MELUSI SIMELANE: IL CIELO DI ESWATINI SI RIEMPE DI ARCOBALENI

Melusi Simelane è un’attivista per i diritti LGBTQIA+ di Eswatini, Paese dell’Africa meridionale conosciuto fino al 2018 come Swaziland e governato dall’unica monarchia assoluta del continente. Nel 2018 Melusi ha organizzato il primo Pride del Paese e successivamente ha fondato la Eswatini Sexual and Gender Minorities (ESGM), organizzazione che ha l’obiettivo di promuovere i diritti delle persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+.

LA LOTTA PER L’ACCETTAZIONE

L’Eswatini è una delle 32 nazioni africane che considerano ancora l’omosessualità un crimine, a causa della persistenza nell’ordinamento giuridico del Paese di una legge omofoba introdotta durante la colonizzazione britannica.

Nonostante non ci siano prove che dette norme siano mai state applicate, il testo rimane in vigore perché la Costituzione di Eswatini prevede che qualsiasi disposizione legislativa adottata prima dell’indipendenza del 1968 deve continuare ad essere applicata.

Proprio perché l’omofobia è ben radicata nella società sin dall’inizio della colonizzazione del Paese, il contrasto alla sua diffusione e la battaglia per una società più inclusiva sono molto complessi. Come se non bastasse poi, anche la Chiesa e le più alte cariche dello Stato hanno fatto propri i sentimenti di odio nei confronti della comunità LGBTQIA+. Il Re Mswati III infatti, ha pubblicamente dichiarato che le relazioni tra persone dello stesso sesso hanno origini sataniche e l’ex Primo Ministro Barnabas Dlamini ha definito l’omosessualità un’anormalità ed una malattia.

Conseguenze dirette dell’ostilità e del pregiudizio nei confronti dei membri della comunità LGBTQIA+ di Eswatini sono aggressioni, violenze e perfino omicidi, che spesso non vengono effettivamente perseguiti dalle autorità. Per offrire una rete di sicurezza informale alle persone LGBTQIA+ del suo Paese, dunque, Melusi Simelane ha deciso di fondare la sua organizzazione.

Nel 2022 la ESGM ha ricevuto da parte dell’Alta Corte di Eswatini il diniego di registrarsi presso il Registro delle Imprese perché, secondo il giudice Mumcy Dlamini, il vero scopo dell’organizzazione sarebbe quello di diffondere informazioni sulle pratiche sessuali tra le persone dello stesso sesso. Sebbene la Corte Suprema di Eswatini abbia annullato la decisione dell’Alta Corte, avvalendosi dell’articolo 33 della Costituzione, che garantisce il diritto ad essere trattati secondo i requisiti fondamentali di giustizia ed equità davanti a qualsiasi autorità amministrativa, il Ministro del Commercio, dell’Industria e del Mercato ha comunque rifiutato la registrazione dell’ESGM.

LA FIGURA DI MELUSI

Come abbiamo visto, il contesto socio-culturale di Eswatini è fortemente caratterizzato dall’omofobia, che è ampiamente diffusa sia tra la popolazione che tra le istituzioni del Paese. Questo rende ancora oggi impossibile per tante persone queer vivere apertamente la propria identità e/o il proprio orientamento sessuale.

Lo stesso Melusi Simelane nel corso della propria vita ha subito discriminazioni a causa della sua omosessualità. Come racconta lui stesso in varie interviste, infatti, è stato vittima di bullismo a scuola, ha subito violenza sessuale, aggressioni da parte di sconosciuti, tentativi dei vicini di screditarlo agli occhi del padrone di casa, stalking e perquisizioni arbitrarie della polizia. Nonostante tutto questo però, ha deciso di rimanere in Eswatini per portare avanti la battaglia per dar vita ad una società più inclusiva.

Grazie alla sua costanza ed al suo coraggio Melusi Simelane è riuscito ad organizzare il primo Pride di Eswatini che è riuscito ad ottenere risonanza internazionale e nazionale, nonostante i tentativi del governo di minimizzare l’impatto dell’evento sia sulla popolazione che sull’assetto sociale del Paese.

Con riferimento alla pronuncia del Ministro del Commercio, dell’Industria e del Mercato, in aperto contrasto con la decisione della Corte Suprema, Melusi Simelane dichiara che questo non riuscirà ad impedire il lavoro di advocacy che ESGM sta portando avanti, anzi ha rafforzato ancora di più la voglia di combattere per realizzare un vero cambiamento.

In occasione del Pride Month, noi di Large Movements APS abbiamo scelto di dar voce a storie come quella di Melusi Simelane affinché, in un momento di festa per la comunità LGBTQIA+ occidentale, non ci si dimentichi che in tante parti del mondo quelle conquiste sono ancora lunghe dall’essere acquisite. E volevamo farlo tributando il lavoro di coloro che ogni giorno si battono per veder riconosciuti i diritti della comunità LGBTQIA+.

Ci auguriamo che, grazie al lavoro di Melusi e di ESGM, il governo di Eswatini decida finalmente di eliminare dal proprio ordinamento giuridico una legge espressione del sentimento e della cultura di un popolo completamente diverso da quello che attualmente abita il Paese, mettendo in atto un processo rapido e concreto che porti alla decriminalizzazione dell’omosessualità.

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Leymah Gbowee per i diritti delle donne liberiane

Nell’Ottobre 2011 Leymah Gbowee, Ellen Johnson Sirleaf e Tawakkul Karman ricevettero il Premio Nobel per la Pace in conseguenza de “la loro lotta non violenta in favore della sicurezza delle donne e del loro diritto a partecipare al processo di pace”. Oggi parliamo di Leymah Gbowee e del suo perpetuo impegno per i diritti delle donne. La guerra civile in Liberia: Gbowee inizia il suo lavoro come attivista insieme al gruppo “Liberia Mass Action for Peace (LMAP)” nell’aprile 2003. La Liberia, suo paese natale era in uno stato di guerra civile da ormai 14 anni. Tutto era iniziato, nel 1989 quando Charles Taylor era entrato in Liberia e, aiutato dalle forze ribelli del Fronte Nazionale Patriottico per la Libertà, aveva minacciato la capitale, Mongrovia, e il governo di Samuel Doe. Dopo nove mesi, Doe fu ucciso e Taylor prese il potere. Questo non fermò le ostilità e nonostante Taylor vinse le elezioni presidenziali del 1997 con il 75% dei voti, quello stesso anno scoppiò una nuova guerra civile. Tra il 1989 e il 2003 morirono più di 270.000 persone, la mortalità neonatale era di 157 morti ogni 1000 nati e la mortalità infantile nei bambini minori di 5 anni era di 235 su 1000. Come conseguenza de conflitto e dell’alto tasso di mortalià infantile, l’80% della popolazione rurale fu costretto alla migrazione. Il conflitto fu purtroppo caratterizzato dall’uso indiscriminato dello stupro da parte di tutte le parti coinvolte, comprese le truppe internazionali intervenute per ristabilire la pace. Gbowee e le altre attiviste del LMAP iniziarono quindi a protestare per le violenze: la loro retorica era basata su motivazioni concernenti il benessere dei bambini e il futuro del paese. Usarono in particolare tre tattiche: organizzarono manifestazioni pubbliche per rimarcare che le vere vittime del conflitto erano le donne e i bambini, minacciarono di spogliarsi in pubblico e costituirono un’agenda politica per la difesa dei diritti delle donne sia a livello nazionale che internazionale. Taylor si dimise nell’Agosto 2003 e fu costretto all’esilio in Nigeria. Un accordo di pace fu firmato e nel 2005 furono tenute le elezioni presidenziali che videro la vittoria di Ellen Johnson Sirleaf: prima donna ad essere eletta presidente in uno Stato africano.  Il ruolo delle donne nei negoziati di pace: Decisive per la pace furono le azioni di Gobwee e del LMAP. Vediamo insieme perché queste donne furono così influenti. Per prima cosa le donne evidenziarono il fatto che la guerra aveva portato solo morte e distruzione. Non era una guerra per la terra, il denaro o il potere politico: era una guerra che sterminava madri e bambini. Dopodiché Gbowee e le altre attiviste misero l’accento sul loro status di madri e donne e dunque di “custodi della società”. Misero in risalto il loro ruolo di madri e sorelle degli uomini convolti nel conflitto e sottolinearono l’importanza dell’unità nazionale basata sulla famiglia. Questa retorica funzionò in quanto in Libera il ruolo delle donne, come madri, è molto forte e vi è un senso di rispetto verso coloro che sono viste come creatrici e sostenitrici della comunità e della nazione. Gli uomini decisero dunque di presenziare ai negoziati di pace perché le loro “madri” lo avevano richiesto. Nonostante ciò, le parole da sole non furono abbastanza per portare ad un vero e proprio accordo di pace, e allora le donne passarono all’azione usando un atto ad elevato valore simbolico: si spogliarono deliberatamente in pubblico. Il 21 luglio Gbowee e le altre attiviste entrarono nell’edifico dove si svolgevano i negoziati e si sedettero fuori dalla stanza dove gli uomini stavano discutendo. Quando furono minacciate di arresto, Gbowee dichiarò che non si sarebbe opposta ma che prima si sarebbe spogliata e si sarebbe mostrata all’assemblea nuda. Successivamente spiegò che in Africa è considerata una terribile maledizione il vedere una donna, sposata e anziana, spogliarsi deliberatamente in pubblico: quell’azione avrebbe evidenziato in modo incontestabile la profonda disperazione delle donne Liberiane. Inoltre, spogliandosi, avrebbe privato gli uomini della loro “mascolinità” e della forza che avevano usato impunemente durante tutto il conflitto, stuprando e uccidendo senza ritegno. Così facendo, Gbowee si stava riappropriando della sua vita e del suo corpo, e nel frattempo smetteva di essere una vittima inerme e diventava politicamente potente e influente. Le attiviste dichiararono che avrebbero lasciato l’edifico solo quando Taylor e le altre parti coinvolte avrebbero preso attivamente parte ai negoziati. I negoziati, dunque, ripresero e infine fu trovato un accordo. L’importanza del lavoro di Leymah Gbowee nel mondo: Dopo la firma degli accordi di pace e la fine della guerra, Gbowee continuò i suoi sforzi politici anche fuori dai confini Liberiani. Nel 2006 fondò il Women Peace and Security Network Africa (WIPSEN-Africa) che si occupa di promuovere “la partecipazione strategica delle donne e la loro leadership nelle politiche di pace e sicurezza in Africa”. In tutti i suoi discorsi e le sue azioni Gbowee sottolinea il potere delle donne comuni e il valore simbolico del corpo femminile. Per combattere il patriarcato e promuovere il potere delle donne come agenti di cambiamento politico, è fondamentale unirsi come donne, madri, sorelle ed esigere l’uguaglianza di genere. Noi di Large Movements condividiamo questo pensiero e abbiamo ritenuto importante condividere con voi la storia di Leymah Gbowee che ha dimostrato al mondo l’influenza che possono avere le donne nei processi di pace ed il vero potere del pacifismo. Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

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LA PIRATERIA SOMALA

La pirateria somala viene spesso descritta solo ed esclusivamente come criminale, e se invece espletasse anche un’altra funzione, ossia quella di guardiani del mare? In questo articolo si cercherà di indagare la natura del fenomeno nonostante le fonti che risaltano una visione alternativa a quella diffusa internazionalmente siano poche. Il tentativo sarà dunque, quello di individuare gli indizi funzionali a definire la pirateria non solo come criminale, ma come “forza” di difesa alternativa delle acque, servizio di cui il Governo di Transizione non riesce a farsi carico pienamente. Contesto storico La pirateria moderna, che si è sviluppata soprattutto in aree geopoliticamente strategiche, ha assunto tutti i caratteri della definizione storica di “predone del mare”. A differenza dei suoi analoghi, la pirateria somala ha acquisito caratteristiche diverse che l’hanno resa un fenomeno particolarmente difficile da studiare e, soprattutto, da debellare. Queste differenze sono dovute alla presenza di molti fattori e, in particolare, alla situazione politica in cui la Somalia si trova. Ciò, infatti, ha dato luogo a tutta una serie di fenomeni chiave nello sviluppo della pirateria. La complessità della situazione somala quindi sta proprio nell’esistenza e nella sovrapposizione di diverse dinamiche, locali ma anche regionali ed internazionali che rendono necessario un approccio onnicomprensivo. In questa sede, tuttavia, si affronterà solo uno dei tanti aspetti di questo fenomeno e, in particolare, si cercherà di rispondere alla questione sulla natura della pirateria sviluppatasi in questo contesto. Usando termini somali, si cercherà di capire se ricadono nella categoria di burcad badeed, stricto sensu “predoni del mare”, o badaadinta badah, “salvatori del mare”. Da quando nel 2012 gli sforzi congiunti della comunità internazionale sono riusciti a debellare questo problema, il sequestro della petroliera Aris 13 del 2017, ha riportato nuovamente l’attenzione, assopita da anni, sull’area, facendo presagire anche un ritorno della pirateria. Questo attacco, tuttavia, sembra aver rappresentato solo una breve parentesi dovuta probabilmente all’abbassamento della guardia delle misure intraprese sino ad allora e al ritiro delle forze NATO della missione “Ocean Shield”, terminata nel 2016. Ma se questo fosse solo il sintomo di un ritorno che potrebbe essere ancora più pericolo del precedente? Per questo motivo potrebbe essere utile capire la natura degli atti dei pirati somali e comprendere se il ruolo iniziale di difensori del mare sia scomparso durante l’evoluzione che la pirateria ha subito, divenendo finalizzato solo ed esclusivamente ad azioni di depredazione, oppure se questo sia stato solo “nascosto” per legittimare in maniera più semplice le azioni svolte della comunità internazionale. Tale tentativo, tuttavia, risulterà molto difficile per la scarsità di dati e di notizie svincolate dall’”occhio europeo”. In questa sede, pertanto, si proverà a fornire solamente uno spunto di riflessione. Pescatori o professionisti? Quando nel 1991 si venne a creare un vuoto politico nel paese, dovuto alla caduta del regime di Siad Barre, fu subito evidente che venne anche a mancare una struttura centralizzata in grado di avere un controllo efficace su tutto il territorio somalo e, consequenzialmente, sulle sue acque. Fu di questa situazione che attori esterni, principalmente pescherecci europei e cinesi ed organizzazioni criminali, iniziarono ad approfittare. La pesca intensiva e lo scarico di rifiuti tossici hanno rappresentato le motivazioni principali che hanno spinto i pescatori locali ad improvvisare attacchi disorganizzati verso gli estranei invasori. Nonostante ciò, la depredazione straniera non può essere definita come la sola motivazione, a questa, infatti, si aggiunge un quadro molto più complesso: la mancanza di uno Stato centralizzato in grado di farsi carico dei bisogni della società, un’organizzazione clanica della società somala che si pone come rappresentante differente di ordine e portatore di principi di organizzazione politica differenti da quelli dello Stato moderno e post-moderno, e uno stato di povertà e crisi umanitaria notevole. Fino agli anni 2000, quindi, si parla più di un fenomeno finalizzato alla sopravvivenza, in cui il confine tra pirata, pescatore e contrabbandiere è molto labile. Si può perciò ipotizzare che in questa fase, nonostante la popolazione che traeva il suo sostentamento dal mare abbia raggiunto livelli di frustrazione notevoli dovuti alle attività illegali di pesca straniere, non sia tuttavia riuscita a creare una struttura tale da poter essere considerata come “guardiana delle acque”. In questi anni, infatti, si è assistito principalmente al fenomeno che è stato definito come “pirateria d’opportunità”, deducibile soprattutto dalla sua discontinuità, dalla poca redditività degli attacchi e dal corto raggio d’azione. Non si può comunque escludere che proprio in questo periodo iniziarono a formarsi e svilupparsi i gruppi di pirateria di stampo criminale che siamo abituati a conoscere. Infatti, secondo un ex leader pirata somalo, Farah Hirsi Kulan “Boya”, il passaggio ad una pirateria professionalizzata avviene già nel 1994. Da pirati d’opportunità a vera e propria guardia costiera? Dai primi attacchi sporadici e disorganizzati, le attività piratesche in pochi anni cambiarono totalmente divenendo un business molto redditizio. Molti affermano che c’è stato un passaggio da un fenomeno di protesta ad uno, solo ed esclusivamente, basato sul profitto, anche se, potrebbe non essere esattamente così.  In un contesto politico come quello somalo, il Governo Federale di Transizione è l’unico potere istituzionale e riconosciuto a livello internazionale che, nonostante ciò, non è in grado di estendere la propria autorità oltre Mogadiscio, permettendo ad altri tipi di “organizzazioni politiche” di subentrare nel controllo dello spazio. Infatti, “per l’intero territorio somalo ogni livello d’amministrazione è in buona sostanza affidato nelle mani di clan, capi-villaggio e signori della guerra” ed è tra questi leader che riconosciamo le figure più influenti della pirateria. Alcune tra le organizzazioni piratesche, che vengono definite di criminalità organizzata, cercarono di assumere anche un certo grado di istituzionalizzazione. Queste volevano dimostrare di essere capaci di svolgere non solo attività di saccheggio, rapimenti finalizzati al riscatto o comunque legati all’arricchimento, ma anche una funzione di “difesa” e “controllo”. Gran parte della società somala, inoltre, iniziò a godere dei benefici portati dalle attività piratesche, realtà che pian piano promosse una forma di legittimazione nei confronti di questi gruppi criminali, garantendo ai loro membri anche una sorta di protezione e di rispetto. Uno dei fenomeni

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L’omicidio di Ilaria Alpi e l’inchiesta sul traffico di rifiuti tossici in Somalia

Il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia, è stata assassinata, insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin, Ilaria Alpi. La giornalista dal 1992 effettuò diverse missioni per conto del TG3 per raccontare la missione di pace delle Nazioni Unite “Restore Hope” e il contesto somalo della guerra civile scoppiata a seguito della caduta del regime di Siad Barre nel 1991. Le indagini del Caso Alpi-Hrovatin si sono concentrate sull’ultimo reportage della giornalista che sarebbe dovuto andare in onda la sera del 20 marzo. Di quel reportage rimangono solo frammenti e filmati incompleti in quanto la versione integrale non arrivò mai in Italia. Di quell’omicidio ancora non è chiaro né il movente, né il mandante, né gli esecutori. Tra i principali protagonisti del Caso Alpi-Hrovatin si ricorda Giancarlo Marocchino, traportatore piemontese che per anni è stato un influente imprenditore di Mogadiscio. Per il SISMI, secondo una delle note declassificate, era “un imprenditore abile e furbo” in grado di lavorare per tutti e di districarsi nella Somalia sconvolta dalla guerra civile. Secondo il SISMI si occupava di logistica ed era sospettato di trafficare in armi e rifiuti tossici e radioattivi, sospetti che al momento non trovano un riscontro giudiziario. Sullo sfondo dell’indagine occorre inoltre tenere a mente il contesto somalo e in particolar modo il coinvolgimento Italiano in Somalia. La relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, approvata nel febbraio del 2006, ha analizzato diverse causali dell’omicidio tenendo in conto anche il fondamentalismo e la criminalità nel paese. Grazie ad un’analisi dei taccuini di Ilaria Alpi si è cercato di ricostruire i temi dell’ultimo reportage in modo da proseguire su tre linee di indagine: il traffico di armi, il traffico di rifiuti tossici e gli effetti della cooperazione italiana in Somalia. La cooperazione Italiana in Somalia Prima dell’inizio della guerra civile in Somalia l’Italia fu una stretta alleata del governo di Siad Barre, presidente-dittatore somalo fino al 1991, a cui vendeva armi che sono state accumulate in diversi magazzini del paese e che sono stati oggetto di interesse delle milizie e dei signori della guerra a seguito della caduta del regime. In generale si riconosce che l’Italia ha sostenuto economicamente e politicamente Siad Barre anche nel momento in cui il regime appariva completamente screditato agli occhi dell’opinione pubblica internazionale e alla maggioranza del popolo somalo. Tra le linee di indagine della Alpi rientrava la cooperazione dell’Italia con i paesi in via di sviluppo e in particolar modo con la Somalia. La giornalista era interessata al fenomeno degli aiuti in generale ed alla modalità di distribuzione degli stessi, oltre al fatto che essi potessero essere stati utilizzati per arricchimenti illeciti anziché per lo scopo per cui erano stati erogati. In particolar modo la Alpi era interessata alla strada Garoe-Bosaso e al progetto di pesca della Shifco. La cooperazione allo sviluppo in favore della Somalia fu voluta dal parlamento italiano nel 1979 con l’elargizione di ingenti finanziamenti. In particolar modo durante il periodo 1986-1989 il volume degli investimenti italiani in Somalia e nel corno d’Africa è aumentato in modo esponenziale per poi interrompersi con l’esplosione della guerra civile nel 1992. La relazione conclusiva della commissione parlamentare sostiene che nel decennio 1981-1990 l’80% dei fondi è stato destinato alla realizzazione di progetti definiti “fisici”. Di questi il 49% è stato destinato alla costruzione di grandi infrastrutture, il 21% alla realizzazione di investimenti produttivi e il 15% a investimenti definiti “socio-comunitari” (progetti che possono essere considerati a beneficio della popolazione). Tale assetto della cooperazione italiana è stato segnato da difetti di programmazione e mancanza di coordinamento con le iniziative multilaterali e internazionali. L’effettiva riuscita di queste iniziative di cooperazione, inoltre, è stata pesantemente minata dalla prerogativa alla tutela di interessi particolari che aziende, lobbies e gruppi di pressione italiane avevano in Somali e che non tenevano in conto i bisogni reali del paese. L’analisi di queste politiche di cooperazione internazionale è stata condotta durante la stagione di Tangentopoli. In questo quadro alcune inchieste fecero emergere una realtà nella quale gli stanziamenti per la Cooperazione con i Paesi in via di sviluppo erano una parte non trascurabile di tutto il sistema tangentizio italiano. Le indagini permisero di scoprire progetti costosi e inutili, stanziamenti multimiliardari, tangenti e traffici di ogni genere tra cui quello di armi verso la Somalia. A tal proposito la Commissione parlamentare di inchiesta sulla cooperazione con i Paesi in via di sviluppo del 1994 si recò in missione a Gibuti, in Somalia e in Kenya dal 29 gennaio al 31 gennaio del 1996. Il resoconto dei lavori sottolineò che ci furono molti errori di gestione e che molti soldi erano andati nelle mani sbagliate. Tra le opere più controverse finanziate dal governo italiano pertanto rientrano la strada Garoe-Bosaso e il porto di Bosaso, nonché il progetto di pesca oceanica e la relativa società di pesca “Shifco”. Per quanto riguarda la strada, il costo medio per chilometro è stato pari a 605 milioni, sproporzionato rispetto alle medie di spesa sul territorio italiano ma anche rispetto alle altre strade realizzate con i fondi della cooperazione allo sviluppo nel corno d’africa. Dall’altra parte all’inizio del 1979 si provò ad intraprendere un progetto di pesca oceanica che fu segnato da disastri e insuccessi. Venne così creata la società “Shifco” che dispose il trasferimento dei pescherecci dopo la guerra anti-Barre del ’90 nelle acque del golfo di Aden. Vi è un sospetto che tale iniziativa, caratterizzata da errori di progettazione gravi, sia servita soprattutto ad arricchire, non necessariamente per vie illecite, gruppi privati italiani e somali. La pista del Traffico di Armi in Somalia Ilaria Alpi prima di intraprendere il suo ultimo viaggio aveva individuato la zona di Bosaso, città portuale nel nord della Somalia, come una zona “giornalisticamente interessante” ed aveva intenzione di approfondire i temi legati al traffico di armi e l’intreccio con la “mala cooperazione” e il traffico di rifiuti tossici. Perseguendo questo obiettivo, la Alpi condusse indagini sulle navi della Shifco alla ricerca di riscontri. In particolar

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Le migrazioni climatiche in Africa: una panoramica sul fenomeno

Le migrazioni climatiche e le migrazioni ambientali sono un fenomeno di cui si discute in occasione dei diversi forum sull’ambiente. Ogni contesto porta però con se differenze nelle cause e nelle conseguenze, nel frattempo diventa sempre di più urgente una risposta su entrambi i fronti mentre a livello internazionale si hanno crescenti difficolta a trovare un accordo. Migrazioni ambientali e migrazioni climatiche Le migrazioni climatiche in Africa sono un argomento sempre più al centro nel dibattito sulle migrazioni. Già nel 1990 l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), il foro scientifico delle Nazioni Unite con lo scopo di studiare il riscaldamento globale e i suoi effetti, ha osservato che il maggiore impatto potrebbe aversi sulle migrazioni umane. Pertanto occorre ricordare la sottile differenza tra le migrazioni ambientali, dovute a una azione diretta dell’uomo (per esempio causata da un danno ambientale come lo sversamento di petrolio), e le migrazioni climatiche. In altre parole le migrazioni dovute all’impatto meteorologico conseguente al cambiamento climatico. Per chiarire, occorre ricordare che già da tempo la comunità scientifica ha riconosciuto l’origine antropica del cambiamento climatico. In aggiunta occorre specificare che non è facile distinguere tra i due tipi di migrazione e che spesso si muovono in parallelo, sommandosi nei loro effetti sulla mobilità umana. D’altra parte l’impatto meteorologico del cambiamento climatico può essere diviso in due distinti fattori di migrazione: i processi climatici e i fattori non climatici. Ad esempio per processi climatici si intendono fenomeni come l’innalzamento del livello del mare, la salinizzazione dei terreni agricoli, la salinizzazione delle acque e della terra, la desertificazione e la crescente scarsità d’acqua, oltre che eventi climatici come le inondazioni e le irregolarità (oltre che la violenza) delle precipitazioni. In aggiunta abbiamo i fattori non climatici come l’instabilità politica, il governo, la crescita della popolazione e la resilienza a livello di comunità alle catastrofi naturali. In breve tutti questi fattori contribuiscono al grado di vulnerabilità che sperimentano persone e società. Gli effetti delle precipitazioni in Africa e le migrazioni climatiche Per quanto riguarda le migrazioni climatiche in Africa, si osserva una crescente irregolarità delle precipitazioni in ampie aree dell’Africa subsahariana, in particolare nelle zone aride e semi-aride. Certamente questo comporta un inizio sempre meno prevedibile e una fine anticipata della stagione delle piogge, prolungate fasi di siccità stagionale e un incremento delle precipitazioni più intense. In aggiunta la tendenza sembra essere quella di una riduzione del livello generale delle precipitazioni e un aumento delle precipitazioni occasionali di forte intensità. Vale a dire difficoltà crescenti per i sistemi agricoli dipendenti dalle piogge per l’irrigazione. Di conseguenza tali dinamiche costituiscono una minaccia persistente alla sicurezza alimentare in quanto comportano la perdita di ingenti raccolti e di alimenti base come mais e miglio. Inoltre, i cambiamenti delle precipitazioni sono accompagnati da allagamenti, esondazioni fluviali e alluvioni causate dall’attività di cicloni in aree costiere. In Africa, dal punto di vista delle migrazioni climatiche, abbiamo diversi effetti a seconda dell’area colpita. Sugli altipiani dell’Africa orientale, le alluvioni distruggono abitualmente insediamenti e campi agricoli, spesso costringendo gli agricoltori ad abbandonare le aree di coltura. Nelle pianure, esondazioni fluviali e allagamenti su larga scala colpiscono principalmente gli allevatori che operano in aree aride e semi-aride, minacciando al contempo anche i lavoratori urbani. In Africa australe, le terre in prossimità dei grandi bacini fluviali e le zone costiere (in particolare, in Africa sud-orientale e Madagascar) sono interessate da fenomeni alluvionali di forte intensità, che danno impulso a fenomeni migratori temporanei o permanenti. In conclusione occorre dire che la forte dipendenza dall’agricoltura e dall’allevamento costringe i piccoli produttori agricoli e le comunità pastorali a diversificare le fonti di reddito: ciò determina un incremento dei flussi migratori circolari e stagionali all’interno del continente africano, che rappresentano una fondamentale strategia di adattamento e resilienza. Le migrazioni climatiche e le Forme di mobilità all’interno dell’Africa In Africa si può assistere a flussi di mobilità lavorativa circolare rurale-urbana e rurale-rurale che costituiscono una reazione comune in tutte le regioni del continente. In questo caso parliamo di “migrazione come adattamento” al cambiamento climatico. In molti casi, singoli individui migrano per un certo periodo di tempo per guadagnare denaro e impiegarlo in modo da mitigare le difficoltà dei nuclei familiari. Però occorre ricordare l’esistenza delle cosiddette “popolazioni in trappola”, ovvero quei numerosi nuclei familiari colpiti dalle conseguenze del cambiamento climatico ma che non dispongono delle risorse necessarie a spostarsi. In aggiunta va quindi detto che non vi è un “automatismo” allo spostamento poiché problemi come lo sfruttamento lavorativo, l’indisponibilità di occupazione e in generale le asperità delle condizioni di vita e di lavoro per i migranti indeboliscono talora il potenziale positivo della migrazione. Le comunità più mobili dal punto di vista delle migrazioni climatiche sono le comunità pastorali e semi-pastorali. In primo luogo queste sono costrette a spostamenti forzati o riallocazioni temporanee a causa della siccità. In secondo luogo tali spostamenti possono prendere due diverse forme: processi di sedentarizzazione locale o migrazione verso i contesti urbani. D’altra parte queste due forme possono avere dei risvolti “negativi”. Spesso le comunità si insediano lungo i fiumi per permettere al bestiame di abbeverarsi e di conseguenza aumenta la loro vulnerabilità alle esondazioni. D’altra parte la migrazione verso i contesti urbani porta spesso i nuovi arrivati a vivere nelle baraccopoli delle megalopoli. Qui, oltre ai problemi igienico-sanitari in cui possono incorrere, possono essere soggetti a fenomeni di crescente violenza. Rischi ambientali e rischi politici Se i cambiamenti ambientali e le potenziali conseguenze rappresentano gli agenti chiave delle migrazioni climatiche, in aggiunta sono connessi a questi fattori politici, sociali, economici e culturali. In altre parole il rischio di migrazioni climatiche è particolarmente grave in presenza di un quadro socio-politico generalmente instabile e di conflitti armati prolungati. Facciamo un esempio di un contesto fragile con scarsità idrica causata da siccità. In questo caso ci troviamo in un contesto con un accesso limitato alle risorse. In primo luogo possiamo avere un aumento delle probabilità di conflitto per l’accesso all’acqua tra agricoltori e allevatori. In secondo luogo il concretizzarsi del conflitto

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