Eguaglianza di genere ed empowerment in Ruanda: un caso particolare

Seppur tradizionalmente qualificato come uno dei 48 paesi economicamente meno sviluppati al mondo, il Ruanda ha dimostrato un incredibile spirito di adattamento e un’innegabile flessibilità in campo di policies e riforme.

A tal proposito, basti considerare come, anche in forza degli aiuti del Forum Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, tale paese ha potuto compiere progressi rilevanti dal punto di vista economico: nel 2019 il tasso di crescita del paese è stato pari al 9,4% a fronte del 7,5% registrato nel 2018. Prima dell’inasprirsi della crisi sanitaria globale nel 2020, inoltre, il Ruanda puntava ad acquisire lo status di paese a medio reddito entro il 2025 per poi qualificarsi come paese ad alto reddito entro il 2050, grazie ad una serie di interventi strutturali e strategici (propriamente detti “National Strategies for Transformation) inerenti a vari settori ed in linea con quanto previsto dagli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030.

Naturalmente, l’impatto economico dovuto alla diffusione del COVID-19 ha comportato una contrazione notevole della crescita economica ruandese. Nonostante questo, il 2021 è stato un anno di lenta ma stabile ripresa per il Ruanda, che si appresta a ritornare ai livelli pre-pandemia entro il biennio 2022-2023.

Tale elasticità nella progettazione ed implementazione di policies ad hoc, tuttavia, non rappresenta l’unico elemento d’analisi interessante: il Ruanda è inoltre considerato il best performer dell’Africa Subsahariana in materia di parità di genere, assicurandosi tra l’altro il primato mondiale per la rappresentanza femminile all’interno della sua assemblea nazionale.

Quali sono le ragioni alla base di questa circostanza, confermata dall’ottima performance ruandese nell’ambito dell’ultimo Global Gender Gap Report? Per rispondere a questo interrogativo, è necessario fare un passo indietro.

La crisi demografica

Come è tristemente noto, nel 1994 il Ruanda è stato teatro di un sanguinosissimo genocidio ai danni dei Tutsi, etnia che componeva il 20% della popolazione del paese, per mano dell’etnia maggioritaria degli Hutu. Nei cento giorni di guerriglia, durata dal 6 aprile fino alla prima metà di luglio, morirono circa 800.000 persone: si è trattato di un vero e proprio disastro demografico con risvolti a dir poco segnanti.

Nei fatti, in seguito agli eventi ricordati, le donne risultavano essere la fetta più grande della popolazione. Tragicamente costrette a sostituire i caduti sul posto di lavoro, esse hanno finito per contribuire con forza allo sforzo produttivo del paese. Il governo ruandese, peraltro, ha successivamente deciso di agire attuando leggi e politiche finalizzate ad incentivare le donne del paese a mantenere l’impiego, segnatamente introducendo la possibilità di usufruire di un periodo di maternità retribuita pari a tre mesi.

Tali interventi statali si sono inoltre tradotti in impulsi importanti anche e soprattutto per l’ingresso delle donne nella vita politica del paese, determinando quindi un processo di evoluzione sociale che ha portato all’eccezionale situazione odierna.

Vediamo quindi quali sono i principali punti di forza dell’ordinamento ruandese.

La partecipazione politica

Tra gli elementi più significativi figura sicuramente l’imbattuta percentuale di donne parlamentari: la Camera bassa o lower house del Parlamento ruandese è una Camera dei deputati composta da 80 membri in cui i parlamentari donna occupano il 61,3% dei seggi, a fronte del restante 38,7% dei posti ricoperti da uomini.

Per avvalorare questo dato basti pensare alle percentuali registrate rispetto al Congresso statunitense, sempre in riferimento alla lower house dell’organo parlamentare: dei 435 deputati della Camera dei rappresentanti americana, solo il 19,3% sono donne, mentre i seggi occupati da uomini sono pari all’80,7%. Oltre a ciò, è importante tenere a mente che la partecipazione politica è spesso l’area in cui, in termini assoluti, il divario di genere risulta essere maggiore: il caso del Ruanda è dunque del tutto singolare.

Oltre alle motivazioni storiche, il motivo dietro tale circostanza sta anche nel dettato costituzionale ruandese: l’articolo 10, comma 4, dedicato al tema dei principi fondamentali, chiarisce che “The State of Rwanda commits itself to (…) building a State governed by the rule of law, a pluralistic democratic Government, equality of all Rwandans and between men and women which is affirmed by women occupying at least thirty percent (30%) of positions in decision-making organs (…)” sancendo che almeno il 30% delle posizioni all’interno degli organi decisionali del paese sia riservato a rappresentanti donna. Questa percentuale, inoltre, vale anche per la composizione interna e la leadership dei partiti.

A riprova della serietà con cui il Ruanda affronta la tematica della voce politica delle donne, basti pensare a quanto accaduto in occasione delle elezioni del 2013: il National Women Council del paese ha erogato corsi di formazione specifica per le candidate alla corsa elettorale, preoccupandosi tra l’altro di predisporre dei fondi destinati all’attuazione del gender mainstreaming all’interno delle istituzioni politiche ruandesi, collaborando con il cosiddetto Gender Monitoring Office.

L’ufficio in questione, introdotto dalla Costituzione del Ruanda con l’articolo 139, è un organo specializzato ed affiliato all’ufficio del Primo Ministro ed è incaricato di monitorare la qualità dei servizi offerti per il supporto alle vittime di violenza di genere nonché il funzionamento dei relativi meccanismi di prevenzione e risposta disposti dal governo. Inoltre, l’ufficio si occupa di verificare l’effettivo adempimento degli impegni regionali, nazionali ed internazionali in materia di gender equality, con particolare riferimento agli obiettivi dell’Agenda 2030. Il funzionamento e la struttura del GMO sono disciplinati dalla L. 51/2007.

Violenza di genere e meccanismi di tutela

Negli anni, il Ruanda si è dimostrato particolarmente sensibile a questo tema: a testimoniarlo contribuisce la L. 59/2008on the Prevention, Protection and Punishment of any Gender-Based Violence”. Si tratta di una legge dal contenuto molto avanzato che disciplina diverse fattispecie di violenza, tra cui figurano, ad esempio, la violenza tra coniugi, lo stupro coniugale, le molestie, l’abuso sessuale e l’abuso su minori.

Lo stupro viene considerato dall’ordinamento ruandese come un reato grave, punibile con una pena che va dai 10 ai 20 anni di reclusione.

Lo stupro coniugale (detto Marital Rape), pur considerato anch’esso un reato, è invece punibile con un periodo di reclusione di 6 mesi o con una multa il cui ammontare oscilla tra i 100.000 ed i 300.000 franchi ruandesi. Inoltre, a testimoniare la serietà dell’impegno ruandese c’è anche anche la ratifica del Protocollo del 2003 sui diritti delle donne in Africa annesso alla Carta Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, comunemente noto come Protocollo di Maputo. Perfettamente in linea con la legislazione nazionale, tale strumento vieta tra l’altro anche qualsiasi atto di mutilazione genitale femminile.

Nonostante gli sforzi formali compiuti dal governo ruandese, le istanze di violenza di genere (GBV, dall’inglese “gender-based violence”) continuano però a verificarsi con frequenza anche in forza di un atteggiamento generalmente tollerante riscontrato principalmente nelle aree rurali del paese, in cui alcune norme tradizionali di stampo eminentemente patriarcale risultano essere sicuramente più sentite.

A quest’ultima osservazione si collega anche un altro dato importante per cui, nella prassi, una buona parte dei casi di violenza di genere non sono oggetto di denuncia da parte delle vittime. Tra le motivazioni più comuni alla base di questo fenomeno, oltre appunto allo stigma ed alla pressione sociale, risulta presente anche la circostanza per cui, spesso, a gestire il nucleo familiare e di conseguenza le risorse disponibili siano nei fatti gli uomini.

La dipendenza economica dal partner incide dunque moltissimo, soprattutto in relazione ai casi di violenza domestica. Anche in questo caso, a giocare un ruolo preponderante è l’organizzazione sociale tradizionale ancora de facto dominante. Per cercare di far fronte a questa problematica, dal 2007 è stato avviato il funzionamento di veri e propri Gender Desks, inseriti nella struttura interna di ogni stazione di polizia, diretti ad offrire assistenza specifica alle vittime di violenza.

Le sfide attuali

L’ultimo punto esaminato ci permette di affacciarci su alcuni degli ostacoli ancora da superare. Il punto focale del problema, in verità, sta principalmente nelle limitazioni all’accesso alle risorse produttive e finanziarie.

L’ordinamento giuridico ruandese chiarisce come donne e uomini siano titolari di pari diritti fondiari, così come impone un trattamento formalmente paritario in campo di accesso al credito. Ad ogni modo, come è d’altronde facile intuire, lo stato reale delle cose è decisamente più complesso.

In primo luogo, in virtù delle norme e delle pratiche tradizionali ancora attestate, la competenza decisionale è spesso maschile, sia in materia fondiaria che finanziaria.

In secondo luogo, la legge ruandese non riconosce alcuna tipologia di unione informale: essa disciplina esclusivamente i matrimoni civili, dunque monogami e formali, e regolarmente registrati. Non si occupa, quindi, delle unioni informali o de facto, né dei casi di unioni poligame, esplicitamente escluse dalla Costituzione.

In questi casi, le donne coinvolte fanno spesso fatica a presentare documentazioni e certificati indispensabili non solo per far valere il proprio diritto di proprietà su un terreno (ci si riferisce dunque ai cosiddetti land assets), ma anche al fine di poter beneficiare regolarmente di un prestito bancario o di un finanziamento.

In terzo luogo, se l’ordinamento ruandese garantisce alle madri un congedo di maternità retribuito pari a ben tre mesi, il periodo di parental leave disponibile per i padri è invece pari a soli quattro giorni. Tale asimmetria normativa si traduce in uno svantaggio non solo per i padri, che non possono usufruire di un periodo di paternità sufficiente, ma anche per le madri, da sempre responsabili del carico di lavoro domestico non retribuito: si tratta senza dubbio di una limitazione non indifferente.

Infine, è importante dedicare una considerazione finale anche alla spinosa questione dell’aborto, considerato illegale dall’ordinamento del Ruanda. Le uniche situazioni in cui è prevista la possibilità di procedere con l’interruzione volontaria della gravidanza, infatti, riguardano casi sicuramente definibili come limite: lo stupro o l’incesto; il verificarsi di una congiuntura pericolosa per la salute o la vita della madre o, ancora, le circostanze in cui protrarre la gravidanza significherebbe mettere a rischio la salute del feto.

Il caso del Ruanda, quindi, è sicuramente particolare.

Senza naturalmente perdere di vista le sfide sociali che ancora rimangono da fronteggiare, è lecito tenere conto della reattività ruandese, unitamente alle best practices ed ai meccanismi di tutela messi in atto all’interno dell’ordinamento. Allo stesso modo, non è possibile negare il continuo slancio del paese verso la chiusura definitiva del divario di genere, chiusura che dovrà necessariamente passare dalla riconciliazione tra il dato de jure e quello de facto.

Fonti e approfondimenti

World Bank, Sub-Saharan Africa Macro Poverty Outlook. Country-by-country Analysis and Projections for the Developing World, Washington, 2021

WEF, Global Gender Gap Report, Ginevra, 2021

OECD, Rwanda Country Profile, 2019, Parigi, 2019

Gender Monitoring Office

GenocideWatch

Giornata internazionale per il genocidio in Ruanda

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