MELUSI SIMELANE: IL CIELO DI ESWATINI SI RIEMPE DI ARCOBALENI

Melusi Simelane è un’attivista per i diritti LGBTQIA+ di Eswatini, Paese dell’Africa meridionale conosciuto fino al 2018 come Swaziland e governato dall’unica monarchia assoluta del continente. Nel 2018 Melusi ha organizzato il primo Pride del Paese e successivamente ha fondato la Eswatini Sexual and Gender Minorities (ESGM), organizzazione che ha l’obiettivo di promuovere i diritti delle persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+.

LA LOTTA PER L’ACCETTAZIONE

L’Eswatini è una delle 32 nazioni africane che considerano ancora l’omosessualità un crimine, a causa della persistenza nell’ordinamento giuridico del Paese di una legge omofoba introdotta durante la colonizzazione britannica.

Nonostante non ci siano prove che dette norme siano mai state applicate, il testo rimane in vigore perché la Costituzione di Eswatini prevede che qualsiasi disposizione legislativa adottata prima dell’indipendenza del 1968 deve continuare ad essere applicata.

Proprio perché l’omofobia è ben radicata nella società sin dall’inizio della colonizzazione del Paese, il contrasto alla sua diffusione e la battaglia per una società più inclusiva sono molto complessi. Come se non bastasse poi, anche la Chiesa e le più alte cariche dello Stato hanno fatto propri i sentimenti di odio nei confronti della comunità LGBTQIA+. Il Re Mswati III infatti, ha pubblicamente dichiarato che le relazioni tra persone dello stesso sesso hanno origini sataniche e l’ex Primo Ministro Barnabas Dlamini ha definito l’omosessualità un’anormalità ed una malattia.

Conseguenze dirette dell’ostilità e del pregiudizio nei confronti dei membri della comunità LGBTQIA+ di Eswatini sono aggressioni, violenze e perfino omicidi, che spesso non vengono effettivamente perseguiti dalle autorità. Per offrire una rete di sicurezza informale alle persone LGBTQIA+ del suo Paese, dunque, Melusi Simelane ha deciso di fondare la sua organizzazione.

Nel 2022 la ESGM ha ricevuto da parte dell’Alta Corte di Eswatini il diniego di registrarsi presso il Registro delle Imprese perché, secondo il giudice Mumcy Dlamini, il vero scopo dell’organizzazione sarebbe quello di diffondere informazioni sulle pratiche sessuali tra le persone dello stesso sesso. Sebbene la Corte Suprema di Eswatini abbia annullato la decisione dell’Alta Corte, avvalendosi dell’articolo 33 della Costituzione, che garantisce il diritto ad essere trattati secondo i requisiti fondamentali di giustizia ed equità davanti a qualsiasi autorità amministrativa, il Ministro del Commercio, dell’Industria e del Mercato ha comunque rifiutato la registrazione dell’ESGM.

LA FIGURA DI MELUSI

Come abbiamo visto, il contesto socio-culturale di Eswatini è fortemente caratterizzato dall’omofobia, che è ampiamente diffusa sia tra la popolazione che tra le istituzioni del Paese. Questo rende ancora oggi impossibile per tante persone queer vivere apertamente la propria identità e/o il proprio orientamento sessuale.

Lo stesso Melusi Simelane nel corso della propria vita ha subito discriminazioni a causa della sua omosessualità. Come racconta lui stesso in varie interviste, infatti, è stato vittima di bullismo a scuola, ha subito violenza sessuale, aggressioni da parte di sconosciuti, tentativi dei vicini di screditarlo agli occhi del padrone di casa, stalking e perquisizioni arbitrarie della polizia. Nonostante tutto questo però, ha deciso di rimanere in Eswatini per portare avanti la battaglia per dar vita ad una società più inclusiva.

Grazie alla sua costanza ed al suo coraggio Melusi Simelane è riuscito ad organizzare il primo Pride di Eswatini che è riuscito ad ottenere risonanza internazionale e nazionale, nonostante i tentativi del governo di minimizzare l’impatto dell’evento sia sulla popolazione che sull’assetto sociale del Paese.

Con riferimento alla pronuncia del Ministro del Commercio, dell’Industria e del Mercato, in aperto contrasto con la decisione della Corte Suprema, Melusi Simelane dichiara che questo non riuscirà ad impedire il lavoro di advocacy che ESGM sta portando avanti, anzi ha rafforzato ancora di più la voglia di combattere per realizzare un vero cambiamento.

In occasione del Pride Month, noi di Large Movements APS abbiamo scelto di dar voce a storie come quella di Melusi Simelane affinché, in un momento di festa per la comunità LGBTQIA+ occidentale, non ci si dimentichi che in tante parti del mondo quelle conquiste sono ancora lunghe dall’essere acquisite. E volevamo farlo tributando il lavoro di coloro che ogni giorno si battono per veder riconosciuti i diritti della comunità LGBTQIA+.

Ci auguriamo che, grazie al lavoro di Melusi e di ESGM, il governo di Eswatini decida finalmente di eliminare dal proprio ordinamento giuridico una legge espressione del sentimento e della cultura di un popolo completamente diverso da quello che attualmente abita il Paese, mettendo in atto un processo rapido e concreto che porti alla decriminalizzazione dell’omosessualità.

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La diga GIBE III : le caratteristiche del progetto e il contesto etiope

In un contesto globale caratterizzato da un lento ma progressivo abbandono delle fonti fossili, progetti energetici rinnovabili trovano sempre più spazio soprattutto in aree caratterizzate da un processo di industrializzazione ancora in corso e dal tentativo di accelerare il proprio sviluppo economico. Uno degli strumenti più utilizzati per produrre energia a partire dagli anni Cinquanta ad oggi sono le dighe, affiancate spesso da impianti di irrigazione per piantagioni intensive. Nella narrazione mediatica vengono presentate come “energia pulita”, in quanto le emissioni di gas climalteranti sono legate al solo processo di costruzione delle infrastrutture e non alla fase di funzionamento della diga stessa. Nonostante ciò, infrastrutture del genere, soprattutto se di dimensioni imponenti, sono state e sono tutt’ora una delle principali cause di distruzione di interi ecosistemi e sfollamento delle popolazioni locali interessate dai progetti. Uno studio del 2000 stimava che in tutto il mondo le grandi dighe abbiano portato tra i 40 e gli 80 milioni di persone a migrare forzatamente, dati che vanno sicuramente aggiornati e calati nel contesto odierno alla luce dell’aumento dell’utilizzo di questa fonte energetica. È questo il caso della Diga Gibe III, la più grande mai costruita in Etiopia e una delle più alte del pianeta. In questo articolo verranno prese in analisi le caratteristiche di questa infrastruttura e come essa si colloca all’interno del contesto etiope. In un secondo articolo verranno poi presi in considerazione gli effetti diretti e indiretti, e sociali e ambientali che essa ha generato e potrebbe produrre in futuro. Caratteristiche di Gibe III Gibe III da sola ha aumentato dell’85% la produzione di energia in Etiopia con 1870Mw di potenza installata complessiva e una produzione prevista di 6500Gwh/anno. Collocata sul fiume Omo, si inserisce in una progettazione più ampia di altre quattro dighe di cui Gibe I e II sono state già realizzate e Gibe IV e V sono in via di pianificazione. L’enormità di questi progetti e il fatto che insistono tutti in un contesto naturale fragile e popolato prevalentemente da gruppi indigeni ha fatto sì che l’infrastruttura divenisse estremamente controversa per l’elevatissimo impatto sociale e ambientale che questa ha determinato.  L’ipotesi di realizzare una diga di tali dimensioni risale ai primi anni del 2000. I lavori sono stati iniziati nel 2006 e il completamento dell’infrastruttura si è raggiunto già nel 2015. Il progetto prevede sia un impianto idroelettrico che uno di irrigazione di vaste piantagioni industriali collocate sopra le terre ancestrali delle tribù locali. L’impianto è di proprietà dell’azienda nazionale Ethiopian Electric Power Corporation, la quale ha assegnato direttamente e senza gara pubblica l’appalto a Salini Impregilo, azienda italiana che dagli anni 50 opera in Etiopia e che sembra detenere il controllo assoluto sulla realizzazione di impianti idroelettrici nel quadrante essendosi già occupata tra le altre di realizzare Gibe I e II e avendo ricevuto fondi da parte della cooperazione italiana e da vari organismi di finanziamento internazionale per la realizzazione di questi megaprogetti. Rispetto ai finanziamenti di Gibe III, sebbene all’inizio si ipotizzasse di poter fare affidamento sulla Banca Mondiale, sulla Banca Europea per gli Investimenti (BEI), e sulla African Development Bank, queste hanno deciso di ritirarsi dal progetto per numerose irregolarità legate soprattutto alla trasparenza nell’assegnazione dell’appalto a Salini e alla mancanza di una valutazione di impatto ambientale e sociale credibile. È da notare come l’Etiopia sia completamente dipendente dagli aiuti esteri corrispondendo essi al 90% del budget nazionale. Alla Banca Mondiale e alla BEI è subentrata la Industrial and Commercial Bank of China (ICBC) la quale non si è posta gli stessi problemi e ha deciso di procedere comunque con un finanziamento di 420milioni di dollari al progetto. Nonostante il costo originario dell’infrastruttura fosse stimato intorno ai 1.5 Miliardi di dollari, alcuni studi riportano un costo che si aggirerebbe sui 2 Miliardi. Da questi sono escluse le infrastrutture legate alla rete elettrica per l’esportazione verso il Kenya che verranno invece coperte in parte dalla Banca Mondiale con un finanziamento che si aggira tra i 600 e gli 800 milioni di dollari. Quest’ultimo elemento spinge inevitabilmente a riflettere sul ruolo che questa infrastruttura riveste nell’economia etiope. Contesto energetico etiope Secondo la IEA nel 2019 l’Etiopia ha prodotto 14.456 Gwh di elettricità attraverso le proprie dighe, ovvero il 95% dell’elettricità prodotta nel paese, a fronte di un consumo di 10.700 Gwh nello stesso anno. La tendenza negli anni precedenti è simile mostrando come ad ogni aumento dei consumi sia seguito un aumento importante anche delle capacità produttive e viceversa, determinando quindi un surplus di energia prodotta rispetto ai bisogni interni che viene dunque esportata verso i paesi circostanti. L’obiettivo ultimo è di esportare un totale di 900Mw tra Sudan, Djibouti e Kenya, 500Mw dei quali andrebbero a quest’ultimo, e sul lungo periodo punterebbe ad arrivare anche ad Egitto, Eritrea, Yemen e altri paesi dell’Africa del Sud ed Est. La produzione di 6500Gwh annui associati a Gibe III va dunque a coprire prevalentemente questo bisogno di export più che andare ad incontrare una crescente domanda interna di energia, dimostrando come la realizzazione di un impianto di tali dimensioni non sia poi strettamente necessario. Come si evince dai dati riportati, l’Etiopia consuma i 2/3 dell’elettricità che produce. Dunque, Gibe III sembrerebbe essere una infrastruttura la cui realizzazione viene promossa per lo sviluppo dell’Etiopia, ma che se calata nei bisogni energetici etiopi contemporanei, risulta essere sovradimensionata. Questi dati mostrano un ulteriore problema: la produzione interna totale di energia elettrica è di circa 15.000 Gwh con i restanti 550Gwh prodotti tramite energia eolica e, in minima parte, solare.  Questo dato descrive una fortissima dipendenza del paese dall’Energia idroelettrica rendendolo estremamente vulnerabile a eventuali eventi imprevisti nel settore. La compresenza di queste mega dighe, e l’inevitabile effetto negativo in termini di dissesto idrogeologico, assieme alle caratteristiche geologiche dell’area, secondo alcuni studi farebbero pensare ad un’alta probabilità che si possano verificare terremoti di magnitudo compreso tra il 7 e l’8 nel giro dei prossimi cinquanta anni. Questo dato metterebbe fortemente a rischio la sicurezza energetica del paese in quanto eventuali danneggiamenti a

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INCHIESTA SUL CAMPO PROFUGHI DI KAKUMA: inferno terrestre per i migranti LGBTQ+

Per questo approfondimento abbiamo intervistato Tobias Pellicciari, Direttore di International Support – Human Rights “Migration and Asylum Program in Europe”. Tobias lavora da anni nel settore dell’accoglienza di migranti e rifugiati in Europa, con una particolare attenzione alle minoranze sessuali. Grazie alla sua esperienza ed alle interviste ad alcune delle vittime svolte dal team di LMPride, in questo articolo di inchiesta siamo in grado di restituire un quadro completo di quelle che sono le condizioni in cui i migranti LGBTQ+ sono costretti a vivere in Kenya. Ci focalizziamo in particolar modo sul campo profughi di Kakuma, gestito dall’Alto Commissariato per i Rifugiati – anche noto come UNHCR. Noi di Large Movements abbiamo già raccontato di come l’omofobia in Kenya sia una problematica tuttora presente in qualsiasi strato ed aspetto della società e del vivere civile e di come la comunità LGBTQ+ kenyota sia fortemente stigmatizzata ed emarginata. In questa intervista invece, vogliamo far luce sulle condizioni di migranti e richiedenti asilo che, scappati dal proprio Paese di origine, per lo più dall’Uganda, vengono discriminati in ragione del proprio orientamento sessuale ed identità di genere. Anche questi richiedenti vengono ospitati all’interno del campo profughi gestito da UNHCR a Kakuma. Fotografia dell’area Kakuma si trova nell’area nordoccidentale del Kenya, precisamente nella contea di Turkana, nella Rift Valley. Il campo profughi che si trova vicino alla città è stato fondato nel 1992 per ospitare 16.000 tra ragazzi e ragazze in fuga dalla guerra in Sudan. Oggi ospita più di 200.000 persone, diventando così uno dei campi profughi più grande al mondo. L’area in cui il campo sorge è prevalentemente arida e fortemente soggetta agli effetti dei cambiamenti climatici, che rendono quasi del tutto incoltivabili i terreni, sempre più minacciati dall’avanzamento del deserto. Il campo profughi di Kakuma è stato allestito in una zona isolata e fuori dai centri di aggregazione della città perché, a detta del governo keniota, in questo modo si tutela la sicurezza sia della popolazione locale che degli ospiti del campo. Questo rende ancor più difficile per rifugiati e richiedenti asilo che si trovano a Kakuma poter accedere a tutta una serie di servizi essenziali (ospedale, impiego ecc…). Per di più, le condizioni di vita all’interno del campo sono al limite – se non al di sotto – di ogni standard minimo di dignità umana: ci sono spesso infestazioni di insetti, il cibo scarseggia e la situazione igienico-sanitaria è al collasso. Le già ostiche condizioni di vita delle persone residenti a Kakuma, si complicano ancora di più, se ci si focalizza sulla comunità LGBTQ+ e sugli ospiti del campo che attendono l’asilo. Molte di queste persone, anche se non tutte, sono ospitate in settori separati (denominati anche “blocchi”) rispetto al restante dei residenti di Kakuma, per meglio garantirne la sicurezza – a detta del personale dell’UNHCR. Cosa vuol dire vivere a Kakuma per una persona LGBTQ+ Secondo i ragazzi intervistati, l’ulteriore isolamento in cui versa la comunità LGBTQ+ presente a Kakuma ha aggravato le condizioni di vita di questa categoria vulnerabile di migranti. L’averli posti in blocchi separati infatti, li ha resi più visibili e, quindi, più facilmente riconoscibili dagli altri ospiti in quanto LGBTQ+. Questi ultimi provengono molto spesso dagli stessi Paesi di origine dei richiedenti queer – prevalentemente Uganda e Somalia – quindi sono portati a mettere in atto gli stessi comportamenti omofobi, le stesse violenze e le vessazioni che hanno spinto gli ospiti LGBTQ+ di Kakuma a lasciare la propria terra. Rendendoli maggiormente visibili – confinandoli tutti nella stessa area – dunque, l’UNHCR avrebbe aumentato di fatto il rischio per i migranti LGBTQ+ di subire persecuzione e violenza. Questi atti violenti e brutali sono perpetrati all’ordine del giorno all’interno del campo di Kakuma e tutte le vittime con le quali abbiamo parlato lamentano di non aver ricevuto una vera e propria protezione da UNHCR che, molto spesso, non risponde alle loro richieste di aiuto e/ tutela. La situazione non è migliore per coloro che non risiedono nei blocchi separati. Questi ultimi, infatti, sono comunque noti agli altri ospiti come persone queer e sono soggetti agli stessi attacchi ed alle stesse violenze. Molti migranti LGBTQ+ di Kakuma si sono ritrovati a vivere fuori dalle baracche, dormendo all’aria aperta per proteggersi a vicenda, se non addirittura per strada a Nairobi. In questo modo si sentono comunque più sicuri rispetto a dormire negli alloggi loro assegnati nel campo. Molto spesso tra loro ci sono donne lesbiche con i loro figli, anche loro vengono sottoposti alle stesse violenze subite dalle loro madri. La decisione di dormire all’esterno arriva dopo una serie di roghi appiccati dagli altri residenti agli alloggi dei migranti queer, mentre gli stessi dormivano all’interno. Emblematico, come la situazione sia fuori controllo all’interno del campo e delle gravi mancanze del personale di UNHCR nella tutela di questa categoria vulnerabile di migranti, fu il caso del rogo del 15 marzo 2021, nel quale due ragazzi omosessuali sono stati bruciati vivi da altri residenti del campo di Kakuma. Per due lunghi giorni, UNHCR non ha neanche fornito una vera e propria assistenza sanitaria alle vittime dell’incendio, rimasti nel campo senza nemmeno avere accesso ad appropriate cure mediche. Dopo una fortissima pressione da parte di International Support – Human Rights, UNHCR ha trasferito i due ragazzi in ambulanza in un ospedale distante 125km da Kakuma, nonostante il personale stesso dell’ambulanza e la comunità locale avessero indicato l’ospedale di Nairobi come l’unico equipaggiato per curare la tipologia di ustioni riportate dai due ospiti. Finalmente, il 18 marzo, UNHCR – su pressione della Commissione Europea, allertata da Tobias – ha trasportato le vittime all’ospedale di Nairobi in eliambulanza. Purtroppo, uno dei due ragazzi è morto a seguito delle gravissime ustioni riportate e, soprattutto, della mancata assistenza medica tempestiva ed adeguata. L’unica dichiarazione rilasciata da UNHCR a seguito di questa tragedia risale a quasi un mese dopo ed è consistita in una generica richiesta alle autorità kenyote di investigare. Le indagini hanno immediatamente portato al riconoscimento dell’aggressore, che però ad oggi è ancora a

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Etiopia: un mosaico etnico alla base di una crisi umanitaria.

Il conflitto nel Tigrai ed i rapporti con l’Eritrea Con la sua posizione strategica nel Corno d’Africa, vicino al Medio Oriente ed ai suoi mercati, l’Etiopia è simbolo di autonomia e distinzione rispetto ai restanti Paesi africani. Lo Stato si è infatti dimostrato capace di resistere alla colonizzazione, ad eccezione dei 5 anni durante la guerra italo-etiope, quando fu colonia dell’Africa Orientale Italiana. Il territorio etiope è diviso in 9 regioni e caratterizzato da un mosaico composto da 80 etnie e nazionalità diverse, in cui si parlano 83 lingue e 200 dialetti. A partire dalla Costituzione del 1995 il potere viene ripartito in base alle etnie, dando vita a quello che viene definito federalismo etnico. Per comprendere lo scenario politico-strategico attuale dell’Etiopia quindi, è essenziale analizzare quali siano le principali etnie che storicamente risiedono sul territorio. I gruppi etnici maggioritari dell’Etiopia sono gli Oromo (36%), gli Amara (27%), i Somali (6%) e i Tigrini (6%). L’ Oromia è la più grande regione del Paese e gli Oromo rappresentano circa un terzo del totale degli abitanti. Derivanti da un’antica popolazione di pastori nomadi, gli Oromo iniziano ad integrarsi sul territorio etiope dal XVIII secolo. La loro lingua è stata la lingua ufficiale della Corte di Gondar, antica capitale imperiale dell’Etiopia. La regione di Amara, da cui prende il nome l’omonima etnia, ospita il secondo gruppo etnolinguistico, rappresentando quasi un terzo della popolazione. Nel corso della storia etiope gli Amara hanno dominato a lungo e la loro lingua è stata la lingua ufficiale fino agli anni ’90 e rimane tuttora la più parlata. Ù Tra il 1974 e il 1991, i rapporti tra gli Oromo e gli Amara iniziano ad inasprirsi dato che i primi rivendicano un ruolo sempre più centrale. Dopo il 1991, gli Amara si posizionano apertamente contro i Tigrini – di cui si dirà a breve. Al giorno d’oggi la situazione è tesa soprattutto nel territorio del Wolkait, distretto al confine tra le due regioni ma amministrato dal Tigrai. I Somali risiedono principalmente nella provincia dell’Ogaden, regione alquanto ambita per la sua ricchezza di giacimenti di petrolio e gas naturale, più volte oggetto di scontri tra Addis Abeba e l’Ogaden Liberation Front, forza autonomista. I Tigrini occupano la regione nord del Tigrai. Prima di scoprire questa regione e le sue complessità, una parentesi linguistica dell’utilizzo del termine Tigrai è necessaria. La regione viene ancora troppo spesso chiamata Tigrè, che è il nome con cui gli Amara chiamano dispregiativamente i Tigrini. Tigrè nella lingua locale significa “sotto il mio piede”, cioè servo. Già a partire da ciò si può comprendere la linea di tensione che separa le etnie etiopi. La minoranza etnica nel Tigrai rappresenta il 6% con i suoi quasi 6 milioni di abitanti, sui 110 totali. Per la posizione geografica la cultura tigrina è molto vicina a quelle eritrea. Tigrini ed Eritrei hanno anche combattuto insieme contro la dittatura di Mengistu, Capo di Stato etiope tra il 1977 e 1991. In tale contesto, Meles Zenawi viene ricordato per aver fondato l’Ethiopian People Revolution Democratic Front (EPRDF), partito che formò la coalizione con i partiti Oromo ed Amara. Zenawi è stato anche il fautore del federalismo etnico etiope, dividendo il territorio in 13 province. Da un lato, tale sistema ha rinforzato il potere dei partiti regionali, rappresentati dalle rispettive etnie; dall’altro, tale divisione ha creato una successiva suddivisione in classi sociali, sfociando in proteste e scontri per motivi non più etnici ma economico-politici. Uno dei maggiori partiti politici del paese è proveniente proprio da questa regione: il Tigray People’s Liberation Front (TPLF) che ha dominato il paese per ben 27 anni, dalla fine della Guerra Civile etiope (1974). A partire da questa ultima etnia, ci addentriamo nel conflitto della regione del Tigrai le cui tensioni, dallo scorso novembre 2020, stanno facendo riemergere molti dei problemi che sembravano apparentemente risolti con l’elezione dell’attuale Primo Ministro Abiy Ahmed. L’Etiopia è attualmente coinvolta in una “spirale incontrollabile di sofferenza per la sua popolazione civile”. Il 4 novembre nella regione del Tigrai è stato dichiarato lo stato d’emergenza ed il Primo Ministro ha inviato delle truppe militari federali in risposta ad un presunto attacco contro una caserma dell’esercito nazionale. A seguire, tra il 13 e il 14 novembre il partito tigrino TPLF ha lanciato dei missili contro due aeroporti nel territorio controllato dal governo federale. La risposta del governo federale si è presentata il giorno immediatamente successivo, dichiarando di aver preso il controllo di Alamata, centro abitato nella regione del Tigrai e mandando un ultimatum alle forze regionali. Dal 4 novembre si parla di una vera e propria crisi umanitaria: le Nazioni Unite, insieme all’appello di numerose organizzazioni internazionali hanno denunciato la morte di migliaia di civili e il numero di persone costrette a fuggire è aumentato in maniera esponenziale. Si è parlato di città ricoperte di cadaveri e di massacri in tutti i dipartimenti della regione, come quello della città di Mai-Kadra, dove la stima delle vittime tra il 9 ed il 10 novembre è arrivata a 600. In tale contesto, la libertà di espressione dei giornalisti eritrei e dei mezzi di informazione internazionali, è rimasta ed è tuttora silente date le minacce che incombono sulla stabilità dell’intera regione, insieme ad un improvviso blackout che ha reso tutti i supporti elettronici inutilizzabili. “Le uniche persone che hanno accesso a quello che sta succedendo sono le truppe etiopi e le milizie”. Il 7 dicembre il governo centrale ha annunciato la fine dell’offensiva militare delle sue truppe e l’amministratore provvisorio del Tigrai ha dichiarato che la pace è nuovamente tornata. Tuttavia, una crisi umanitaria non termina da un giorno all’altro, soprattutto data la dimensione di radicalizzazione regionale che caratterizza il conflitto del Tigrai e quanto riportato da quelle poche testimonianze che riportano la situazione in loco.         L’ONU si è mobilitato ed ha firmato un accordo con la regione per “consentire un accesso illimitato, sostenuto e sicuro per le forniture umanitarie”. Nell’accordo si specifica che tali aiuti saranno diretti anche alle regioni di Amara

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La voce queer di Kakuma: la storia di J.

Nei nostri due precedenti articoli abbiamo parlato dei diritti LGBTQ+ in Kenya e delle violazioni dei diritti umani che avvengono all’interno del campo profughi di Kakuma.  Proseguendo, dunque, l’inchiesta che Large Movements APS sta portando avanti insieme ad International Support Human Rights, in questa sezione di approfondimento cercheremo di analizzare la situazione specifica di J., nome di fantasia di uno degli ospiti gay di Kakuma con i quali abbiamo avuto modo di parlare.  Come tanti altri che vivono a Kakuma, J. ha lasciato il suo Paese d’origine a causa delle discriminazioni subite da amici e familiari in ragione della sua omosessualità, per cercare rifugio nel vicino Kenya. Speranza e desiderio di libertà lo hanno accompagnato lungo il suo viaggio, ma la realtà delle cose si è rivelata molto più cruda e dura di quanto potesse immaginarsi. La testimonianza di J. Durante l’intervista, J. ha utilizzato frequentemente le parole contenute nella cosiddetta “Word Cloud” (letteralmente “nuvola di parole”) rappresentata di seguito. Le parole più evidenti sono quelle che J. ha utilizzato con maggiore frequenza durante l’intervista. Come possiamo notare facilmente, questi vocaboli ci restituiscono una fotografia particolarmente amara della cruda realtà che J. e gli altri ospiti LGBTQ+ di Kakuma sono costretti a sopportare:  Arrivo a Kakuma. J. è un cittadino ugandese, costretta a scappare dal suo Paese in quanto, a causa della sua omosessualità, ha subito violenze da parte di amici, familiari e dal governo nazionale. È fuggito così in Kenya ed è arrivato a Kakuma il 3 marzo 2020. Una volta lì, l’amministrazione del campo gli ha confiscato il passaporto e la carta d’identità nazionale che, ad oggi, non gli è stata ancora restituita. Successivamente, è rimasto per 20 giorni nell’area di prima accoglienza per poi essere successivamente trasferito all’interno del campo vero e proprio. Già nell’area di accoglienza, J. racconta di aver ricevuto le prime minacce di morte da parte di altri rifugiati che lo hanno spaventato a tal punto da ricordare ancora la grandissima paura provata al momento del trasferimento nel campo di Kakuma con il resto degli ospiti. L’incendio e le prime violenze. Il 13 aprile la casa in cui alloggiava è stata data alle fiamme e, dopo essere svenuto a causa del fumo, J. è stato portato all’ospedale del campo dalla polizia, risvegliandovisi il giorno successivo. Qui ci racconta di essere stato molestato dal personale dell’ospedale, i quali sostenevano che non sarebbe avvenuto alcun rogo se le persone LGBTQ+ non vivessero a Kakuma. Il giorno dopo l’incidente alcuni membri dello staff di UNHCR e del governo kenyota si sono recati sul posto per valutare la situazione, assicurando a J. che avrebbero agito quanto prima contro i responsabili. Ad oggi, J. è ancora in attesa di aggiornamenti circa lo stato delle indagini.  Poche settimane dopo, continua l’intervistato, mentre lui ed alcuni suoi compagni stavano raccogliendo l’acqua, sono stati aggrediti e picchiati da alcuni cittadini etiopi ospiti del campo. Gli aggressori sostenevano che gli ospiti omosessuali di Kakuma non potessero bere la loro stessa acqua, altrimenti li avrebbero contaminati. Anche in questo caso, J. ha denunciato l’aggressione alla polizia del campo, che gli ha assicurato che avrebbe avviato delle indagini e che avrebbe richiamato tutte le vittime dell’aggressione successivamente per raccoglierne le testimonianze. Una volta recatisi nuovamente dalla polizia del campo però, alle vittime è stato chiesto di togliersi le scarpe e sono stati costretti a trascorrere la notte in cella. La mattina dopo sono stati portati alla stazione di polizia di Kakuma, dove gli agenti presenti li hanno chiamati froci di fronte agli altri detenuti. Questo li ha esposti ad ancora ulteriori pericoli dal momento che sono stati costretti a rimanere – immotivatamente – per tre giorni in cella con persone potenzialmente omofobe alle quali la loro omosessualità era stata rivelata.  Dopo essere tornati all’interno del campo, J. ed altre persone hanno continuato a denunciare nuovi casi di aggressione, ricevendo sempre la stessa risposta: non essendoci abbastanza prove a supporto di quanto denunciato dalle vittime, nessuna azione formale può essere intrapresa dalla polizia kenyota né dallo staff di UNHCR di Kakuma. Gli attacchi continuano, ma nessuno lo ascolta. Il 27 aprile 2020 J. ed altre persone LGBTQ+ residenti a Kakuma si sono recate presso la struttura dell’UNHCR chiedendo protezione, ma le loro richieste sono state definite delle “semplici” proteste non autorizzate e come tali neanche esaminate. Dopo poco tempo da questi fatti, J. ed altri membri della comunità LGBTQ+ di Kakuma hanno subito ulteriori aggressioni da parte dei residenti del campo. Durante questi attacchi, J. è stato ferito al basso ventre riportando lesioni talmente gravi da costringerlo ad urinare sangue per molti mesi ed è anche stato gravemente ferito al braccio (aggredito con un machete mentre recuperava il telefono dall’area di ricarica del campo). A seguito di quegli attacchi repressivi, continua J., altre 40 persone sono state portate in ospedale.  Il 15 marzo 2021, J. è stato nuovamente attaccato con una bomba molotov durante la notte. Ha trascorso dieci mesi in ospedale per riprendersi da quell’aggressione, mentre riceveva molestie dal personale e cure mediche scadenti dall’ospedale, con medicazioni mancate delle ferite al punto che le sue “gambe hanno iniziato a marcire”. È stato poi trasferito in una struttura privata a Nairobi, dove la sua sicurezza non era ancora garantita perché sia lui che gli altri ospiti, erano costantemente minacciati di subire nuovi attacchi nel futuro a causa del loro orientamento sessuale.  Naturalmente, tutta questa situazione è stata denunciata da J. all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ed alle autorità del Kenya, senza che venisse intrapresa alcuna azione per fornirgli la protezione di cui ha diritto.  L’attesa. Dopo gli attacchi, J. ha chiesto di essere trasferito in una struttura più sicura. È stato poi intervistato per il riconoscimento dello status di rifugiato nel febbraio 2022. Ora è in attesa della conferma della sua condizione di rifugiato. Procedura questa che, secondo quanto gli è stato detto, avrebbe dovuto richiedere un massimo di sei mesi ma per la quale non ha ancora ricevuto esito.  Le condizioni di vita a Kakuma si sono rivelate a

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MINORANZE RELIGIOSE CRISTIANE IN ALGERIA: tra normative limitanti e migrazioni

Quanto avvenuto ad inizio anno 2020 in Algeria è stato un vero e proprio “campanello di allarme” per la comunità internazionale. Un ingente flusso migratorio è stato registrato in Italia, in particolare sulle coste della Sardegna meridionale, proveniente proprio dal territorio algerino.   A renderlo noto alla comunità internazionale ed europea sono state delle interrogazioni parlamentari (in particolare: E-002954/202; E-004214/2020), provenienti da differenti partiti.   Andando a ritroso ed analizzando la situazione politica e sociale interna dell’Algeria, la questione relativa alla libertà di religione o credo ed alla protezione delle minoranze religiose è diventata, con il passare del tempo, insostenibile per la popolazione.   Cosa è successo negli ultimi anni in Algeria, in particolare alle minoranze religiose?  QUADRO POLITICO E SOCIALE  In Algeria, se si parla di situazione politica e sociale, è evidente come la volontà generale della comunità internazionale sia quella di creare uno Stato più inclusivo. Il fine è quello di cambiare ed adattare le prassi nazionali in materia di libertà fondamentali agli standard internazionali, ma il governo algerino non è della stessa opinione.  Nel 2019 movimenti di protesta hanno tentato di rovesciare l’ordine precedente riuscendo ad eleggere un nuovo presidente, Abdelmadjid Tebboune, ed a promulgare una nuova costituzione. Nonostante questo passo avanti nello sviluppo democratico e sociale del paese, le tutele e le garanzie di rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti politici sono ancora lontane dall’essere definite e protette.  Tra le libertà fondamentali più violate ci sono la libertà di religione o credo e la protezione delle minoranze religiose.  I cristiani algerini da sempre convivono con la popolazione musulmana pacificamente. Ma il governo nazionale non considera invece altrettanto pacificamente la presenza cattolica sul territorio algerino.  I cristiani – principalmente coloro di credo protestante – parte dell’Evangelical Protestant Association (EPA), si trovano in affanno, a causa della privazione dei loro diritti fondamentali connessi al credo religioso, come evidenziato dal Religious Freedom Institute, nel Cornerstone Forum circa Algeria’s Opportunity for Freedom.   Il governo locale, infatti, ha da sempre esercitato una sorta di potere coercitivo sulle chiese cristiane di tutto il Paese, arrivando ad imprigionare i fedeli.   QUADRO NORMATIVO  Il Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR), che l’Algeria ha ratificato, istituisce un obbligo in capo ai governi di garantire la libertà di religione, di pensiero e di coscienza di ogni persona sul territorio nazionale. Vale la pena sottolineare che gli articoli 18 e 27 del ICCPR statuiscono che queste libertà trovano applicazione anche nei confronti delle minoranze religiose, spesso abbandonate.   In altre parole, quindi, le disposizioni del patto mirano a garantire a tutti la possibilità di esercitare liberamente la propria religione o credo in ambienti pubblici e privati, singolarmente od a livello comunitario. Dette norme pertanto, si dovrebbero applicare anche ai cristiani algerini.  Nella Costituzione dell’Algeria la libertà religiosa è esplicitata e protetta, ma, allo stesso tempo, è affermato che “questa libertà deve essere esercitata nel rispetto della legge“.  La Legge 06-03 a cui si fa riferimento nella Costituzione è quella del 28 febbraio 2006, emanata dopo le numerose vicende legate alla violenta guerra civile che ha investito l’Algeria.  Il sopracitato testo legislativo tenta di controllare e limitare il culto per tutti coloro che non sono di fede musulmana, come analizzato anche da Human Rights Watch. In particolare, si riferisce a specifiche pratiche, come quella dei culti collettivi e del proselitismo.   I culti collettivi vengono limitati dalla legge ad alcuni luoghi, solo dopo aver ottenuto un via libera delle Commissioni nazionali che si occupano delle pratiche religiose. La legge statuisce inoltre che dette concessioni vengono garantite solo ad organismi religiosi giuridicamente riconosciuti dal governo algerino.  Per quanto riguarda il proselitismo cristiano, questo è considerato un vero e proprio reato penale, punito con una sanzione pecuniaria e la reclusione. Queste sono misure che vengono principalmente attuate nel momento in cui detto proselitismo viene perpetrato nei confronti di un fedele musulmano, essendo una pratica altamente condannata anche dalla religione musulmana stessa.  La legge ha creato un sistema secondo il quale le chiese locali, per ottenere l’identità legale e quindi esercitare la propria fede sul territorio, dovrebbero presentare una petizione ad un Comitato ad hoc. Il Comitato a sua volta ha facoltà di concedere o meno l’autorizzazione e di porre delle limitazioni in maniera tale da “non intaccare” in nessun modo la fede principale del Paese: l’Islam.  Nel 2012, solo sei anni dopo l’emanazione della legge sopra in commento, ne è stata emanata un’altra volta a limitare ulteriormente l’identità legale dei cristiani algerini, i quali sono stati obbligati così a doversi registrate per poter continuare a professare “liberamente” la loro fede.  La situazione non è migliorata con il passare degli anni.  Il governo, infatti, ha ostacolato e perseguitato tutti i cristiani algerini presenti sul territorio a partire dalle violentissime persecuzioni perpetrate nei loro confronti negli anni ‘90, che hanno generato instabilità nella popolazione e destato altrettanta preoccupazione nella comunità religiosa ed internazionale.  Ad oggi, come abbiamo visto, la situazione non risulta particolarmente migliorata, e sempre meno fedeli frequentano le Chiese per paura di ritorsioni da parte delle autorità locali. Ritorsioni queste, attuate soprattutto nei confronti dei cristiani protestanti, che trovano fondamento legale proprio nella legge del 2006 sopra citata.  Conseguentemente, il governo algerino ha deciso di trasformare molte di queste Chiese – ormai abbandonate – in moschee e, dal 2018, ha avviato una vera e propria campagna nazionale per invitare alla chiusura di tutte quelle protestanti.   La popolazione algerina combatte da anni questa situazione di instabilità sociale che ha portato all’oppressione alla quale si assiste al giorno d’oggi. Integrazione sociale e convivenza religiosa, infatti, potrebbero diventare i cardini dello Stato algerino, se non ci fosse un quadro normativo così categorico in materia di libertà delle minoranze religiose.   Lo sviluppo e l’adeguamento dell’Algeria nel contesto internazionale di tutela delle minoranze religiose sarebbe sicuramente un valore aggiunto per le comunità, che vedrebbero diminuire i conflitti su base religiosa, che ad oggi esistono.  SITUAZIONE ATTUALE  Come abbiamo visto, l’instabilità religiosa si riflette in instabilità sociale ed è la causa di anni di conflitti interni al Paese. Questo spinge i perseguitati alla fuga, soprattutto tramite il Mar Mediterraneo.  La violazione della libertà religiosa diventa dunque, nel contesto dell’Algeria, il motore principale delle migrazioni.   Dal fallimento della sua tutela e protezione nascono problemi non solo sociali, ma anche politici, militari, di sicurezza, ma soprattutto internazionali.   La preoccupante situazione in Algeria allarma la comunità internazionale

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