Carovana (anti)americana: un amore non corrisposto

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La Carovana dei migranti sta bussando alle porte degli Stati Uniti per dirgli “è colpa vostra se siamo stati costretti a partire”. Abbiamo l’ultima tappa del nostro viaggio nella storia da affrontare.

Abbiamo visto un amore malsano tra gli Stati uniti e l’America Latina che si è trasformato in una feroce gelosia. È una storia lunga più di un secolo. È una storia che inizia nei primi del ‘900 con l’intento degli Stati Uniti di affermarsi come potenza regionale e mondiale e di trasformare i Caraibi in un agognato “Lago Americano”. È una storia che vede aumentare la dipendenza dell’America latina tra le due guerre mondiali. È una storia fatta di multinazionali, di investitori, di amministrazioni statunitensi, di organizzazioni internazionali, di dottrine, di rivoluzioni, di colpi di stato e del mito del Panamericanismo. È, ancora, la storia della guerra fredda, del narcotraffico, dei progetti allo sviluppo, della CIA e del terrorismo. La nostra Carovana, ora, può ripartire in un viaggio storico alla scoperta di una storia dove l’Antiamericanismo si è trasformato in speranza.

Dopo la caduta del blocco sovietico iniziò una nuova fase nella regione che qui ci interessa. Questa però iniziò comunque con un intervento americano.

Il 20 dicembre del 1989, 13 mila soldati americani si unirono a un contingente di proporzioni analoghe stabilmente deputato alla protezione dei diritti americani nell’area del Canale di Panama con l’obiettivo di catturare Manuel Noriega, il famigerato leader delle forze di difesa panamensi che all’inizio del mese si era autoproclamato capo del governo. All’inizio del 1988 Noriega era stato condannato da un tribunale federale in Florida per riciclaggio di denaro sporco e traffico di droga.

L’amministrazione Bush, individuando nel leader di Panama un simbolo del traffico di stupefacenti, lanciò “l’Operazione giusta causa” senza consultare gli Stati membri dell’Organizzazione degli Stati Americani. Noriega fu arrestato, e successivamente processato e condannato a Miami. Ci furono proteste diffuse in America Latina e l’opinione pubblica americana nel suo complesso accolse l’intervento come una vittoria nella cosiddetta “Guerra alla Droga”. Il traffico di droga però, continuò a prosperare per tutti gli anni ’90.

Un’altra operazione importante ci fu nel 1994 quando i marines americani furono chiamati ad intervenire ad Haiti. L’amministrazione Clinton aveva lanciato “l’operazione difesa della democrazia” a seguito di una montante crisi di rifugiati innescata dall’operato di una serie di regimi repressivi nell’isola. Per tutti gli anni ’80 le precedenti amministrazioni avevano rimpatriato gli haitiani che cercavano di sfuggire al regime brutale di Jean-Claude Duvalier; solo a 28 dei circa 23 mila “Boat People” haitiani venne dato asilo negli Stati Uniti.

Duvalier fu rovesciato nel 1986 e Jean Bertrand Aristide vinse le elezioni democratiche nel 1990. Questo però venne deposto nel 1991 da un colpo di stato militare condannato dagli Stati Uniti e dall’Organizzazione degli stati americani. Questa volta, vista l’impennata del flusso dei rifugiati, la guardia costiera americana concesse temporaneamente un porto sicuro a migliaia di Haitiani nella base militare della Baia di Guantanamo a Cuba. La prospettiva che fino a 200 mila haitiani prendessero il mare stava iniziando a creare una grave crisi sul piano politico e umanitario. Per ristabilire l’ordine furono inviate ad Haiti truppe americane.

Quindi in cosa consiste questa nuova fase? Sostanzialmente vi è stato un cambio di logica. Entrambe le operazioni, pur rimanendo espressione della persistente egemonia americana nei Caraibi, erano dettate da considerazioni di politica interna.

Dal punto di vista economico ancora negli anni ’90 era chiara la dipendenza economica dell’America Latina dagli Stati Uniti. In parte ciò era dovuto alla storica disparità in termini di ricchezza.

Il PIL degli Stati Uniti era ancora sette volte quello dell’America Latina, ma la popolazione dell’America Latina era del 75% più numerosa. L’America Latina restava relativamente povera e sovrappopolata, il che era una delle motivazioni alla base della massiccia migrazione illegale verso il nord. Malgrado le transazioni con la regione fossero nel complesso diminuite tra il ’70 e l’80, gli Stati Uniti nel 1990 restavano comunque il principale partner commerciale di tutti i Paesi della regione.

Il rapporto Nord-Sud iniziò a sembrare piuttosto diverso rispetto al passato ma lo spirito antiamericano, da sempre prevalente nella regione per i diversi motivi che abbiamo accennato, si esacerbò.

In un sondaggio del 2007 più della metà dei latinoamericani dichiarano di avere una visione negativa degli Stati Uniti ed esponenti dell’antiamericanismo come Hugo Chavez, presidente venezuelano fino al 2013, cominciarono a rappresentare una speranza per molti latinoamericani.

Oggi l’antiamericanismo è ancora forte e la speranza venezuelana sta affogando nell’inflazione, nella povertà e nella violenza.

Nel frattempo, il 13 ottobre una carovana dei migranti si è messa in marcia con l’intento di arrivare negli Stati Uniti. Sono partiti dal nord dell’Honduras, hanno attraversato il Guatemala e il 20 ottobre, con 4.500 esseri umani, hanno bussato alle porte del Messico.

Da lì l’attenzione mediatica è salita. Il primo eco è stato dato dal presidente Trump che, attraverso una serie di tweet, ha usato questa iniziativa come strumento di campagna elettorale per le recenti Midterm Elections.

All’inizio, ha minacciato il Guatemala di revocare gli aiuti concessi, nel caso in cui il governo non fosse intervenuto per fermare la carovana che passava per il suo territorio. Quindi, ha ordinato l’impiego di forze armate al confine per la protezione contro “l’invasione”. Ha finito con il minacciare la revoca del NAFTA, da poco rinnovato.

La Carovana è, in un modo o nell’altro, riuscita ad arrivare a Tijuana e il 26 novembre le tensioni sono aumentate sulla frontiera tra Stati Uniti e Messico. Le autorità americane hanno utilizzato lacrimogeni contro la folla. I migranti della carovana denunciano che gli Stati Uniti li hanno costretti a partire dopo aver appoggiato quello che viene riconosciuto come il colpo di stato del 2009, contro il presidente honduregno Zelaya, e di aver gettato in una forte instabilità Paesi come il Guatemala ed El Salvador.

Per noi finisce questo viaggio in una storia d’amore ormai esausta. Una storia altalenante fatta di rapporti difficili. Una storia che voleva illustrare il perché di un sentimento così forte di antiamericanismo. Certo, le motivazioni sono più profonde e ce ne sono molte altre. Ogni storia d’amore è più profonda di quanto raccontiamo, di quanto capiamo e di quanto esprimiamo. Proprio per questo cercheremo di raccontare le situazioni dei diversi Paesi nelle nostre schede paese e in altri articoli. Continuate a seguirci, presto inizieremo un nuovo viaggio.

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Vice-presidente Large Movements APS | Climate Change e Migration Specialist | Dottore in Relazioni Internazionali | Blogger in Geopolitica, Geoeconomia e tematiche Migratorie | Referente LM Environment

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Màxima Acuña per la difesa dell’ambiente

Màxima Acuña Atalaya de Chaupe è una contadina peruviana diventata famosa per la sua lotta in difesa dell’ambiente contro l’imponente progetto minerario Conga di proprietà della Newmont Mining Corporation e della compagnia mineraria Buenaventura. Per aver difeso il diritto di vivere pacificamente nella propria terra e per la difesa dell’ambiente e delle lagune presenti nella regione, nell’Aprile del 2016 Màxima Acuña Atalaya de Chaupe ha ricevuto il Goldman Environmental Prize. Per la sua lotta è conosciuta anche come la “Dama de las lagunas“, la signora delle lagune. La rottura della pace della Laguna Azul Nata nel 1970 in Perù a Sorochuco (distretto della provincia di Calendìn nella regione di Cajamarca), Màxima Acuña Atalaya de Chaupe vive una vita tranquilla nella propria regione natale fino al 2011. Fu proprio in quella regione che Màxima e suo marito, Jaime Chaupe, nel 1994 acquistarono un terreno di 24,8 ettari, nella zona alto andina di Sorochuco, in un’area conosciuta come Tragadero Grande. Lì, a 3.200 metri di altezza sul livello del mare, costruirono la propria casa di fronte alla splendida Laguna Azul. La famiglia viveva del raccolto dei prodotti della loro terra e dell’allevamento di pecore e mucche per latte e formaggio. Oltre a ciò, Màxima trascorreva le giornate tessendo e cucendo vestiti. Di tanto in tanto intraprendeva lunghi viaggi verso la città per vendere i prodotti che tesseva e che produceva nella fattoria. Questa era la vita di Màxima prima che venisse sconvolta dal progetto minerario Conga. Negli ultimi due decenni, l’industria mineraria in Perù è cresciuta a una velocità vertiginosa. Con la promessa di posti di lavoro e prosperità economica infatti, il governo peruviano ha assegnato licenze minerarie in tutto il paese ma, nonostante le promesse di prosperità e sviluppo, a pagare sono stati i contadini rurali. Questi raramente vennero consultati nello sviluppo di progetti minerari e tutt’oggi continuano in gran parte a vivere nella povertà più assoluta in quanto, a seguito di detti progetti, sono stati privati delle proprie terre. Inoltre, in molte comunità, i rifiuti minerari inquinano i corsi d’acqua locali, costringendo la popolazione locale a ricorrere a luoghi meno facilmente accessibili e più distanti per l’approvvigionamento quotidiano di acqua potabile e di acqua per irrigare i campi. Come detto in premessa, quella di MàximaAcuña Atalaya de Chaupe dunque è solo una delle vite che è stata sconvolta dall’avvento dell’industria mineraria ma abbiamo scelto la sua storia perché ne è emersa una donna straordinaria, tenace difensore dei diritti di quelle popolazioni e promotrice di cambiamento. Màxima viene per la prima volta a contatto con le mire delle multinazionali minerarie perché l’area nella quale vive ancora oggi la famiglia Chaupe era di interesse della società mineraria Yanacocha. Questa nel 2010 chiese al governo peruviano di espandere il raggio d’azione del proprio progetto Minas Conga. La società mineraria era detenuta dalla società statunitense Newmont Mining Corporation e sostenuta dalla società peruviana Minas Buenaventura e dalla Banca Mondiale. Il progetto contava sull’investimento di 5 miliardi di dollari e mirava a creare una miniera di oro e di rame in un’area che si estendeva per oltre 20 km² – area da realizzare distruggendo quattro lagune che fornivano l’acqua agli abitanti di Celedìn e Cajamarca. Nell’area concessa dal governo peruviano veniva inclusa una porzione del territorio che comprendeva la Laguna Azul e la terra della famiglia Chaupe. Nello specifico, la laguna sarebbe stata trasformata in una fossa di stoccaggio dei rifiuti, minacciando così di compromettere le sorgenti di cinque bacini idrografici e l’ecosistema di Páramo di Cajamarca. La lotta di Màxima Acuña Atalaya de Chaupe Nel 2011 Màxima si rifiutò di vendere la sua proprietà alla Yanacocha e ciò diede inizio ad una campagna di intimidazione, criminalizzazione e violenza nei suoi confronti. L’8 agosto 2011 le forze di sicurezza privata della Yanacocha e la polizia fecero irruzione nella casa della famiglia Chaupe. Distrussero l’abitazione e picchiarono tutta la famiglia, lasciando incoscienti Màxima e la figlia. Quando la famiglia decise di denunciare l’incidente alla stazione di polizia, i poliziotti si rifiutarono di mettere a verbale i fatti. Poco dopo vi fu una seconda aggressione e la famiglia cercò di riferire l’incidente all’ufficio del procuratore di Celedìn attraverso foto e video. Anche questo tentativo si rivelò un insuccesso e le prove presentate dalle vittime non vennero mai raccolte dagli inquirenti. Da quel momento la vita della famiglia è stata costellata da continue intimidazioni che hanno reso molto difficile portare avanti l’allevamento del bestiame, costringendo la famiglia ad indebitarsi sempre di più. Nel 2012 il governo Peruviano si è trovato a dover fronteggiare molteplici proteste scoppiate proprio a causa dei progetti minerari. Tre grandi progetti (il Tià Maria, il Quellaveco e il Conga) infatti, sono rimasti paralizzati a causa della forte opposizione e delle proteste della popolazione locale. In particolare, il progetto Conga è finito nel mirino dei manifestanti per i possibili danni ai promontori del bacino idrografico e perché, in passato, la società Yanacocha non aveva rispettato gli impegni ambientali. Le proteste crebbero di intensità in diverse parti della regione di Cajamarca ed il 5 luglio vennero uccisi 5 manifestanti. Il 21 ottobre Màxima Acuña Atalaya de Chaupe accolse i manifestanti nella sua proprietà ma la società mineraria aveva già presentato azioni legali contro di lei e la sua famiglia con l’accusa di “occupazione illegale ed usurpazione”. La settimana dopo, il 29 ottobre, il giudice di Celedìn dichiarò colpevole la famiglia Chaupe condannando Màxima a 3 anni di reclusione ed al pagamento di 200 soles (nel 2021 equivalgono a circa 45€) come compensazione dei danni subiti dalla società mineraria. La vittoria dei movimenti contadini Dopo gli avvenimenti del 2012, Màxima Acuña Atalaya de Chaupe si è avvalsa dell’assistenza legale di GRUFIDES – ONG ambientalista di Cajamarca che aveva già rappresentato membri della comunità locale nei processi contro le società minerarie. Con l’aiuto dell’avvocatessa Mirtha Vásquez, la famiglia Chaupe è ricorsa in appello contro la sentenza di primo grado – che, come si è visto, condannava Màxima alla reclusione ed al pagamento di un’ammenda – adducendo nuova

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La condizione delle donne in Perù sta migliorando grazie alle riforme

In Perù, come in gran parte dei Paesi dell’America Latina, la parità di genere all’interno della società è impedita dalla presenza del fenomeno del machismo. Nonostante le donne possano godere dei diritti di base, come quello di voto e di proprietà, nella struttura stessa delle comunità è presente un fattore culturale e sociologico che ostacola l’emancipazione delle donne in tutti gli ambiti della società: il machismo, appunto. Questo fenomeno, largamente diffuso in tutto il continente (ma anche nel resto del mondo), è identificabile nel tasso di alfabetizzazione, nella difficoltà di accesso alla professione ed alla sanità e nella scarsa partecipazione politica delle donne peruviane, ed è maggiormente presente nelle zone rurali del Paese. Nelle zone più remote, dove le differenze sociali tra i due generi raggiungono il loro picco, gli stereotipi machisti fanno breccia nella coscienza comunitaria molto più che nelle grandi città. È qui che la maggior parte della popolazione associa la donna alla sfera domestica, assegnandole, forse inconsciamente, il ruolo di madre e moglie, e togliendole così il diritto di scegliere il proprio destino. Fin dalla tenera età, le bambine peruviane perdono l’aspirazione ad uno stile di vita diverso da quello tradizionale, ed il loro rendimento scolastico ne risente. Nei centri abitati più piccoli è estremamente difficile incontrare una donna in posizioni di potere, sia nella professione che nella politica. La carenza di esempi da imitare rafforza la convinzione che la donna debba rinchiudersi nel focolare domestico, lasciando ai soli uomini la possibilità di intraprendere una carriera professionale. Secondo le stime di Statista, nel 2021, il Perù si è classificato 17° nell’indice di divario di genere (Gender Gap Index), su 26 Paesi dell’America Latina. Procederemo ora ad analizzare la possibilità di accesso della donna peruviana ai vari ambiti della società, evidenziando quelli in cui il machismo è preponderante nell’impedire la parità di genere. Istruzione, professione e politica: analisi del divario di genere Nel 2020 un’inchiesta di the World Bank ha registrato in Perù una differenza di 5 punti percentuali tra l’alfabetizzazione maschile (97% circa), e quella femminile (92%) nella popolazione superiore ai 15 anni di età. Entrambi le percentuali, sebbene si mantengano in crescita, hanno conosciuto un rallentamento nell’ultimo anno di pandemia da COVID-19, in cui la popolazione si è vista costretta a rinunciare all’istruzione per far fronte alla crisi che ne deriva. Il divario di genere è maggiore nelle zone rurali ed all’interno delle comunità indigene che parlano le lingue native; tuttavia anche qui si assiste ad un miglioramento grazie alle riforme delle leggi consuetudinarie degli ultimi decenni, che stanno aprendo il mondo professionale alle nuove generazioni di donne, spronandole quindi a proseguire gli studi. Dopo la promulgazione di queste riforme anche la percentuale di partecipazione delle donne alla forza lavoro è migliorata, raggiungendo il 70.6% dello scorso anno, secondo le stime dell’International Labour Organization. Il Perù illustra come le riforme legali – soprattutto se accompagnate da un calo della fertilità – possano effettivamente guidare un aumento della partecipazione femminile al mondo del lavoro e dell’inclusione finanziaria, portando benefici anche al PIL del Paese. Tuttavia, i vincoli economici e culturali continuano a limitare le opportunità professionali delle donne. Nonostante il Paese vanti uno dei divari di genere più esigui dell’America Latina per quanto riguarda l’accesso all’impiego, le donne peruviane tendono ad essere relegate allo svolgimento dei lavori meno pagati come l’infermieristica e l’insegnamento. Per di più, le responsabilità domestiche e le necessità di cura dei famigliari limitano ulteriormente le loro opzioni di lavoro. Nel 2015 le donne hanno guadagnato circa il 19% in meno degli uomini per reddito orario; divario che aumenta ulteriormente se consideriamo le donne indigene. Nelle comunità povere, rurali ed indigene infatti, prevalgono i lavori tipici dell’economia informale, formata da piccole e medie imprese a conduzione familiare (solamente il 30% di queste imprese sono formali). Questo significa che gran parte delle donne si affacciano in una posizione di estrema vulnerabilità nei confronti dei rischi del mercato. Queste donne infatti, restano escluse dalle politiche governative per promuovere e proteggere l’impiego femminile, e dall’alfabetizzazione finanziaria – necessaria per sviluppare concretamente le loro attività e/o farle rientrare nell’economia formale. I dati del governo mostrano che il 60% di tutte le lavoratrici del Paese continuano a lavorare nell’economia informale, e solo il 15% ha una copertura sanitaria, mentre solo il 4% gode di benefici pensionistici. Il Paese vanta una politica di congedo di maternità di novantotto giorni e altri programmi per sostenere le madri lavoratrici, tuttavia le donne che lavorano nel settore informale non ne beneficiano. Per quanto riguarda la situazione politica, le donne hanno guadagnato il diritto di voto in Perù nel 1955, uno degli ultimi Paesi della regione Latino-americana. Nonostante ciò, il Paese sta avanzando concretamente sulla strada della rappresentanza politica paritaria attraverso la promulgazione di riforme che hanno reso obbligatori i criteri di parità e di alternanza dalle elezioni generali del 2021. È a partire dall’approvazione della legge n. 31030 che le liste presidenziali devono avere almeno una donna o un uomo nella loro composizione, posti in modo alternato, con l’obiettivo di raggiungere un sistema di pari rappresentanza nella composizione e nell’agenda politica entro il 2031. Attualmente ci sono diverse strategie impiegate per monitorare l’implementazione della legge e la partecipazione femminile. Uno degli strumenti creati a questo proposito è la Línea de Investigación de la Dirección Nacional de Educación y Formación Cívica Ciudadana (DNEF), che analizza le informazioni sui processi elettorali al fine di migliorarne la diffusione tra i cittadini e i media, con l’obiettivo di influenzare il rafforzamento del sistema politico e della democrazia. Secondo un’inchiesta realizzata lo scorso marzo dalla DNEF, le scorse elezioni parlamentari hanno visto la presenza di 3 donne su 16 posizioni nel Congresso andino. La proporzione ha conosciuto un miglioramento negli ultimi anni grazie alle quote elettorali. Tuttavia occorre evidenziare che le posizioni ricoperte da donne nelle liste elettorali si mantengono di basso livello. Sicurezza e sanità per le donne: le note dolenti del Gender Gap in Perù La violenza contro le donne è un fenomeno preoccupante in

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Politiche estrattive in Colombia: quali ricadute su ambiente e diritti umani?

In Colombia cosi come in tutta l’America Latina, l’intensificarsi dello sfruttamento dei territori, tramite politiche di tipo estrattivista, impatta negativamente sull’ambiente e sui diritti umani, in particolar modo quelli dei popoli indigeni, mettendo in evidenza le carenze di un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile. Il modello estrattivista Il concetto di estrattivismo è largamente utilizzato in America Latina per riferirsi ad una modalità di accumulazione cominciata con la colonizzazione del subcontinente americano, la quale prevede che alcune regioni del mondo siano specializzate nell’estrazione e nell’esportazione di materie prime, mentre altre regioni siano dedite al loro consumo. In questo senso, le attività considerate estrattiviste sono quelle che comprendono lo sfruttamento di grandi quantità di risorse naturali, come i minerali, il petrolio, i prodotti agricoli e forestali.  I paesi latinoamericani dipendono fortemente dall’estrazione delle loro risorse naturali e dalla loro esportazione all’estero, seguendo un modello di export-led growth che non permette di diversificare l’economia e la fa dipendere pericolosamente dal valore che le materie prime in questione hanno sul mercato internazionale, esemplificativo in questo senso è il caso del Venezuela. Le critiche al modello estrattivista si muovono tuttavia soprattutto riguardo agli effetti che questo ha sull’ambiente. Se l’ambiente e le sue risorse vengono considerati esclusivamente in quanto beni economici da vendere al miglior offerente e mezzi per accrescere lo sviluppo, e se quest’ultimo è inteso come mero aumento del prodotto interno lordo, va da sé la mancata protezione e la degradazione ambientale che i paesi latinoamericani stanno vivendo. La concezione ambientale degli indigeni di Abya Yala L’America Latina o Abya Yala, come chiamata dai popoli indigeni, è un’area esemplificativa di come lo sfruttamento incondizionato delle risorse naturali non abbia conseguenze solo a livello ambientale, ma anche relativamente ai diritti di quei popoli strettamente interconnessi con la natura, i popoli indigeni, i cui componenti sono stimati in circa 42 milioni sul territorio sudamericano. Il contributo dei popoli indigeni alla gestione e alla protezione dell’ambiente è ormai riconosciuto a livello internazionale, basti pensare che i c. d. “protettori della Terra” preservano circa l’80% della biodiversità del pianeta. Il territorio costituisce per i popoli indigeni una base spirituale e materiale indissolubilmente legata alla loro identità passata e futura. Dagli anni Novanta in poi è iniziato un recupero della visione indigena ambientale, a partire dalla diffusione dei concetti andini di Pacha Mama e Buen vivire della loro inclusione in alcune costituzioni latinoamericane, come quelle di Bolivia e Ecuador. Il concetto di buen vivir, sumak kawsay in lingua quechua, implica una vita in armonia tra individui, comunità e natura ed è presente con diversi termini in tutte le culture indigene latinoamericane. Nella cosmovisione indigena il benessere è possibile solo all’interno della comunità e nel rispetto della Pacha Mama, dunque l’elemento essenziale del buen vivir è la protezione della natura. In questo senso risulta essere un’ottima alternativa rispetto alle moderne sfide ambientali e di sviluppo. Dato il legame imprescindibile che i popoli indigeni hanno con l’ambiente e il territorio, da un lato per le loro caratteristiche spirituali e culturali, dall’altro perché la maggior parte di essi dipende materialmente dalle risorse naturali, si può affermare che la loro sopravvivenza in quanto popoli indigeni dipenda dalla conservazione e dalla tutela dell’ambiente in cui vivono. D’altro canto, fin dalla colonizzazione questi popoli hanno affrontato appropriazioni illecite delle loro terre ancestrali, trasferimenti forzati delle comunità, inquinamento delle risorse naturali da cui dipendono. Per fortuna i movimenti indigeni latinoamericani sono caratterizzati da una storica solidità e forza che li ha portati a resistere, per quanto possibile, ai numerosi tentativi di sterminio e di assimilazione sin dal periodo della colonizzazione europea.  In nome dello “sviluppo”, vengono realizzati sui territori indigeni attività estrattive, progetti idroelettrici e megaprogetti energetici, inclusi quelli di energia rinnovabile, che portano al dislocamento forzato dei popoli indigeni, spesso senza un’adeguata compensazione. L’elezione di leader politici, come Jair Bolsonaro in Brasile, che supportano l’accaparramento delle terre da parte delle multinazionali non può che peggiorare la situazione. L’industria mineraria, in particolare, ha effetti devastanti sulle comunità indigene, poiché questi perdurano anche quando i progetti di estrazione si concludono. In particolare i progetti estrattivi hanno conseguenze negative nella coesione dei popoli indigeni del territorio dove hanno luogo, a causa degli spostamenti forzati e delle divisioni delle comunità, e spesso impediscono lo svolgersi delle attività agro-pastorali tradizionali. La convergenza tra protezione dell’ambiente e tutela dei diritti dei popoli indigeni è emblematica nella regione amazzonica, eppure, proprio in quei territori sono molteplici i progetti di estrazione mineraria e di estrazione petrolifera. L’impatto delle politiche estrattive in Colombia Anche la Colombia subisce le conseguenze dell’aumento crescente di politiche di tipo estrattivo, che ricadono in primis sull’ambiente. Nonostante la Colombia faccia parte dei c.d. paesi “megadiversi”, i più ricchi di biodiversità del pianeta e conti infatti ben 311 ecosistemi, quella che dovrebbe essere la principale ricchezza da preservare diventa spesso merce di scambio per perseguire politiche neo-liberiste. Il Paese è per questo caratterizzato da un’alta incidenza di conflitti ambientali che coinvolgono soprattutto i popoli indigeni, che rappresentano circa il 3,4 % della popolazione. Negli ultimi decenni in Colombia sono aumentate le politiche di sviluppo statali tese ad attività di tipo estrattivo e allo sviluppo megaprogetti ad alto impatto ambientale e sociale. In dipartimenti come il Chocó, La Guajira e Amazzonia, ciò ha provocato il trasferimento forzato di comunità indigene, l’inquinamento ambientale dei territori e situazioni di violenza ed insicurezza. Parallelamente sono state inoltre approvate delle normative che favoriscono i grandi investimenti transnazionali. Tra questi vi è la legge n. 685 del 2001, il c.d. Código de minas, che favorisce la partecipazione di imprese private nei processi di esplorazione e sfruttamento di minerali e idrocarburi e una sentenza del 2019 della Corte Costituzionale colombiana, la quale sopprime l’obbligatorietà delle consultazioni popolari nei casi di progetti minerari che minaccino di trasformare profondamente l’uso del suolo di un determinato territorio. In ultimo, lo scorso autunno il ricorso del presidente Duque contro la sospensione dell’uso della tecnica invasiva di estrazione petrolifera, il frackinge il conseguente avvio di progetti pilota di perforazione

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I diritti LGBTQ+ in Brasile: leggi virtuose in una società intollerante

Le persone LGBTQ+ brasiliane vivono una condizione piuttosto singolare rispetto alle loro controparti in giro per il mondo o anche semplicemente in America Latina. Se da un lato, infatti, il Brasile può essere considerato uno dei precursori delle tutele nei confronti della comunità LGBTQ+, con le prime normative in materia che risalgono addirittura al XIX secolo, dall’altro rimane un paese le cui problematiche interne mettono spesso a rischio le persone più ai margini della società, nei quali spesso si ritrovano le minoranze sessuali. Questa tendenza non ha fatto che intensificarsi con la presidenza di Jair Bolsonaro, i cui attacchi omofobi e transfobici sono ben noti all’opinione pubblica. Nello spazio che esiste fra, da un lato, un apparato di norme ed una magistratura particolarmente virtuosi nel tutelare la comunità LGBTQ+ e, dall’altro, una società civile alle volte accogliente, alle volte violenta ed intollerante, si sviluppano le vite di queste persone che conducono, nonostante tutto, un’esistenza complicata. Quadro Legislativo e Impatto nella Società Civile Come già anticipato, la storia delle tutele legislative nei confronti della popolazione LGBTQ+ brasiliana ha inizio nel 1800, già dalla prima metà precisamente, quando nel 1830 l’allora sovrano Pietro I del Brasile promulgò il nuovo Codice penale brasiliano. Nel testo di legge riformato fu eliminato ogni riferimento al reato di sodomia, presente nel precedente impianto penale frutto del passato regime di stampo coloniale, di fatto legalizzando i rapporti fra persone dello stesso sesso. Da quella data ad oggi, il Brasile ha fornito un chiaro esempio di legislatura virtuosa ed inclusiva, con tutta una serie di tutele e concessioni che si sono susseguite negli anni e che ci permettono di affermare che in Brasile, a livello normativo, le persone LGBTQ+ godono pressappoco degli stessi diritti e garanzie della restante della popolazione.Se, infatti, dal 1969 non esiste più alcuna regola che vieti agli uomini omosessuali di servire nell’esercito (le donne potranno prestare servizio solo a partire dagli anni ‘80), è con la fine della dittatura militare nel 1985 e la promulgazione di una Costituzione liberale – che vieta espressamente ogni tipo di legge discriminatoria, sia a livello locale sia federale – che inizia effettivamente il processo di equiparazione fra persone LGBTQ+ e resto della popolazione cis-etero.Nel 1999 il Consiglio Federale di Psicologia, con una decisione certamente progressista ed in anticipo di anni anche rispetto a molti paesi occidentali, vieta espressamente il ricorso a terapie di conversione per gli omosessuali (decisione estesa nel 2018 anche alle persone transessuali in aperta opposizione ad ogni pratica transfobica).Sempre degli anni 90 (1995 nello specifico) è la prima proposta di riconoscimento delle unioni civili in Brasile che, pur non venendo approvata allora, fu seguita da diverse e numerose sentenze di tribunali locali che consentirono la registrazione di unioni civili tramite atti notarili fino al 2011, quando il Tribunale Supremo Federale legalizzò di fatto la pratica.Nel maggio del 2013, inoltre, la sentenza è stata implementata con l’istituzione del matrimonio egualitario in tutto il Brasile. A questa decisione si accompagnava l’espresso divieto, ribadito dall’allora Presidente del Tribunale Supremo Joaquim Barbosa, di negare la registrazione di un’unione civile o la conversione di quest’ultima in un matrimonio effettivo, come ancora accadeva all’interno degli studi notarili del Paese. L’equiparazione fra unioni omosessuali ed eterosessuali, in Brasile, comprende anche la materia d’immigrazione, con le prime decisioni in quest’ambito emesse agli inizi del 2000.Per quanto riguarda le adozioni per coppie dello stesso sesso, in aggiunta, sono consentite in quanto non esistono leggi che le vietino espressamente, ed eventuali norme in tal senso sarebbero inapplicabili poiché ritenute incostituzionali. Diverse sentenze nel corso degli anni hanno confermato questo orientamento della giurisprudenza brasiliana e la pratica è ormai largamente in uso nel paese.Anche le persone transessuali hanno visto realizzate negli ultimi anni alcune delle loro richieste: l’operazione di riassegnazione di genere è gratuita e garantita dallo Stato, in seguito a una sentenza che afferma che l’intervento è coperto dalla clausola costituzionale che assicura ai cittadini l’assistenza medica gratuita.Nel 2009, inoltre, la Corte Superiore di Giustizia ha stabilito che il cambio di genere legale per persone transessuali che avevano compiuto la transizione era consentito in tutto il territorio della nazione, secondo la logica per la quale permettere di sottoporsi ad un intervento di riassegnazione del genere senza poter cambiare genere e nome sulla propria documentazione costituiva una forma di pregiudizio sociale.Il primo marzo 2018, inoltre, il Tribunale Supremo Federale ha stabilito che questo diritto è esteso anche alle persone trans che non hanno completato né hanno intenzione di iniziare un percorso di transizione, garantendo la pratica per mezzo della sola autodeterminazione dell’identità psicologica della persona interessata.Ancora una volta il Brasile, legiferando in questo senso, si pone fra i primi paesi ad assicurare queste tutele per le minoranze sessuali. Percezione e Status Sociale Alla luce del quadro legislativo menzionato, si potrebbe pensare che le persone LGBTQ+ brasiliane conducano una vita tutto sommato sicura priva di pregiudizi e discriminazioni. Ma non è esattamente così.I dati rendono l’idea dell’enorme spaccatura fra una normativa che tutela ed una società che si dimostra pericolosa e discriminatoria: secondo un sondaggio di Datafolha, la percentuale di persone che credono che l’omosessualità debba essere accettata dalla società è salita dal 64% del 2014 al 74% del 2017. Eppure, il Brasile ha il tasso più alto di uccisioni di persone LGBTQ+, con oltre 380 omicidi avvenuti nel 2017 (277 solo nei primi 9 mesi, secondo Grupo Gay da Bahia), il 30% in più rispetto all’anno precedente.Secondo Human Rights Watch, nel 2013 le segnalazioni di violenze contro la popolazione LGBTQ+ sarebbero state oltre 3000. Inoltre, in Brasile il 68% delle persone LGBTQ+ ha sperimentato episodi d’omofobia sul posto di lavoro. Sempre nel 2013, LGBTQ Nation ha dichiarato che il 44% dei crimini d’odio contro le minoranze sessuali si sono verificati nel solo Brasile.Tentare di comprendere una divisione così netta fra le leggi e la società che regolano non è compito semplice. Il Brasile è uno stato laico nel quale la separazione fra Stato e Chiesa è fra le più marcate. Il paese, infatti, non ha

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Donne venezuelane alla ricerca della salute che non c’è

Il collasso dell’economia in Venezuela ha determinato una serie di congiunture interne al paese causando quello che oggi è il più grande fenomeno migratorio della storia latinoamericana. Come in ogni crisi, i gruppi sociali più vulnerabili sono quelli a risentirne maggiormente. Tra questi ci sono le donne, esposte a una cultura patriarcale fatta di violenza e minori possibilità occupazionali. Il Covid-19 ha complicato inoltre l’accesso alle cure alle donne venezuelane le quali, già prima della pandemia, presentavano specifiche necessità in termini di salute sessuale e riproduttiva.   Genere e salute nelle politiche sociali venezuelane Dal 2003 sono state promosse in Venezuela una serie di politiche sociali conosciute come Misiones Bolivarianas. Le Misiones hanno obiettivi differenti: dalla lotta contro la povertà ai programmi di alfabetizzazione, dalla salute all’acceso al credito, dall’implementazione di attività culturali e politiche a quelle in sostegno della popolazione indigena e dell’ambiente. Misión Barrio Adentro e Misión Madres de Barrio sono però le due iniziative che hanno definito negli anni il ruolo della donna e del sistema sanitario venezuelano. La prima ha determinato l’edificazione di ambulatori nelle zone rurali e urbane più depresse del paese, la seconda, invece, ha come genesi una giustificazione costituzionale.   L’art. 88 della Costituzione venezuelana, infatti, sancisce il riconoscimento sociale di una leadership femminile nella gestione e nella cura del nucleo famigliare. Lo sfondo ideologico di Madres del Barrio che mira all’indipendenza femminile è stato poi tradotto in trasferimenti monetari a sostegno delle donne disoccupate. Tuttavia, se da un lato il riconoscimento del lavoro domestico può essere considerato una conquista per i diritti delle donne, dall’altro si ammette l’esistenza di una differenza fra sessi nei ruoli sociali che tralascia, così, la multidimensionalità dell’essere donna. Alcuni dati sulla salute femminile in Venezuela Più che le politiche sociali, sono i dati che aiutano a comprendere la reale situazione delle donne venezuelane alla luce e della crisi venezuelana e dell’emergenza Covid-19. Pertanto, è possibile ricostruire un quadro generale ed obiettivo sulla salute delle donne venezuelane attraverso i report della società civile e delle organizzazioni internazionali. Da anni, infatti, non vengono pubblicate a riguardo cifre ufficiali governative. Prima di tutto, è opportuno chiarire in che stato si trova oggi il sistema sanitario venezuelano. La Encuesta Nacional de Médicos y Estudiantes de Medicina del 2017 ha rivelato che il 40% degli immatricolati nelle università di medicina venezuelane ha lasciato il paese determinando un’importante diminuzione di tale capitale umano. A questo si somma: un 70% delle strutture ospedaliere con disponibilità intermittente di acqua, un 63% di ospedali senza energia elettrica e un 50% dei laboratori diagnostici non è operativo. Rispetto alla prospettiva di genere, invece, la realtà sopra descritta si complica ulteriormente in tema di salute sessuale e riproduttiva. L’UNFPA segnala che il Venezuela è oggi il terzo paese con il maggior tasso di fecondità in età adolescenziale in America Latina e Caraibi solo dopo Ecuador e Honduras. Human Rights Watch  ha riportato che la mortalità infantile in Venezuela è aumentata del 30%, quella materna del 60%. Equivalencia en Acción, una coalizione della società civile venezuelana, ha denunciato che negli ospedali e nelle farmacie nazionali si sfiora il 100% di irreperibilità di metodi contraccettivi in un paese dove l’aborto è ancora illegale. Pertanto, la possibilità di pianificazione familiare risulta essere piuttosto difficile in Venezuela. Ciò potrebbe comportare un aumento di aborti clandestini, rischiosi per la vita della donna. Inoltre, l’incremento delle gravidanze in età adolescenziale pregiudica il proseguimento degli studi e l’inserimento regolare delle donne nel mercato del lavoro. Le conseguenze sulle donne venezuelane Data la crisi umanitaria del Paese, chi è nelle condizioni economiche e fisiche adeguate, sceglie principalmente di abbandonare il Venezuela. Tuttavia, una volta arrivati nel nuovo paese, l’accesso alle cure non è un processo immediato. Per esempio, in Colombia, primo paese di destino con quasi 2 milioni di venezuelani nel territorio, la situazione è alquanto complessa. Per ottenere l’accesso al sistema sanitario è necessario che il migrante abbia uno status migratorio regolare. Nonostante hay que quitarse el sombrero per come la Colombia abbia gestito gli ingressi dei venezuelani, il sistema di acceso alle cure è ancora troppo rigido per migliaia di migranti non regolarizzati. Ad esempio, la regolarizzazione mediante il PEP, che permetterebbe l’affiliazione a un’assicurazione medica colombiana, non è possibile per il venezuelano privo di un documento d’identità o entrato i Colombia per i punti non autorizzati. In particolare, riguardo alla popolazione venezuelana negli ospedali, 7 persone su 10 sono donne. Tale dinamica si presenta in tutte le regioni colombiane i cui ospedali registrano tra le richieste principali: assistenza alla gravidanza, al parto e cure per malattie sessualmente trasmissibili. Spesso si tratta di gravidanze a rischio per mancate assistenza prenatale dovuta al collasso del sistema sanitario in Venezuela. Infine, l’emergenza Covid-19. La pandemia ha complicato ulteriormente le possibilità di accesso a qualche forma di assistenza sanitaria. A confermare ciò, è stata la Conferenza internazionale di solidarietà sulla crisi dei rifugiati e dei migranti venezuelaniorganizzata dalla Spagna e l’Unione Europea svoltasi lo scorso 26 maggio. L’Unione ha donato 9 milioni per contenere il propagarsi del virus e 918 milioni in per i gruppi vulnerabili colpiti dalla pandemia. Tra questi rientrano migliaia di donne venezuelane che dal 2014 continuano a migrare alla ricerca del loro diritto alla salute. Fonti e approfondimenti https://www.encuestanacionaldehospitales.com/2019 https://avesawordpress.files.wordpress.com/2019/05/mujeres_limite_a4web.pdf https://colombia.unfpa.org/es/news/unfpa-presenta-el-poder-de-decidir-derechos-reproductivos-y-transici%C3%B3n-demogr%C3%A1fica https://eeas.europa.eu/headquarters/headquarters-homepage/79328/donors-conference-solidarity-venezuelan-refugees-and-migrants-countries-region-amid-covid-19_en

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Lupita: la forza dell’ape messicana

Guadalupe “Lupita” Vasquez Luna è un’attivista, artigiana e insegnante nativa messicana, nonché rappresentante del popolo Tzotzil-Maya presso il Consiglio Nazionale Indigeno del Messico (CNI), consigliera presso il Consiglio Indigeno del Governo (CIG) e prima donna a ricevere il bastone del comando dell’organizzazione Las Abejas de Acteal (Le Api di Acteal), di cui è membro. Lupita lotta da anni per portare alla luce le problematiche che affliggono le comunità native e, soprattutto, per ottenere verità e giustizia sul massacro di Acteal, di cui lei è una sopravissuta.   La strage di Acteal Il 22 dicembre 1997 un gruppo di paramilitari entra nella chiesa della comunità di Acteal e uccide 45 persone. All’epoca dei fatti Lupita ha 10 anni e riesce a salvarsi perché il padre le ordina di scappare e nascondersi tra le piantagioni di caffè. Quel giorno perde nove familiari: i genitori, la nonna, lo zio e cinque fratelli. Tutte le vittime, nativi Tzotzil-Maya, appartengono all’organizzazione Las Abejas, un movimento cristiano e pacifista che lotta per i diritti delle popolazioni indigene e che ha da sempre appoggiato gli obiettivi dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), ma non i mezzi usati per raggiungere tali obiettivi, vale a dire la lotta armata. Per molti questo è il motivo del massacro avvenuto ad Acteal: un’offensiva contro una comunità indigena alleata della resistenza zapatista. Però la versione ufficiale delle indagini riduce tutto ad uno scontro tra popolazioni native evitando così il coinvolgimento dello Stato nel massacro o le omissioni di intervento da parte delle autorità locali, consapevoli dell’esistenza di gruppi di paramilitari nel Chiapas (regione in cui si trova Acteal). Da allora, i superstiti e i familiari delle vittime non hanno smesso di battersi per ottenere la verità. Grazie alle pressioni nazionali ed internazionali, il governo messicano ha aperto un’inchiesta che ha portato all’arresto e alla condanna delle persone direttamente coinvolte nel massacro, ma nessun esponente del governo locale e nazionale dell’epoca è stato accusato di essere il mandante di quel crimine. Sono passati più di 20 anni ma nulla è cambiato anzi, i paramilitari arrestati sono stati rilasciati e nel comune di Chenalhó, in Chiapas, si temono ripercussioni contro la popolazione. L’organizzazione Las Abejas ha deciso di portare il caso davanti la Corte Interamericana dei Diritti Umani, che ancora non si è pronunciata in merito, accusando lo Stato messicano di crimine contro l’umanità. La figura di Lupita Dopo la strage Lupita, una volta adulta, non ha mai smesso di lottare per ottenere giustizia insieme a Las Abejas per quello che accadde ad Acteal. È diventata un’attivista talmente importante nel contrasto alle politiche statali che rendono sempre più difficile la vita delle comunità indigene che nel 2018, quando il Consiglio Nazionale Indigeno decide di candidarsi per le elezioni presidenziali messicane, è stata scelta come consigliera del Consiglio Indigeno del Governo per la regione di Los Altos del Chiapas. In quel periodo viaggia per tutto il Messico per incontrare tante organizzazioni e rafforzare i legami instaurati per aiutare nelle cause di privatizzazioni ed espropri delle terre. Nel 2019 Lupita è protagonista del documentario “Lupita. Que retiemble la tierra” (Lupita. Lascia tremare la terra) diretto da Mónica Wise e Eduardo Gutiérrez Wise. Il documentario mostra diverse sfaccettature di Lupita: la sopravvissuta impegnata nella ricerca della verità, la madre amorevole e l’attivista che combatte per i diritti del suo popolo. Noi di Large Movements celebriamo la forza di Lupita che da anni si batte per migliorare le condizioni di vita dei popoli nativi del Messico e ci uniamo alla sua lotta per la ricerca della giustizia affinché la comunità di Acteal possa ottenere giustizia e vivere in pace. Se ti è piaciuto l’articolo CondividiCi!

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