Nagorno-Karabakh: La guerra dei quarantaquattro giorni.

Nagorno-Karabakh

Il Nagorno-Karabakh una regione perennemente contesa fra due stati, Armenia ed Azerbaijan, si è ritrovata nuovamente la protagonista principale di una guerra durata quarantaquattro giorni.

La regione che comprende la Repubblica dell’Artsakh – uno Stato non riconosciuto a livello internazionale e satellite dello Stato armeno – è locata nel Caucaso del Sud, territorio a nord della Turchia e dell’Iran.

Nagorno” deriva dalla parola russa “montuoso” mentre “Karabakh” in turco, significa “giardino nero”. Il nome stesso ci racconta della dualità di questa regione facente parte dell’ex-Unione Sovietica a maggioranza armena e circondata, nella sua totalità, da distretti azeri. Il Nagorno-Karabakh sotto Josef Stalin, diventa una regione autonoma all’interno della Repubblica Socialista Sovietica Azera, circondata quindi da distretti con maggioranza di popolazione azera. Durante le riforme della Perestrojka nel 1991, la regione indisse un referendum votando per la secessione del governo azero e per la creazione della Repubblica dell’Artsakh. Con il 99,8% dei voti a favore la regione, si auto-determinò diventando – pochi giorni prima dello scoppio della prima di una numerosa serie di conflitti – una repubblica democratica come si può leggere nei nostri due precedenti articoli a cura di Mattia Ignazi e di Livia Nataloni.

La prima guerra del Nagorno-Karabakh, che uccise 30.000 persone, durò fino al 1994 quando i due Stati belligeranti, grazie all’aiuto internazionale del cosiddetto Gruppo Minsk – una coalizione fra Francia, Russia e Stati Uniti che si era posta come mediatore principale del conflitto – firmarono l’Accordo di Biškek. Quest’ultimo impose un cessate il fuoco senza però riuscire a trovare un’efficace soluzione per la pace della regione, lasciandola sotto il controllo armeno.

Ciononostante, negli ultimi decenni l’accordo è stato violato varie volte e, lungo la linea di confine fra Armenia e Azerbaijan, sono avvenute numerose schermaglie. Ogni anno infatti, fra la primavera e l’estate, veniva infranto il cessate il fuoco fra le parti, si assisteva a delle sparatorie ed alla cattura di soldati ad opera di entrambe le parti – spesso “utilizzati” come merce di scambio per costringere l’altra fazione a liberare i propri militari fatti prigionieri. Uno degli scontri più violenti avvenne nel 2016 e venne rinominato la guerra dei quattro giorni, per la rapidità in cui si susseguirono battaglie così cruente.  

Le prime avvisaglie della guerra dei quarantaquattro giorni in Nagorno-Karabakh si ebbero a luglio 2020, mentre l’attenzione dei giornali internazionali erano focalizzata esclusivamente sulla battaglia contro il Covid. Il 29 luglio l’Azerbaijan iniziò, sulla linea di confine, una serie di esercitazioni militari che durarono fino ai primi giorni di agosto, riprendendole nei primi di settembre con l’aiuto dell’esercito turco. Nel frattempo, anche lo Stato armeno svolse una serie di esercitazioni militari all’interno della Federazione Russa. Uno degli ultimi scontri violenti, a metà luglio di quest’anno, ha causato 17 morti su entrambi i lati ed ha implicato l’uso di artiglieria pesante e di droni.

Lo scoppio

Il 27 Settembre 2020 è scoppiata la guerra che per quarantaquattro giorni ha imperversato fra Armenia e Azerbaijan nella regione del Nagorno-Karabakh. Nella domenica mattina del 27 settembre sono iniziati i primi scontri violenti lungo la frontiera durante i quali ci furono perdite di vite umane da ambo le parti. I rapporti a riguardo confermano anche il continuo uso di artiglieria pesante e la mobilitazione aerea e missilistica.

Successivamente a questi attacchi l’Armenia ha dichiarato la legge marziale ordinando ai suoi soldati di mobilitarsi. Il presidente Nikol Pashinyan, si è rivolto ai cittadini dicendo di “essere pronti a difendere la nostra patria sacra”. Il governo armeno ha accusato la sua nemesi di aver attaccato degli insediamenti civili nella regione del Nagorno-Karabakh fra cui anche la capitale di Stepanakert. Il Ministero della Difesa armeno ha dichiarato inoltre, che l’esercito era riuscito ad abbattere due elicotteri azeri e tre droni in risposta all’attacco mattutino.

D’altra parte, il Ministro della Difesa azero ha asserito che gli attacchi lanciati la mattina del 27 Settembre, erano parte di una controffensiva per sopprimere le attività militari armene e tutelare la sicurezza della popolazione tramite l’uso di carrarmati, missili, aviazione da combattimento e droni. Il Ministero ha inoltre riportato che, pur se gli stessi aerei sono stati abbattuti dal governo armeno, l’equipaggio al loro interno sarebbe sopravvissuto. La presidenza azera ha inoltre dichiarato alla popolazione di “aver subito delle perdite sia militari che civili a causa dei bombardamenti armeni”.

Nella Regione del Nagorno-Karabakh, i rappresentanti della Repubblica hanno anch’essi imposto la legge marziale ed ordinato ai cittadini di mobilitarsi, inoltre l’ufficiale dell’ombudsman Artak Beglaryan ha dichiarato che ci sono state delle morti civili fra la popolazione della regione a causa degli scontri armati.

La Guerra

Centinaia di morti, tra cui dozzine di civili e decine di migliaia di sfollati interni da entrambe le parti, questi sono i numeri che, in meno di due settimane, hanno stravolto nuovamente la vita della popolazione del Nagorno-Karabakh. L’Armenia in sole due settimane di guerra ha perso più di 400 soldati, molti dei quali avevano solo 20 anni. Lo stato azero, al contrario, ha deciso di non dichiarare la conta dei propri morti fino alla fine della guerra. In ogni caso, il bilancio sembrerebbe molto più alto di quanto riportato dai numeri. Questo fino a sabato 10 Ottobre, quando un fragile cessate il fuoco è stato annunciato grazie alla mediazione della Federazione Russa.

Sfortunatamente, le ostilità sono ricominciate il giorno dopo quando sia l’Armenia che l’Azerbaijan, si sono accusati a vicenda di aver violato il cessate il fuoco attaccando la controparte. Domenica 11 ottobre un missile a lungo raggio ha colpito un appartamento nella seconda città più grande dell’Azerbaijan, Ganja, uccidendo 9 persone mentre, nel frattempo, l’Armenia accusava le forze azere di aver bombardato la città più grande della regione del Nagorno-Karabakh, Stepanakert e la cittadina di Hadrut.

I reports dell’Ombudsman per i diritti umani del Karabakh hanno dichiarato che, nelle prime due settimane di guerra, le perdite civili della parte armena sono state 20 – di cui 12 uomini ed 8 donne – inoltre, 101 persone sono state ferite negli scontri. Sono stati riportati danni su larga scala ad edifici civili ed infrastrutture: in totale, sono state distrutte 5800 proprietà e 520 veicoli privati; mentre le infrastrutture che hanno riportato dei danni strutturali sono state 960 fra civili, pubbliche ed industriali. Infine, il bilancio parla di 70.000 persone sfollate.

Domenica 11 ottobre, l’ufficio del Procuratore Generale azero ha dichiarato che 41 civili sono stati uccisi e 205 persone sono state ferite dagli attacchi armeni. Le forze armene hanno inoltre distrutto 1165 case, 57 edifici e 146 uffici pubblici.

Ma neanche questo è riuscito a fermare gli scontri.

In meno di un mese 65 azeri e 37 armeni facenti parte della popolazione civile sono stati uccisi, mentre la conta dei soldati morti sotto l’artiglieria da tutte e due le parti è almeno dieci volte più alta. In aggiunta a tutto questo, migliaia di persone sono fuggite dalla città più grande del Nagorno-Karabakh, Stepanakert, cercando di raggiungere e rifugiarsi nella vicina Armenia, quelli che non sono riusciti o non hanno voluto scappare, si sono dovuti nascondere sottoterra iniziando a vivere nei rifugi anti-bomba. Anche in Azerbaijan, la popolazione è scappata dalle città più colpite, come Tartar, andandosi a rifugiare in aree più sicure della nazione.

La comunità internazionale, già pesantemente colpita dalla pandemia di Covid-19, sta assistendo passivamente al conflitto. In 50 giorni, infatti, ci sono stati 3 tentativi di cessate il fuoco a fini umanitari che avrebbero consentito lo scambio di prigionieri ed il recupero delle salme dei caduti in guerra, mediati da attori internazionali, che purtroppo hanno fallito. Il primo cessate il fuoco, come già detto, mediato dalla Federazione Russa non è durato nemmeno 24 ore. Il secondo, è avvenuto una settimana dopo, a seguito di una chiamata telefonica del Ministro degli Affari Esteri Russo Sergey Lavrov con le sue controparti armene ed azere. Il terzo, mediato dagli Stati Uniti era entrato in vigore il 26 ottobre. In tutti questi casi le parti in guerra si sono accusate reciprocamente di aver violato il cessate il fuoco poche ore dopo che gli accordi erano entrati in vigore.

Una guerra non solo sul campo.

La guerra dei quarantaquattro giorni in Nagorno-Karabakh non è stata combattuta solo sui campi di battaglia ma di pari-passo anche sul campo mediatico.

Ad esempio, un video musicale è stato prodotto nella Cattedrale di Ġazančec’oc’, anche conosciuta come Cattedrale del Salvatore di Shushi in Nagorno-Karabakh. La cattedrale, che secondo gli ufficiali armeni è stata bombardata l’8 ottobre da due attacchi delle forze azere, è diventata il palcoscenico per il video musicale del violoncellista armeno Sevak Avanesyan. Il brano, suonato intorno ai bianchi detriti di quello che un tempo era la cattedrale, intitolato Krunk, è stato composto da uno dei maggiori compositori tragici armeni, Komitas, che soffrì di esaurimento nervoso dopo essere sopravvissuto allo sterminio armeno perpetrato dalla Turchia Ottomana e che, successivamente morì in un istituto psichiatrico di Parigi. Il video musicale è stato postato il 12 ottobre dal governo armeno, con un chiaro messaggio riferito ai bombardamenti azeri, ma volto anche ad ipotizzare un nesso fra questi bombardamenti ed il genocidio armeno.

Per l’Azerbaijan tali affermazioni sono del tutto false. Gli ufficiali governativi infatti hanno negato completamente non solo l’ipotesi di questo nesso, ma anche i bombardamenti stessi. Il Ministro della Difesa azero ha infatti dichiarato che le informazioni rilasciate riguardo il danneggiamento della cattedrale di Shushi non hanno niente a che fare con le operazioni militari azere in quanto, l’esercito azero, non ha come target monumenti storici, culturali o religiosi. Per gli osservatori azeri il video musicale è parte di una più larga campagna mediatica contro Baku.

Alcuni analisti politici azeri affermano che il lato armeno rilascia deliberatamente delle fake news, come, per esempio, la partecipazione di alcuni mercenari siriani assoldati da Ankara per combattere al fianco dell’esercito azero. Successivamente a queste affermazioni, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha completamente smentito tali notizie affermando che comunque, supporta i suoi alleati azeri.

A questo si è unita anche la voce della first lady azera Mehriban Aliyeva che tramite un post di Facebook ha scritto: “[…] siamo tutti soldati che devono fare del loro meglio per sfatare le bugie armene. Esorto ognuno di voi a smascherare i falsi della propaganda armena ed a rivelare la verità sull’aggressione armena alla comunità internazionale su tutte le piattaforme disponibili! Tutti coloro che considerano l’Azerbaijan la loro madre patria devono alzare la voce e confutare le bugie armene! […]”

D’altro canto, anche analisti politici armeni accusano il lato azero di evidente propaganda di guerra, dicendo che il presidente azero Aliyev stesso – che ha ereditato la presidenza come le politiche autoritarie da suo padre Heydar – controlla fermamente i canali mediatici statali, il governo azero viene infatti accusato dalla sua controparte di non rilasciare importanti informazioni durante il periodo di guerra, come ad esempio la conta dei morti che è stata divulgata solamente al cessarsi delle ostilità.

Si può quindi notare come la guerra sul campo è accompagnata da una feroce guerra mediatica costellata da informazioni trattenute e da accuse da ambo le parti. Di queste possiamo notare soprattutto le accuse che sia l’Armenia che l’Azerbaijan si sono rivolte riguardo il diritto internazionale umanitario, e quindi imputandosi l’un l’altro di crimini di guerra.

Il trattato di pace

Lunedì 9 novembre, successivamente alla conquista della città di Shushi da parte delle forze azere che, grazie alla vittoria sulla città, si erano spinte fino alle porte di Stepanakert – la città più importante della regione del Nagorno-Karabakh – il Primo Ministro Armeno, Nikol Pashinyan, ha dichiarato tramite un post su Facebook di aver firmato il cessate il fuoco per la conclusione del conflitto, definendola una “decisone molto difficile per me e per tutti noi […] ed indicibilmente dolorosa per me personalmente e per il nostro popolo.”

L’accordo, mediato dalla Federazione Russa ed entrato in vigore all’ 1:00 GMT del 10 novembre, prevede che le forze armene si dovranno ritirare dai sette distretti contesi del Karabakh e anche dalla città di Shushi, che rimane sotto il controllo azero. Inoltre, sul Corridoio di Laçın – una striscia di territorio di 9km di larghezza che rappresenta il punto più vicino fra l’Armenia e la regione del NagornoKarabakh e che, prima della guerra dei quarantaquattro giorni si trovava sotto il controllo della Repubblica dell’Artsakh – devono essere schierati 2.000 peacekeepers russi per almeno 5 anni, anche se il loro mandato può essere esteso fino ad una durata massima di 10 anni.

Rimangono però alcune perplessità su tale accordo. Infatti, non solo come quanto detto prima migliaia di infrastrutture e di abitazioni sono state distrutte dalla guerra ma, come anche riportato da Amnesty International, rimangono preoccupanti tutte le bombe a grappolo inesplose lanciate sulla città di Stepanakert. A questo si deve aggiungere, inoltre, il pericoloso rischio per sfollati e per la popolazione civile vittima delle conseguenze della guerra di dover alloggiare in strutture sovraffollate con la preoccupazione di poter contrarre il virus SARS-CoV-2 a cui neanche la regione del Nagorno-Karabakh è immune.

Domanda ancora più importante si pone per tutti i profughi e gli sfollati interni. L’accordo di pace prevede che tutti gli sfollati interni ed i rifugiati possano tornare nel territorio del Nagorno-Karabakh sotto la supervisione dell’UNHCR (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), sfortunatamente però l’accordo utilizza il termine profughi senza definire tali persone. Questa mancanza di definizione che da un lato dovrebbe essere elogiata in quanto egalitaria rispetto a tutti i profughi di guerra della regione, potrebbe però causare problemi in quanto già nel 1994, dopo la fine della prima guerra in Nagorno-Karabakh, i profughi azeri che vivevano nella regione del Nagorno-Karabakh sono stati costretti a lasciare le proprie case, nonché il territorio, dovendosi rifugiare quindi in Azerbaijan. Con il nuovo accordo di pace, si potrebbero quindi creare due flussi di rientro all’interno della regione: i primi, i rifugiati dell’ultimo conflitto, prettamente di etnia armena, che potrebbero decidere di tornare pacificamente alle loro case, ed i secondi, i profughi azeri del 1994 che potrebbero anche avere delle rivendicazioni sulle stesse proprietà armene. Bisogna dunque trovare una soluzione per poter assicurare che tutte e due le etnie possano vivere pacificamente l’una a fianco all’altra, garantendo i diritti fondamentali di tutte e due le popolazioni senza avere una prevaricazione sociale di una delle due forze. Solo in questo modo si potrebbe trovare una pace duratura per il Nagorno-Karabakh.

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I Rohingya: la minoranza invisibile

Tra le grandi crisi umanitarie del nostro tempo quella che coinvolge i Rohingya del Myanmar è tra le meno conosciute. Pur avendo acquisito rilevanza sulla scena internazionale solo nel 2017, le violenze e le discriminazioni che hanno costretto più di un milione e mezzo di persone al dislocamento forzato in Bangladesh hanno origini lontane, facendo tristemente conquistare ai Rohingya la denominazione di “minoranza più perseguitata al mondo”. Clandestini nel proprio paese Le origini dei Rohingya sono contese e da sempre strumentalmente usate dal Myanmar (Ex-Birmania) per negare sistematicamente i loro diritti. Gli stessi dati che li riguardano sono incerti per lo stesso motivo, i Rohingya sono invisibili anche agli occhi delle statistiche governative, non venendo inclusi nei censimenti nazionali. Da quello che si può ricostruire di questa etnia “invisibile” è che i Rohingya sono una minoranza musulmana sunnita che risiede nell’area dello Stato di Rakhine, nel Myanmar a maggioranza buddista, da molto tempo. Sull’identificazione precisa di questa temporalità vi sono varie opinioni. Alcuni storici fanno risalire la presenza di questo popolo nell’Ex-Birmania al XII secolo, mentre la teoria portata avanti da coloro che li respingono è che siano discendenti di un gruppo musulmano proveniente dall’allora Bengala ed emigrato nel Rakhine durante la colonizzazione britannica. Ciò che è certo è che la loro presenza sul territorio si sia intensificata durante il periodo coloniale, da quando il Myanmar è stato amministrato come una provincia indiana. Alla base della discriminazione dei Rohingya vi è proprio il non riconoscimento della loro appartenenza al Paese in cui vivono da secoli. 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Nel corso dei regimi militari che si sono susseguiti in Myanmar, un clima di intolleranza si è aggiunto alla mancanza di diritti, provocando distruzione di abitazioni e luoghi di culto, saccheggi, stupri e omicidi etnici. I crimini dei militari hanno costretto migliaia di Rohingya a fuggire verso gli stati confinanti, primo tra tutti il vicino Bangladesh, con ondate migratorie nel 1978 e nel 1991-92, periodi caratterizzati da una particolare escalation di violenze. Il picco della crisi Le elezioni parlamentari che si sono tenute nel 2015 hanno costituito un punto di svolta per il Myanmar, vedendo la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, la leader dell’opposizione costretta in regime di detenzione per più di 15 anni e vincitrice del premio Nobel per la Pace nel 1991. Nonostante tra le alte cariche governative fosse ormai presente una personalità quale quella della Suu Kyi, la violenza governativa verso i Rohingya non si è arrestata. Le violenze e i rastrellamenti su base etnica sono aumentati negli ultimi anni costringendo, già nel dicembre 2016, circa ventimila persone a fuggire in Bangladesh. Sono stati pero gli avvenimenti dell’estate 2017 a diffondere il dramma dei Rohingya a livello internazionale e discutere sulla tesi di genocidio rispetto alle violenze nei loro confronti.  Le nuove ondate di repressione governativa si sono scatenate in risposta alle azioni armate del gruppo ribelle ARSA, Arakan Rohingya Salvation Army. In particolare, l’attacco ad un check-point della polizia, il 25 agosto 2017, ha scatenato una reazione durissima dell’esercito birmano rivolta indiscriminatamente a tutta la popolazione civile Rohingya del Rakhine. Secondo i dati delle Nazioni Unite i militari hanno distrutto quasi 300 villaggi e perpetuato migliaia di violenze ed uccisioni a danni di uomini, donne e bambini. Dal 25 agosto al 7 settembre 2017 si stima che oltre 700.000 Rohingya abbiano lasciato il paese, circa metà della popolazione totale stimata. Nonostante alcune migliaia di persone si siano rifugiate anche in Thailandia e in Malaysia, la maggioranza di essi hanno raggiunto il Bangladesh, sia via terra, attraversando il fiume Naf, che via mare. Qui si sono aggiunti agli oltre 300.000 profughi già presenti nel distretto di Cox’s Bazar, provincia di Chittagong. Fino a marzo 2019, quando il Bangladesh ha chiuso le frontiere, migliaia di Rohingya hanno continuato a varcare il confine, costretti in condizioni di vita degradanti. Nonostante l’allestimento di campi d’accoglienza e la fornitura di alcuni servizi essenziali da parte del governo e delle organizzazioni internazionali presenti sul territorio, i Rohingya vivono in situazioni di grave sovraffollamento e non hanno acceso al mercato del lavoro legale, né tantomeno al sistema scolastico e sanitario. 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Dopo mesi di respingimenti sistematici al confine fra la Croazia e la Bosnia, migliaia di richiedenti asilo sono costretti a sopravvivere nelle gelide foreste bosniache. L’Ufficio dell’Alto Rappresentante per i Rifugiati delle Nazioni Unite ha dichiarato: “L’ufficio è allarmato per la frequenza crescente con cui i rifugiati e i richiedenti asilo vengono espulsi e respinti alle frontiere terrestri e marittime dell’Europa, e chiede agli Stati di indagare e fermare queste pratiche” Effettivamente, i numeri e gli incessanti casi che continuano ad essere raccontati sia fra le prime pagine delle testate giornalistiche, che ai tavoli delle varie organizzazioni internazionali, che sono direttamente sul campo al fine di aiutare i rifugiati e gli sfollati, confermano tali attestazioni. Fra i casi più eclatanti e terrificanti di questi mesi bisogna soffermarsi sulla Bosnia-Erzegovina. 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Uno dei primi casi, concernenti questa forma di respingimento è stato affrontato dalla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) in Xhavara et al., dove, nel 1997, nel respingere una barca ricolma di migranti albanesi, una nave della Marina Italiana, ha tentato una manovra di respingimento che ha portato al ribaltamento della barca stessa ed alla successiva morte di 58 richiedenti asilo. La Corte CEDU, in questo caso ha condannato lo Stato italiano per la violazione dell’Articolo 2 della Convenzione – diritto alla vita – in quanto il fatale incidente era stato causato direttamente dalla nave delle Marina Militare italiana. Altro famosissimo caso in cui la nostra Marina Militare si è resa protagonista è il caso Hirsi Jammaa, concernente sempre un respingimento avvenuto nel 2009, quando un gommone con a bordo migranti provenienti dalla Libia, era stato abbordato ed i migranti che trasportava erano stati fatti salire sulla nave militare italiana. 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La Turchia, infatti, pur avendo ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, lo ha fatto con una clausola che ne limita l’applicazione alle persone provenienti dall’Europa, portando i milioni di profughi di guerra a non usufruire ufficialmente dello status di rifugiato, seppur acquisendo altri tipi di protezione. Questo è uno dei motivi che denota la poca credibilità dell’accordo del 2016 stipulato tra l’Unione europea e la Turchia. In seguito al grande flusso migratorio che ha interessato l’Europa nel 2015, l’Ue ha proposto alla Turchia di fungere da barriera per l’arrivo dei migranti, soprattutto siriani. In cambio di 6 miliardi di euro e di passi avanti nel processo di adesione all’Ue, la Turchia ha accettato di far rientrare i richiedenti asilo presenti soprattutto sulle isole greche. D’altro canto l’accordo prevedeva per ogni profugo siriano rimandato in Turchia dalla Grecia, il trasferimento di un altro siriano dalla Turchia all’Unione europea attraverso dei canali umanitari. L’accordo Ue – Turchia non è stato rispettato del tutto da parte di entrambi gli attori coinvolti. Se l’Unione aveva promesso il reinsediamento di circa 70.000 profughi siriani presenti in Turchia, risulta che quelli effettivi siano stati 25.000. Anche la Turchia d’altra parte non sembra aver portato avanti i rientri in Turchia dei siriani presenti in Grecia. Questo delicato quadro ha subito uno svolta in seguito alle conseguenze della tragica situazione che sta vivendo la provincia siriana di Idlib, a ridosso del sud della Turchia, ultimo territorio ribelle rimasto fuori dal regime di Assad. La Turchia, dal 2016, è in parte coinvolta nel conflitto siriano tramite operazioni militari nel nord del Paese le quali, se da una parte hanno come obiettivo il rientro dei profughi siriani, dall’altro celano la volontà di contrastare i territori a maggioranza curda e le Unità di protezione popolare (Ypg). L’esercito turco è presente anche nella provincia di Idlib per monitorare l’area. Qui, dal dicembre 2019, l’esercito di Assad, supportato dalla Russia, sta bombardando indiscriminatamente colpendo soprattutto civili che non hanno alternativa se non fuggire verso i confini turchi. In questo contesto sono rimasti uccisi a fine febbraio 2020 ad Idlib, da parte dell’aviazione siriana, più di trenta soldati turchi. Di fronte a questa escalation di tensione, il governo turco si è ritrovato, isolato a livello internazionale e con un calo di consenso dovuto in parte alla questione migratoria e alle ricadute sociali ed economiche che ne conseguono, ad affrontare l’arrivo di una nuova ondata di sfollati dall’area di Idlib. Erdoğan ha deciso così di utilizzare i profughi presenti nel suo territorio per attirare l’attenzione dell’Unione europea. Quale modo migliore se non aprire unilateralmente il confine con la Grecia nell’era delle frontiere chiuse? Confini violenti Ad accogliere i profughi, che si sono precipitati dalla Turchia al confine con la Grecia dopo aver saputo dell’apertura della frontiera, è stato il filo spinato e le guardie frontaliere greche, armate di gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Oltre al confine terrestre, rappresentato dal fiume Evros, migliaia di migranti si sono diretti sulle isole greche di fronte alle coste turche, in particolare Lesbo, Kos e Samos, e anche in mare le forze di sicurezza greche hanno adottato misure inaccettabili, speronando i gommoni dei migranti e sparando proiettili in acqua rivolti verso di essi. Nel frattempo la tensione sulle isole è diventata altissima, poiché la nuova ondata di arrivi si inserisce in una situazione preesistente di sovraffollamento e di disagio. Basti pensare al campo d’accoglienza di Lesbo, pensato per tremila persone, ma che ne accoglie al momento 21mila.  Sulle isole greche stanno aumentando, inoltre, attacchi violenti a migranti, attivisti ed operatori umanitari da parte dei militanti del partito di estrema destra Alba Dorata e non solo. In ultimo l’incendio, probabilmente doloso, della scuola dell’ong svizzera One Happy Family, un centro che ogni giorno accoglieva fino a 800 migranti. La risposta europea In risposta all’apertura della frontiera da parte della Turchia, il 1° marzo il Primo Ministro greco, Mītsotakī, ha annunciato la sospensione della presa in carico delle domande di asilo per un mese e ha dichiarato l’espulsione di chiunque entri irregolarmente nel Paese. L’Ue ha appoggiato la Grecia, e durante la sua visita al confine con la Turchia, Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione europea, ha definito la Grecia “lo scudo d’Europa”. L’Unione si è impegnata a sostenere la Grecia con un finanziamento di 700

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In un viaggio di viaggi. Fare volontariato a Calais.

Oggi andiamo ad esplorare il nord della Francia, a neanche tre ore dalla capitale, a Calais, una città apparentemente uguale al resto delle città francesi. Da sei anni a questa parte Calais è però diventata un porto d’arrivo per migliaia di rifugiati che sognano le coste inglesi. Le condizioni in cui vengono accolti e costretti a vivere sono uno scandalo dal punto di vista della dignità umana, denunciato a più riprese da organizzazioni umanitarie in tutta Europa. Le polemiche crescono ma le soluzioni reali sembrano ancora essere lontane. Una vasta rete di ONG francesi ed inglesi è l’unica vera fonte di salvezza per i rifugiati di Calais. Large Movements vuole promuovere un dialogo vivo e vero con i rifugiati, e ha deciso così di intraprendere un’esperienza sul campo di Calais, attivandosi con una delle principali ONG inglesi. Qui, la maggior parte dei migranti proviene dall’Afghanistan, Eritrea, Iran, Iraq e Sud Sudan. Per lo più sono uomini, tra i 16 ed i 40 anni. Questo perché i governi di provenienza impongono loro il servizio militare obbligatorio e l’unica via per sottrarsene è la fuga. Tra tutti i paesi in Europa, nonostante la Brexit e la barriera linguistica, l’Inghilterra resta tra le mete predilette e viene percepita da queste persone come la speranza per migliori condizioni di vita grazie al facile accesso al mondo del lavoro. Purtroppo, quest’ultimo, come testimoniano molti dei rifugiati, è il mondo del lavoro in nero, che non richiede tutti quei documenti e procedure burocratiche i cui tempi di attesa spesso superano quelli del viaggio per raggiungere le coste europee. Tra le ragioni che ispirano ad intraprendere un’esperienza di volontariato a Calais è proprio la posizione di questa realtà, scenario di una delle crisi umanitarie più gravi in Europa. L’espressione “crisi umanitaria” è normalmente associata a paesi lontani, a territori sperduti e contaminati dalla guerra. Eppure, la (non) gestione degli arrivi di immigrati in Francia ha fatto sì che il confine franco-inglese si sia trasformato in un luogo dove è scoppiata una profonda crisi umanitaria, violando diritti e principi fondamentali. La tristemente nota “Giungla di Calais” si trova nel dipartimento di Grand-Synthe, a Dunkerk, ad una ventina di km dal centro di Calais. Dallo smantellamento del 2016 in realtà, della Giungla rimangono soltanto delle tracce. Oggi i rifugiati si trovano in varie zone di accampamento tra il centro e fuori città, privi di una struttura di riferimento come ai tempi della Giungla. Le zone di accampamento sono infatti enormi aree che si sviluppano dove intorno non vi è assolutamente nulla oppure accanto a grandi centri commerciali, dove le ONG attive sul territorio organizzano quotidianamente la distribuzione di cibo e beni essenziali come vestiti, coperte o tende. Oltre all’ex Giungla di Calais, le distribuzioni avvengono in più punti della città: le piazzole situate sia di fronte l’ospedale principale sia nelle vicinanze del tunnel della Manica sono due tra questi. Il tunnel giunge fino in Inghilterra ed è da qui che tutte le notti molti rifugiati provano a salire su di un camion nel disperato tentativo di raggiungere la terra anglosassone. Dal 2017 il Comune ha messo a disposizione un servizio di docce per i migranti e, per i mesi più freddi, un sistema di dormitori per proteggersi dalla morsa del gelo. Tuttavia, la convivenza in stretti spazi e sotto il controllo di personale francese non è sempre la scelta prediletta dai migranti. Infatti, nel corso degli anni si sono ripetuti scontri e violente discussioni che hanno fatto chiudere o sospendere i servizi. Risale allo scorso gennaio la denuncia delle maggiori ONG circa l’attivazione di questi servizi perché, secondo la legge nazionale, spetta al prefetto decidere l’attivazione – e quindi anche l’interruzione o la sospensione – di questi servizi ma non sempre questa funzione è considerata una priorità nell’agenda amministrativa. A Calais lo stereotipo europeo del migrante – al quale la maggioranza della popolazione occidentale in qualche modo è assuefatta a causa del continuo bombardamento informatico e mediatico che lo diffonde quotidianamente – viene a cadere fin dal primo giorno. Si incontrano storie di persone che vogliono rivendicare un destino ingiusto, perché nati in paesi la cui miseria e violenza non ha permesso loro di vivere una vita degna di essere chiamata tale. I più giovani non hanno potuto frequentare la scuola ma riescono ad imparare da autodidatti l’inglese, a volte anche il francese o l’italiano, con una dizione ed una padronanza quasi perfetta. I più anziani lasciano spesso carriere brillanti nell’ambito della ristorazione o dell’estetica. È sorprendente ad esempio come i parrucchieri curino l’aspetto dei loro compagni anche sotto la neve o con il freddo che rende i campi immense distese di ghiaccio. Operare in un luogo del genere permette anche di scoprire la diversità delle nazioni di provenienza dei rifugiati e la loro organizzazione in territorio straniero. Gli Afghani, insieme agli Iracheni, Curdi ed Iraniani si “impongono” sul resto degli altri rifugiati dato il loro carattere particolarmente forte. Ad esempio, nelle attività sportive accade spesso che i Sudanesi o gli Eritrei siano esclusi o mal visti, a causa della loro esile forma fisica. Per quanto riguarda invece l’organizzazione delle comunità, gli Eritrei hanno una loro interna gerarchia: vi è un capo eletto che ogni giorno si occupa di ripartire i vari beni ricevuti. Interessante è anche capire come la popolazione di Calais percepisce e descrive lo scenario. Un primo elemento è legato allo scenario politico locale: dal 2008 Natacha Bouchart, rappresentante repubblicana, è il sindaco di Calais e fin da subito ha adottato una serie di misure per contrastare l’arrivo clandestino dei migranti, invocando un continuo scambio di informazioni con le autorità inglesi ed invocando che le stesse si assumano le proprie responsabilità in merito alla regolarizzazione dei flussi migratori. Il sindaco ha anche più volte denunciato l’operato delle organizzazioni perché “si servono dei migranti per esistere”. Al di là del discorso politico, vi è una parte dei cittadini di Calais che si lamenta della reputazione che ha ormai acquisito la loro città. “Calais viene ormai unicamente

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