Salafiti: tra profonde differenze e reali unità

La difficoltà di comprendere il concetto di Salafismo – e quindi i Salafiti – inizia già con il tentativo di definirlo. È stato, infatti, identificato come una tendenza religiosa, un movimento di protesta, un movimento di riforma e ancora come una dottrina religiosa, ma nessuno di questi riesce a cogliere la vera entità del fenomeno. Oltretutto, il concetto di “Salafismo” – e di conseguenza la definizione di “salafiti” – ha assistito anche ad un’evoluzione profonda durante i secoli. Difatti, sono numerosi i pensatori ed i giuristi che hanno usato il termine in molte accezioni diverse e ciò rende ancora più difficile una ricostruzione chiara.

L’origine e la differenza con il Wahhabismo

Salafismo è un termine che deriva dall’arabo al-salaf al-ṣāli, che letteralmente vuol dire ‘’antenati pii’’ e con cui si fa riferimento alle prime tre generazioni di musulmani: i Ṣaḥābi, i Tābiʿūn e i Tābiʿ al-Tābiʿiyyīn. Secondo i salafiti quest’ultime rappresentano, a differenza dei musulmani di oggi, la versione pura e autentica dell’Islam, che si è persa nei secoli ed alla quale si dovrebbe tornare a fare riferimento.

A livello ideologico, il Salafismo moderno risale soprattutto ad un giurista e teologo medievale, Ibn Taymiyya, vissuto tra il 1263 e il 1328 nel territorio dell’odierna Siria, sebbene l’attuale corrente venga ricondotta al wahhabismo, un movimento di riforma religiosa nato nel XVIII secolo e che caratterizza l’attuale Arabia Saudita.

Nonostante molti tendano ad usare Wahhabismo e Salafismo come se fossero interscambiabili, i termini hanno connotazioni diverse, come viene chiaramente spiegato dallo studioso americano Blanchard: il primo termine, infatti, si riferisce ad “un credo islamico conservatore dell’Arabia Saudita” mentre il secondo ad “un movimento islamico puritano più generale che si è sviluppato in modo indipendente in vari tempi e in vari luoghi del mondo islamico”.

I Salafiti uniti da un credo comune?

Nella loro profonda differenza interna al movimento possiamo, tuttavia, riconoscere alcune caratteristiche di uguaglianza. Per una piena comprensione di ciò che accomuna tutti i salafiti passeremo attraverso la definizione di alcuni concetti chiave, senza i quali sarebbe impossibile l’osservazione basilare del fenomeno.

Tutti i salafiti sono legati dallo stesso credo religioso, aqida, da cui traggono i principi e i metodi per applicare la propria fede a questioni e problemi anche contemporanei.

Con il termine aqida (credo) ci si riferisce sia alle dottrine di base dell’Islam sia ai testi in cui vengono specificate queste dottrine. Nonostante il termine possa risultare di facile comprensione, l’aqida porta con sé un significato ben più complesso: esso indirizza le più importanti questioni religiose, fornisce i principi organizzativi e, più in generale, i vari aspetti del credo.

L’unità di Dio è un punto cruciale per tutti i musulmani ma ha un significato particolare per i salafiti e viene espressa con il termine tawhid. L’unicità di Dio si sviluppa su tre dimensioni: Dio è il solo creatore e signore dell’universo, Dio è supremo e unico e Dio è il solo ad avere il diritto di essere onorato. Il tawhid deve essere difeso e rispettato e, solo seguendo severamente il Corano e l’esempio del Profeta Mohammed trasmesso attraverso la Sunna, è possibile farlo. Il Corano è la parola di Dio e la sua sacralità è evidente anche dal punto di vista della lingua utilizzata, l’arabo. Il testo sacro, infatti, è impossibile da tradurre ed anche impossibile da imitare sia nella forma che nel contenuto. La Sunna, anch’essa fonte scritta, contiene i testi, i fatti e persino i silenzi del profeta. L’importanza di seguire l’esempio di Muhammad si può comprendere da questo versetto coranico:

“Voi avete, nel Messaggero di Dio, un esempio (iswah) buono, per chiunque speri in Dio e nell’Ultimo giorno e molto menzioni Dio”

   (Corano, XXXIII, 21)

Perciò, tutte le risposte sono contenute nel Corano e nella Sunna e l’importanza di attenersi a queste fonti è fondamentale perché ogni altro riferimento potrebbe portare a divergenze. Abbiamo già detto che il Corano è la parola di Dio; questo implica che non sia interpretabile. L’interpretazione, essendo un atto finalizzato ad attribuire un significato, presuppone un processo dove è la logica umana ad operare e l’applicazione dell’intelletto umano sui testi sacri non è consentita. È per tale motivo che non vengono riconosciute dai Salafiti le scuole giuridiche, perché queste hanno dato luogo a diversi indirizzi interpretativi delle stesse fonti.

Detto ciò, il dovere di attenersi alle fonti sacre porta a non tollerare ogni forma di innovazione (bid’a). Ciò, però, non vuole dire che tutte le forme di innovazione sono respinte; difatti, solo quelle in seno all’Islam portano a prendere le distanze dal credo puro e vero. Un’importante distinzione va però fatta tra bid‘a e tajdīd, cioè tra innovazione religiosa e rinnovamento religioso. A differenza del primo concetto, che è visto con accezione negativa, il secondo è accettato in quanto nel processo di rinnovamento non viene apportata nessuna innovazione religiosa in seno all’Islam.

Un ultimo termine che merita un approfondimento è un concetto che viene spesso usato, soprattutto dai media, in maniera incompleta ed a volte errata e che meglio aiuta ad inquadrare il Salafismo: stiamo parlando del ğihād.  La traduzione più familiare a noi è quella di “guerra santa”, sebbene, in realtà, si intenda qualcosa di molto più ampio. Viene definito ğihād ogni sforzo che il credente deve fare sulla via di Dio, un obbligo generale che riguarda ogni musulmano e che prevede di combattere le proprie cattive disposizioni e di migliorarsi sempre più, verso la strada di Dio. Si devono, dunque, distinguere lo ğihād minore – inteso come sforzo del musulmano verso la comunità e quindi concernente la sfera pubblica – dallo ğihād maggiore – che rappresenta lo sforzo di auto perfezionamento individuale e che si sviluppa, invece, nella dimensione privata. Quando si fa riferimento allo ğihād minore la valenza che gli viene attribuita è duplice: una che riguarda un intervento contro i vizi pubblici e una definita “braccio” ed è solo in questa seconda dimensione che viene menzionato l’utilizzo della forza. Questo cenno all’uso della forza è stato poi interpretato dalle frange estremiste come legittimante ad intraprendere la cosiddetta guerra santa. D’altra parte, i media, soprattutto occidentali, hanno contribuito ad enfatizzate questo aspetto dello ğihād più duro facendo un uso improprio, al punto di ridurre il senso del termine generale a questo singolo aspetto.   Ciò ha portato a stravolgere il concetto generale di ğihād intesocome sforzo che il credente è chiamato a fare sia pubblicamente che privatamente in qualcosa che rappresenta solo in parte il vero significato del termine.

Un gruppo… non così omogeneo

Quest’ultimo termine ci è utile per parlare, invece, delle profonde differenze che sussistono nel Salafismo. Anche se per lungo tempo sono stati un gruppo relativamente omogeneo, principalmente stanziato nei territori dell’Arabia Saudita, con il passare dei decenni i salafiti hanno subito delle spaccature interne e una diffusione in altri territori. La situazione odierna vede l’esistenza di varie correnti diverse tra loro, eppure, bisogna prestare attenzione alle categorizzazioni avanzate perché potrebbero fornire un’idea di separazione troppo netta. Tuttavia, per comprendere e sottolineare come le azioni violente e le rivendicazioni di carattere politico siano mosse da quella che è solo una minoranza, faremo cenno ad una delle divisioni proposte dallo studioso Quintan Wiktorowicz. Nonostante la sua formulazione sia stata di recente messa in discussione, mostrando come le divisioni tra le correnti non siano così rigide come potrebbero sembrare e come queste vadano bene quando si parla di Salafismo in termini ideologici, la sua teoria rimane una delle più autorevoli e tra le più utili nello studio del fenomeno. Wiktorowicz riconosce tre maggiori correnti interne al Salafismo, che lui stesso definisce: puristi (chiamati anche quietisti), politici e ğihādisti.

I salafiti puristi: tra purezza del credo e isolazionismo

I puristi si impegnano principalmente a preservare la purezza dell’Islam, che proteggono e promuovono attraverso attività missionarie e di educazione al credo Salafita. Si vedono impegnati anche nella lotta contro le pratiche che deviano dal messaggio originale, ma la loro guerra non è fatta di spade, bensì di discorsi e di buone maniere. Sugli esempi pacifici del profeta e degli antenati pii, ogni forma di attivismo violento e di impegno politico (anche non violento) non è ben vista, nemmeno nei casi più estremi, perché costituisce un’innovazione del credo originale, che, come abbiamo visto, non è tollerata.

Per mantenere questa purezza della religione, spesso i puristi si sono caratterizzati per il loro isolazionismo verso tutto ciò che potrebbe intaccare l’originalità del messaggio islamico. Per questo motivo tendono a rimanere separati soprattutto dai non-credenti ma anche dai non musulmani e dagli stessi musulmani che non seguono la pura interpretazione. Per questo motivo, anche se i Salafiti vivono e risiedono in luoghi lontani dai territori islamici, la loro tendenza è quella di rimanere in comunità chiuse.

L’importanza fondamentale del tawhid, della purezza e del rigetto verso qualsiasi forma di innovazione spinge i puristi a non riconoscere né i politici per il loro impegno, né gli ğihādisti per gli atti violenti. Il messaggio originale non parla di violenza o di attivismo politico, perciò le azioni di queste due correnti non solo deviano dalla purezza, ma sono anche spinte da un desiderio umano di far prevalere una loro decisione umana sul credo. I puristi perciò, non solo rifiutano, bensì boicottano le azioni delle altre due correnti.

Critica ai puristi, i politici contro le ingiustizie

I politici, a differenza dei puristi e come suggerisce il nome stesso, sono impegnati politicamente in varie forme. La prima testimonianza del loro sviluppo in Arabia Saudita si ebbe tra gli anni ’80 e ’90 quando un gruppo di giovani sfidò l’autorità dei salafiti puristi. Questi ultimi venivano e vengono accusati di una mancata conoscenza di ciò che accadeva e accade intorno a loro, principalmente in ragione del loro isolamento dal resto del mondo.

La loro comparsa, dovuta non solo al contesto locale ma anche al contatto con altri movimenti islamisti impegnati politicamente come i Fratelli Musulmani, ha permesso la creazione all’interno del credo Salafista di argomentazioni politiche viste dai puristi come un’innovazione. Dal punto di vista dei politici, invece, tutte le ingiustizie che i salafiti e il mondo musulmano stavano subendo andavano affrontate non più con preghiere, purificazione o propagande ma con un attivismo politico concreto.

Ğihādisti: una minoranza frammentata

Come abbiamo visto, il termine ğihād ha per i musulmani una connotazione diversa da quella presentata dai media. I puristi sottolineano il carattere pacifico dell’esempio lasciato dai primi antenati e rifiutano ogni forma di violenza, situazione ben diversa dall’interpretazione della corrente ğihādista dei salafiti.

Wiktorowicz nel suo articolo presenta un’interessante ricostruzione storica della loro evoluzione: senza entrare nel dettaglio, la loro “nascita” risale alla guerra in Afghanistan contro l’Unione Sovietica. Tenendo presente che la loro formazione “politica” è avvenuta principalmente sul campo di battaglia, il loro rapporto con lo ğihād intesa come guerra santa è molto più stretto rispetto alle altre correnti ed ai musulmani in generale. L’obiettivo di un rovesciamento dei sovrani apostati a favore dell’istituzione di Stati Islamici “giustifica” l’uso della violenza e delle armi. La loro critica verso i puristi (ma anche verso chi non segue il loro messaggio) è forte, il loro rifiuto di opporsi alle ingiustizie che i musulmani subiscono li porta ad essere accusati di non applicare il loro credo fino in fondo. Nonostante ciò, bisogna ricordare che gli ğihādisti costituiscono solo una minoranza, anche frammentata internamente, e che spesso non ha un nemico comune.

Conclusioni

Come abbiamo visto, il fenomeno è più complesso di quello che potrebbe apparire ad un primo sguardo e merita, perciò, un’attenzione particolare. Malgrado la tendenza ad osservare i salafiti solo attraverso la lente estremista, essi si differenziano molto al loro interno ed i confini tra le varie correnti risultano sfumati. Grazie a studiosi che hanno dedicato i loro sforzi all’osservazione ed all’analisi del gruppo, fornendoci anche categorizzazioni che ne favoriscono la comprensione, il quadro non è più così confuso come in passato. Ricordiamo che le azioni violente sono portate avanti solo da una minoranza; inoltre ciò è dovuto anche a tutto un insieme di fattori ed influenze che non sempre corrispondono al credo religioso. Perciò, in conclusione, identificare i salafiti con il termine terrorismo non è solo riduttivo dell’intero fenomeno a pochi individui, ma anche errato.

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Sunniti e sciiti: scontro settario o conflitto per il controllo del potere?

L’inasprirsi negli ultimi decenni dei conflitti nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa ha acceso una forte attenzione verso l’Islam. Questi disordini vengono spesso erroneamente descritti solo in termini settari, adducendo la divisione tra le due correnti principali dell’Islam – sunniti e sciiti – come unica motivazione alla base del conflitto. Sebbene la convivenza tra le due correnti religiose non sia sempre stata pacifica, i motivi scatenanti le guerre sono alquanto complessi e non legati solo all’antagonismo reciproco. L’Islam nel mondo Sono molti gli errori che si commettono quando si parla di Islam, il primo fra tutti è collegare la religione all’etnia araba. Diversamente da quello che si tende a pensare, l’Islam è una realtà che non riguarda esclusivamente i paesi arabi o quelli del Medio Oriente e Nord Africa difatti solo una minoranza dei musulmani vive in questi territori.  Si stima che circa il 60% della popolazione musulmana mondiale vive in Asia, il 20% in Medio Oriente, 15% in Africa ed il restante tra Europa ed Americhe. Ad oggi il paese che ospita il maggior numero di musulmani è l’Indonesia, seguita da paesi come Pakistan, India e Bangladesh. Un altro interessante dato ci dice che mentre l’80% vive in paesi dove i musulmani costituiscono la maggioranza, il restante 20%, invece, vive come minoranza nel proprio paese. In questi ultimi le minoranze musulmane sono spesso vittime di persecuzioni e repressioni, come ci mostrano i casi degli Uiguri in Cina, i Rohingya in Myanmar finanche gli avvenimenti in India ed in Tailandia – dove i governi nazionali hanno adottato politiche discriminatorie nei confronti della comunità islamica.  Questi primi dati ci aiutano a capire come il mondo islamico non sia un universo monolitico, come siamo portati a pensare, ma che al contrario cela al suo interno numerose divisioni e diversità, alcune anche molto difficili da interpretare. La più grande divisione interna all’Islam, ma non l’unica, è quella tra sunniti e sciiti, una divisione che risale addirittura a circa 1400 anni fa.  Sunniti e sciiti: una questione di successione Per comprendere l’esatto momento che diede inizio alla più grande divisione nel mondo islamico, bisogna tornare al tempo della creazione della religione stessa, al tempo del profeta. La comunità islamica iniziò a strutturarsi al momento della grande emigrazione delle tribù dell’Arabia da Mecca a Medina sotto la guida del profeta Muhammad. Alla morte del profeta nel 632 d.C. quello che venne a crearsi all’interno della comunità fu un problema di successione e di organizzazione politica. In questo caso, la sfera religiosa ricopriva un ruolo marginale, poiché la questione della successione alla guida della ummah (comunità islamica) era di natura politica e tribale. Quest’ultima suscitò due risposte alternative: chi riteneva che il successore dovesse essere scelto all’interno della stessa tribù del profeta e chi designò come unico e legittimo successore Ali, cugino e genero di Muhammad – il nome “sciiti2 deriva proprio dall’arabo shi’at ‘Ali “la fazione di Ali”. Ad avere la meglio infine furono i primi e venne designato califfo – khalifa “vicario di Dio” – Abu Bakr, il primo di quelli che verranno chiamati dai sunniti al-rashidun cioè i “califfi ben diretti”. A lui seguiranno Umar, Uthman e solo in ultima istanza Ali, che guidò la comunità fino al 661 d.C. ponendo fine al trentennio di califfato. Secondo un racconto profetico che recita “Il califfato durerà 30 anni poi verrà il regno”, solo il periodo dei Califfi ben diretti può essere chiamato legittimamente Califfato per via della maggiore aura religiosa di cui godeva, nonostante ciò, l’appellativo Califfo continuò ad essere usato dalle dinastie che seguirono.  Al fine di ricostruire la spaccatura interna all’Islam, la battaglia di Karbala segnò definitivamente e in maniera irreversibile la lacerazione tra sunniti e sciiti. Intorno al 680 Hussein, figlio di Ali, guidò numerosi dei suoi seguaci dalla Mecca a Karbala (attuale Iraq) contro l’esercito del corrotto Califfo Omayyade di Damasco, uno scontro che assumerà per gli sciiti un’aura particolare, quasi di scontro tra bene e male. A Karbala Hussein venne ucciso e decapitato, un momento che viene ancora ricordato dai seguaci di Ali nel giorno di Ashura.  La guida politica e religiosa  I sunniti e il Califfato Il problema dell’organizzazione politica interna all’Islam è quindi la prima grande differenza tra sunniti e sciiti. Alla morte del profeta, dunque, la guida della comunità prese due strade distinte. Abbiamo visto come i sunniti abbiano concesso il comando politico della comunità al Califfato che venne detenuto da diverse dinastie, le quali si susseguirono nei secoli; tra le più importanti vediamo l’Omayyade, Abbaside e l’Ottomana. La fine dell’impero Ottomano nel 1922 e la creazione della Repubblica della Turchia porterà anche all’abolizione del Califfato nel 1924, una fine non definitiva perché nel 2014, l’ISIS ha riesumato il titolo di Califfo, proclamando il Califfato dell’ISIS.  In questo sistema di organizzazione sociale l’autorità politica, il Califfo, si confronta e si scontra con l’autorità religiosa, rappresentata ed esercitata dai giuristi. Sono i giuristi che con la loro autorevolezza riconosciuta dal popolo possono porre un argine all’eventuale prepotenza del potere politico dal quale sono indipendenti.  Un’altra particolarità dei sunniti è dettata dai diversi indirizzi interpretativi che sono emersi dopo la morte del profeta e che si sono stabilizzati e cristallizzati tra il VIII e XI sec. Nello specifico, ci si riferisce alle quattro scuole giuridiche che derivano da una diversa interpretazione delle fonti primarie del sunnismo. 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Nadia Murad per la dignità delle vittime della tratta di esseri umani

Nadia Murad Basee Taha è una donna Yazida Irachena conosciuta per essere sopravvissuta alla prigionia ed allo stupro sistematico da parte dei militanti dell’Isis, da agosto 2014 a novembre dello stesso anno, quando è riuscita a fuggire. Nel 2015 ha portato all’attenzione delle Nazioni Unite il tema della schiavitù sessuale e delle altre atrocità praticate dall’Isis nei confronti delle minoranze religiose diverse dall’Islam, raccontando di aver assistito ad un vero e proprio sterminio, e chiedendo di portare alla Corte Internazionale questo caso come un caso di genocidio. Nel 2016 Nadia Murad ha deciso di intraprendere un’azione legale contro i comandanti dell’Isis. Nello stesso anno diventa Ambasciatrice Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani. Nel 2018 vince il premio Nobel per la Pace. La persecuzione degli Yazidi da parte dello Stato Islamico Nadia Murad è nata e cresciuta in una famiglia di Yazidi nel villaggio di Kocho, nel nord dell’Iraq, dove viveva con la madre, i suoi 8 fratelli e le sue 2 sorelle, e sognava di diventare un’insegnante. Nel suo libro, L’ultima ragazza, Nadia racconta che lo yazidismo è una delle più antiche religioni monoteistiche diffuse oralmente da sacerdoti, che tramandano le loro tradizioni e storie con questo metodo. È una religione preislamica che, nonostante abbia alcuni punti di congiunzione con le altre religioni mediorientali, si può affermare essere unica nel suo genere e spiegarne le caratteristiche e le peculiarità può risultare difficile anche per gli stessi sacerdoti che ne sono i massimi rappresentanti. Nell’agosto del 2014 l’Isis riuscì a conquistare il Sinjar senza particolari impedimenti, incontrando solo la temporanea resistenza degli yazidi stessi, che cercarono di difendere i loro villaggi con le armi e le poche munizioni che avevano a disposizione. L’opera di occupazione fu resa ancora più semplice dal fatto che gli arabi sunniti delle zone vicine non si erano ribellati, ma avevano anzi deciso di unirsi alle milizie dell’Isis, collaborando a bloccare la fuga degli yazidi. Alla caduta dei villaggi come Kocho, contribuì anche il ritiro delle truppe peshmerga – combattenti curdi del Kurdistan attivi nell’Iraq settentrionale, che avevano promesso di proteggere quelle zone dai militanti. Più tardi, questa decisione venne giustificata dal governo curdo: poiché l’esercito non sarebbe riuscito a proteggere quella zona, si era deciso di dispiegare i soldati in altre aree in cui vi erano più possibilità di vittoria. Il 15 agosto del 2014 i militanti dell’Isis radunarono l’intero villaggio di Kocho in una scuola e separarono uomini, donne e bambini. Tuttavia, lo scopo dell’Isis non era solamente quello di uccidere tutti gli Yazidi, indipendentemente dal loro genere, bensì il gruppo terroristico mirava a distruggerne integralmente la cultura. Per questo motivo quindi, le donne vennero rapite e ridotte in schiavitù. Furono torturate mediante lo stupro così da fare in modo che le stesse non sarebbero più state in grado di vivere una vita normale da quel momento in avanti. Nadia Murad, durante un suo discorso alle Nazioni Unite, raccontò di aver visto con i suoi occhi l’uccisione di tutti gli uomini, sei dei quali erano suoi fratelli. Le donne ed i bambini vennero deportati in un’altra regione, subendo ogni tipo di umiliazione durante il viaggio in autobus. Nadia e le altre arrivarono a Mosul, dove si trovavano molte altre ragazze yazide, considerate infedeli dallo stato islamico. Secondo l’interpretazione jihadista del Corano – seguita alla lettera dai militanti – violentare una schiava non era considerato un peccato. Sin dal momento in cui vennero fatte salire sugli autobus per raggiungere Mosul, Nadia e le altre donne divennero quindi vittime di tratta e schiave sessuali. Nadia venne condotta di fronte ad un tribunale jihadista, preposto a stabilire quale militante fosse il proprietario esclusivo di ciascuna ragazza yazida. La procedura formale era sempre la stessa: un giudice avrebbe attestato la “genuina” conversione all’Islam delle ragazze ed ufficializzato quindi la loro unione con il proprio carnefice. Un “matrimonio” fondato sullo stupro da parte dei militanti. Una vera e propria arma usata per annientare la dignità delle donne Yazide. “A un certo punto non resta altro che gli stupri. Diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio. Smetti di pensare alla fuga o a rivedere la tua famiglia. Il passato diventa un ricordo lontano, come un sogno. Il tuo corpo non ti appartiene e non hai le energie per parlare, per ribellarti, per pensare al mondo esterno. Ci sono solo gli stupri e l’insensibilità scaturita dall’accettazione che questa è la tua vita, adesso.” Nel suo libro, Nadia usa queste parole durissime per descrivere la sua quotidianità dopo essere stata ceduta al suo secondo proprietario, poco prima di riuscire a fuggire dal militante che avrebbe dovuto trasferirla in Siria. La fuga di Nadia Murad dallo stato islamico La fuga di Nadia fu resa possibile grazie ad un errore del suo carnefice: il militante che la teneva prigioniera l’aveva infatti lasciata da sola in casa senza chiudere a chiave la porta, credendola forse troppo debole, stanca, disperata e debilitata per tentare di fuggire. Nadia, dopo aver camminato a lungo nel buio di Mosul, decise di chiedere aiuto ed asilo bussando alla porta di una casa nella speranza che non appartenesse a simpatizzanti dello stato islamico. Nadia ebbe la fortuna di imbattersi in una famiglia sunnita che non aveva avuto i mezzi per lasciare Mosul dopo l’arrivo di Daesh, e che accettò di aiutarla. Le procurarono un documento falso, ed uno degli uomini della famiglia la accompagnò in taxi fino a Kirkuk, poi a Sulaymaniyah, ed infine ad Erbil, dove Nadia poté ricongiungersi con parte della sua famiglia, con la quale raggiunse Zakho, ed infine la Germania. Nadia Murad oggi Dopo il suo primo viaggio a Ginevra, dove tenne il suo primo discorso alle Nazioni Unite, Nadia Murad ha raccontato la sua storia molte altre volte, coinvolgendo persone di ogni provenienza professionale, come giornalisti, diplomatici e chiunque abbia dimostrato interesse nel disastro che l’Isis ha provocato in Iraq.

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Loujain al-Hathloul

Loujain al-Hathloul è un’attivista saudita per i diritti delle donne. La sua forza di volontà e la sua resistenza l’hanno portata a fare una differenza significativa nel suo paese, ma tutto si può affermare tranne che questo sia stato per lei e per le sue compagne un viaggio semplice. Loujain è stata una delle leader del movimento Women2drive, nato negli anni ‘90 con l’obiettivo di ottenere il diritto di guidare le auto da parte delle donne. Negli ultimi 7 anni la vita di Loujain è stata scandita da periodi più o meno lunghi di prigionia. In possesso di una patente ottenuta negli Emirati Arabi Uniti, nel 2013 si era filmata mentre tornava a casa guidando, accompagnata dal marito, ma fu il video dell’anno dopo a fare scalpore e che divenne virale su You Tube, perché quella volta guidò da Abu Dhabi fino al confine con l’Arabia Saudita. Nel 2014 il suo caso finì dinanzi ad un tribunale militare in quanto accusata di aver compiuto un gesto di sfida nei confronti del divieto di guida per le donne in Arabia Saudita, unico Paese al mondo che ancora manteneva viva questa legge. Loujain venne arrestata il 1 Dicembre 2014, e insieme a lei anche la giornalista Maysaa al-Amoudi, che decise di guidare anche lei verso il confine per sostenere la sua compagna. Loujain restò reclusa per un totale di circa 70 giorni. Nel 2015, quando la monarchia saudita concesse per la prima volta il diritto di voto alle donne, Loujain decise di candidarsi alle elezioni locali. Anche se il suo nome non venne mai incluso nelle liste, la forte personalità e determinazione di Loujain venne riconosciuta, e venne inserita al terzo posto della classifica delle 100 donne arabe più potenti al mondo sul fronte culturale e sociale. Il 4 giugno 2017 Loujain venne arrestata per la seconda volta in Arabia Saudita. La ragione non fu nota, e le fu impedito di mettersi in contatto con i suoi cari. La lotta di Loujain e le sue compagne, nonostante tutte le difficoltà affrontate, ha portato il principe ereditario Mohammed bin Salman a consentire alle donne di guidare, e dal giugno del 2018 le donne poterono finalmente ottenere la patente di guida. Appena prima di questo successo politico e umanitario, nel maggio del 2018 Loujain venne nuovamente arrestata con l’accusa di terrorismo e di aver cospirato contro l’Arabia Saudita insieme a Paesi “nemici”. Il suo processe venne spostato infatti in un tribunale speciale che si occupa di casi di terrorismo, quando Loujain altro non era che un’attivista pacifica. Soltanto tre mesi dopo l’arresto venne trasferita in un carcere nella sua città natale, e fu in grado di incontrare la sua famiglia. Raccontò a loro ciò che era accaduto durante quelle settimane di carcere: fu costretta a vivere una reclusione disumanizzante, con sedute di elettroshock, frustate e abusi sessuali. Per opporsi e denunciare le violenze subite, nell’ottobre del 2020 cominciò uno sciopero della fame, ma dopo due settimane le guardie carcerarie iniziarono a privarla del sonno svegliandola ogni due ore, e dopo diverse settimane estenuanti Loujain fu costretta a interrompere a riprendere a mangiare. Il 28 dicembre venne condannata a 5 anni e 8 mesi di carcere. Il 31 luglio 2020, Loujain ha amaramente festeggiato il suo 31esimo compleanno in carcere, ed è stata rilasciata solamente a febbraio 2021, con il divieto di lasciare l’Arabia Saudita per cinque anni. Il Global Gender Gap Report del 2020 del World Economic Forum, posiziona l’Arabia Saudita al 146esimo posto su 153 Paesi: quindi lo classifica come uno degli Stati peggiori in cui una donna possa vivere ad oggi, costretta ad avere un uomo come tutore che approvi la grande maggioranza delle sue azioni quotidiane.

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Donna, vita, libertà: la lotta delle donne iraniane è la lotta di tutte

Risale allo scorso 16 settembre l’omicidio di Mahsa Amini, 22 anni, a causa delle percosse subite dopo un fermo da parte della Polizia Morale iraniana (in inglese Islamic Guidance Patrol). La ragazza curda, a Teheran come turista con la famiglia, era stata fermata il 13 settembre perché, a detta degli agenti, non indossava correttamente il velo. È morta tre giorni dopo. Da allora, l’Iran è scosso da proteste guidate dalla società civile, e centinaia sono state le manifestazioni attraverso il globo e le dimostrazioni di sostegno della comunità internazionale alla popolazione e alle donne iraniane. Large Movements è stata a quella di Roma, il 1° ottobre, e le foto qui riportate dimostrano la rabbia e forza che hanno guidato la marcia attraverso la capitale. A quasi due mesi dalla morte di Mahsa, la popolazione iraniana è ancora in tumulto e la repressione delle proteste non accenna ad arrestarsi. È complesso ritracciare l’ordine degli eventi accaduti nelle scorse settimane. Varie notizie sconcertanti si susseguite, tra cui la temporanea scomparsa dell’atleta Elnaz Rekabi, apparsa a Seoul senza hijab durante una gara di arrampicata – a quanto pare, per errore – e rivista a Teheran qualche giorno dopo aver interrotto ogni contatto con famiglia e amici. Questo articolo offre un riassunto della vicenda per ribadirne la rilevanza, che oltrepassa il momentum e i confini geografici, ed esprime il pieno sostenimento di Large Movements alle donne iraniane nella loro (e nostra) lotta per l’auto-determinazione. Breve storia del velo in Iran In linea con i principi della sharia già presenti in altri paesi, il governo iraniano ha reso l’hijab obbligatorio dopo la Rivoluzione Islamica del 1979. Dopo una prima fase di dichiarazioni dell’Ayatollah Khomeini ma nessuna misura a formalizzare l’imposizione, il Parlamento iraniano istituzionalizzò le raccomandazioni con un decreto emesso nel 1983. Così come altre Repubbliche Islamiche, l’Iran basa la propria posizione sul velo sui testi sacri musulmani, tra cui il Corano e gli Hadith, nonostante sia oggetto di dibattito se queste scritture prescrivano realmente, e se sì quale, un codice di abbigliamento per le donne. Questo tipo di editto, insieme a tutti gli altri che prescrivono un comportamento “appropriato” secondo la legge islamica, viene fatto applicare dalla cosiddetta “polizia morale” Gasht-e Ershad. Il corpo di polizia è nato nel 2005 formalizzando le strutture paramilitari religiose concepite in principio per combattere nella guerra in Iran. Ad oggi, gli agenti della polizia morale pattugliano le strade e solitamente rilasciano ammonizioni verbali in presenza di irregolarità – di fronte a un velo che non copre tutti i capelli, trucco troppo vistoso o gonne troppo corte. Proprio il 15 agosto scorso, il presidente iraniano Ebrahim Raisi aveva imposto nuove sanzioni più stringenti e dure punizioni per le donne che non rispettano il codice di condotta islamico, di fatto allargando ulteriormente i poteri della polizia morale. Tuttavia, spesso le donne fermate vengono prese in custodia e detenute, per poi in seguito essere inviate in “centri di ri-educazione”, dove seguono ore di lezioni sulla morale islamica. Il rilascio avviene poi in presenza di un parente stretto di sesso maschile, dopo aver firmato una dichiarazione secondo la quale, in futuro, l’offesa non sarà ripetuta. Mahsa Amini: l’ultima goccia per la società civile iraniana Apparentemente, questo è quello che sarebbe dovuto succedere anche a Mahsa: un centro di “correzione”, e poi il rilascio. Eppure non sono rare le denunce di abuso da parte degli agenti in seguito al fermo, di cui Mahsa è stata un vittima. Il 13 settembre, Mahsa Amini viene sequestrata per “uso improprio del velo”. È costretta ad entrare in un furgone della polizia morale dove viene percossa dagli agenti stessi, secondo alcuni testimoni oculari. Qualche ora dopo, alla sua famiglia viene comunicato che Mahsa è stata trasportata in ospedale in seguito ad un attacco cardiaco. Dopo tre giorni in coma, la ragazza di 22 anni è deceduta. La famiglia si è opposta da subito alla versione ufficiale della vicenda, spiegando che Mahsa non aveva alcun problema di salute che potesse spiegare un attacco di cuore improvviso. Il suo decesso ha fatto da scintilla accanto a una miccia, portando la società civile già stremata da un regime oppressivo in cui spesso attiviste subiscono ripercussioni per il proprio ruolo critico nei confronti di esso, a irrompervi contro, scatenando proteste che si sono sparse per tutto il Paese. A questo si è aggiunta l’arresto della giornalista Niloofar Hamedi dopo aver postato una foto dei genitori di Mahsa abbracciati in ospedale, dopo aver appreso del decesso della figlia. Le proteste hanno invaso le strade di Teheran e del resto del Paese qualche giorno dopo, specialmente nel Kurdistan iraniano, regione da cui proveniva Mahsa. Tantissime donne hanno manifestato il proprio dissenso togliendosi il velo o bruciandolo. Uno dei gesti più profondi e simbolici di queste proteste è stato il pubblico taglio di capelli da parte delle partecipanti, in ricordo di Mahsa e contro la Guida Suprema del Paese, Ali Khamenei. La risposta del governo iraniano è stata di reprimere violentemente i manifestanti: l’ONG Iran Human Rights, che ha seguito l’andamento degli scontri tra civili e forze dell’ordine, riporta che almeno 326 persone, di cui 43 minori, sono state uccise durante le insurrezioni. Due entità che hanno partecipato alle proteste sono particolarmente rilevanti: i corpi studenteschi, sia universitari che liceali, e il movimento delle donne del Kurdistan (KJK), mostrando l’intersezione indissolubile tra movimenti femministi, educazione e nuove generazioni come parti fondamentali e imprescindibili del cambiamento sociale contemporaneo. Al grido di Jin Jiyan Azadi, “Donna, Vita, Libertà” in kurmanci, un dialetto curdo, studenti, studentesse e donne curde hanno marciato per le strade del Paese abnegando assieme la violenta oppressione dei corpi e della libertà da parte del regime islamista iraniano. Nelle università, sono state compiute azioni indipendenti per eliminare il divario di genere tra gli studenti, ed è tutt’ora chiesta a gran voce la liberazione delle ragazze e dei ragazzi arrestati durante le contestazioni. Tra le loro file, si contano perdite drammatiche: ricordiamo tra queste Nika Shakarami, 17 anni, scomparsa dopo delle manifestazioni e

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KHALID ABDEL-HADI: LA VOCE LGBTQIA + DEL MEDIO ORIENTE

Khalid Abdel-Hadi è un attivista giordano per i diritti LGBTQIA+ che ha fondato nel 2007 la prima rivista queer del mondo arabo My Kali Magazine, di cui è attualmente caporedattore e curatore creativo. GIORDANIA EFFETTIVAMENTE APERTA VERSO LA COMUNITA’ LGBTQIA+? La Giordania è uno dei pochi Paesi del Medio Oriente in cui l’omosessualità è legale grazie all’abrogazione all’interno del nuovo codice penale del 1951 del reato di sodomia – presente invece nel precedente codice, promulgato nel 1936. Nonostante questo piccolo spiraglio di luce però, in Giordania non esiste ad oggi una legge che protegga i membri della comunità LGBTQIA+ da episodi di discriminazione e violenza. Come denunciato da Human Rights Watch, gli episodi di violenza e molestie, soprattutto online, ai danni di molti attivisti queer giordani da parte delle autorità sono all’ordine del giorno. Tra le più diffuse, vengono riportate: estorsioni, minacce, divulgazione di informazioni ottenute illegalmente fino ad arrivare alla chiusura di due organizzazioni che si occupano di diritti LGBTQIA+ e la conseguente detenzione di due attivisti nonché il congelamento dei loro conti bancari. Uno di loro è stato perfino costretto a lasciare la propria casa perché la polizia ha rivelato il suo orientamento sessuale ai genitori. Secondo gli esperti internazionali, la sempre più crescente escalation di violenze nei confronti della comunità queer giordana, sembrerebbe celare un preciso piano del governo: eliminare ogni discussione riguardo l’identità di genere. In questo contesto, dunque, le persone LGBTQIA+ della Giordania hanno solo due soluzioni: la repressione del proprio essere o la fuga dalla Giordania. KHALID ABDEL-HADI: TRA OUTING E LOTTA Khalid Abdel-Hadi è stato vittima di discriminazione a causa del suo orientamento sessuale sin dagli albori del suo attivismo nel 2007. Durante i lavori che hanno poi portato alla pubblicazione della rivista “My Kali” infatti, una fonte anonima ha inviato ai media giordani una copia della prima pagina della rivista contenente una foto, che non era destinata alla pubblicazione, in cui Khalid Abdel-Hadi appariva in abiti molto succinti. La pubblicazione di quella foto ed il conseguente outing forzato, fecero temere Khalid per la sua vita. Erano già iniziate a circolare infatti notizie di impiccagioni, arresti arbitrari, torture e phishing online ai danni di coloro che venivano anche solo sospettate di essere omosessuali in Paesi vicini quali l’Iran, l’Iraq, l’Egitto, la Siria. Seguendo l’onda del sensazionalismo e della disinformazione, le varie testate giornalistiche giordane iniziarono a sostenere l’esistenza di un complotto per “promuovere un’agenda LGBTQIA+ nel Paese” e non di rado apparivano interviste di persone che si professavano omosessuali e che dichiaravano che questo era uno stile di vita perverso, chiedendo di essere guariti. Dato questo clima di crescente odio ed ignoranza nei confronti della comunità LGBTQIA+, alcuni amici di Khalid Abdel-Hadi – con i quali aveva ideato il progetto di “My Kali” – tentarono di dissuaderlo nel continuare a lavorare al primo numero della rivista. Ma Khalid non ha alcuna intenzione di essere messo a tacere e, tra mille difficoltà, sono più di 10 anni che cura e gestisce la rivista “My Kali”, ancora oggi unico spazio sicuro per la comunità LGBTQIA+ del Medio Oriente. Grazie al suo impegno e alla sua dedizione, Khalid Abdel-Hadi ha realizzato e/o partecipato a diversi progetti miranti a decostruire gli stereotipi diffusi nel modo mediorientale sulla comunità LGBTQIA+. Proprio per il suo incessante attivismo, nel 2017 la testata giornalistica The Guardian ha inserito il suo nome nella lista degli eroi LGBTQIA+. In particolare, due sono i progetti che l’hanno reso maggiormente noto a livello internazionale: (i) l’essere stato uno degli autori di “This Arab is Queer. An Anthology by LGBTQ+ Arab Writers”; (ii) l’essere stato uno dei curatori della mostra “Habibi, les révolutions de l’amour”, che si è svolta presso l’Institute du Monde Arabe di Parigi. In occasione del mese del Pride Large Movements APS desidera celebrare il coraggio di Khalid Abdel-Hadi che si batte per l’autodeterminazione ed i diritti delle persone LGBTQIA+ in un contesto socio-culturale estremamente ostile. Contesto che, sotto alcuni punti di vista, è ancora più complesso rispetto ai Paesi africani che abbiamo raccontato finora, complice anche il ruolo maggiormente centrale che la religione ha con riferimento al governo dei Paesi mediorientali. Ci auguriamo dunque che le istanze della comunità queer vengano ascoltate ed accolte dal governo giordano – sull’onda di quell’apertura verso l’Occidente che ha portato all’abrogazione formale del reato di sodomia nel 1951 – nella speranza che questo Paese possa rappresentare un esempio da seguire per gli altri. Se ti è piaciuto l’articolo, CondividiCi!

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