difesero fino alla fine, altri invece furono costretti ad accettare dei patti di vassallaggio. Tra questi, il Karabakh passò sotto il controllo della Russia il 4 maggio del 1805. Secondo fonti russe del 1810 nel Karabakh vivevano circa 9500 famiglie azerbaigiane e 2500 armene. Ed è proprio in questo periodo che iniziano ad originarsi le ragioni che porteranno poi al conflitto. Il territorio transcaucasico prima della conquista russa faceva parte dell’Impero Ottomano, che proteggeva chiunque fosse musulmano creando i cosiddetti khanati – equiparabili a regioni indipendenti, rette da un sovrano autonomo chiamato Khan. Tutte quelle popolazioni che non godevano di grande protezione all’interno dell’Impero Ottomano invece, sostennero l’avanzata russa. Tra queste ultime vi erano anche gli armeni che speravano così di poter ottenere un territorio dove istituire uno stato armeno indipendente. Le varie battaglie che ne conseguirono però, portarono a un’emigrazione di massa di armeni dall’Iran e dall’Impero Ottomano verso i nuovi territori conquistati. Secondo lo storico russo Shavrov, tra il 1828 e il 1830 furono trasferiti 40.000 armeni dalla Persia e 84.000 dall’Impero ottomano. La seconda “ondata” di armeni arrivò dopo la guerra tra Turchia e Russia del 1877-1879, periodo nel quale si verificò una deportazione di massa degli armeni verso la Russia. La popolazione armena venne sfruttata da tutte le maggiori potenze dell’epoca: la Russia si serviva degli armeni ortodossi per avere uno sbocco verso Sud per il Mediterraneo, così da bloccare il passaggio verso l’India alla Gran Bretagna; la Gran Bretagna faceva appello agli armeni protestanti nel tentativo di ottenere un passaggio migliore verso l’India; infine la Francia si serviva degli armeni cattolici per proteggere i propri interessi nel Medio Oriente. Finita la guerra russo-ottomana venne firmato il trattato di pace di Santo Stefano il 3 marzo del 1878. La Russia fece inserire una clausola con la quale gli ottomani erano costretti a riformare i vilayet (province dell’Impero Ottomano) dove vivevano gli armeni aggiungendo la condizione che le truppe russe sarebbero rimaste a difesa dei territori occupati fino a che dette riforme territoriali non venivano messe in atto. Questa dura presa di posizione russa non fu ben accolta dai britannici, che la percepivano come minaccia diretta ai propri interessi nel Vicino Oriente. La clausola fu dunque rettificata in peius: nei territori dove si trovavano gli armeni furono stanziate le truppe di tutte le grandi potenze partecipanti al congresso di Berlino. Gli armeni, nel tentativo di ottenere la salvezza ed un territorio sul quale costituire un nuovo stato armeno, rifiutarono l’appoggio russo e si affidarono alla Gran Bretagna. La superpotenza però, una volta ottenuta l’isola di Cipro dalla Turchia, non si curò più degli armeni e questi rimasero bloccati ed isolati in Transcaucasia senza vedersi riconosciuto nessuno stato. La nuova realtà transcaucasica In reazione al tradimento inglese, fu creato il partito Hunchak (Campana) nel 1887 a Ginevra, basato sui principi marxisti e composto esclusivamente da armeni provenienti dalla Russia. Successivamente nel 1890 a Tbilisi venne fondata la Federazione dei rivoluzionari armeni conosciuta come Dashnak, di stampo tipicamente socialista. Queste due organizzazioni avevano come obiettivo quello di creare nelle sei province orientali dell’Impero Ottomano uno stato unico di matrice socialista che si sarebbe chiamato Armenia Turca, ma questo era solo l’inizio: infatti l’obiettivo finale era quello di riconquistare i vecchi territori del Regno di Armenia del I secolo a.C. Dal momento che i Dashnak erano un gruppo terroristico, per raggiungere questo obiettivo gli stessi non esitavano ad usare la forza nei confronti di chiunque si fosse opposto. Non avendo avuto fortuna in Anatolia, i Dashnak si spostarono in Transcaucasia: iniziarono allora

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La frontiera Stati Uniti – Messico: muri visibili e invisibili

In quattro anni di presidenza, Donald Trump non ha mai fatto mistero delle sue intenzioni di chiudere definitivamente la frontiera con il Messico, a sud degli Stati Uniti. La costruzione del muro che separa questi due Paesi, già iniziata negli anni ‘90, è stata infatti uno dei punti saldi della sua campagna elettorale. Questa prevedeva l’implementazione della barriera per impedire l’immigrazione dall’America Latina, con un forte impatto sulle risorse economiche e ambientali, nonché sui diritti umani. A livello mediatico la sua feroce retorica contro l’immigrazione ha suscitato scalpore. Secondo le sue dichiarazioni, non solo il muro sarebbe stato finanziato dai messicani, ma lo stesso status di immigrato sarebbe stato ridefinito legalmente tramite l’imposizione di norme più restrittive. La sua politica migratoria si sarebbe basata sul rimpatrio e l’incarcerazione di centinaia di migliaia di persone. Nell’arco del suo mandato presidenziale egli ha effettivamente rafforzato la barriera di confine, ostacolando ulteriormente l’immigrazione attraverso legislazioni e burocrazie. Questo non ha impedito a migliaia di sudamericani di avventurarsi nella traversata dell’America centrale, nel tentativo di scavalcare la barriera, mettendo a rischio la propria vita e la propria incolumità nella disperata ricerca di una protezione. Le cause della migrazione Il passato coloniale del continente americano ha plasmato la situazione sociopolitica ed economica odierna in maniera decisiva. Le popolazioni precolombiane furono infatti sterminate o confinate in zone isolate dai nuovi coloni europei del XVI secolo, i quali si incaricarono così di riscrivere da zero la storia della società americana. La nascita degli Stati Uniti come federazione di stati sovrani ha spostato l’ago della bilancia geopolitica da est a ovest. Con la sua escalation a superpotenza mondiale, l’influenza statunitense sul resto del continente è stata determinante nell’impedire lo sviluppo dei Paesi del sud. La condizione economica che ne è emersa ha visto dunque gli Stati Uniti prendere il controllo della produzione, del commercio e della manodopera del sud. Alla stessa maniera, dal punto di vista sociopolitico, l’America Latina e centrale sono sempre state soggette all’interventismo degli USA nelle questioni interne. La sua prepotente influenza sul resto del continente ha dato forma ad una società molto ineguale, con delle forti élite di imprenditori e politici benestanti che governano sulle grandi masse di popolazione svantaggiata, carente di qualsiasi tipo di assistenza sociale e relativamente povera. Queste sono le motivazioni principali che hanno destato un forte sentimento antiamericano nelle popolazioni dell’America centrale e del sud. Tuttavia – per le stesse ragioni – migliaia di persone ogni anno lasciano la propria casa e si incamminano verso nord. Il muro che divide gli Stati Uniti dal Messico è dunque un muro mentale, oltre che fisico. Questo non solo divide i due Paesi e i rispettivi continenti, ma anche due società, due ideologie di vita opposte. I privilegiati dagli svantaggiati, ed i governanti dai governati. Ed è per questo che molte persone rischiano la vita per scavalcare quel muro. La rotta verso la frontiera Stati Uniti – Messico Il muro di confine è solo il traguardo di un lungo viaggio. La rotta migratoria che interessa la regione inizia dai Paesi del centro America, prevalentemente dall’Honduras ed El Salvador, attraversa il Messico e raggiunge la frontiera. Il cammino è ricco di ostacoli e pericoli. Chi viaggia da solo rischia di essere rapinato, rapito o addirittura ucciso dalle gang criminali che militano in queste zone e che sono concausa della migrazione in sé. Al confine, poi, dove non c’è il muro c’è il deserto più caldo del Messico. La frontiera occidentale con gli Stati Uniti, infatti, si trova in mezzo al deserto di Sonora. Molti migranti terminano la loro traversata proprio qui, soccombendo al caldo, alla disidratazione, alla fame e alla stanchezza. Secondo i dati raccolti dall’associazione No More Deaths, che si occupa di soccorrere i migranti nelle zone desertiche di Sonora, in quattro anni sono stati rinvenuti 1086 cadaveri. Il conteggio, includendo solo i corpi rinvenuti dagli ufficiali della polizia di frontiera (Border Patrol) in territorio statunitense, non risulta accurato poiché taglia fuori tutti coloro che hanno perso la vita in terre messicane. L’entità della tragedia che ogni anno si abbatte su questa regione ha fatto sì che alcune organizzazioni si interessassero al fenomeno migratorio in corso. Oltre No More Deaths, anche Humane Borders si occupa di assistere i migranti in difficoltà. Più a monte del processo migratorio, in Honduras, l’associazione Pueblos Sin Fronteras organizza la partenza dell’esodo, raccogliendo e accompagnando carovane di vari popoli caraibici, da San Pedro Sula fino alla frontiera Messico – Stati Uniti. Così, migliaia di migranti marciano insieme attraverso il Guatemala e poi il Messico nel tentativo di scappare dalla violenza, dalla povertà e dalla repressione politica subìta nel proprio Paese. L’immigrazione negli Stati Uniti La presidenza di Donald Trump ha buttato benzina sul fuoco della questione dei migranti, intavolando una guerra economica e diplomatica contro il Messico. Dopo il rifiuto a contribuire al muro, il presidente messicano Enrique Peña Nieto ha ceduto alle minacce di bloccare le rimesse degli immigrati, di alzare i dazi e le tasse sulle domande di visto e di applicare tariffe commerciali sfavorevoli al Messico. Dal 2018 il presidente ha intrapreso la scelta strategica di bloccare la carovana in territorio messicano. Alcuni migranti vengono rimpatriati, altri si fermano in Messico in attesa di una risposta alla richiesta di asilo negli Stati Uniti. Altri ancora decidono di fermarsi qui in pianta stabile, accettando l’offerta di un permesso di soggiorno temporaneo che possa permettere loro di trovare un lavoro e ricevere assistenza medica. Anche chi è riuscito a scavalcare il muro spesso finisce per essere “riconsegnato” al Messico. Nel 2019 più di 60mila persone sono state espulse dal territorio statunitense. Dal 2018 il governo di Trump, tramite la politica “zero tolerance”, ha inaugurato la pratica di divisione delle famiglie di migrati alla frontiera. Questa prevede la separazione tra i clandestini adulti e i propri figli. I primi vengono incarcerati, mentre i minorenni vengono affidati in custodia a strutture apposite situate in tutto il Paese. La dichiarazione di un alto funzionario giuridico dell’entourage di Trump lascia

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