I Rohingya: la minoranza invisibile

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Tra le grandi crisi umanitarie del nostro tempo quella che coinvolge i Rohingya del Myanmar è tra le meno conosciute. Pur avendo acquisito rilevanza sulla scena internazionale solo nel 2017, le violenze e le discriminazioni che hanno costretto più di un milione e mezzo di persone al dislocamento forzato in Bangladesh hanno origini lontane, facendo tristemente conquistare ai Rohingya la denominazione di “minoranza più perseguitata al mondo”.

Clandestini nel proprio paese

Le origini dei Rohingya sono contese e da sempre strumentalmente usate dal Myanmar (Ex-Birmania) per negare sistematicamente i loro diritti. Gli stessi dati che li riguardano sono incerti per lo stesso motivo, i Rohingya sono invisibili anche agli occhi delle statistiche governative, non venendo inclusi nei censimenti nazionali.

Da quello che si può ricostruire di questa etnia “invisibile” è che i Rohingya sono una minoranza musulmana sunnita che risiede nell’area dello Stato di Rakhine, nel Myanmar a maggioranza buddista, da molto tempo. Sull’identificazione precisa di questa temporalità vi sono varie opinioni. Alcuni storici fanno risalire la presenza di questo popolo nell’Ex-Birmania al XII secolo, mentre la teoria portata avanti da coloro che li respingono è che siano discendenti di un gruppo musulmano proveniente dall’allora Bengala ed emigrato nel Rakhine durante la colonizzazione britannica. Ciò che è certo è che la loro presenza sul territorio si sia intensificata durante il periodo coloniale, da quando il Myanmar è stato amministrato come una provincia indiana.

Alla base della discriminazione dei Rohingya vi è proprio il non riconoscimento della loro appartenenza al Paese in cui vivono da secoli. Nonostante le politiche portate avanti dai regimi che si sono susseguiti in Myanmar a seguito dell’indipendenza, nel 1948, siano sempre state repressive nei confronti delle diverse minoranze etniche e religiose, quelle verso i Rohingya sono state particolarmente violente, arrivando a negare loro il più basilare dei diritti, la nazionalità birmana.

I Rohingya non rientrano, infatti, nei 135 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti dalla legge del 1982 decretata dall’allora regime militare del generale Ne Win, venendo condannati ad un’esistenza di perenne clandestinità, privati del diritto al voto, all’istruzione superiore, al libero spostamento sul territorio nazionale. I Rohingya sono quindi destinati all’apolidia, a meno che non riescano a dimostrare la loro presenza sul territorio prima del 1824, anno di annessione all’India britannica.

Nel corso dei regimi militari che si sono susseguiti in Myanmar, un clima di intolleranza si è aggiunto alla mancanza di diritti, provocando distruzione di abitazioni e luoghi di culto, saccheggi, stupri e omicidi etnici.

I crimini dei militari hanno costretto migliaia di Rohingya a fuggire verso gli stati confinanti, primo tra tutti il vicino Bangladesh, con ondate migratorie nel 1978 e nel 1991-92, periodi caratterizzati da una particolare escalation di violenze.

Il picco della crisi

Le elezioni parlamentari che si sono tenute nel 2015 hanno costituito un punto di svolta per il Myanmar, vedendo la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, la leader dell’opposizione costretta in regime di detenzione per più di 15 anni e vincitrice del premio Nobel per la Pace nel 1991.

Nonostante tra le alte cariche governative fosse ormai presente una personalità quale quella della Suu Kyi, la violenza governativa verso i Rohingya non si è arrestata. Le violenze e i rastrellamenti su base etnica sono aumentati negli ultimi anni costringendo, già nel dicembre 2016, circa ventimila persone a fuggire in Bangladesh.

Sono stati pero gli avvenimenti dell’estate 2017 a diffondere il dramma dei Rohingya a livello internazionale e discutere sulla tesi di genocidio rispetto alle violenze nei loro confronti. 

Le nuove ondate di repressione governativa si sono scatenate in risposta alle azioni armate del gruppo ribelle ARSA, Arakan Rohingya Salvation Army. In particolare, l’attacco ad un check-point della polizia, il 25 agosto 2017, ha scatenato una reazione durissima dell’esercito birmano rivolta indiscriminatamente a tutta la popolazione civile Rohingya del Rakhine. Secondo i dati delle Nazioni Unite i militari hanno distrutto quasi 300 villaggi e perpetuato migliaia di violenze ed uccisioni a danni di uomini, donne e bambini.

Dal 25 agosto al 7 settembre 2017 si stima che oltre 700.000 Rohingya abbiano lasciato il paese, circa metà della popolazione totale stimata. Nonostante alcune migliaia di persone si siano rifugiate anche in Thailandia e in Malaysia, la maggioranza di essi hanno raggiunto il Bangladesh, sia via terra, attraversando il fiume Naf, che via mare. Qui si sono aggiunti agli oltre 300.000 profughi già presenti nel distretto di Cox’s Bazar, provincia di Chittagong. Fino a marzo 2019, quando il Bangladesh ha chiuso le frontiere, migliaia di Rohingya hanno continuato a varcare il confine, costretti in condizioni di vita degradanti.

Nonostante l’allestimento di campi d’accoglienza e la fornitura di alcuni servizi essenziali da parte del governo e delle organizzazioni internazionali presenti sul territorio, i Rohingya vivono in situazioni di grave sovraffollamento e non hanno acceso al mercato del lavoro legale, né tantomeno al sistema scolastico e sanitario. D’altra parte il Bangladesh non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 e dunque la popolazione non vede riconosciuti neanche formalmente i propri diritti in quanto rifugiati.

Dopo le prime dimostrazioni di solidarietà, inoltre, a Cox’s Bazar è cresciuto il malcontento della popolazione locale rispetto all’alto numero di profughi.  Il Bangladesh è infatti tra i paesi più poveri tra quelli che ospitano il maggior numero di rifugiati, 1,1 milioni, e presenta forti carenze in quanto a servizi, infrastrutture e occupazione.

Ad oggi secondo il Piano di risposta congiunta (JRP) 2020 dell’UNHCR per la crisi umanitaria dei Rohingya, circa 855.000 rifugiati risiedono in 34 campi formali nel distretto di Cox’s Bazar, ormai congestionato, e si stima che il 55% di loro siano bambini.

La situazione nei campi resta molto precaria, aumentano tra l’altro le famiglie di rifugiati che si indebitano per sopravvivere, passando dal 35% a luglio 2018 al 69% ad agosto 2019. Nel corso degli anni inoltre, vari gruppi jihadisti hanno occupato il vuoto spesso lasciato dalle istituzioni, distribuendo beni e servizi nei campi e reclutando i Rohingya tra le loro file.

Un futuro incerto

Con il 2020 le sorti dei Rohingya non sembrano ancora migliorare, a maggio il ciclone Amphan si è abbattuto sul golfo del Bengala, radendo al suolo migliaia di abitazioni, comprese le baracche dei profughi e provocando la morte di centinaia di persone.

Ovviamente anche la pandemia di Covid-19 non ha risparmiato gli abitanti dei campi di Cox’s Bazar, con circa 400 casi confermati. Preoccupano soprattutto le condizioni di sovraffollamento, la ONG Azione contro la fame stima la presenza di 40mila persone per chilometro quadrato, e di scarso accesso ai servizi igienico-sanitari.

In ultimo, la decisone del governo bengalese di trasferire forzatamente i profughi Rohingya a Bhasa Char, una remota isola nel Golfo del Bengala soggetta frequentemente a inondazioni e cicloni.

Una notizia positiva arriva, infine, dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja, la quale, a gennaio 2020, ha accolto la proposta ricevuta dal Gambia e si è dichiarata competente a pronunciarsi sull’accusa di genocidio contro la minoranza Rohingya da parte dell’esercito del Myanmar. Nonostante ci vorranno anni per la pronuncia finale, il giudice della Corte ha già ordinato all’Ex Birmania di adottare delle misure per prevenire altri episodi di genocidio.

In questa occasione Aung San Suu Kyi ha nuovamente evitato di pronunciarsi decisamente in merito alle condizioni dei Rohingya, né tantomeno ha fatto intendere di voler tentare di risolvere la situazione mediando con il governo del quale ora è membro ufficiale.  Nonostante gli ideali di non violenza che hanno caratterizzato le sue lotte, la Suu Kyi sembra rimanere impassibile rispetto alle violenze etniche degli ultimi anni, disattendendo il suo ruolo di protettrice dei diritti umani.

Nella sua replica del dicembre scorso di fronte alla Corte dell’Aja, infatti, ha catalogato le violenze contro i Rohingya come parte del conflitto interno e della lotta al terrorismo, senza pronunciarsi sulla persecuzione etnica a danno dei civili ed ha affermato che un processo contro il Myanmar potrebbe minare la riconciliazione nel paese e far riprendere il conflitto.

I Rohingya sono sicuramente tra le minoranze perseguitate più isolate a livello internazionale e proprio per questo hanno bisogno di essere conosciute e supportate nel riconoscimento dei loro diritti, primo tra tutti poter tornare nelle loro terre ed essere riconosciuti nel loro paese.

Fonti e approfondimenti

https://www.unhcr.org/statistics/unhcrstats/5ee200e37/unhcr-global-trends-2019.html

http://reporting.unhcr.org/node/27353

https://www.limesonline.com/rubrica/rohingya-myanmar-bangladesh-profughi-onu

https://espresso.repubblica.it/internazionale/2017/11/01/news/viaggio-tra-i-rohingya-i-musulmani-perseguitati-dalla-birmania-1.313149

https://www.arte.tv/it/videos/078343-000-A/rohingya-il-grande-esodo-dalla-birmania/

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In un viaggio di viaggi. Fare volontariato a Calais.

Oggi andiamo ad esplorare il nord della Francia, a neanche tre ore dalla capitale, a Calais, una città apparentemente uguale al resto delle città francesi. Da sei anni a questa parte Calais è però diventata un porto d’arrivo per migliaia di rifugiati che sognano le coste inglesi. Le condizioni in cui vengono accolti e costretti a vivere sono uno scandalo dal punto di vista della dignità umana, denunciato a più riprese da organizzazioni umanitarie in tutta Europa. Le polemiche crescono ma le soluzioni reali sembrano ancora essere lontane. Una vasta rete di ONG francesi ed inglesi è l’unica vera fonte di salvezza per i rifugiati di Calais. Large Movements vuole promuovere un dialogo vivo e vero con i rifugiati, e ha deciso così di intraprendere un’esperienza sul campo di Calais, attivandosi con una delle principali ONG inglesi. Qui, la maggior parte dei migranti proviene dall’Afghanistan, Eritrea, Iran, Iraq e Sud Sudan. Per lo più sono uomini, tra i 16 ed i 40 anni. Questo perché i governi di provenienza impongono loro il servizio militare obbligatorio e l’unica via per sottrarsene è la fuga. Tra tutti i paesi in Europa, nonostante la Brexit e la barriera linguistica, l’Inghilterra resta tra le mete predilette e viene percepita da queste persone come la speranza per migliori condizioni di vita grazie al facile accesso al mondo del lavoro. Purtroppo, quest’ultimo, come testimoniano molti dei rifugiati, è il mondo del lavoro in nero, che non richiede tutti quei documenti e procedure burocratiche i cui tempi di attesa spesso superano quelli del viaggio per raggiungere le coste europee. Tra le ragioni che ispirano ad intraprendere un’esperienza di volontariato a Calais è proprio la posizione di questa realtà, scenario di una delle crisi umanitarie più gravi in Europa. L’espressione “crisi umanitaria” è normalmente associata a paesi lontani, a territori sperduti e contaminati dalla guerra. Eppure, la (non) gestione degli arrivi di immigrati in Francia ha fatto sì che il confine franco-inglese si sia trasformato in un luogo dove è scoppiata una profonda crisi umanitaria, violando diritti e principi fondamentali. La tristemente nota “Giungla di Calais” si trova nel dipartimento di Grand-Synthe, a Dunkerk, ad una ventina di km dal centro di Calais. Dallo smantellamento del 2016 in realtà, della Giungla rimangono soltanto delle tracce. Oggi i rifugiati si trovano in varie zone di accampamento tra il centro e fuori città, privi di una struttura di riferimento come ai tempi della Giungla. Le zone di accampamento sono infatti enormi aree che si sviluppano dove intorno non vi è assolutamente nulla oppure accanto a grandi centri commerciali, dove le ONG attive sul territorio organizzano quotidianamente la distribuzione di cibo e beni essenziali come vestiti, coperte o tende. Oltre all’ex Giungla di Calais, le distribuzioni avvengono in più punti della città: le piazzole situate sia di fronte l’ospedale principale sia nelle vicinanze del tunnel della Manica sono due tra questi. Il tunnel giunge fino in Inghilterra ed è da qui che tutte le notti molti rifugiati provano a salire su di un camion nel disperato tentativo di raggiungere la terra anglosassone. Dal 2017 il Comune ha messo a disposizione un servizio di docce per i migranti e, per i mesi più freddi, un sistema di dormitori per proteggersi dalla morsa del gelo. Tuttavia, la convivenza in stretti spazi e sotto il controllo di personale francese non è sempre la scelta prediletta dai migranti. Infatti, nel corso degli anni si sono ripetuti scontri e violente discussioni che hanno fatto chiudere o sospendere i servizi. Risale allo scorso gennaio la denuncia delle maggiori ONG circa l’attivazione di questi servizi perché, secondo la legge nazionale, spetta al prefetto decidere l’attivazione – e quindi anche l’interruzione o la sospensione – di questi servizi ma non sempre questa funzione è considerata una priorità nell’agenda amministrativa. A Calais lo stereotipo europeo del migrante – al quale la maggioranza della popolazione occidentale in qualche modo è assuefatta a causa del continuo bombardamento informatico e mediatico che lo diffonde quotidianamente – viene a cadere fin dal primo giorno. Si incontrano storie di persone che vogliono rivendicare un destino ingiusto, perché nati in paesi la cui miseria e violenza non ha permesso loro di vivere una vita degna di essere chiamata tale. I più giovani non hanno potuto frequentare la scuola ma riescono ad imparare da autodidatti l’inglese, a volte anche il francese o l’italiano, con una dizione ed una padronanza quasi perfetta. I più anziani lasciano spesso carriere brillanti nell’ambito della ristorazione o dell’estetica. È sorprendente ad esempio come i parrucchieri curino l’aspetto dei loro compagni anche sotto la neve o con il freddo che rende i campi immense distese di ghiaccio. Operare in un luogo del genere permette anche di scoprire la diversità delle nazioni di provenienza dei rifugiati e la loro organizzazione in territorio straniero. Gli Afghani, insieme agli Iracheni, Curdi ed Iraniani si “impongono” sul resto degli altri rifugiati dato il loro carattere particolarmente forte. Ad esempio, nelle attività sportive accade spesso che i Sudanesi o gli Eritrei siano esclusi o mal visti, a causa della loro esile forma fisica. Per quanto riguarda invece l’organizzazione delle comunità, gli Eritrei hanno una loro interna gerarchia: vi è un capo eletto che ogni giorno si occupa di ripartire i vari beni ricevuti. Interessante è anche capire come la popolazione di Calais percepisce e descrive lo scenario. Un primo elemento è legato allo scenario politico locale: dal 2008 Natacha Bouchart, rappresentante repubblicana, è il sindaco di Calais e fin da subito ha adottato una serie di misure per contrastare l’arrivo clandestino dei migranti, invocando un continuo scambio di informazioni con le autorità inglesi ed invocando che le stesse si assumano le proprie responsabilità in merito alla regolarizzazione dei flussi migratori. Il sindaco ha anche più volte denunciato l’operato delle organizzazioni perché “si servono dei migranti per esistere”. Al di là del discorso politico, vi è una parte dei cittadini di Calais che si lamenta della reputazione che ha ormai acquisito la loro città. “Calais viene ormai unicamente

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La rotta del Mediterraneo Occidentale

Tra il 17 e il 18 maggio 2021, in quasi 24 ore,  circa 8 mila persone sono entrate nell’enclave spagnola di Ceuta, punto finale della rotta del Mediterraneo occidentale, per richiedere asilo in Europa. Lì migliaia di migranti hanno cercato di superare l’unica frontiera che unisce l’Africa all’Europa rischiando l’ipotermia e la morte. Solo nei primi 6 mesi del 2021 sono stati registrati 13.483 arrivi lungo la rotta del Mediterraneo occidentale ma i dati, offerti da FRONTEX e dal Ministero dell’Interno spagnolo, non comprendono gli arrivi a Ceuta del 17 e del 18 maggio poiché il governo spagnolo ha schierato l’esercito e rimandato indietro quasi la metà delle persone che hanno tentato l’attraversamento. La rotta del Mediterraneo Occidentale Secondo l’Agenzia Europea per il controllo delle Frontiere Esterne (FRONTEX) sono otto le principali rotte che rifugiati e migranti percorrono nel tentativo di raggiungere l’Unione Europea: 1) la rotta orientale; 2) la rotta balcanica; 3) la rotta circolare; 4) la rotta atlantica; 5) la rotta del Mar Nero; 6) la rotta del Mediterraneo centrale; 7) la rotta del Mediterraneo orientale; 8) e la rotta del Mediterraneo occidentale. La rotta del Mediterraneo occidentale  si riferisce agli arrivi in Spagna sia attraverso il Mediterraneo verso la Spagna continentale, sia verso le enclave spagnole di Ceuta e Melilla nell’Africa settentrionale. Chi sceglie di percorrere questa rotta, transita attraverso il Marocco, il Sahara Occidentale, la Mauritania e l’Algeria per raggiungere l’Europa. La rotta del Mediterraneo occidentale nel 2018 è stata la rotta maggiormente utilizzata ma, da allora, il numero degli arrivi è costantemente diminuito a causa dei maggiori sforzi del Marocco nella lotta contro la migrazione irregolare, la cooperazione di Spagna ed Unione Europea con il Paese maghrebino e la pandemia legata al Covid-19. Le frontiere sono sorvegliate dalle autorità marocchine, per nulla toccate dalle Primavere Arabe, in cambio di finanziamenti economici da parte del Governo di Madrid, garantendo un’intensa azione di contrasto ai flussi migratori provenienti dall’Africa subsahariana. A ciò, si aggiunge il sostegno di FRONTEX al governo spagnolo attraverso il controllo delle sue frontiere esterne continentali con l’ausilio di operazioni marittime congiunte, come ad esempio l’Operazione Indalo. Dopo gli eventi del maggio 2021 e la distensione dei rapporti con la Spagna, il Marocco ha cominciato ad erigere recinzioni di filo spinato alla frontiere di Ceuta. L’entrata in massa di migranti sembrerebbe essere causato da una crisi diplomatica nata dopo che il governo spagnolo ha accolto sul proprio territorio Brahim Ghali, leader del Fronte Polisario. La questione riguarda il riconoscimento del Sahara occidentale in quanto provincia marocchina e la distensione dei rapporti tra i due Paesi è avvenuta in seguito alle dimissione del Ministro degli Affari esteri spagnola Arancha González Laya e la nomina di José Manuel Albares come nuovo Ministro. L’azione marocchina sembrerebbe quindi essere stata un vero e proprio ricatto diplomatico a spese di migliaia di esseri umani ed il nuovo filo spinato non esclude che ciò riaccada in futuro. La rotta del Mediterraneo Occidentale: le migrazioni come arma sulla questione del Sahara Occidentale La rotta del Mediterraneo Occidentale sembrerebbe essere stata usata, nonostante le smentite ufficiali, come arma diplomatica ed alle origini della crisi del maggio 2021 sembrerebbe esserci stato un allentamento dei controlli alle frontiere da parte della polizia marocchina. La mossa del governo di Rabat sembrerebbe essere una risposta alla decisione spagnola di accogliere sul suo territorio il leader del Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro, meglio noto come Fronte Polisario, ovvero del movimento indipendentista del Sahara Occidentale che ha  lo scopo di ottenere la realizzazione del diritto all’autodeterminazione per il popolo Sahrawi. La questione della sovranità sul Sahara occidentale è al centro di una disputa da molto tempo e, dopo il riconoscimento da parte dell’amministrazione Trump della sovranità marocchina sul territorio, il Marocco sta facendo sempre più pressione affinché l’Unione Europea riconosca la sua sovranità. Sahara spagnolo, province del sud, Repubblica Araba Sahrawi Democratica e Sahara occidentale sono tutti nomi che indicano la medesima porzione di territorio e ognuna traduce uno specifico “progetto politico” degli attori che hanno agito su di esso. La questione del Sahara occidentale assume un ruolo di primo piano solo recentemente, con la fine del dominio coloniale spagnolo nel 1975. Il periodo coloniale aveva visto un confronto tra gli spagnoli e la popolazione locale dei Sahrawi, un rapporto che vedeva colonizzatori e colonizzati. Negli ultimi anni della dominazione spagnola, anche a causa di questo scontro, il popolo Sahrawi ha iniziato a riconoscersi in un processo di costruzione nazionale e si sono compattati attorno al progetto indipendentista del Fronte Polisario. La fine della dominazione spagnola ha però complicato vicenda e gli attori regionali, primi tra tutti il Marocco e la Mauritania,  colsero l’occasione per far valere le proprie rivendicazioni sul territorio Sahariano. Nel 1975 si giunse a una situazione di compromesso e venne sottoscritto l’accordo tripartito Ispano-Marocchino-Mauritano che di fatto spartì i domini spagnoli tra il Marocco e la Mauritania, suscitando il contrasto con le Nazioni Unite in quanto non si era data la possibilità al popolo Sahrawi di far valere il proprio diritto all’autodeterminazione come garantito dalla Risoluzione n.1514 del 1960. Dopo la spartizione, il Fronte Polisario decise di proseguire l’obiettivo indipendentista con una strategia più strutturata dal punto di vista politico e militare. Nel 1976 venne proclamata la Repubblica Araba Sahrawi Democratica, si costituì un governo in esilio presso il campo profughi di Tindouf in Algeria e si riorganizzò l’assetto militare con lo scopo di effettuare azioni di guerriglia contro i due Paesi del Maghreb. Presto la Mauritania ebbe problemi a mantenere l’occupazione a causa delle proprie fragilità politiche ed economiche  e nel 1979 optò per il ritiro dal territorio. Il Marocco di risposta annesse repentinamente tutto il territorio e lo denominò “Province del Sud”. Da allora la questione del Sahara Occidentale si è identificata nello scontro tra il Marocco, che vuole vedere riconosciuta la sovranità sulle province del Sud, e i Sahrawi, che vogliono vedersi riconosciuto il diritto all’autodeterminazione ed alla propria indipendenza. I motivi dietro

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Frontiera greco turca

LA FRONTIERA GRECO-TURCA: genesi di una nuova crisi migratoria

La crisi che vede come disperati protagonisti i rifugiati bloccati alla frontiera tra la Turchia e la Grecia dimostra ancora una volta il divario esistente tra il diritto internazionale ed europeo in materia di asilo e la sua effettiva implementazione. Il 27 febbraio 2020, il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato che le frontiere erano aperte e che i rifugiati non sarebbero più stati fermati nel loro tentativo di raggiungere l’Europa. In risposta al provvedimento turco, tra le 10.000 e le 20.000 persone, perlopiù profughi siriani, ma anche afghani, iraniani e iracheni, hanno quindi raggiunto la frontiera nord-est della Turchia, dove il fiume Evros crea un confine naturale con la Grecia, e dunque con l’Unione europea (Ue). Ad aspettarli le forze di sicurezza greche determinate a non farli passare, anche a costo di attuare misure durissime. Sono presenti ovviamente soggetti vulnerabili quali bambini/e ed anziani/e o semplicemente persone scappate da aree di conflitto e costrette a vivere lontano da casa in condizioni di indeterminatezza e povertà. Ma facciamo un passo indietro per sintetizzare il contesto geopolitico che ha portato a questa situazione, partendo proprio dal ruolo della Turchia. La Turchia: avamposto d’Europa Dall’inizio del conflitto siriano, ormai nove anni fa, la Turchia è il paese che più di tutti ha accolto i profughi in fuga dalla guerra, al momento ospita circa 4 milioni di migranti, di cui 3,6 milioni di siriani. Infatti, nonostante la Turchia non sia nota per il rispetto dei diritti umani, il Paese ha applicato, fino alla chiusura della frontiera nel 2015, una politica di “porta aperta” rispetto ai profughi provenienti dalla Siria. È necessario spiegare perché in questo caso non sia corretto, almeno formalmente, parlare di rifugiati. La Turchia, infatti, pur avendo ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, lo ha fatto con una clausola che ne limita l’applicazione alle persone provenienti dall’Europa, portando i milioni di profughi di guerra a non usufruire ufficialmente dello status di rifugiato, seppur acquisendo altri tipi di protezione. Questo è uno dei motivi che denota la poca credibilità dell’accordo del 2016 stipulato tra l’Unione europea e la Turchia. In seguito al grande flusso migratorio che ha interessato l’Europa nel 2015, l’Ue ha proposto alla Turchia di fungere da barriera per l’arrivo dei migranti, soprattutto siriani. In cambio di 6 miliardi di euro e di passi avanti nel processo di adesione all’Ue, la Turchia ha accettato di far rientrare i richiedenti asilo presenti soprattutto sulle isole greche. D’altro canto l’accordo prevedeva per ogni profugo siriano rimandato in Turchia dalla Grecia, il trasferimento di un altro siriano dalla Turchia all’Unione europea attraverso dei canali umanitari. L’accordo Ue – Turchia non è stato rispettato del tutto da parte di entrambi gli attori coinvolti. Se l’Unione aveva promesso il reinsediamento di circa 70.000 profughi siriani presenti in Turchia, risulta che quelli effettivi siano stati 25.000. Anche la Turchia d’altra parte non sembra aver portato avanti i rientri in Turchia dei siriani presenti in Grecia. Questo delicato quadro ha subito uno svolta in seguito alle conseguenze della tragica situazione che sta vivendo la provincia siriana di Idlib, a ridosso del sud della Turchia, ultimo territorio ribelle rimasto fuori dal regime di Assad. La Turchia, dal 2016, è in parte coinvolta nel conflitto siriano tramite operazioni militari nel nord del Paese le quali, se da una parte hanno come obiettivo il rientro dei profughi siriani, dall’altro celano la volontà di contrastare i territori a maggioranza curda e le Unità di protezione popolare (Ypg). L’esercito turco è presente anche nella provincia di Idlib per monitorare l’area. Qui, dal dicembre 2019, l’esercito di Assad, supportato dalla Russia, sta bombardando indiscriminatamente colpendo soprattutto civili che non hanno alternativa se non fuggire verso i confini turchi. In questo contesto sono rimasti uccisi a fine febbraio 2020 ad Idlib, da parte dell’aviazione siriana, più di trenta soldati turchi. Di fronte a questa escalation di tensione, il governo turco si è ritrovato, isolato a livello internazionale e con un calo di consenso dovuto in parte alla questione migratoria e alle ricadute sociali ed economiche che ne conseguono, ad affrontare l’arrivo di una nuova ondata di sfollati dall’area di Idlib. Erdoğan ha deciso così di utilizzare i profughi presenti nel suo territorio per attirare l’attenzione dell’Unione europea. Quale modo migliore se non aprire unilateralmente il confine con la Grecia nell’era delle frontiere chiuse? Confini violenti Ad accogliere i profughi, che si sono precipitati dalla Turchia al confine con la Grecia dopo aver saputo dell’apertura della frontiera, è stato il filo spinato e le guardie frontaliere greche, armate di gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Oltre al confine terrestre, rappresentato dal fiume Evros, migliaia di migranti si sono diretti sulle isole greche di fronte alle coste turche, in particolare Lesbo, Kos e Samos, e anche in mare le forze di sicurezza greche hanno adottato misure inaccettabili, speronando i gommoni dei migranti e sparando proiettili in acqua rivolti verso di essi. Nel frattempo la tensione sulle isole è diventata altissima, poiché la nuova ondata di arrivi si inserisce in una situazione preesistente di sovraffollamento e di disagio. Basti pensare al campo d’accoglienza di Lesbo, pensato per tremila persone, ma che ne accoglie al momento 21mila.  Sulle isole greche stanno aumentando, inoltre, attacchi violenti a migranti, attivisti ed operatori umanitari da parte dei militanti del partito di estrema destra Alba Dorata e non solo. In ultimo l’incendio, probabilmente doloso, della scuola dell’ong svizzera One Happy Family, un centro che ogni giorno accoglieva fino a 800 migranti. La risposta europea In risposta all’apertura della frontiera da parte della Turchia, il 1° marzo il Primo Ministro greco, Mītsotakī, ha annunciato la sospensione della presa in carico delle domande di asilo per un mese e ha dichiarato l’espulsione di chiunque entri irregolarmente nel Paese. L’Ue ha appoggiato la Grecia, e durante la sua visita al confine con la Turchia, Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione europea, ha definito la Grecia “lo scudo d’Europa”. L’Unione si è impegnata a sostenere la Grecia con un finanziamento di 700

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La rotta del Mediterraneo Centrale

Secondo il report “Missing migrants” dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM), il Mediterraneo centrale è sempre più mortale a causa dell’assenza delle navi ONG e di navi di ricerca e soccorso dei governi europei. Attualmente, le operazioni di soccorso sono spesso svolte dalle autorità libiche e tunisine e il report evidenzia come, per il secondo anno consecutivo, vi sia un aumento dell’attività dei Paesi nordafricani: sono 23.117 le persone recuperate nei primi sei mesi del 2020, mentre sono 31.500 le persone recuperate nei primi sei mesi del 2021. Chi viene recuperato dalle autorità nordafricane rischia di subire tortura, trattamenti inumani e degradanti od il rimpatrio verso il Paese di origine, dove possono incorrere in ulteriori violazioni. La rotta del Mediterraneo Centrale Secondo l’Agenzia Europea per il controllo delle Frontiere Esterne (FRONTEX), sono otto le principali rotte che rifugiati e migranti percorrono nel tentativo di raggiungere l’Unione Europea: 1) la rotta orientale; 2) la rotta balcanica; 3) la rotta circolare; 4) la rotta atlantica; 5) la rotta del Mar Nero; 6) la rotta del Mediterraneo occidentale; 7) la rotta del Mediterraneo orientale; 8) e la rotta del Mediterraneo centrale. La rotta del Mediterraneo centrale coinvolge le frontiere marittime di Libia, Tunisia, Malta e Italia, costituendo uno spazio di 400 km circa. Il Mediterraneo centrale però costituisce solamente la parte finale di un lungo viaggio che spesso dura tra i 2 ed i 5 anni. Prima di arrivare in Libia o in Tunisia, chi migra ha intrapreso una delle 5 rotte migratorie terrestri che dall’Africa Subsahariana portano all’Italia. Ognuna di queste rotte attraversa il deserto del Sahara e passa o nella cittadina di Agadez, in Niger, per chi parte dal Sahel occidentale o per Khartoum, la capitale del Sudan, per chi parte dal Sahel orientale. Il protagonismo del Mediterraneo Centrale nelle migrazioni del XXI secolo La rotta del Mediterraneo Centrale ha iniziato ad assumere un ruolo rilevante a seguito della caduta del Muro di Berlino. Fino a quel momento, la maggior parte dei flussi migratori verso l’Europa proveniva dalla frontiera orientale, ovvero dai Paesi dell’Ex-Unione Sovietica. La cosiddetta epoca del bipolarismo ha avuto effetti anche nel continente africano, dove i due blocchi combattevano guerre per procura e finanziavano le élite locali. Di conseguenza, le pressioni politiche ed economiche, le forniture di armi, i mercenari e talvolta interventi militari diretti sono stati fattori che hanno contribuito al sorgere di nuovi conflitti od all’inasprimento di quelli storici. Al termine di questa epoca – e di conseguenza dei finanziamenti da parte degli Stati Uniti o dell’Unione Sovietica – si aprirono nuovi teatri di crisi a causa di una nuova instabilità politica a cui si susseguirono crisi umanitarie, conflitti e fenomeni di persecuzione verso le minoranze e gli oppositori politici. Questo cambiamento dello scenario geopolitico ha portato, da una parte, a nuovi flussi migratori e, dall’altra, a ripensare le politiche d’immigrazione nei Paesi del Nord del mondo. É bene notare però che la gran parte dei flussi migratori africani si svolgono, prima più di oggi, all’interno del continente e, nella maggior parte dei casi, l’Europa non è la destinazione finale programmata all’inizio del viaggio. Fino ai primi anni 2000 vi erano importanti sistemi regionali di migrazioni che nei decenni si sono costruiti attorno a centri economici africani in crescita, come nel caso della Libia. Questo Paese ha infatti storicamente rappresentato un’importante destinazione dei flussi migratori africani e, fino al 2011, non era affatto una meta di transito. Ciò era dovuto, almeno fino alla seconda metà degli anni ‘90, alla politica promossa dal Colonnello Gheddafi volta a favorire i cosiddetti migranti economici provenienti dall’Africa subsahariana al fine di impiegarli nel comparto petrolifero ed edilizio. Dal 2000 però, gli africani subsahariani hanno cominciato sempre più ad essere vittime della xenofobia e delle violente rivolte anti-immigrazione che dilagavano nel Paese. Si assistette ad una escalation di violenze nei confronti dei subsahariani  che sfociarono in espulsioni, detenzioni arbitrarie e tortura. Ciò spinse a nuovi fenomeni migratori verso altri Stati del Nord Africa o l’Europa. Nonostante ciò, la Libia ha continuato ad essere un’importante destinazione fino al 2011. Le cosiddette Primavere Arabe hanno riconfigurato ulteriormente i flussi migratori contemporanei facendo registrare un aumento esponenziale dei numeri sulle rotte marittime migratorie del Mediterraneo. Le proteste hanno infatti portato alla caduta di regimi ultra-decennali (come ad esempio Mubarak in Egitto, Ben Alì in Tunisia e Gheddafi in Libia) che a loro volta hanno portato ad una instabilità politica che ha contribuito ad aumentare i movimenti di popolazione tra le due sponde del Mediterraneo. Nel caso libico, il violento conflitto tra le milizie di Gheddafi ed i ribelli ha causato il ritorno in massa dei lavoratori migranti verso paesi sub-sahariani, come il Niger, il Mali e il Ciad. Ciò ha avuto effetti sulla stabilità di altri Paesi, ad esempio il ritorno dei Tuareg dalla Libia al Mali sembrerebbe aver incoraggiato la ribellione Tuareg nel nord del Mali. Dopo la caduta del regime di Gheddafi, la Libia è caduta in una crisi senza fine e si è trasformata, ancora più di prima, in un porto franco per trafficanti di esseri umani, per la criminalità organizzata e per le milizie che si scontrano per prendere il potere. A pagare questo vuoto politico sono nuovamente le migliaia di persone provenienti dall’Africa sub-sahariana che per anni hanno lavorato in Libia. Queste all’indomani della morte del Colonnello si sono ritrovati in un vero e proprio limbo subendo violazioni dei diritti e violenze. A ciò si aggiunge che la debolezza politica della Libia e la possibilità dei trafficanti di infiltrarsi nelle istituzioni, come ad esempio nel caso del noto trafficante di esseri umani Al-Bija accolto in Italia come esponente della Guardia costiera libica, hanno reso la rotta del Mediterraneo centrale più appetibile per la criminalità organizzata. Qui infatti, i trafficanti possono agire indisturbati e sfruttare o ricattare coloro che decidono di intraprendere il viaggio. Ciò accade in misura minore nella rotta del Mediterraneo Occidentale, dove il governo Spagnolo finanzia  il governo del Marocco, e nella rotta del Mediterraneo Orientale, dove

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