Salafiti: tra profonde differenze e reali unità

La difficoltà di comprendere il concetto di Salafismo – e quindi i Salafiti – inizia già con il tentativo di definirlo. È stato, infatti, identificato come una tendenza religiosa, un movimento di protesta, un movimento di riforma e ancora come una dottrina religiosa, ma nessuno di questi riesce a cogliere la vera entità del fenomeno. Oltretutto, il concetto di “Salafismo” – e di conseguenza la definizione di “salafiti” – ha assistito anche ad un’evoluzione profonda durante i secoli. Difatti, sono numerosi i pensatori ed i giuristi che hanno usato il termine in molte accezioni diverse e ciò rende ancora più difficile una ricostruzione chiara.

L’origine e la differenza con il Wahhabismo

Salafismo è un termine che deriva dall’arabo al-salaf al-ṣāli, che letteralmente vuol dire ‘’antenati pii’’ e con cui si fa riferimento alle prime tre generazioni di musulmani: i Ṣaḥābi, i Tābiʿūn e i Tābiʿ al-Tābiʿiyyīn. Secondo i salafiti quest’ultime rappresentano, a differenza dei musulmani di oggi, la versione pura e autentica dell’Islam, che si è persa nei secoli ed alla quale si dovrebbe tornare a fare riferimento.

A livello ideologico, il Salafismo moderno risale soprattutto ad un giurista e teologo medievale, Ibn Taymiyya, vissuto tra il 1263 e il 1328 nel territorio dell’odierna Siria, sebbene l’attuale corrente venga ricondotta al wahhabismo, un movimento di riforma religiosa nato nel XVIII secolo e che caratterizza l’attuale Arabia Saudita.

Nonostante molti tendano ad usare Wahhabismo e Salafismo come se fossero interscambiabili, i termini hanno connotazioni diverse, come viene chiaramente spiegato dallo studioso americano Blanchard: il primo termine, infatti, si riferisce ad “un credo islamico conservatore dell’Arabia Saudita” mentre il secondo ad “un movimento islamico puritano più generale che si è sviluppato in modo indipendente in vari tempi e in vari luoghi del mondo islamico”.

I Salafiti uniti da un credo comune?

Nella loro profonda differenza interna al movimento possiamo, tuttavia, riconoscere alcune caratteristiche di uguaglianza. Per una piena comprensione di ciò che accomuna tutti i salafiti passeremo attraverso la definizione di alcuni concetti chiave, senza i quali sarebbe impossibile l’osservazione basilare del fenomeno.

Tutti i salafiti sono legati dallo stesso credo religioso, aqida, da cui traggono i principi e i metodi per applicare la propria fede a questioni e problemi anche contemporanei.

Con il termine aqida (credo) ci si riferisce sia alle dottrine di base dell’Islam sia ai testi in cui vengono specificate queste dottrine. Nonostante il termine possa risultare di facile comprensione, l’aqida porta con sé un significato ben più complesso: esso indirizza le più importanti questioni religiose, fornisce i principi organizzativi e, più in generale, i vari aspetti del credo.

L’unità di Dio è un punto cruciale per tutti i musulmani ma ha un significato particolare per i salafiti e viene espressa con il termine tawhid. L’unicità di Dio si sviluppa su tre dimensioni: Dio è il solo creatore e signore dell’universo, Dio è supremo e unico e Dio è il solo ad avere il diritto di essere onorato. Il tawhid deve essere difeso e rispettato e, solo seguendo severamente il Corano e l’esempio del Profeta Mohammed trasmesso attraverso la Sunna, è possibile farlo. Il Corano è la parola di Dio e la sua sacralità è evidente anche dal punto di vista della lingua utilizzata, l’arabo. Il testo sacro, infatti, è impossibile da tradurre ed anche impossibile da imitare sia nella forma che nel contenuto. La Sunna, anch’essa fonte scritta, contiene i testi, i fatti e persino i silenzi del profeta. L’importanza di seguire l’esempio di Muhammad si può comprendere da questo versetto coranico:

“Voi avete, nel Messaggero di Dio, un esempio (iswah) buono, per chiunque speri in Dio e nell’Ultimo giorno e molto menzioni Dio”

   (Corano, XXXIII, 21)

Perciò, tutte le risposte sono contenute nel Corano e nella Sunna e l’importanza di attenersi a queste fonti è fondamentale perché ogni altro riferimento potrebbe portare a divergenze. Abbiamo già detto che il Corano è la parola di Dio; questo implica che non sia interpretabile. L’interpretazione, essendo un atto finalizzato ad attribuire un significato, presuppone un processo dove è la logica umana ad operare e l’applicazione dell’intelletto umano sui testi sacri non è consentita. È per tale motivo che non vengono riconosciute dai Salafiti le scuole giuridiche, perché queste hanno dato luogo a diversi indirizzi interpretativi delle stesse fonti.

Detto ciò, il dovere di attenersi alle fonti sacre porta a non tollerare ogni forma di innovazione (bid’a). Ciò, però, non vuole dire che tutte le forme di innovazione sono respinte; difatti, solo quelle in seno all’Islam portano a prendere le distanze dal credo puro e vero. Un’importante distinzione va però fatta tra bid‘a e tajdīd, cioè tra innovazione religiosa e rinnovamento religioso. A differenza del primo concetto, che è visto con accezione negativa, il secondo è accettato in quanto nel processo di rinnovamento non viene apportata nessuna innovazione religiosa in seno all’Islam.

Un ultimo termine che merita un approfondimento è un concetto che viene spesso usato, soprattutto dai media, in maniera incompleta ed a volte errata e che meglio aiuta ad inquadrare il Salafismo: stiamo parlando del ğihād.  La traduzione più familiare a noi è quella di “guerra santa”, sebbene, in realtà, si intenda qualcosa di molto più ampio. Viene definito ğihād ogni sforzo che il credente deve fare sulla via di Dio, un obbligo generale che riguarda ogni musulmano e che prevede di combattere le proprie cattive disposizioni e di migliorarsi sempre più, verso la strada di Dio. Si devono, dunque, distinguere lo ğihād minore – inteso come sforzo del musulmano verso la comunità e quindi concernente la sfera pubblica – dallo ğihād maggiore – che rappresenta lo sforzo di auto perfezionamento individuale e che si sviluppa, invece, nella dimensione privata. Quando si fa riferimento allo ğihād minore la valenza che gli viene attribuita è duplice: una che riguarda un intervento contro i vizi pubblici e una definita “braccio” ed è solo in questa seconda dimensione che viene menzionato l’utilizzo della forza. Questo cenno all’uso della forza è stato poi interpretato dalle frange estremiste come legittimante ad intraprendere la cosiddetta guerra santa. D’altra parte, i media, soprattutto occidentali, hanno contribuito ad enfatizzate questo aspetto dello ğihād più duro facendo un uso improprio, al punto di ridurre il senso del termine generale a questo singolo aspetto.   Ciò ha portato a stravolgere il concetto generale di ğihād intesocome sforzo che il credente è chiamato a fare sia pubblicamente che privatamente in qualcosa che rappresenta solo in parte il vero significato del termine.

Un gruppo… non così omogeneo

Quest’ultimo termine ci è utile per parlare, invece, delle profonde differenze che sussistono nel Salafismo. Anche se per lungo tempo sono stati un gruppo relativamente omogeneo, principalmente stanziato nei territori dell’Arabia Saudita, con il passare dei decenni i salafiti hanno subito delle spaccature interne e una diffusione in altri territori. La situazione odierna vede l’esistenza di varie correnti diverse tra loro, eppure, bisogna prestare attenzione alle categorizzazioni avanzate perché potrebbero fornire un’idea di separazione troppo netta. Tuttavia, per comprendere e sottolineare come le azioni violente e le rivendicazioni di carattere politico siano mosse da quella che è solo una minoranza, faremo cenno ad una delle divisioni proposte dallo studioso Quintan Wiktorowicz. Nonostante la sua formulazione sia stata di recente messa in discussione, mostrando come le divisioni tra le correnti non siano così rigide come potrebbero sembrare e come queste vadano bene quando si parla di Salafismo in termini ideologici, la sua teoria rimane una delle più autorevoli e tra le più utili nello studio del fenomeno. Wiktorowicz riconosce tre maggiori correnti interne al Salafismo, che lui stesso definisce: puristi (chiamati anche quietisti), politici e ğihādisti.

I salafiti puristi: tra purezza del credo e isolazionismo

I puristi si impegnano principalmente a preservare la purezza dell’Islam, che proteggono e promuovono attraverso attività missionarie e di educazione al credo Salafita. Si vedono impegnati anche nella lotta contro le pratiche che deviano dal messaggio originale, ma la loro guerra non è fatta di spade, bensì di discorsi e di buone maniere. Sugli esempi pacifici del profeta e degli antenati pii, ogni forma di attivismo violento e di impegno politico (anche non violento) non è ben vista, nemmeno nei casi più estremi, perché costituisce un’innovazione del credo originale, che, come abbiamo visto, non è tollerata.

Per mantenere questa purezza della religione, spesso i puristi si sono caratterizzati per il loro isolazionismo verso tutto ciò che potrebbe intaccare l’originalità del messaggio islamico. Per questo motivo tendono a rimanere separati soprattutto dai non-credenti ma anche dai non musulmani e dagli stessi musulmani che non seguono la pura interpretazione. Per questo motivo, anche se i Salafiti vivono e risiedono in luoghi lontani dai territori islamici, la loro tendenza è quella di rimanere in comunità chiuse.

L’importanza fondamentale del tawhid, della purezza e del rigetto verso qualsiasi forma di innovazione spinge i puristi a non riconoscere né i politici per il loro impegno, né gli ğihādisti per gli atti violenti. Il messaggio originale non parla di violenza o di attivismo politico, perciò le azioni di queste due correnti non solo deviano dalla purezza, ma sono anche spinte da un desiderio umano di far prevalere una loro decisione umana sul credo. I puristi perciò, non solo rifiutano, bensì boicottano le azioni delle altre due correnti.

Critica ai puristi, i politici contro le ingiustizie

I politici, a differenza dei puristi e come suggerisce il nome stesso, sono impegnati politicamente in varie forme. La prima testimonianza del loro sviluppo in Arabia Saudita si ebbe tra gli anni ’80 e ’90 quando un gruppo di giovani sfidò l’autorità dei salafiti puristi. Questi ultimi venivano e vengono accusati di una mancata conoscenza di ciò che accadeva e accade intorno a loro, principalmente in ragione del loro isolamento dal resto del mondo.

La loro comparsa, dovuta non solo al contesto locale ma anche al contatto con altri movimenti islamisti impegnati politicamente come i Fratelli Musulmani, ha permesso la creazione all’interno del credo Salafista di argomentazioni politiche viste dai puristi come un’innovazione. Dal punto di vista dei politici, invece, tutte le ingiustizie che i salafiti e il mondo musulmano stavano subendo andavano affrontate non più con preghiere, purificazione o propagande ma con un attivismo politico concreto.

Ğihādisti: una minoranza frammentata

Come abbiamo visto, il termine ğihād ha per i musulmani una connotazione diversa da quella presentata dai media. I puristi sottolineano il carattere pacifico dell’esempio lasciato dai primi antenati e rifiutano ogni forma di violenza, situazione ben diversa dall’interpretazione della corrente ğihādista dei salafiti.

Wiktorowicz nel suo articolo presenta un’interessante ricostruzione storica della loro evoluzione: senza entrare nel dettaglio, la loro “nascita” risale alla guerra in Afghanistan contro l’Unione Sovietica. Tenendo presente che la loro formazione “politica” è avvenuta principalmente sul campo di battaglia, il loro rapporto con lo ğihād intesa come guerra santa è molto più stretto rispetto alle altre correnti ed ai musulmani in generale. L’obiettivo di un rovesciamento dei sovrani apostati a favore dell’istituzione di Stati Islamici “giustifica” l’uso della violenza e delle armi. La loro critica verso i puristi (ma anche verso chi non segue il loro messaggio) è forte, il loro rifiuto di opporsi alle ingiustizie che i musulmani subiscono li porta ad essere accusati di non applicare il loro credo fino in fondo. Nonostante ciò, bisogna ricordare che gli ğihādisti costituiscono solo una minoranza, anche frammentata internamente, e che spesso non ha un nemico comune.

Conclusioni

Come abbiamo visto, il fenomeno è più complesso di quello che potrebbe apparire ad un primo sguardo e merita, perciò, un’attenzione particolare. Malgrado la tendenza ad osservare i salafiti solo attraverso la lente estremista, essi si differenziano molto al loro interno ed i confini tra le varie correnti risultano sfumati. Grazie a studiosi che hanno dedicato i loro sforzi all’osservazione ed all’analisi del gruppo, fornendoci anche categorizzazioni che ne favoriscono la comprensione, il quadro non è più così confuso come in passato. Ricordiamo che le azioni violente sono portate avanti solo da una minoranza; inoltre ciò è dovuto anche a tutto un insieme di fattori ed influenze che non sempre corrispondono al credo religioso. Perciò, in conclusione, identificare i salafiti con il termine terrorismo non è solo riduttivo dell’intero fenomeno a pochi individui, ma anche errato.

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I diritti delle donne nello Yemen in guerra

Prima dello scoppio della guerra in Yemen, le donne hanno dovuto affrontare gravi discriminazioni nei diritti, nella legge e nella pratica. Il conflitto ha aggravato la situazione aggravando la discriminazione e la violenza contro donne e ragazze yemenite.  Gli effetti della guerra sulla popolazione e i diritti delle donne in Yemen Il conflitto ha ridotto allo stremo e alla fame la popolazione. Le famiglie Yemenite hanno utilizzato le spose bambina come merce di scambio per poter ripianare i debiti e procurarsi cibo. La pratica dei matrimoni precoci rappresenta una grave violazione dei diritti dell’infanzia e delle donne. L’OXFAM riporta una situazione di crescente penuria di cibo che ha lasciato più di un milione di donne incinte che allattano in stato di malnutrizione. Anche con l’assistenza umanitaria, le donne mangiano per ultime, dando priorità ai bambini e ad altri membri della famiglia, o utilizzano il denaro per altre esigenze domestiche. La guerra in Yemen ha causato molti spostamenti di popolazione che hanno avuto l’effetto di creare insicurezza personale, instabilità familiare e mancanza di garanzia dei diritti per le donne. Le donne e le ragazze dello Yemen sono le più vulnerabili e le più esposte ai rischi e alle violenze di genere che avvengono sia all’interno che all’esterno dei campi per gli sfollati. Un’indagine sulla protezione degli sfollati interni e delle comunità ospitanti è stata effettuata nel Novembre del 2018 dalla Wajood Foundation for Human Security. L’indagine ha scoperto che le donne hanno sperimentato i livelli più alti di tutte le forme di violenza: psicologica, fisica e sessuale. A queste si aggiunge l’aumento delle detenzioni arbitrarie. Una volta detenuti, sia donne che uomini, hanno subito violenze sessuali. La situazione si complica poiché le vittime di violenza nello Yemen sono altamente stigmatizzate causando uno scarso numero di denunce. Tutto ciò rende difficile garantire i diritti delle donne dello Yemen. Secondo le Nazioni Unite la violenza contro le donne è aumentata del 63% dall’inizio del conflitto. La violenza da parte delle istituzioni Secondo il “Report of the Group of Eminent International and Regional Experts as submitted to the United Nations High Commissioner for Human Rights” nel 2018 e nel 2019 sono proliferate nuove norme di genere oppressive e le donne yemenite sono ulteriormente emarginate sotto il controllo e la coercizione delle parti in conflitto. Il sostegno limitato contro le violenze di genere sono peggiorate a causa del crollo del sistema di giustizia penale nel 2019. La discriminazione femminile veniva in ogni caso perpetuata dagli attori che dovevano applicare la legge, risultando una minaccia diretta e non una tutela per le donne dello Yemen. Le parti coinvolte nel conflitto, inoltre, hanno spesso accusato le donne yemenite di prostituzione, promiscuità e immoralità. Ciò ha aumentato i rischi di violenza domestica e dissuaso donne e ragazze ad uscire di casa, inibendo la loro partecipazione alla sfera economica e politica. Le violenze da parte delle forze di sicurezza degli Emirati Arabi Uniti e delle milizie Houthi Oltre alle accuse pubbliche, le forze coinvolte nel conflitto si sono macchiate direttamente di violenza sulle donne nello Yemen. I membri delle forze di sicurezza sostenute dagli Emirati Arabi Uniti hanno continuato a commettere violenze sessuali: i membri della 35esima Brigata corazzata hanno violentato e aggredito sessualmente donne e uomini, portando avanti un modello più ampio di violenza sessuale che prendeva di mira le persone vulnerabili provenienti da comunità migranti, rifugiati e muhamasheen (conosciuti anche come “afro-yemeniti”). Dal 2017 al 2019 i membri della Brigata hanno rapito gli individui e li hanno sottoposti a stupro, compreso stupro di gruppo e altre forme di violenza sessuale, anche come mezzo per umiliare e soggiogare i membri di queste comunità. Anche le milizie Houthi nel 2018 e nel 2019 hanno rapito e detenuto donne e ragazze per periodi lunghi, fino agli 8 mesi, per ricattare i parenti. Spesso queste donne vengono accusate di muoversi senza un tutore maschio. Il rapimento pone le donne e le ragazze a rischio di violenza sessuale, attirando lo stigma e ponendole ad ulteriori rischi. Tutto questo compromette i diritti delle donne nel paese e la loro sicurezza. Questi sono solo alcuni dei diritti umani violati dalle parti in conflitto. L’importanza delle donne Yemenite Vivere sotto il conflitto, per anni, è difficile. Per le donne yemenite è ancora più difficile. Le donne sopportano il peso della guerra e stanno guidando gli sforzi per aumentare la resistenza delle proprie comunità. Lo Yemen ha aderito alla Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW) per tutelare i diritti delle donne e garantire le libertà politiche ed economiche. Occorre evidenziare che le donne yemenite sono di fondamentale importanza per il Peacebuilding a livello locale. Oltre alla situazione generale della guerra in Yemen, sul territorio si sono sviluppati una serie di conflitti locali per l’acqua e la terra. Spesso le donne si fanno carico della risoluzione di questi conflitti facendo da mediatrici tra le tribù e per trattare il rilascio di eventuali detenuti. Anche se le norme dello Yemen sono altamente conservatrici, rilevando criticità per quanto riguarda i diritti delle donne, queste sono importanti per le comunità rurali e la creazione della pace. La complessità del conflitto, però, non permette la partecipazione delle donne alle sedute formali dei processi di pace. Ciò esclude importanti risorse e voci che potrebbero contribuire a una maggiore pace sostenibile creata da giovani e, soprattutto,  da giovani donne della società civile. Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

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Diritti politici in Egitto durante la presidenza di Al-Sisi

La presidenza di Al-Sisi, comincia dopo il golpe del 2013 ai danni del presidente Morsi, unico presidente eletto democraticamente nella storia del paese; fin da subito il governo di Al-Sisi si caratterizzò per un profondo e violento depauperamento dei diritti politici e sociali in Egitto. Fu immediatamente chiara la strategia con la quale Al-Sisi intendeva mantenere il potere in Egitto: soprusi, violenze ed omicidi sarebbero divenuti fatti all’ordine del giorno. Ciò che emerge con chiarezza infatti, è l’uso diffuso di varie forme di intimidazione volte a scoraggiare sia gli esponenti politici che i semplici giornalisti dal porre interrogativi sull’operato del governo e dei suoi rappresentanti. La polizia e l’esercito sovente impongono la volontà governativa attraverso varie forme di violenze, dalle intimidazioni e minacce a pestaggi, arresti arbitrari e purtroppo omicidi. Ogni persona, anche solo sospetta di volersi opporre al regime, è in pericolo. Lo scopo è palese: creare un clima politico e sociale di terrore, per impedire la formazione e la potenziale diffusione di qualsiasi forma di opposizione al regime. Il governo egiziano, quindi ritiene necessario utilizzare le forze armate come principale mezzo per il mantenimento del potere. Al centro della strategia politica di Al-Sisi vi è il rafforzamento delle strutture militari e della polizia così da creare un sistema clientelare e violento che ha definitivamente contribuito a consolidare il potere presidenziale. La polizia all’interno dell’apparato di potere egiziano ha un ruolo predominante, essendo lo strumento privilegiato – e perciò tutelato – con il quale il presidente impone le sue politiche alla popolazione e sopprime qualsiasi opposizione alla sua azione di governo.  La polizia gode di una quasi totale liberà nell’esercitare le sue funzioni, un’immunità di fondo che gli garantisce ampissimi margini di manovra per le operazioni che esegue, per sopprimere e disincentivare qualsiasi forma di contestazione al regime. (https://www.internazionale.it/notizie/blandine-lavignon/2020/04/22/egitto-ascesa-polizia). Lo strapotere che la polizia detiene all’interno della società si evince dalle numerose nomine dei suoi generali ai vertici dell’alta amministrazione egiziana, rendendo evidente come le violenze e le atrocità commesse da questa siano riconducibili direttamente ed inequivocabilmente alla volontà presidenziale. Anche l’esercito gode di ampi poteri discrezionali nella scelta del proprio modus operandi che gli garantisce un’importante e diffusa pressione sulla popolazione civile. Negli anni della sua presidenza, Al-Sisi ha posto al vertice dei ministeri, o in altre ruoli chiave, esponenti delle forze armate le quali hanno la funzione di fungere da contrappeso, agli occhi del presidente, allo strapotere della polizia. Di fatto questi due centri di potere devono essere bilanciati essendo potenzialmente in competizione fra loro. Proprio per rispettare questo bilanciamento di poteri dunque, il presidente elargisce favori e garanzie di immunità ad entrambi a discapito dei diritti politici della popolazione d’Egitto, che non può far altro che subirne le gravi e continue violenze. Nello specifico si pensi che il diritto di riunione e di libertà di espressione è profondamente limitato e la polizia fa rispettare queste limitazioni perpetrando arresti arbitrari e sottoponendo i prigionieri a tortura. Le autorità accusano gli oppositori politici di terrorismo, sottoponendoli a processi iniqui e arbitrari che si concludono spesso con la condanna alla detenzione in carceri mal tenuti e in cui vigono regole medievali. Il clima è ancor più esasperato da continui interventi presidenziali volti a modificare le discipline che regolano la magistratura ed i partiti politici. Dall’agosto del 2018 infatti, il governo può sciogliere arbitrariamente partiti indipendenti, impendendo così la costruzione di qualsiasi forma di opposizione legale al regime. Inoltre, di altrettanta gravità, è l’allargamento della giurisdizione dei tribunali militari divenuti – insieme ai neo-tribunali straordinari – il vero fulcro del potere giudiziario in Egitto. Detti tribunali sono caratterizzati da procedimenti sommari e gli esiti dei processi sono fortemente influenzati da pressioni governative che consentono di ammettere come valide le testimonianze rese sotto tortura e/o altra forma di pressione psicologica. Il quadro è ancor più drammatico con riferimento all’individuazione di potenziali oppositori politici: in questo caso, polizia ed esercito non sono sottoposte ad alcun tipo di limite o controllo in fase di identificazione di questi soggetti. Al contrario, il potere giudiziario asseconda questa assenza di disciplina chiara quando si tratta di individuare gli oppositori.  Ciò che stupisce dell’attuale situazione è che vi è stato un notevole indebolimento delle garanzie afferenti i diritti politici in Egitto. Seppur vero che nemmeno la presidenza di Mubarak si distinguesse particolarmente per la tutela e la salvaguardia dei diritti civili e politici in Egitto impossibile non notare come la degenerazione sia sempre più rapida. Si pensi in effetti che i principali agitatori della Rivoluzione egiziana del 2011, quella che portò alle dimissioni di Mubarak, furono i lavoratori, i quali,  stanchi delle pressioni dei capi sindacali, quasi tutti filo-governativi,  occuparono le piazze delle principali città egiziane (https://www.internazionale.it/notizie/blandine-lavignon/2020/04/22/egitto-ascesa-polizia ); ciò oggi sarebbe impensabile sia per un fondamentale disinteresse della classe politica rispetto alle istanze della popolazione e sia perché la polizia e i vari apparati governativi rendono impossibile qualsiasi forma di manifestazione del dissenso. L’attuale governo teme ogni tipo di rivendicazione di quelle forze che hanno permesso la fine del trentennale potere di Mubarak, ogni egiziano in questo senso è un potenziale oppositore.  A ben vedere non vi sono luoghi della democrazia che non siano stati compressi o del tutto eliminati da parte del governo tramite l’azione repressiva della polizia. Sono considerati “nemici della democrazia” tutti coloro che pongono domande o direttamente contestano l’operato del governo, come le ONG (https://espresso.repubblica.it/internazionale/2017/01/16/news/human-rights-watch-in-egitto-con-al-sisi-la-societa-civile-e-a-rischio-estinzione-1.293464 ) e i giornali indipendenti che, ad oggi, non esistono più; in tal senso è emblematica la vicenda dei giornalisti della redazione del giornale Mada Masr, (https://www.internazionale.it/bloc-notes/catherine-cornet/2019/11/26/egitto-raid-mada-masr ) che era l’unico giornale egiziano con cui si potevano reperire informazioni contro il governo, i quali sono stati in gran parte picchiati e arrestati. La questione sulla libertà di stampa appare ancor più preoccupante anche se si considera che ad oggi non vi sono giornali egiziani degni di questo nome dal momento che quelli rimasti intenti solo a fungere da megafono del governo. In Egitto infatti risulta difficilissimo svolgere la professione del giornalista, a meno che non si voglia

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Atena Daemi per i Diritti Umani in Iran

Atena Daemi sognava la fine della pena di morte nel suo paese, L’Iran, e auspicava a un rispetto maggiore dei diritti umani. Per questa ragione è stata incarcerata, picchiata e detenuta in isolamento. Oggi racconteremo la storia di questa donna coraggiosa e vedremo insieme la situazione dei diritti umani in Iran. I Diritti Umani in Iran Atena Daemi è stata incarcerata per la sua lotta a favore dei diritti umani che in Iran, suo paese natale, spesso non vengono rispettati. Secondo il più recente rapporto delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani, il paese soffre di gravi discriminazioni di genere, una percentuale troppo elevata di detenzioni arbitrarie e problematiche relative all’applicazione della pena di morte. Vediamo nello specifico quali sono i problemi. Per quanto riguarda la pena di morte e le detenzioni arbitrarie, nel paese sono state registrati numeri elevati di esecuzioni anche per crimini che non rientrano nelle categorie più gravi. Per categorie gravi la Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite intende solo quelli riguardanti omicidi intenzionali. Le esecuzioni sono state spesso il seguito di processi tenutisi in modo iniquo e con l’uso della tortura al fine di estrarre una confessione fittizia: in particolare per circostanze con connessioni alle proteste antigovernative che hanno avuto luogo nel paese negli ultimi anni. Il caso più emblematico è quello di Navid Afkari che è stato segretamente giustiziato dopo aver partecipato nell’agosto 2008 a delle proteste nella città di Shiraz. Il relatore speciale delle Nazioni Unite inviato in Iran, si è detto preoccupato dal fatto che queste esecuzioni sembrano celare una volontà, da parte del governo, di reprimere il dissenso nel paese. Il rapporto dell’ONU sottolinea l’elevato numero di esecuzioni ai danni di minorenni: tra il 1° gennaio e il 1° dicembre 2020 sono stati giustiziati 3 minorenni e più di 85 si trovano nel braccio della morte. In Iran il Codice penale prevede la pena di morte per le ragazze con più di 9 anni di età e per i ragazzi con più di 15 anni di età in caso di crimini quali l’omicidio e l’adulterio. I diritti delle donne sono fortemente ostacolati non solo dalla legge ma anche dalle abitudini e dalle convenzioni sociali. Nonostante i diritti delle donne siano codificati negli articoli 20 e 21 della costituzione, vi è discriminazione sui diritti di matrimonio, divorzio e custodia parentale. Una donna iraniana non può sposarsi senza il permesso del padre o del nonno paterno se il matrimonio in questione è il primo. È illegale il matrimonio tra una donna musulmana e un uomo non musulmano e il matrimonio con un uomo di nazionalità non-iraniana deve ricevere il consenso del governo. Le ragazze possono sposarsi legalmente fin dai 13 anni ma ci sono stati casi di bambine sposate anche in età più giovane con il consenso paterno e del giudice. Le donne sposate rimangono sotto l’autorità del marito che può proibire loro di lavorare, di avere un passaporto o di recarsi all’estero. Per quanto riguarda il divorzio, il marito ha diritto assoluto a richiedere il divorzio mentre la moglie può richiederlo sono in specifici casi. Infine, la libertà di pensiero e di manifestazione è limitata nel paese. I difensori dei diritti umani e i loro avvocati vengono quotidianamente vessati. Tra i casi più famosi quello di Golrokh Iraee Ebrahimi e della stessa Atena Daemi. Arrestate entrambe per aver condannato le esecuzioni arbitrarie dei prigionieri politici e per aver cantato una canzone commemorativa, Iraee fu rilasciata nell’aprile 2019 mentre Daemi resta in carcere. Oltre agli arresti vi è anche un dilagante fenomeno di intimidazione dei famigliari degli arrestati. L’uso eccessivo della forza e le interruzioni delle telecomunicazioni durante le manifestazioni è prassi comune. Il relatore speciale ONU riporta uno shutdown di internet senza precedenti, richiesto dal governo durante le manifestazioni del novembre 2019. In generale il governo continua a censurare i siti internet e le piattaforme di social media. Telegram, Twitter, Facebook e YouTube sono state bloccate in modo permanente e risultano attualmente inaccessibili. La storia di Atena Daemi Atena Daemi si è battuta con coraggio contro le sopramenzionate infrazioni dei diritti umani, e soprattutto contro la pena di morte, le detenzioni arbitrari e per i diritti delle donne e dei bambini. Fu arrestata il 21 ottobre 2014 e dopo 86 giorni di interrogatori fu condannata a 14 anni di reclusione per i reati di: “propaganda contro il sistema”, “adunata sediziosa e collusione contro la sicurezza nazionale”, “blasfemia e offesa al Capo Supremo” e “occultamento di prove”. Durante il processo furono usate come prove i suoi post su Facebook in cui si batteva contro la pena di morte. Il 28 settembre 2016, dopo essere stata rilasciata su cauzione, vede la sua pena ridotta a 7 anni. Viene nuovamente arrestata il 28 novembre 2016 e dopo aver presentato una denuncia contro il “Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica” (IRGC) per uso eccessivo della forza, viene processata il 19 dicembre 2016 con le accuse di: “insulto contro il leader supremo e gli ufficiali di stato”,” “propaganda contro il sistema” e “resistenza all’arresto”. Viene condannata e le vengono aggiunti 3 mesi e un giorno alla sua pena di 7 anni. Alla medesima pena vengono condannate anche le sue sorelle, Ensieh e Hanieh, che vengono però assolte 54 giorni dopo. Il 21 dicembre 2019 Daemi e altri carcerati organizzano un sit-in come protesta contro le repressioni e la risposta dello stato contro le manifestazioni del novembre 2019. In seguito a questo evento fu trasferita in isolamento il 28 dicembre 2019 e vi rimase fino al 8 gennaio 2020. Inoltre, fu condannata a 2 ulteriori anni di prigione e 74 frustrate. Oltre alla solita accusa di “propaganda contro il sistema” fu accusata di “interruzione dell’ordine carcerario” per aver ballato e festeggiato durante la festa di Ashoora. Daemi si è rifiutata di andare al processo dichiarando che tali accuse sono infondate e basate su bugie. Le condizioni di salute di Atena Daemi durante la sua permanenza in carcere sono peggiorate notevolmente. Dopo lo sciopero della fame

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Donna, vita, libertà: la lotta delle donne iraniane è la lotta di tutte

Risale allo scorso 16 settembre l’omicidio di Mahsa Amini, 22 anni, a causa delle percosse subite dopo un fermo da parte della Polizia Morale iraniana (in inglese Islamic Guidance Patrol). La ragazza curda, a Teheran come turista con la famiglia, era stata fermata il 13 settembre perché, a detta degli agenti, non indossava correttamente il velo. È morta tre giorni dopo. Da allora, l’Iran è scosso da proteste guidate dalla società civile, e centinaia sono state le manifestazioni attraverso il globo e le dimostrazioni di sostegno della comunità internazionale alla popolazione e alle donne iraniane. Large Movements è stata a quella di Roma, il 1° ottobre, e le foto qui riportate dimostrano la rabbia e forza che hanno guidato la marcia attraverso la capitale. A quasi due mesi dalla morte di Mahsa, la popolazione iraniana è ancora in tumulto e la repressione delle proteste non accenna ad arrestarsi. È complesso ritracciare l’ordine degli eventi accaduti nelle scorse settimane. Varie notizie sconcertanti si susseguite, tra cui la temporanea scomparsa dell’atleta Elnaz Rekabi, apparsa a Seoul senza hijab durante una gara di arrampicata – a quanto pare, per errore – e rivista a Teheran qualche giorno dopo aver interrotto ogni contatto con famiglia e amici. Questo articolo offre un riassunto della vicenda per ribadirne la rilevanza, che oltrepassa il momentum e i confini geografici, ed esprime il pieno sostenimento di Large Movements alle donne iraniane nella loro (e nostra) lotta per l’auto-determinazione. Breve storia del velo in Iran In linea con i principi della sharia già presenti in altri paesi, il governo iraniano ha reso l’hijab obbligatorio dopo la Rivoluzione Islamica del 1979. Dopo una prima fase di dichiarazioni dell’Ayatollah Khomeini ma nessuna misura a formalizzare l’imposizione, il Parlamento iraniano istituzionalizzò le raccomandazioni con un decreto emesso nel 1983. Così come altre Repubbliche Islamiche, l’Iran basa la propria posizione sul velo sui testi sacri musulmani, tra cui il Corano e gli Hadith, nonostante sia oggetto di dibattito se queste scritture prescrivano realmente, e se sì quale, un codice di abbigliamento per le donne. Questo tipo di editto, insieme a tutti gli altri che prescrivono un comportamento “appropriato” secondo la legge islamica, viene fatto applicare dalla cosiddetta “polizia morale” Gasht-e Ershad. Il corpo di polizia è nato nel 2005 formalizzando le strutture paramilitari religiose concepite in principio per combattere nella guerra in Iran. Ad oggi, gli agenti della polizia morale pattugliano le strade e solitamente rilasciano ammonizioni verbali in presenza di irregolarità – di fronte a un velo che non copre tutti i capelli, trucco troppo vistoso o gonne troppo corte. Proprio il 15 agosto scorso, il presidente iraniano Ebrahim Raisi aveva imposto nuove sanzioni più stringenti e dure punizioni per le donne che non rispettano il codice di condotta islamico, di fatto allargando ulteriormente i poteri della polizia morale. Tuttavia, spesso le donne fermate vengono prese in custodia e detenute, per poi in seguito essere inviate in “centri di ri-educazione”, dove seguono ore di lezioni sulla morale islamica. Il rilascio avviene poi in presenza di un parente stretto di sesso maschile, dopo aver firmato una dichiarazione secondo la quale, in futuro, l’offesa non sarà ripetuta. Mahsa Amini: l’ultima goccia per la società civile iraniana Apparentemente, questo è quello che sarebbe dovuto succedere anche a Mahsa: un centro di “correzione”, e poi il rilascio. Eppure non sono rare le denunce di abuso da parte degli agenti in seguito al fermo, di cui Mahsa è stata un vittima. Il 13 settembre, Mahsa Amini viene sequestrata per “uso improprio del velo”. È costretta ad entrare in un furgone della polizia morale dove viene percossa dagli agenti stessi, secondo alcuni testimoni oculari. Qualche ora dopo, alla sua famiglia viene comunicato che Mahsa è stata trasportata in ospedale in seguito ad un attacco cardiaco. Dopo tre giorni in coma, la ragazza di 22 anni è deceduta. La famiglia si è opposta da subito alla versione ufficiale della vicenda, spiegando che Mahsa non aveva alcun problema di salute che potesse spiegare un attacco di cuore improvviso. Il suo decesso ha fatto da scintilla accanto a una miccia, portando la società civile già stremata da un regime oppressivo in cui spesso attiviste subiscono ripercussioni per il proprio ruolo critico nei confronti di esso, a irrompervi contro, scatenando proteste che si sono sparse per tutto il Paese. A questo si è aggiunta l’arresto della giornalista Niloofar Hamedi dopo aver postato una foto dei genitori di Mahsa abbracciati in ospedale, dopo aver appreso del decesso della figlia. Le proteste hanno invaso le strade di Teheran e del resto del Paese qualche giorno dopo, specialmente nel Kurdistan iraniano, regione da cui proveniva Mahsa. Tantissime donne hanno manifestato il proprio dissenso togliendosi il velo o bruciandolo. Uno dei gesti più profondi e simbolici di queste proteste è stato il pubblico taglio di capelli da parte delle partecipanti, in ricordo di Mahsa e contro la Guida Suprema del Paese, Ali Khamenei. La risposta del governo iraniano è stata di reprimere violentemente i manifestanti: l’ONG Iran Human Rights, che ha seguito l’andamento degli scontri tra civili e forze dell’ordine, riporta che almeno 326 persone, di cui 43 minori, sono state uccise durante le insurrezioni. Due entità che hanno partecipato alle proteste sono particolarmente rilevanti: i corpi studenteschi, sia universitari che liceali, e il movimento delle donne del Kurdistan (KJK), mostrando l’intersezione indissolubile tra movimenti femministi, educazione e nuove generazioni come parti fondamentali e imprescindibili del cambiamento sociale contemporaneo. Al grido di Jin Jiyan Azadi, “Donna, Vita, Libertà” in kurmanci, un dialetto curdo, studenti, studentesse e donne curde hanno marciato per le strade del Paese abnegando assieme la violenta oppressione dei corpi e della libertà da parte del regime islamista iraniano. Nelle università, sono state compiute azioni indipendenti per eliminare il divario di genere tra gli studenti, ed è tutt’ora chiesta a gran voce la liberazione delle ragazze e dei ragazzi arrestati durante le contestazioni. Tra le loro file, si contano perdite drammatiche: ricordiamo tra queste Nika Shakarami, 17 anni, scomparsa dopo delle manifestazioni e

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KHALID ABDEL-HADI: LA VOCE LGBTQIA + DEL MEDIO ORIENTE

Khalid Abdel-Hadi è un attivista giordano per i diritti LGBTQIA+ che ha fondato nel 2007 la prima rivista queer del mondo arabo My Kali Magazine, di cui è attualmente caporedattore e curatore creativo. GIORDANIA EFFETTIVAMENTE APERTA VERSO LA COMUNITA’ LGBTQIA+? La Giordania è uno dei pochi Paesi del Medio Oriente in cui l’omosessualità è legale grazie all’abrogazione all’interno del nuovo codice penale del 1951 del reato di sodomia – presente invece nel precedente codice, promulgato nel 1936. Nonostante questo piccolo spiraglio di luce però, in Giordania non esiste ad oggi una legge che protegga i membri della comunità LGBTQIA+ da episodi di discriminazione e violenza. Come denunciato da Human Rights Watch, gli episodi di violenza e molestie, soprattutto online, ai danni di molti attivisti queer giordani da parte delle autorità sono all’ordine del giorno. Tra le più diffuse, vengono riportate: estorsioni, minacce, divulgazione di informazioni ottenute illegalmente fino ad arrivare alla chiusura di due organizzazioni che si occupano di diritti LGBTQIA+ e la conseguente detenzione di due attivisti nonché il congelamento dei loro conti bancari. Uno di loro è stato perfino costretto a lasciare la propria casa perché la polizia ha rivelato il suo orientamento sessuale ai genitori. Secondo gli esperti internazionali, la sempre più crescente escalation di violenze nei confronti della comunità queer giordana, sembrerebbe celare un preciso piano del governo: eliminare ogni discussione riguardo l’identità di genere. In questo contesto, dunque, le persone LGBTQIA+ della Giordania hanno solo due soluzioni: la repressione del proprio essere o la fuga dalla Giordania. KHALID ABDEL-HADI: TRA OUTING E LOTTA Khalid Abdel-Hadi è stato vittima di discriminazione a causa del suo orientamento sessuale sin dagli albori del suo attivismo nel 2007. Durante i lavori che hanno poi portato alla pubblicazione della rivista “My Kali” infatti, una fonte anonima ha inviato ai media giordani una copia della prima pagina della rivista contenente una foto, che non era destinata alla pubblicazione, in cui Khalid Abdel-Hadi appariva in abiti molto succinti. La pubblicazione di quella foto ed il conseguente outing forzato, fecero temere Khalid per la sua vita. Erano già iniziate a circolare infatti notizie di impiccagioni, arresti arbitrari, torture e phishing online ai danni di coloro che venivano anche solo sospettate di essere omosessuali in Paesi vicini quali l’Iran, l’Iraq, l’Egitto, la Siria. Seguendo l’onda del sensazionalismo e della disinformazione, le varie testate giornalistiche giordane iniziarono a sostenere l’esistenza di un complotto per “promuovere un’agenda LGBTQIA+ nel Paese” e non di rado apparivano interviste di persone che si professavano omosessuali e che dichiaravano che questo era uno stile di vita perverso, chiedendo di essere guariti. Dato questo clima di crescente odio ed ignoranza nei confronti della comunità LGBTQIA+, alcuni amici di Khalid Abdel-Hadi – con i quali aveva ideato il progetto di “My Kali” – tentarono di dissuaderlo nel continuare a lavorare al primo numero della rivista. Ma Khalid non ha alcuna intenzione di essere messo a tacere e, tra mille difficoltà, sono più di 10 anni che cura e gestisce la rivista “My Kali”, ancora oggi unico spazio sicuro per la comunità LGBTQIA+ del Medio Oriente. Grazie al suo impegno e alla sua dedizione, Khalid Abdel-Hadi ha realizzato e/o partecipato a diversi progetti miranti a decostruire gli stereotipi diffusi nel modo mediorientale sulla comunità LGBTQIA+. Proprio per il suo incessante attivismo, nel 2017 la testata giornalistica The Guardian ha inserito il suo nome nella lista degli eroi LGBTQIA+. In particolare, due sono i progetti che l’hanno reso maggiormente noto a livello internazionale: (i) l’essere stato uno degli autori di “This Arab is Queer. An Anthology by LGBTQ+ Arab Writers”; (ii) l’essere stato uno dei curatori della mostra “Habibi, les révolutions de l’amour”, che si è svolta presso l’Institute du Monde Arabe di Parigi. In occasione del mese del Pride Large Movements APS desidera celebrare il coraggio di Khalid Abdel-Hadi che si batte per l’autodeterminazione ed i diritti delle persone LGBTQIA+ in un contesto socio-culturale estremamente ostile. Contesto che, sotto alcuni punti di vista, è ancora più complesso rispetto ai Paesi africani che abbiamo raccontato finora, complice anche il ruolo maggiormente centrale che la religione ha con riferimento al governo dei Paesi mediorientali. Ci auguriamo dunque che le istanze della comunità queer vengano ascoltate ed accolte dal governo giordano – sull’onda di quell’apertura verso l’Occidente che ha portato all’abrogazione formale del reato di sodomia nel 1951 – nella speranza che questo Paese possa rappresentare un esempio da seguire per gli altri. Se ti è piaciuto l’articolo, CondividiCi!

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