Bosnia: L’urlo disperato dalla foresta innevata

Bosnia Croazia Confine

Dopo mesi di respingimenti sistematici al confine fra la Croazia e la Bosnia, migliaia di richiedenti asilo sono costretti a sopravvivere nelle gelide foreste bosniache.

L’Ufficio dell’Alto Rappresentante per i Rifugiati delle Nazioni Unite ha dichiarato:

L’ufficio è allarmato per la frequenza crescente con cui i rifugiati e i richiedenti asilo vengono espulsi e respinti alle frontiere terrestri e marittime dell’Europa, e chiede agli Stati di indagare e fermare queste pratiche

Effettivamente, i numeri e gli incessanti casi che continuano ad essere raccontati sia fra le prime pagine delle testate giornalistiche, che ai tavoli delle varie organizzazioni internazionali, che sono direttamente sul campo al fine di aiutare i rifugiati e gli sfollati, confermano tali attestazioni.

Fra i casi più eclatanti e terrificanti di questi mesi bisogna soffermarsi sulla Bosnia-Erzegovina.

Negli ultimi anni il paese è stato prettamente “di transito”, ossia uno stato che i rifugiati e richiedenti asilo attraversano per poi raggiungere le loro destinazioni finali lungo la Rotta Balcanica. Quest’ultima consiste nel tragitto che parte dai paesi d’origine ed attraversa la Grecia e tutti i paesi balcanici per arrivare in Europa.

Dal momento che la Bosnia non è stata una delle principali protagoniste della prima grande ondata migratoria – la cosiddetta “crisi migratoria del 2015” – non era molto preparata a fronteggiare un arrivo massivo di migranti e richiedenti asilo. Il Paese non ha a disposizione centri d’accoglienza e forniture di prima necessità tali da poter ospitare tutti i richiedenti asilo che si trovano sul proprio territorio in questo momento.

Ad ogni modo, ancora oggi la Bosnia continua a rimanere un paese di transito, questo perché ultima meta dei richiedenti asilo – dopo essere passati per la Grecia i cui confini esterni con la Turchia rappresentano una costante minaccia per gli equilibri geopolitici tra l’Europa e lo stato di Ankara che peggiora ulteriormente le condizioni di vita dei migranti– rimane l’Europa, percepita come luogo sicuro in virtù della presenza di maggiori servizi di accoglienza e quindi di maggiore stabilità.

Sfortunatamente i continui respingimenti alla frontiera con la Croazia, condotti in maniera sistematica e spesso violenta dalla polizia croata, hanno costretto migliaia di richiedenti asilo a rimanere per mesi in Bosnia, dove ora trovano rifugio in condizioni al limite dell’umano e che, molto spesso, non rispettano gli standard umanitari di base.

Ma cosa sono i Respingimenti, anche detti “Push-Backs”?

I respingimenti, o push-backs, sono uno dei mezzi maggiormente utilizzati dagli Stati di frontiera durante le procedure di controllo dell’immigrazione ed avvengono sulla linea di confine o al di fuori del territorio dello Stato stesso. Questa ed altre procedure, infatti prendono il nome di pratiche d’immigrazione extraterritoriale.

I respingimenti possono essere di due tipi: terrestri o marittimi.

In mare un respingimento avviene quando, dopo che un gommone con a bordo migranti viene riconosciuto, viene abbordato dalla guardia costiera e susseguentemente trainato dalla stessa fino a raggiungere le acque territoriali dalle quali si presume che il gommone sia partito. Lo scopo ultimo è quello di far desistere i migranti – che secondo il diritto del mare, si trovano in una situazione di “distress”, ovvero difficoltà, in quanto lo stesso gomone è così sovraffollato che il rischio di affondare è elevato– nel ritentare il viaggio che li porterebbe in un porto sicuro.

Uno dei primi casi, concernenti questa forma di respingimento è stato affrontato dalla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) in Xhavara et al., dove, nel 1997, nel respingere una barca ricolma di migranti albanesi, una nave della Marina Italiana, ha tentato una manovra di respingimento che ha portato al ribaltamento della barca stessa ed alla successiva morte di 58 richiedenti asilo. La Corte CEDU, in questo caso ha condannato lo Stato italiano per la violazione dell’Articolo 2 della Convenzione – diritto alla vita – in quanto il fatale incidente era stato causato direttamente dalla nave delle Marina Militare italiana.

Altro famosissimo caso in cui la nostra Marina Militare si è resa protagonista è il caso Hirsi Jammaa, concernente sempre un respingimento avvenuto nel 2009, quando un gommone con a bordo migranti provenienti dalla Libia, era stato abbordato ed i migranti che trasportava erano stati fatti salire sulla nave militare italiana. A questo punto la nave li porta forzatamente in Libia, dove di alcuni di loro si perdono completamente le tracce, altri sono caduti vittime del traffico di esseri umani, mentre altri ancora sono stati rispediti nei loro paesi d’origine. Dal momento che la giurisdizione su una nave battente bandiera italiana è dell’Italia – quindi a bordo valgono le stesse leggi che valgono sul suolo nazionale – la Corte ha condannato l’Italia che non ha applicato come avrebbe dovuto tutte quelle norme provenienti dal Dritto Internazionale, dai vari trattati sui Diritti Umani e dal Diritto Europeo.

Similarmente, i respingimenti su terra avvengono proprio quando la polizia di confine di un determinato paese, controlla i richiedenti asilo e li blocca o li rispedisce all’interno dello stato confinante, senza, applicare le norme sopracitate.

Ma che leggi ci sono a protezione dei richiedenti asilo?

La Convenzione di Ginevra del 1951, sullo status dei rifugiati, è uno dei trattati che maggiormente impone agli stati firmatari di bilanciare la loro sovranità territoriale e quindi, il loro potere sul territorio. Potere che, per altro, permette all’autorità statale di decidere chi può o non può entrare, con alcune garanzie di protezione da riservare anche a coloro che non sono classificati come cittadini.

Infatti, anche se l’Articolo 14 – sul diritto d’asilo – della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo viene considerato un “diritto vuoto” dal momento che tale concessione è comunque subordinata alla discrezionalità dello Stato, d’altra parte gli stati firmatari e ratificanti della Convenzione di Ginevra hanno il dovere di garantire l’accesso alle procedure d’asilo e su di loro vige il divieto di respingere (non refoulment) gli individui che potrebbero essere esposti ad un serio rischio di persecuzione qualora fossero costretti a rientrare nel paese dal quale sono scappati. Questa “sfida” alla sovranità statale, può essere ritrovata sia nell’articolo 31 che 33 della Convenzione sullo status dei rifugiati. Questi due articoli, infatti, permettono rispettivamente ad un rifugiato di arrivare nello Stato senza preventiva autorizzazione e di essere protetti dall’espulsione.

Inoltre, come dichiarato nel Manuale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) sulle procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato:

“28. Una persona è <<rifugiato>> ai sensi della Convenzione del 1951 quando soddisfa i criteri enunciati nella definizione. Questa condizione si realizza necessariamente prima che lo status di rifugiato sia formalmente riconosciuto. Di conseguenza, la determinazione dello status di rifugiato non ha l’effetto di conferire la qualità di rifugiato: essa constata l’esistenza di detta qualità. Una persona non diventa quindi un rifugiato perché è stata riconosciuta come tale, ma è riconosciuta come tale proprio perché è un rifugiato”

Quindi, quando una persona è al cospetto di un’autorità statale, che ha un controllo effettivo sulla persona, ad essa devono essere riconosciuti un insieme di diritti che le spettano in quanto persona ed in quanto richiedente asilo. Dal momento che la legge non ammette ignoranza, uno Stato non può addurre come giustificazione alla propria inosservanza degli obblighi internazionali il “non esserne a conoscenza” od il “non aver capito” che tali persone erano dei richiedenti asilo e che quindi avevano diritto ad accedere alle procedure per la determinazione dello status di rifugiato.

Le urla arrivano anche dalla foresta

La situazione in Bosnia è grave.

La mattina i papà dicono ai propri figli che anche oggi giocheranno dentro la foresta in mezzo alla neve per tutto il giorno. Quello che i genitori cercano di far percepire come gioco ai bambini richiedenti asilo nasconde una realtà ben più tragica. Le regole del gioco sono semplici e si è divisi in squadre: con mamma e papà si forma una squadra, mentre bisogna scappare dalle persone vestite di blu che urlano in lingua strana. Se mamma e papà vengono presi e le persone vestite di blu sono troppo vicine, ci si nasconde, come a nascondino fra gli alberi o sotto i banchi di neve. A sera però si è tutti stanchi, e la mamma e il papà sembrano tristi e dicono che fra qualche giorno si giocherà di nuovo.

8000 sono i richiedenti asilo bloccati in Bosnia.

8000 persone che uno stato di transito non era pronto ad accogliere.

8000 anime che ogni volta che provano a raggiungere il loro sogno di entrare in Europa per trovare finalmente la pace e per regalare un futuro migliore ai propri figli, vengono strappati della loro dignità, trattati violentemente e inumanamente dalla polizia di frontiera croata.

Sono in pochi a farcela, gli altri vengono fermati dalla polizia, perquisiti, presumibilmente derubati e respinti in Bosnia, molto spesso anche attraverso l’uso della violenza.

Alla frontiera succede di tutto. Gli esseri umani vengono trattati senza un minimo di rispetto per la decenza e per la dignità della persona stessa, dove qualcuno potrebbe provare a discolparsi dicendo che stava svolgendo solo delle perquisizioni.

E’ diventata una pratica consueta per la polizia di frontiera quella di perquisire uomini e donne in cerca di cellulari o di contanti nascosti. Una donna afghana riporta di essersi sentita a disagio quando è stata perquisita da un poliziotto croato. Ancora più disagiante per lei è stato quando il suo neonato è stato fatto denudare nel gelo dell’inverno Bosniaco ed il suo pannolino è stato ispezionato. Questa pratica è diventata comune e spesso, viene usata anche di notte al freddo e al gelo, in mezzo alla foresta.

Più disumani sono i casi di donne e ragazze, spesso minorenni, che provano a valicare il confine con la propria famiglia. Le ragazze, con la scusa di dover effettuare delle perquisizioni approfondite, vengono costrette a spogliarsi di fronte alle autorità ed alla propria famiglia. Quando i padri richiedono, per la decenza delle proprie figlie, di poterle coprire almeno con una coperta, quelle fornite sono così piccole che nel coprire le ragazze alcune parti intime rimangono scoperte di fronte all’agente di frontiera che, le testimonianze raccolte riferiscono, non accenna mai a distogliere lo sguardo.

Numerosi anche i casi di madri che vengono spintonate e picchiate di fronte ai propri figli.

Le problematiche non finiscono qua. Infatti, a dicembre un incendio ha dilaniato il campo per rifugiati di Lipa. Un campo profughi costituito prettamente da tende in cui le organizzazioni internazionali fanno il loro meglio per assistere i richiedenti asilo bloccati in Bosnia durante il periodo invernale. Sfortunatamente, una parte del campo è andata a fuoco lasciando senza un riparo migliaia di persone, che non sanno dove trovare rifugio dalla neve. Degli 8000 rifugiati, 2000 sono rimasti senza riparo.

I testimoni lo descrivono come un film apocalittico. Delle famiglie provano a rifugiarsi in edifici o in macchine abbandonate altri, non trovando riparo, sono costretti a dormire nella foresta, sopra la coltre di neve, accentuando la condizione di disumanizzazione nella quale versano queste persone.

La situazione è grave e le organizzazioni umanitarie stanno facendo l’impossibile al fine di prevenire morti e rispondere ai bisogni umanitari di base. A questo però si deve aggiungere un vero e concreto impegno da parte di tutta l’Unione Europea verso la solidarietà e il rispetto dei diritti umani, non che delle linee guida che governino il comportamento delle autorità di frontiera, che devono essere chiamate a rispondere degli abusi commessi.  

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Nagorno-Karabakh: una terra perennemente in conflitto

Il Karabakh (in azero Karabakh “giardino nero”) è una regione sita nella Transcaucasia, senza sbocco sul mare e facente parte dell’Altopiano Armeno. Più precisamente, si trova a sud-est della catena montuosa del Caucaso minore tra i fiumi Kura e Araz. Il territorio è diviso in due parti: una pianeggiante chiamata Basso Karabakh e l’altra montuosa, teatro di guerra nell’ultimo secolo, ovvero il Nagorno Karabakh. Gli albori Le prime tracce storiche di insediamento nel territorio risalgono al IV secolo a.C. quando il Karabakh era parte dell’Albània Caucasica. Il territorio di questo stato si espandeva dal Caucaso a nord, fino al fiume Araz a sud e dal mar Caspio a est, all’Iberia ad ovest. Questo stato era condiviso da diverse etnie principalmente turcofone, caucasiche e iraniche e, nello specifico, nella regione montana del Karabakh, chiamata Artsakh (o secondo alcune fonti antiche Orkhistena), vivevano Gargari, Uti, Unni, Cazari e Basili, alcuni dei quali ancora oggi presenti nel territorio. Dal 313 l’Albània Caucasica adottò come religione il Cristianesimo e questo permise allo stato di rimanere indipendente fino al VIII secolo. Infatti, dall’invasione araba lo stato transcaucasico diventa islamico, tranne nell’Artsakh dove la popolazione riuscì a mantenere la propria religione grazie alla forte influenza dell’Impero bizantino nel Caucaso meridionale, il quale istituì la Chiesa albàna caucasica. Tra il IX e il XIV secolo il Karabakh è stato parte di stati governati dai Sagidi, Salaridi, Sheddadidi, Atabeghi e Gialairidi. Solo dal XII secolo la regione venne rinominata con il nome di Qarabağ, ma solo dal XV secolo inizia a far parte del primo stato azerbaigiano che si chiamava Garagoyunlu poi diventato Ak Koyunlu. In questo periodo il reggente del Garagoyunlu conferì alla stirpe dei Jalalidi (che governarono la regione fino alla fine del XV) il titolo di melik, ossia di reggente. È interessante sottolineare che la dinastia azera ha fatto ricorso ad un titolo nobiliare tipicamente armeno, a riprova della forte commistione tra le due culture in questo periodo. Dal XVI secolo la dinastia Safavide prende il controllo di tutto il territorio del Karabakh, fino alla metà del XVIII secolo quando nell’antica Albània Caucasica si formarono dei khanati tra i quali c’era il khanato del Karabakh. Questo khanato era popolato da azerbaigiani musulmani e da albàni caucasici cristiani. La Transcaucasia al centro degli interessi delle potenze mondiali Dalla fine del XVIII fino agli inizi del XIX secolo la Transcaucasia diventò territorio di scontro fra la Russia, l’Iran e l’Impero Ottomano. Alcuni territori si difesero fino alla fine, altri invece furono costretti ad accettare dei patti di vassallaggio. Tra questi, il Karabakh passò sotto il controllo della Russia il 4 maggio del 1805. Secondo fonti russe del 1810 nel Karabakh vivevano circa 9500 famiglie azerbaigiane e 2500 armene. Ed è proprio in questo periodo che iniziano ad originarsi le ragioni che porteranno poi al conflitto. Il territorio transcaucasico prima della conquista russa faceva parte dell’Impero Ottomano, che proteggeva chiunque fosse musulmano creando i cosiddetti khanati – equiparabili a regioni indipendenti, rette da un sovrano autonomo chiamato Khan. Tutte quelle popolazioni che non godevano di grande protezione all’interno dell’Impero Ottomano invece, sostennero l’avanzata russa. Tra queste ultime vi erano anche gli armeni che speravano così di poter ottenere un territorio dove istituire uno stato armeno indipendente. Le varie battaglie che ne conseguirono però, portarono a un’emigrazione di massa di armeni dall’Iran e dall’Impero Ottomano verso i nuovi territori conquistati. Secondo lo storico russo Shavrov, tra il 1828 e il 1830 furono trasferiti 40.000 armeni dalla Persia e 84.000 dall’Impero ottomano. La seconda “ondata” di armeni arrivò dopo la guerra tra Turchia e Russia del 1877-1879, periodo nel quale si verificò una deportazione di massa degli armeni verso la Russia. La popolazione armena venne sfruttata da tutte le maggiori potenze dell’epoca: la Russia si serviva degli armeni ortodossi per avere uno sbocco verso Sud per il Mediterraneo, così da bloccare il passaggio verso l’India alla Gran Bretagna; la Gran Bretagna faceva appello agli armeni protestanti nel tentativo di ottenere un passaggio migliore verso l’India; infine la Francia si serviva degli armeni cattolici per proteggere i propri interessi nel Medio Oriente. Finita la guerra russo-ottomana venne firmato il trattato di pace di Santo Stefano il 3 marzo del 1878. La Russia fece inserire una clausola con la quale gli ottomani erano costretti a riformare i vilayet (province dell’Impero Ottomano) dove vivevano gli armeni aggiungendo la condizione che le truppe russe sarebbero rimaste a difesa dei territori occupati fino a che dette riforme territoriali non venivano messe in atto. Questa dura presa di posizione russa non fu ben accolta dai britannici, che la percepivano come minaccia diretta ai propri interessi nel Vicino Oriente. La clausola fu dunque rettificata in peius: nei territori dove si trovavano gli armeni furono stanziate le truppe di tutte le grandi potenze partecipanti al congresso di Berlino. Gli armeni, nel tentativo di ottenere la salvezza ed un territorio sul quale costituire un nuovo stato armeno, rifiutarono l’appoggio russo e si affidarono alla Gran Bretagna. La superpotenza però, una volta ottenuta l’isola di Cipro dalla Turchia, non si curò più degli armeni e questi rimasero bloccati ed isolati in Transcaucasia senza vedersi riconosciuto nessuno stato. La nuova realtà transcaucasica In reazione al tradimento inglese, fu creato il partito Hunchak (Campana) nel 1887 a Ginevra, basato sui principi marxisti e composto esclusivamente da armeni provenienti dalla Russia. Successivamente nel 1890 a Tbilisi venne fondata la Federazione dei rivoluzionari armeni conosciuta come Dashnak, di stampo tipicamente socialista. Queste due organizzazioni avevano come obiettivo quello di creare nelle sei province orientali dell’Impero Ottomano uno stato unico di matrice socialista che si sarebbe chiamato Armenia Turca, ma questo era solo l’inizio: infatti l’obiettivo finale era quello di riconquistare i vecchi territori del Regno di Armenia del I secolo a.C. Dal momento che i Dashnak erano un gruppo terroristico, per raggiungere questo obiettivo gli stessi non esitavano ad usare la forza nei confronti di chiunque si fosse opposto. Non avendo avuto fortuna in Anatolia, i Dashnak si spostarono in Transcaucasia: iniziarono allora

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I Rohingya: la minoranza invisibile

Tra le grandi crisi umanitarie del nostro tempo quella che coinvolge i Rohingya del Myanmar è tra le meno conosciute. Pur avendo acquisito rilevanza sulla scena internazionale solo nel 2017, le violenze e le discriminazioni che hanno costretto più di un milione e mezzo di persone al dislocamento forzato in Bangladesh hanno origini lontane, facendo tristemente conquistare ai Rohingya la denominazione di “minoranza più perseguitata al mondo”. Clandestini nel proprio paese Le origini dei Rohingya sono contese e da sempre strumentalmente usate dal Myanmar (Ex-Birmania) per negare sistematicamente i loro diritti. Gli stessi dati che li riguardano sono incerti per lo stesso motivo, i Rohingya sono invisibili anche agli occhi delle statistiche governative, non venendo inclusi nei censimenti nazionali. Da quello che si può ricostruire di questa etnia “invisibile” è che i Rohingya sono una minoranza musulmana sunnita che risiede nell’area dello Stato di Rakhine, nel Myanmar a maggioranza buddista, da molto tempo. Sull’identificazione precisa di questa temporalità vi sono varie opinioni. Alcuni storici fanno risalire la presenza di questo popolo nell’Ex-Birmania al XII secolo, mentre la teoria portata avanti da coloro che li respingono è che siano discendenti di un gruppo musulmano proveniente dall’allora Bengala ed emigrato nel Rakhine durante la colonizzazione britannica. Ciò che è certo è che la loro presenza sul territorio si sia intensificata durante il periodo coloniale, da quando il Myanmar è stato amministrato come una provincia indiana. Alla base della discriminazione dei Rohingya vi è proprio il non riconoscimento della loro appartenenza al Paese in cui vivono da secoli. Nonostante le politiche portate avanti dai regimi che si sono susseguiti in Myanmar a seguito dell’indipendenza, nel 1948, siano sempre state repressive nei confronti delle diverse minoranze etniche e religiose, quelle verso i Rohingya sono state particolarmente violente, arrivando a negare loro il più basilare dei diritti, la nazionalità birmana. I Rohingya non rientrano, infatti, nei 135 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti dalla legge del 1982 decretata dall’allora regime militare del generale Ne Win, venendo condannati ad un’esistenza di perenne clandestinità, privati del diritto al voto, all’istruzione superiore, al libero spostamento sul territorio nazionale. I Rohingya sono quindi destinati all’apolidia, a meno che non riescano a dimostrare la loro presenza sul territorio prima del 1824, anno di annessione all’India britannica. Nel corso dei regimi militari che si sono susseguiti in Myanmar, un clima di intolleranza si è aggiunto alla mancanza di diritti, provocando distruzione di abitazioni e luoghi di culto, saccheggi, stupri e omicidi etnici. I crimini dei militari hanno costretto migliaia di Rohingya a fuggire verso gli stati confinanti, primo tra tutti il vicino Bangladesh, con ondate migratorie nel 1978 e nel 1991-92, periodi caratterizzati da una particolare escalation di violenze. Il picco della crisi Le elezioni parlamentari che si sono tenute nel 2015 hanno costituito un punto di svolta per il Myanmar, vedendo la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, la leader dell’opposizione costretta in regime di detenzione per più di 15 anni e vincitrice del premio Nobel per la Pace nel 1991. Nonostante tra le alte cariche governative fosse ormai presente una personalità quale quella della Suu Kyi, la violenza governativa verso i Rohingya non si è arrestata. Le violenze e i rastrellamenti su base etnica sono aumentati negli ultimi anni costringendo, già nel dicembre 2016, circa ventimila persone a fuggire in Bangladesh. Sono stati pero gli avvenimenti dell’estate 2017 a diffondere il dramma dei Rohingya a livello internazionale e discutere sulla tesi di genocidio rispetto alle violenze nei loro confronti.  Le nuove ondate di repressione governativa si sono scatenate in risposta alle azioni armate del gruppo ribelle ARSA, Arakan Rohingya Salvation Army. In particolare, l’attacco ad un check-point della polizia, il 25 agosto 2017, ha scatenato una reazione durissima dell’esercito birmano rivolta indiscriminatamente a tutta la popolazione civile Rohingya del Rakhine. Secondo i dati delle Nazioni Unite i militari hanno distrutto quasi 300 villaggi e perpetuato migliaia di violenze ed uccisioni a danni di uomini, donne e bambini. Dal 25 agosto al 7 settembre 2017 si stima che oltre 700.000 Rohingya abbiano lasciato il paese, circa metà della popolazione totale stimata. Nonostante alcune migliaia di persone si siano rifugiate anche in Thailandia e in Malaysia, la maggioranza di essi hanno raggiunto il Bangladesh, sia via terra, attraversando il fiume Naf, che via mare. Qui si sono aggiunti agli oltre 300.000 profughi già presenti nel distretto di Cox’s Bazar, provincia di Chittagong. Fino a marzo 2019, quando il Bangladesh ha chiuso le frontiere, migliaia di Rohingya hanno continuato a varcare il confine, costretti in condizioni di vita degradanti. Nonostante l’allestimento di campi d’accoglienza e la fornitura di alcuni servizi essenziali da parte del governo e delle organizzazioni internazionali presenti sul territorio, i Rohingya vivono in situazioni di grave sovraffollamento e non hanno acceso al mercato del lavoro legale, né tantomeno al sistema scolastico e sanitario. D’altra parte il Bangladesh non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 e dunque la popolazione non vede riconosciuti neanche formalmente i propri diritti in quanto rifugiati. Dopo le prime dimostrazioni di solidarietà, inoltre, a Cox’s Bazar è cresciuto il malcontento della popolazione locale rispetto all’alto numero di profughi.  Il Bangladesh è infatti tra i paesi più poveri tra quelli che ospitano il maggior numero di rifugiati, 1,1 milioni, e presenta forti carenze in quanto a servizi, infrastrutture e occupazione. Ad oggi secondo il Piano di risposta congiunta (JRP) 2020 dell’UNHCR per la crisi umanitaria dei Rohingya, circa 855.000 rifugiati risiedono in 34 campi formali nel distretto di Cox’s Bazar, ormai congestionato, e si stima che il 55% di loro siano bambini. La situazione nei campi resta molto precaria, aumentano tra l’altro le famiglie di rifugiati che si indebitano per sopravvivere, passando dal 35% a luglio 2018 al 69% ad agosto 2019. Nel corso degli anni inoltre, vari gruppi jihadisti hanno occupato il vuoto spesso lasciato dalle istituzioni, distribuendo beni e servizi nei campi e reclutando i Rohingya tra le loro file. Un futuro incerto Con il 2020 le sorti

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La rotta del Mediterraneo Centrale

Secondo il report “Missing migrants” dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM), il Mediterraneo centrale è sempre più mortale a causa dell’assenza delle navi ONG e di navi di ricerca e soccorso dei governi europei. Attualmente, le operazioni di soccorso sono spesso svolte dalle autorità libiche e tunisine e il report evidenzia come, per il secondo anno consecutivo, vi sia un aumento dell’attività dei Paesi nordafricani: sono 23.117 le persone recuperate nei primi sei mesi del 2020, mentre sono 31.500 le persone recuperate nei primi sei mesi del 2021. Chi viene recuperato dalle autorità nordafricane rischia di subire tortura, trattamenti inumani e degradanti od il rimpatrio verso il Paese di origine, dove possono incorrere in ulteriori violazioni. La rotta del Mediterraneo Centrale Secondo l’Agenzia Europea per il controllo delle Frontiere Esterne (FRONTEX), sono otto le principali rotte che rifugiati e migranti percorrono nel tentativo di raggiungere l’Unione Europea: 1) la rotta orientale; 2) la rotta balcanica; 3) la rotta circolare; 4) la rotta atlantica; 5) la rotta del Mar Nero; 6) la rotta del Mediterraneo occidentale; 7) la rotta del Mediterraneo orientale; 8) e la rotta del Mediterraneo centrale. La rotta del Mediterraneo centrale coinvolge le frontiere marittime di Libia, Tunisia, Malta e Italia, costituendo uno spazio di 400 km circa. Il Mediterraneo centrale però costituisce solamente la parte finale di un lungo viaggio che spesso dura tra i 2 ed i 5 anni. Prima di arrivare in Libia o in Tunisia, chi migra ha intrapreso una delle 5 rotte migratorie terrestri che dall’Africa Subsahariana portano all’Italia. Ognuna di queste rotte attraversa il deserto del Sahara e passa o nella cittadina di Agadez, in Niger, per chi parte dal Sahel occidentale o per Khartoum, la capitale del Sudan, per chi parte dal Sahel orientale. Il protagonismo del Mediterraneo Centrale nelle migrazioni del XXI secolo La rotta del Mediterraneo Centrale ha iniziato ad assumere un ruolo rilevante a seguito della caduta del Muro di Berlino. Fino a quel momento, la maggior parte dei flussi migratori verso l’Europa proveniva dalla frontiera orientale, ovvero dai Paesi dell’Ex-Unione Sovietica. La cosiddetta epoca del bipolarismo ha avuto effetti anche nel continente africano, dove i due blocchi combattevano guerre per procura e finanziavano le élite locali. Di conseguenza, le pressioni politiche ed economiche, le forniture di armi, i mercenari e talvolta interventi militari diretti sono stati fattori che hanno contribuito al sorgere di nuovi conflitti od all’inasprimento di quelli storici. Al termine di questa epoca – e di conseguenza dei finanziamenti da parte degli Stati Uniti o dell’Unione Sovietica – si aprirono nuovi teatri di crisi a causa di una nuova instabilità politica a cui si susseguirono crisi umanitarie, conflitti e fenomeni di persecuzione verso le minoranze e gli oppositori politici. Questo cambiamento dello scenario geopolitico ha portato, da una parte, a nuovi flussi migratori e, dall’altra, a ripensare le politiche d’immigrazione nei Paesi del Nord del mondo. É bene notare però che la gran parte dei flussi migratori africani si svolgono, prima più di oggi, all’interno del continente e, nella maggior parte dei casi, l’Europa non è la destinazione finale programmata all’inizio del viaggio. Fino ai primi anni 2000 vi erano importanti sistemi regionali di migrazioni che nei decenni si sono costruiti attorno a centri economici africani in crescita, come nel caso della Libia. Questo Paese ha infatti storicamente rappresentato un’importante destinazione dei flussi migratori africani e, fino al 2011, non era affatto una meta di transito. Ciò era dovuto, almeno fino alla seconda metà degli anni ‘90, alla politica promossa dal Colonnello Gheddafi volta a favorire i cosiddetti migranti economici provenienti dall’Africa subsahariana al fine di impiegarli nel comparto petrolifero ed edilizio. Dal 2000 però, gli africani subsahariani hanno cominciato sempre più ad essere vittime della xenofobia e delle violente rivolte anti-immigrazione che dilagavano nel Paese. Si assistette ad una escalation di violenze nei confronti dei subsahariani  che sfociarono in espulsioni, detenzioni arbitrarie e tortura. Ciò spinse a nuovi fenomeni migratori verso altri Stati del Nord Africa o l’Europa. Nonostante ciò, la Libia ha continuato ad essere un’importante destinazione fino al 2011. Le cosiddette Primavere Arabe hanno riconfigurato ulteriormente i flussi migratori contemporanei facendo registrare un aumento esponenziale dei numeri sulle rotte marittime migratorie del Mediterraneo. Le proteste hanno infatti portato alla caduta di regimi ultra-decennali (come ad esempio Mubarak in Egitto, Ben Alì in Tunisia e Gheddafi in Libia) che a loro volta hanno portato ad una instabilità politica che ha contribuito ad aumentare i movimenti di popolazione tra le due sponde del Mediterraneo. Nel caso libico, il violento conflitto tra le milizie di Gheddafi ed i ribelli ha causato il ritorno in massa dei lavoratori migranti verso paesi sub-sahariani, come il Niger, il Mali e il Ciad. Ciò ha avuto effetti sulla stabilità di altri Paesi, ad esempio il ritorno dei Tuareg dalla Libia al Mali sembrerebbe aver incoraggiato la ribellione Tuareg nel nord del Mali. Dopo la caduta del regime di Gheddafi, la Libia è caduta in una crisi senza fine e si è trasformata, ancora più di prima, in un porto franco per trafficanti di esseri umani, per la criminalità organizzata e per le milizie che si scontrano per prendere il potere. A pagare questo vuoto politico sono nuovamente le migliaia di persone provenienti dall’Africa sub-sahariana che per anni hanno lavorato in Libia. Queste all’indomani della morte del Colonnello si sono ritrovati in un vero e proprio limbo subendo violazioni dei diritti e violenze. A ciò si aggiunge che la debolezza politica della Libia e la possibilità dei trafficanti di infiltrarsi nelle istituzioni, come ad esempio nel caso del noto trafficante di esseri umani Al-Bija accolto in Italia come esponente della Guardia costiera libica, hanno reso la rotta del Mediterraneo centrale più appetibile per la criminalità organizzata. Qui infatti, i trafficanti possono agire indisturbati e sfruttare o ricattare coloro che decidono di intraprendere il viaggio. Ciò accade in misura minore nella rotta del Mediterraneo Occidentale, dove il governo Spagnolo finanzia  il governo del Marocco, e nella rotta del Mediterraneo Orientale, dove

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