MELUSI SIMELANE: IL CIELO DI ESWATINI SI RIEMPE DI ARCOBALENI

Melusi Simelane è un’attivista per i diritti LGBTQIA+ di Eswatini, Paese dell’Africa meridionale conosciuto fino al 2018 come Swaziland e governato dall’unica monarchia assoluta del continente. Nel 2018 Melusi ha organizzato il primo Pride del Paese e successivamente ha fondato la Eswatini Sexual and Gender Minorities (ESGM), organizzazione che ha l’obiettivo di promuovere i diritti delle persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+.

LA LOTTA PER L’ACCETTAZIONE

L’Eswatini è una delle 32 nazioni africane che considerano ancora l’omosessualità un crimine, a causa della persistenza nell’ordinamento giuridico del Paese di una legge omofoba introdotta durante la colonizzazione britannica.

Nonostante non ci siano prove che dette norme siano mai state applicate, il testo rimane in vigore perché la Costituzione di Eswatini prevede che qualsiasi disposizione legislativa adottata prima dell’indipendenza del 1968 deve continuare ad essere applicata.

Proprio perché l’omofobia è ben radicata nella società sin dall’inizio della colonizzazione del Paese, il contrasto alla sua diffusione e la battaglia per una società più inclusiva sono molto complessi. Come se non bastasse poi, anche la Chiesa e le più alte cariche dello Stato hanno fatto propri i sentimenti di odio nei confronti della comunità LGBTQIA+. Il Re Mswati III infatti, ha pubblicamente dichiarato che le relazioni tra persone dello stesso sesso hanno origini sataniche e l’ex Primo Ministro Barnabas Dlamini ha definito l’omosessualità un’anormalità ed una malattia.

Conseguenze dirette dell’ostilità e del pregiudizio nei confronti dei membri della comunità LGBTQIA+ di Eswatini sono aggressioni, violenze e perfino omicidi, che spesso non vengono effettivamente perseguiti dalle autorità. Per offrire una rete di sicurezza informale alle persone LGBTQIA+ del suo Paese, dunque, Melusi Simelane ha deciso di fondare la sua organizzazione.

Nel 2022 la ESGM ha ricevuto da parte dell’Alta Corte di Eswatini il diniego di registrarsi presso il Registro delle Imprese perché, secondo il giudice Mumcy Dlamini, il vero scopo dell’organizzazione sarebbe quello di diffondere informazioni sulle pratiche sessuali tra le persone dello stesso sesso. Sebbene la Corte Suprema di Eswatini abbia annullato la decisione dell’Alta Corte, avvalendosi dell’articolo 33 della Costituzione, che garantisce il diritto ad essere trattati secondo i requisiti fondamentali di giustizia ed equità davanti a qualsiasi autorità amministrativa, il Ministro del Commercio, dell’Industria e del Mercato ha comunque rifiutato la registrazione dell’ESGM.

LA FIGURA DI MELUSI

Come abbiamo visto, il contesto socio-culturale di Eswatini è fortemente caratterizzato dall’omofobia, che è ampiamente diffusa sia tra la popolazione che tra le istituzioni del Paese. Questo rende ancora oggi impossibile per tante persone queer vivere apertamente la propria identità e/o il proprio orientamento sessuale.

Lo stesso Melusi Simelane nel corso della propria vita ha subito discriminazioni a causa della sua omosessualità. Come racconta lui stesso in varie interviste, infatti, è stato vittima di bullismo a scuola, ha subito violenza sessuale, aggressioni da parte di sconosciuti, tentativi dei vicini di screditarlo agli occhi del padrone di casa, stalking e perquisizioni arbitrarie della polizia. Nonostante tutto questo però, ha deciso di rimanere in Eswatini per portare avanti la battaglia per dar vita ad una società più inclusiva.

Grazie alla sua costanza ed al suo coraggio Melusi Simelane è riuscito ad organizzare il primo Pride di Eswatini che è riuscito ad ottenere risonanza internazionale e nazionale, nonostante i tentativi del governo di minimizzare l’impatto dell’evento sia sulla popolazione che sull’assetto sociale del Paese.

Con riferimento alla pronuncia del Ministro del Commercio, dell’Industria e del Mercato, in aperto contrasto con la decisione della Corte Suprema, Melusi Simelane dichiara che questo non riuscirà ad impedire il lavoro di advocacy che ESGM sta portando avanti, anzi ha rafforzato ancora di più la voglia di combattere per realizzare un vero cambiamento.

In occasione del Pride Month, noi di Large Movements APS abbiamo scelto di dar voce a storie come quella di Melusi Simelane affinché, in un momento di festa per la comunità LGBTQIA+ occidentale, non ci si dimentichi che in tante parti del mondo quelle conquiste sono ancora lunghe dall’essere acquisite. E volevamo farlo tributando il lavoro di coloro che ogni giorno si battono per veder riconosciuti i diritti della comunità LGBTQIA+.

Ci auguriamo che, grazie al lavoro di Melusi e di ESGM, il governo di Eswatini decida finalmente di eliminare dal proprio ordinamento giuridico una legge espressione del sentimento e della cultura di un popolo completamente diverso da quello che attualmente abita il Paese, mettendo in atto un processo rapido e concreto che porti alla decriminalizzazione dell’omosessualità.

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Diritti LGBTQ+ in Sudan

Il Sudan, che letteralmente significa “Terra dei Neri”, è uno Stato a maggioranza arabo-musulmana, la quale detta l’orientamento politico e religioso del Paese. Il processo di islamizzazione avviato il secolo scorso ha portato a discriminazioni che hanno fondamento nell’apparato legislativo e che hanno colpito non solo le minoranze etniche e religiose ma anche i membri appartenenti alla comunità LGBTQ+. Quadro Legislativo ed Impatto nella Società Civile Sebbene in Sudan non siano presenti esplicite leggi contro l’omosessualità, la sodomia è descritta come reato nel Codice penale del Sudan ed è punita con sanzioni severissime. Fino ad un passato drammaticamente recente, tra l’altro, era ancora prevista la pena di morte come punizione per un rapporto omosessuale.  Nel Codice penale sudanese la disciplina giuridica dei rapporti omosessuali è contenuta nell’articolo 148 dellasezione Reati di Sodomia, parte del quale recita: “Chiunque commetta l’atto di sodomia, sarà passibile di reclusione fino a cinque anni”. Per di più, in caso di recidiva sono previste pene progressivamente più severe, fino all’ergastolo. Grazie al lavoro degli attivisti ed il costante dissenso di una sempre più crescente parte della popolazione sudanese, nell’agosto 2020 il governo ha ceduto alle forti pressioni della società civile ed ha varato diversi emendamenti al Codice penale, dichiarando di voler “abolire tutte le leggi che violano i diritti umani dei sudanesi”. Tra i vari emendamenti è stata compresa una modifica al suddetto articolo 148, che ha definitivamente eliminato la pena di morte e la fustigazione dalle sanzioni previste per i rapporti omosessuali.  Menzione a parte poi, merita l’articolo 151 del Codice penale del Sudan che disciplina gli Atti Osceni, criminalizzando i rapporti sessuali non assimilabili alla sodomia e prevedendo per coloro colti in fragranza di reato la reclusione fino ad un anno – senza distinzione di pena tra donne e uomini.  Conseguentemente i membri della comunità LGBTQ+ non possono celebrare alcun tipo di unione né sono tra le categorie tutelate dalle leggi antidiscriminazione. Il Codice penale del Sudan non viene significativamente riformato dal 1991, quando i conflitti erano ancora aspri ed il governo cercava sempre più consensi da parte della popolazione musulmana integralista che domandava l’applicazione stringente dei principi della Sharia. Solo con la recente deposizione di Al-Bashir, autocrate al potere per quasi 30 anni, avvenuta nel 2019, si è potuta intravedere una speranza di cambiamento. Attualmente infatti, il Sudan è in continuo subbuglio: la stabilità governativa è precaria e gli scontri tra forze armate e civili sono sempre più frequenti.  Nonostante questo però, la lotta per la parità dei diritti della comunità LGBTQ+ in Sudan è ancora lunga dal concludersi vittoriosamente dal momento che l’omosessualità è ancora considerata un reato.  Percezione e Status Sociale Oltre a violare numerosi articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il Sudan ha sempre votato contro ogni proposta di risoluzione a favore di diritti LGBTQ+ avanzata dalle Nazioni Unite. Oltre alla repressione istituzionalizzata, ciò che rende ancora più difficile la vita degli individui appartenenti alla comunità LGBTQ+ in Sudan è l’intolleranza e l’omofobia radicate nella società. Tra le radici del problema un ruolo fondamentale lo gioca la religione. La maggior parte della popolazione, come abbiamo visto, è di fede musulmana conservatrice e come tale osteggia l’attribuzione dei diritti civili e sociali alle persone LGBTQ+. Per di più, sono grandemente frequenti gli episodi di maltrattamenti, non solo da parte delle autorità, ma soprattutto da parte delle famiglie delle persone che decidono di “uscire allo scoperto”. La tendenza generale è infatti quella di tenere nascosto il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere, al fine di autotutelarsi il più possibile. In una società in cui l’omosessualità è criminalizzata e le discussioni sulla sessualità sono tabù, internet è diventato uno dei modi in cui è possibile soddisfare le esigenze di informazione delle persone LGBTQIA+ e un luogo in cui possono creare connessioni e trovare sostegno e comprensione. Il Sudan però, è un Paese in cui i media tradizionali sono strettamente controllati dal governo ed il libero flusso di informazioni online viene spesso percepito come una minaccia dalle autorità. Per questo motivo, in momenti di instabilità o crisi il governo vara misure come la censura o la completa chiusura dell’accesso ad internet, per impedire a certe informazioni di circolare tra la popolazione. Queste restrizioni della libertà di informazione dei cittadini dunque, influiscono negativamente sull’attività della società civile e limitano la diffusione di informazioni in merito all’educazione sessuale e civile ed al godimento dei pieni diritti di uguaglianza da parte di ciascun cittadino sudanese. Questa attività di censura ha determinato la terminazione delle attività della prima associazione LGBTQ+ del Sudan, Freedom Sudan che fu fondata nel 2006 ma che risulta inattiva da vari anni. Un’altra organizzazione sta portando avanti il testimone: Bedayaa, che si rivolge agli individui LGBTQ+ della Valle del Nilo, regione collocata tra l’Egitto e il Sudan. Questa associazione è stata fondata nel luglio 2010 da volontari che hanno riconosciuto le somiglianze tra le lotte in questi due Paesi, in particolare per quanto riguarda la criminalizzazione e  la percezione religioso-culturale degli omosessuali. In ultimo, dal 2012 è sorta un’altra associazione – la Rainbow Sudan – che si batte per i diritti di tutti, compresi quelli di donne e bambini. Come dichiara il suo fondatore Mohamed infatti, nonostante “in questo momento il Paese non sia pronto ad aprirsi alle tematiche LGBTQ+, non abbiamo perso la speranza di farcela”. È evidente che la lotta per un futuro senza odio e discriminazioni non accenna a fermarsi, noncurante degli ostacoli da sormontare, e la comunità LGBTQ+ del Sudan è pronta a far sentire la propria voce. Se ti è piaciuto l’articolo, CondividiCi!

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Etiopia: un mosaico etnico alla base di una crisi umanitaria.

Il conflitto nel Tigrai ed i rapporti con l’Eritrea Con la sua posizione strategica nel Corno d’Africa, vicino al Medio Oriente ed ai suoi mercati, l’Etiopia è simbolo di autonomia e distinzione rispetto ai restanti Paesi africani. Lo Stato si è infatti dimostrato capace di resistere alla colonizzazione, ad eccezione dei 5 anni durante la guerra italo-etiope, quando fu colonia dell’Africa Orientale Italiana. Il territorio etiope è diviso in 9 regioni e caratterizzato da un mosaico composto da 80 etnie e nazionalità diverse, in cui si parlano 83 lingue e 200 dialetti. A partire dalla Costituzione del 1995 il potere viene ripartito in base alle etnie, dando vita a quello che viene definito federalismo etnico. Per comprendere lo scenario politico-strategico attuale dell’Etiopia quindi, è essenziale analizzare quali siano le principali etnie che storicamente risiedono sul territorio. I gruppi etnici maggioritari dell’Etiopia sono gli Oromo (36%), gli Amara (27%), i Somali (6%) e i Tigrini (6%). L’ Oromia è la più grande regione del Paese e gli Oromo rappresentano circa un terzo del totale degli abitanti. Derivanti da un’antica popolazione di pastori nomadi, gli Oromo iniziano ad integrarsi sul territorio etiope dal XVIII secolo. La loro lingua è stata la lingua ufficiale della Corte di Gondar, antica capitale imperiale dell’Etiopia. La regione di Amara, da cui prende il nome l’omonima etnia, ospita il secondo gruppo etnolinguistico, rappresentando quasi un terzo della popolazione. Nel corso della storia etiope gli Amara hanno dominato a lungo e la loro lingua è stata la lingua ufficiale fino agli anni ’90 e rimane tuttora la più parlata. Ù Tra il 1974 e il 1991, i rapporti tra gli Oromo e gli Amara iniziano ad inasprirsi dato che i primi rivendicano un ruolo sempre più centrale. Dopo il 1991, gli Amara si posizionano apertamente contro i Tigrini – di cui si dirà a breve. Al giorno d’oggi la situazione è tesa soprattutto nel territorio del Wolkait, distretto al confine tra le due regioni ma amministrato dal Tigrai. I Somali risiedono principalmente nella provincia dell’Ogaden, regione alquanto ambita per la sua ricchezza di giacimenti di petrolio e gas naturale, più volte oggetto di scontri tra Addis Abeba e l’Ogaden Liberation Front, forza autonomista. I Tigrini occupano la regione nord del Tigrai. Prima di scoprire questa regione e le sue complessità, una parentesi linguistica dell’utilizzo del termine Tigrai è necessaria. La regione viene ancora troppo spesso chiamata Tigrè, che è il nome con cui gli Amara chiamano dispregiativamente i Tigrini. Tigrè nella lingua locale significa “sotto il mio piede”, cioè servo. Già a partire da ciò si può comprendere la linea di tensione che separa le etnie etiopi. La minoranza etnica nel Tigrai rappresenta il 6% con i suoi quasi 6 milioni di abitanti, sui 110 totali. Per la posizione geografica la cultura tigrina è molto vicina a quelle eritrea. Tigrini ed Eritrei hanno anche combattuto insieme contro la dittatura di Mengistu, Capo di Stato etiope tra il 1977 e 1991. In tale contesto, Meles Zenawi viene ricordato per aver fondato l’Ethiopian People Revolution Democratic Front (EPRDF), partito che formò la coalizione con i partiti Oromo ed Amara. Zenawi è stato anche il fautore del federalismo etnico etiope, dividendo il territorio in 13 province. Da un lato, tale sistema ha rinforzato il potere dei partiti regionali, rappresentati dalle rispettive etnie; dall’altro, tale divisione ha creato una successiva suddivisione in classi sociali, sfociando in proteste e scontri per motivi non più etnici ma economico-politici. Uno dei maggiori partiti politici del paese è proveniente proprio da questa regione: il Tigray People’s Liberation Front (TPLF) che ha dominato il paese per ben 27 anni, dalla fine della Guerra Civile etiope (1974). A partire da questa ultima etnia, ci addentriamo nel conflitto della regione del Tigrai le cui tensioni, dallo scorso novembre 2020, stanno facendo riemergere molti dei problemi che sembravano apparentemente risolti con l’elezione dell’attuale Primo Ministro Abiy Ahmed. L’Etiopia è attualmente coinvolta in una “spirale incontrollabile di sofferenza per la sua popolazione civile”. Il 4 novembre nella regione del Tigrai è stato dichiarato lo stato d’emergenza ed il Primo Ministro ha inviato delle truppe militari federali in risposta ad un presunto attacco contro una caserma dell’esercito nazionale. A seguire, tra il 13 e il 14 novembre il partito tigrino TPLF ha lanciato dei missili contro due aeroporti nel territorio controllato dal governo federale. La risposta del governo federale si è presentata il giorno immediatamente successivo, dichiarando di aver preso il controllo di Alamata, centro abitato nella regione del Tigrai e mandando un ultimatum alle forze regionali. Dal 4 novembre si parla di una vera e propria crisi umanitaria: le Nazioni Unite, insieme all’appello di numerose organizzazioni internazionali hanno denunciato la morte di migliaia di civili e il numero di persone costrette a fuggire è aumentato in maniera esponenziale. Si è parlato di città ricoperte di cadaveri e di massacri in tutti i dipartimenti della regione, come quello della città di Mai-Kadra, dove la stima delle vittime tra il 9 ed il 10 novembre è arrivata a 600. In tale contesto, la libertà di espressione dei giornalisti eritrei e dei mezzi di informazione internazionali, è rimasta ed è tuttora silente date le minacce che incombono sulla stabilità dell’intera regione, insieme ad un improvviso blackout che ha reso tutti i supporti elettronici inutilizzabili. “Le uniche persone che hanno accesso a quello che sta succedendo sono le truppe etiopi e le milizie”. Il 7 dicembre il governo centrale ha annunciato la fine dell’offensiva militare delle sue truppe e l’amministratore provvisorio del Tigrai ha dichiarato che la pace è nuovamente tornata. Tuttavia, una crisi umanitaria non termina da un giorno all’altro, soprattutto data la dimensione di radicalizzazione regionale che caratterizza il conflitto del Tigrai e quanto riportato da quelle poche testimonianze che riportano la situazione in loco.         L’ONU si è mobilitato ed ha firmato un accordo con la regione per “consentire un accesso illimitato, sostenuto e sicuro per le forniture umanitarie”. Nell’accordo si specifica che tali aiuti saranno diretti anche alle regioni di Amara

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MINORANZE RELIGIOSE CRISTIANE IN ALGERIA: tra normative limitanti e migrazioni

Quanto avvenuto ad inizio anno 2020 in Algeria è stato un vero e proprio “campanello di allarme” per la comunità internazionale. Un ingente flusso migratorio è stato registrato in Italia, in particolare sulle coste della Sardegna meridionale, proveniente proprio dal territorio algerino.   A renderlo noto alla comunità internazionale ed europea sono state delle interrogazioni parlamentari (in particolare: E-002954/202; E-004214/2020), provenienti da differenti partiti.   Andando a ritroso ed analizzando la situazione politica e sociale interna dell’Algeria, la questione relativa alla libertà di religione o credo ed alla protezione delle minoranze religiose è diventata, con il passare del tempo, insostenibile per la popolazione.   Cosa è successo negli ultimi anni in Algeria, in particolare alle minoranze religiose?  QUADRO POLITICO E SOCIALE  In Algeria, se si parla di situazione politica e sociale, è evidente come la volontà generale della comunità internazionale sia quella di creare uno Stato più inclusivo. Il fine è quello di cambiare ed adattare le prassi nazionali in materia di libertà fondamentali agli standard internazionali, ma il governo algerino non è della stessa opinione.  Nel 2019 movimenti di protesta hanno tentato di rovesciare l’ordine precedente riuscendo ad eleggere un nuovo presidente, Abdelmadjid Tebboune, ed a promulgare una nuova costituzione. Nonostante questo passo avanti nello sviluppo democratico e sociale del paese, le tutele e le garanzie di rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti politici sono ancora lontane dall’essere definite e protette.  Tra le libertà fondamentali più violate ci sono la libertà di religione o credo e la protezione delle minoranze religiose.  I cristiani algerini da sempre convivono con la popolazione musulmana pacificamente. Ma il governo nazionale non considera invece altrettanto pacificamente la presenza cattolica sul territorio algerino.  I cristiani – principalmente coloro di credo protestante – parte dell’Evangelical Protestant Association (EPA), si trovano in affanno, a causa della privazione dei loro diritti fondamentali connessi al credo religioso, come evidenziato dal Religious Freedom Institute, nel Cornerstone Forum circa Algeria’s Opportunity for Freedom.   Il governo locale, infatti, ha da sempre esercitato una sorta di potere coercitivo sulle chiese cristiane di tutto il Paese, arrivando ad imprigionare i fedeli.   QUADRO NORMATIVO  Il Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR), che l’Algeria ha ratificato, istituisce un obbligo in capo ai governi di garantire la libertà di religione, di pensiero e di coscienza di ogni persona sul territorio nazionale. Vale la pena sottolineare che gli articoli 18 e 27 del ICCPR statuiscono che queste libertà trovano applicazione anche nei confronti delle minoranze religiose, spesso abbandonate.   In altre parole, quindi, le disposizioni del patto mirano a garantire a tutti la possibilità di esercitare liberamente la propria religione o credo in ambienti pubblici e privati, singolarmente od a livello comunitario. Dette norme pertanto, si dovrebbero applicare anche ai cristiani algerini.  Nella Costituzione dell’Algeria la libertà religiosa è esplicitata e protetta, ma, allo stesso tempo, è affermato che “questa libertà deve essere esercitata nel rispetto della legge“.  La Legge 06-03 a cui si fa riferimento nella Costituzione è quella del 28 febbraio 2006, emanata dopo le numerose vicende legate alla violenta guerra civile che ha investito l’Algeria.  Il sopracitato testo legislativo tenta di controllare e limitare il culto per tutti coloro che non sono di fede musulmana, come analizzato anche da Human Rights Watch. In particolare, si riferisce a specifiche pratiche, come quella dei culti collettivi e del proselitismo.   I culti collettivi vengono limitati dalla legge ad alcuni luoghi, solo dopo aver ottenuto un via libera delle Commissioni nazionali che si occupano delle pratiche religiose. La legge statuisce inoltre che dette concessioni vengono garantite solo ad organismi religiosi giuridicamente riconosciuti dal governo algerino.  Per quanto riguarda il proselitismo cristiano, questo è considerato un vero e proprio reato penale, punito con una sanzione pecuniaria e la reclusione. Queste sono misure che vengono principalmente attuate nel momento in cui detto proselitismo viene perpetrato nei confronti di un fedele musulmano, essendo una pratica altamente condannata anche dalla religione musulmana stessa.  La legge ha creato un sistema secondo il quale le chiese locali, per ottenere l’identità legale e quindi esercitare la propria fede sul territorio, dovrebbero presentare una petizione ad un Comitato ad hoc. Il Comitato a sua volta ha facoltà di concedere o meno l’autorizzazione e di porre delle limitazioni in maniera tale da “non intaccare” in nessun modo la fede principale del Paese: l’Islam.  Nel 2012, solo sei anni dopo l’emanazione della legge sopra in commento, ne è stata emanata un’altra volta a limitare ulteriormente l’identità legale dei cristiani algerini, i quali sono stati obbligati così a doversi registrate per poter continuare a professare “liberamente” la loro fede.  La situazione non è migliorata con il passare degli anni.  Il governo, infatti, ha ostacolato e perseguitato tutti i cristiani algerini presenti sul territorio a partire dalle violentissime persecuzioni perpetrate nei loro confronti negli anni ‘90, che hanno generato instabilità nella popolazione e destato altrettanta preoccupazione nella comunità religiosa ed internazionale.  Ad oggi, come abbiamo visto, la situazione non risulta particolarmente migliorata, e sempre meno fedeli frequentano le Chiese per paura di ritorsioni da parte delle autorità locali. Ritorsioni queste, attuate soprattutto nei confronti dei cristiani protestanti, che trovano fondamento legale proprio nella legge del 2006 sopra citata.  Conseguentemente, il governo algerino ha deciso di trasformare molte di queste Chiese – ormai abbandonate – in moschee e, dal 2018, ha avviato una vera e propria campagna nazionale per invitare alla chiusura di tutte quelle protestanti.   La popolazione algerina combatte da anni questa situazione di instabilità sociale che ha portato all’oppressione alla quale si assiste al giorno d’oggi. Integrazione sociale e convivenza religiosa, infatti, potrebbero diventare i cardini dello Stato algerino, se non ci fosse un quadro normativo così categorico in materia di libertà delle minoranze religiose.   Lo sviluppo e l’adeguamento dell’Algeria nel contesto internazionale di tutela delle minoranze religiose sarebbe sicuramente un valore aggiunto per le comunità, che vedrebbero diminuire i conflitti su base religiosa, che ad oggi esistono.  SITUAZIONE ATTUALE  Come abbiamo visto, l’instabilità religiosa si riflette in instabilità sociale ed è la causa di anni di conflitti interni al Paese. Questo spinge i perseguitati alla fuga, soprattutto tramite il Mar Mediterraneo.  La violazione della libertà religiosa diventa dunque, nel contesto dell’Algeria, il motore principale delle migrazioni.   Dal fallimento della sua tutela e protezione nascono problemi non solo sociali, ma anche politici, militari, di sicurezza, ma soprattutto internazionali.   La preoccupante situazione in Algeria allarma la comunità internazionale

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I diritti della comunità LGBTQ+ in Etiopia: la strada verso l’uguaglianza è ancora lunga

Le persone LGBTQ+ in Etiopia sono oggetto di discriminazione dalla maggioranza della popolazione etiope. L’attività omosessuale, da intendersi come l’atto della sodomia e più in generale l’attività sessuale fra individui dello stesso sesso praticata a fini non riproduttivi, sia maschile che femminile rappresenta un reato per il quale è prevista la reclusione ma non la pena capitale. La criminalizzazione e l’oppressione della comunità LGBTQ+ etiope sono dovute a fattori storici, culturali e religiosi che risalgono a ben prima dell’attuale regime repubblicano. Sebbene negli ultimi anni siano nate diverse associazioni, sia all’interno del paese sia all’estero – grazie agli sforzi di attivisti espatriati -, che portano avanti le istanze della comunità LGBTQ+, la tolleranza e l’accettazione da parte di tutta la società etiope sono traguardi che sembrano ancora lontani. Quadro Legislativo ed impatto nella società civile Il codice penale etiope disciplina in tre articoli il reato di omosessualità, sia maschile che femminile, nello specifico si fa riferimento agli articoli 629-631. L’articolo 629, stabilisce che chiunque pratichi un “atto omosessuale o qualsiasi altro atto indecente” è punibile con un periodo di reclusione. Gli articoli successivi stabiliscono l’ammontare di questo periodo di reclusione sulla base di aggravanti che, a seconda della situazione in cui si è verificato l’atto incriminato e delle persone coinvolte, prevedono non meno di un anno di reclusione fino a un massimo di 25 anni. La pena è lievemente ridotta se i soggetti interessati sono donne. Nello specifico, l’articolo 630 stabilisce la reclusione: Per un periodo mai inferiore a un anno. Fino a 10 anni se: Chi pratica l’atto approfitta delle difficoltà fisiche o psicologiche dell’altro o se sfrutta l’autorità di cui gode in virtù del suo ruolo (di tutore, insegnante, datore di lavoro etc.) per indurre l’altro a trasgredire. Chi pratica l’atto ne fa il suo mestiere in violazione dell’articolo 92 del Codice Penale Etiope. Dai 3 ai 15 anni se: L’atto è praticato attraverso l’uso di violenza, intimidazione, coercizione, inganno o truffa o se chi pratica l’atto approfitta dell’incapacità dell’altro di opporre resistenza. Chi pratica l’atto coinvolge l’altro in episodi di sadismo, crudeltà o se gli trasmette coscientemente una malattia venerea. Chi pratica l’atto spinge l’altro al suicidio causato dalla “sofferenza, vergogna o disperazione.” L’articolo 631 disciplina l’occorrenza del reato quando sono coinvolti i minori d’età e prevede la reclusione: Dai 3 ai 15 anni se il minore ha dai 13 ai 18 anni. Dai 15 ai 25 anni se il minore ha meno di 13 anni. Fino a 10 anni se il reato avviene fra una donna e una minorenne. A vita se il minore subisce danni fisici o psicologici, o se il minore viene condotto al suicidio in seguito. Il Codice Penale Etiope, nel trattare questa disciplina, utilizza una terminologia molto forte nella quale le persone omosessuali sono definite come “il criminale” o “la vittima”, escludendo dunque la possibilità che “l’atto omosessuale” si verifichi nel pieno consenso delle persone coinvolte. Va inoltre notato come le donne siano appena menzionate. Con queste premesse, dunque, è possibile affermare che l’attuale quadro legislativo dell’Etiopia non prevede alcun tipo di garanzia per i membri della comunità LGBTQ+, al contrario è direttamente co-responsabile della sua discriminazione. Matrimonio egualitario, adozione di minori per coppie LGBTQ+, servire nell’esercito vivendo apertamente la propria sessualità e cambiare il genere legale sono tutte pratiche attualmente proibite dall’ordinamento etiope. Tuttavia, nonostante un quadro legislativo così avverso alla comunità LGBTQ+, figlio di una società profondamente lontana dall’accettazione di queste individualità, è da menzionare l’iniziativa del governo etiope che, nel cancellare un raduno anti-gay, ha fortemente respinto la richiesta (avanzata da associazioni religiose del paese) di inasprimento della pena per il reato di omosessualità. La classe religiosa etiope infatti, ha richiesto che venisse prevista la pena di morte per tutti coloro che fossero stati riconosciuti come membri della comunità LGBTQ+. Questo atteggiamento da parte delle istituzioni però, non ha contribuito a cambiare la mentalità della società civile. Si registrano infatti, atti di aggressione di qualsiasi tipo ai danni della comunità LGBTQ+. L’oppressione subita prende molte forme: dal tentativo di sabotaggio di un seminario sull’educazione sessuale nel 2011, ai pedinamenti, agli interrogatori cui le persone omosessuali e quelle transessuali sono state sottoposte fino a subire, presumibilmente, abusi fisici (come riportato in questo report del 2013 del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti), per terminare con gli arresti di persone LGBTQ+ incarcerate con la sola colpa di vivere la loro vita. Purtroppo però, i numeri sono da intendersi superiori rispetto a quelli riportati, per via dei fondati timori che vivono i membri della comunità LGBTQ+ etiope di subire ulteriori ritorsioni e violenze nel caso presentassero denuncia. Percezione e Status sociale L’Etiopia è un paese caratterizzato da un contesto demografico estremamente eterogeneo e frammentato. Una condizione che spesso genera conflitti interni e forti divisioni. In questo contesto, la condizione delle persone LGBTQ+ risulta, tuttavia, ancora più drammatica considerata l’aperta opposizione e delle istituzioni e della società civile. Gli appartenenti alla comunità LGBTQ+, infatti, subiscono un forte stigma in Etiopia, dove “omosessualità” diventa spesso sinonimo di pedofilia, violenza sessuale e abusi su minori. Che si faccia riferimento a regioni a maggioranza islamica o di religione cristiano-ortodossa, l’omosessualità è comunque vista come un grave atto peccaminoso. Come abbiamo accennato in precedenza, le associazioni religiose si sono espresse apertamente contro l’omosessualità, accostando la sodomia e l’attività omosessuale all’Anticristo ed alla fine dei tempi. La condizione delle persone LGBTQ+ non è che peggiorata con l’aumento dei contagi di HIV che ha interessato l’Etiopia negli anni ’80 e’90 aggiungendo al già largamente presente stigma religioso, anche quello legato alla malattia. Quando la matrice non è religiosa, la discriminazione è favorita da fattori culturali per i quali le istanze portate avanti dalla comunità LGBTQ+ vengono recepite dalla popolazione etiope come un qualcosa di direttamente importato dai paesi occidentali e che consiste in un atto meschino e immorale. Non sorprende dunque che, secondo un’indagine condotta nel 2007 dal Pew Research Center di Washington il 97% della popolazione etiope ritiene che l’omosessualità sia una condotta che la società dovrebbe

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La voce queer di Kakuma: la storia di G.

Nei nostri articoli precedenti abbiamo parlato delle condizioni della comunità LGBTQ+ in Kenya e delle violazioni dei diritti umani che avvengono all’interno del campo profughi di Kakuma.  Abbiamo poi raccolto la testimonianza di J, il primo caso del nostro approfondimento sulle violazioni di diritti umani all’interno di Kakuma, e la testimonianza di A, donna lesbica ospite di Kakuma. Proseguendo, dunque, l’inchiesta che Large Movements APS sta portando avanti insieme ad International Support Human Rights, in questo articolo analizzeremo la situazione specifica di G., nome di fantasia di un ragazzo LGBTQ+ di Kakuma con il quale abbiamo avuto modo di parlare.  Come riportato nei casi precedenti, anche G. ha dichiarato di aver lasciato il suo Paese d’origine in seguito alle diverse aggressioni subite a causa della sua sessualità e di aver cercato rifugio nel vicino Kenya. La speranza di poter vivere lontano dalla paura e dalle violenze subite in quella che un tempo chiamava “casa”, è stata la sua bussola che lo ha guidato lungo il suo viaggio, ma la vita a Kakuma si è rivelata molto più terribile di quanto potesse immaginarsi.  La breve permanenza a Kakuma  G. è un cittadino ugandese. È fuggito dal suo Paese quando la vita in patria era diventata insopportabile dopo diverse aggressioni subite a causa della sua sessualità. È arrivato a Kakuma nell’aprile 2020 ed è ripartito un anno dopo, nell’aprile 2021, quando le condizioni di vita all’interno del campo erano diventate molto rischiose, essendosi trovato a vivere numerosi attacchi violenti, insieme a tutta la comunità LGBTQ+ di Kakuma: è stato quasi dato alle fiamme nel maggio del 2020 ed hanno cercato di avvelenarlo due volte. Non sorprende quindi che G. descriva le condizioni all’interno del campo di Kakuma come “orribili”. La negligenza della polizia e dello staff UNHCR  G. ha dichiarato di aver denunciato alla polizia e al personale dell’UNHCR ogni volta che è stato oggetto di un’aggressione. Tuttavia, tutte le e-mail che ha scritto sono state ignorate al punto che nell’aprile 2021 è stato costretto a fuggire per salvarsi la vita dopo essere sopravvissuto all’ennesima aggressione.  Ci ha inoltre riferito che al suo arrivo è stato scelto come portavoce delle persone LGBTQ+ a Kakuma. Ed è proprio per questo suo stretto contatto con le altre persone all’interno del campo che può assicurare che ogni persona queer che conosce ha sperimentato la stessa negligenza da parte delle autorità e del personale dell’UNHCR. Intimidazioni, minacce e detenzioni arbitrarie sono mezzi spesso usati per opprimere la comunità LGBTQ+ a Kakuma e costringerla al silenzio, tanto che G. afferma che molti rapporti dell’UNHCR dal Kenya condividono informazioni e dati che non sono affatto affidabili né vicini alla verità del campo, perché tali informazioni sono il risultato dell’uso della forza sui rifugiati LGBTQ+, confermando che Kakuma non è un luogo sicuro per le persone queer e che queste hanno bisogno e meritano protezione internazionale e di essere trasferite il prima possibile. La discutibilità della gestione dei ricollocamenti Anche la gestione dei ricollocamenti è discutibile. I ricollocamenti sono così importanti per le persone LGBTQ+ di Kakuma perché, innanzitutto, danno loro speranza. La speranza di vivere e amare liberamente, di essere la persona che sono e di diventare membri produttivi della società. Soprattutto, il ricollocamento significa libertà e sicurezza per G. e per coloro che a Kakuma vivono ancora oggi nella paura, incapaci di muoversi liberamente anche quando vengono attaccati. Anche se G. non ne ha mai fatto richiesta, in quanto secondo lui un trasferimento era implicito nella sua domanda di asilo, dato che il Kenya è un Paese ostile per le persone queer, ci ha raccontato come è stata gestita la situazione dei ricollocamenti mentre si trovava nel campo: all’inizio, l’UNHCR ha detto loro che c’erano pochi posti disponibili per il reinsediamento e che non erano in grado di trasferirli tutti. Poi, col pretesto dell’emergenza sanitaria da Covid-19, hanno ritardato i trasferimenti ma dallo scoppio della pandemia i ricollocamenti non sono ancora avvenuti. Inoltre, i ricollocamenti sono stati usati come arma dal governo keniota e talvolta dal personale dell’UNHCR contro i membri più attivi e vocali della comunità LGBTQ+ che hanno cercato di denunciare le violazioni che avvenivano nel campo. Sostanzialmente, coloro che cercavano di denunciare le condotte gravissime a Kakuma, come G., sono stati minacciati di non essere mai trasferiti. Nel giugno 2021, dopo la morte dell’attivista 22enne Chriton Atuhwera nel campo di Kakuma avvenuta due mesi prima, G. e le persone LGBTQ+ all’interno del campo hanno lanciato una petizione all’UNHCR chiedendo protezione e di essere trasferiti. Gli agenti dell’UNHCR hanno risposto con intimidazioni a coloro che volevano aderire alla petizione, dicendo che sarebbero stati rimpatriati se avessero firmato. “Non si tratta solo di stare zitti, ma loro sono stati proattivi nel mettere a tacere la comunità LGBTQ+”, ha affermato in merito G. Se ti è piaciuto l’articolo, condividi!

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LA PIRATERIA SOMALA

La pirateria somala viene spesso descritta solo ed esclusivamente come criminale, e se invece espletasse anche un’altra funzione, ossia quella di guardiani del mare? In questo articolo si cercherà di indagare la natura del fenomeno nonostante le fonti che risaltano una visione alternativa a quella diffusa internazionalmente siano poche. Il tentativo sarà dunque, quello di individuare gli indizi funzionali a definire la pirateria non solo come criminale, ma come “forza” di difesa alternativa delle acque, servizio di cui il Governo di Transizione non riesce a farsi carico pienamente. Contesto storico La pirateria moderna, che si è sviluppata soprattutto in aree geopoliticamente strategiche, ha assunto tutti i caratteri della definizione storica di “predone del mare”. A differenza dei suoi analoghi, la pirateria somala ha acquisito caratteristiche diverse che l’hanno resa un fenomeno particolarmente difficile da studiare e, soprattutto, da debellare. Queste differenze sono dovute alla presenza di molti fattori e, in particolare, alla situazione politica in cui la Somalia si trova. Ciò, infatti, ha dato luogo a tutta una serie di fenomeni chiave nello sviluppo della pirateria. La complessità della situazione somala quindi sta proprio nell’esistenza e nella sovrapposizione di diverse dinamiche, locali ma anche regionali ed internazionali che rendono necessario un approccio onnicomprensivo. In questa sede, tuttavia, si affronterà solo uno dei tanti aspetti di questo fenomeno e, in particolare, si cercherà di rispondere alla questione sulla natura della pirateria sviluppatasi in questo contesto. Usando termini somali, si cercherà di capire se ricadono nella categoria di burcad badeed, stricto sensu “predoni del mare”, o badaadinta badah, “salvatori del mare”. Da quando nel 2012 gli sforzi congiunti della comunità internazionale sono riusciti a debellare questo problema, il sequestro della petroliera Aris 13 del 2017, ha riportato nuovamente l’attenzione, assopita da anni, sull’area, facendo presagire anche un ritorno della pirateria. Questo attacco, tuttavia, sembra aver rappresentato solo una breve parentesi dovuta probabilmente all’abbassamento della guardia delle misure intraprese sino ad allora e al ritiro delle forze NATO della missione “Ocean Shield”, terminata nel 2016. Ma se questo fosse solo il sintomo di un ritorno che potrebbe essere ancora più pericolo del precedente? Per questo motivo potrebbe essere utile capire la natura degli atti dei pirati somali e comprendere se il ruolo iniziale di difensori del mare sia scomparso durante l’evoluzione che la pirateria ha subito, divenendo finalizzato solo ed esclusivamente ad azioni di depredazione, oppure se questo sia stato solo “nascosto” per legittimare in maniera più semplice le azioni svolte della comunità internazionale. Tale tentativo, tuttavia, risulterà molto difficile per la scarsità di dati e di notizie svincolate dall’”occhio europeo”. In questa sede, pertanto, si proverà a fornire solamente uno spunto di riflessione. Pescatori o professionisti? Quando nel 1991 si venne a creare un vuoto politico nel paese, dovuto alla caduta del regime di Siad Barre, fu subito evidente che venne anche a mancare una struttura centralizzata in grado di avere un controllo efficace su tutto il territorio somalo e, consequenzialmente, sulle sue acque. Fu di questa situazione che attori esterni, principalmente pescherecci europei e cinesi ed organizzazioni criminali, iniziarono ad approfittare. La pesca intensiva e lo scarico di rifiuti tossici hanno rappresentato le motivazioni principali che hanno spinto i pescatori locali ad improvvisare attacchi disorganizzati verso gli estranei invasori. Nonostante ciò, la depredazione straniera non può essere definita come la sola motivazione, a questa, infatti, si aggiunge un quadro molto più complesso: la mancanza di uno Stato centralizzato in grado di farsi carico dei bisogni della società, un’organizzazione clanica della società somala che si pone come rappresentante differente di ordine e portatore di principi di organizzazione politica differenti da quelli dello Stato moderno e post-moderno, e uno stato di povertà e crisi umanitaria notevole. Fino agli anni 2000, quindi, si parla più di un fenomeno finalizzato alla sopravvivenza, in cui il confine tra pirata, pescatore e contrabbandiere è molto labile. Si può perciò ipotizzare che in questa fase, nonostante la popolazione che traeva il suo sostentamento dal mare abbia raggiunto livelli di frustrazione notevoli dovuti alle attività illegali di pesca straniere, non sia tuttavia riuscita a creare una struttura tale da poter essere considerata come “guardiana delle acque”. In questi anni, infatti, si è assistito principalmente al fenomeno che è stato definito come “pirateria d’opportunità”, deducibile soprattutto dalla sua discontinuità, dalla poca redditività degli attacchi e dal corto raggio d’azione. Non si può comunque escludere che proprio in questo periodo iniziarono a formarsi e svilupparsi i gruppi di pirateria di stampo criminale che siamo abituati a conoscere. Infatti, secondo un ex leader pirata somalo, Farah Hirsi Kulan “Boya”, il passaggio ad una pirateria professionalizzata avviene già nel 1994. Da pirati d’opportunità a vera e propria guardia costiera? Dai primi attacchi sporadici e disorganizzati, le attività piratesche in pochi anni cambiarono totalmente divenendo un business molto redditizio. Molti affermano che c’è stato un passaggio da un fenomeno di protesta ad uno, solo ed esclusivamente, basato sul profitto, anche se, potrebbe non essere esattamente così.  In un contesto politico come quello somalo, il Governo Federale di Transizione è l’unico potere istituzionale e riconosciuto a livello internazionale che, nonostante ciò, non è in grado di estendere la propria autorità oltre Mogadiscio, permettendo ad altri tipi di “organizzazioni politiche” di subentrare nel controllo dello spazio. Infatti, “per l’intero territorio somalo ogni livello d’amministrazione è in buona sostanza affidato nelle mani di clan, capi-villaggio e signori della guerra” ed è tra questi leader che riconosciamo le figure più influenti della pirateria. Alcune tra le organizzazioni piratesche, che vengono definite di criminalità organizzata, cercarono di assumere anche un certo grado di istituzionalizzazione. Queste volevano dimostrare di essere capaci di svolgere non solo attività di saccheggio, rapimenti finalizzati al riscatto o comunque legati all’arricchimento, ma anche una funzione di “difesa” e “controllo”. Gran parte della società somala, inoltre, iniziò a godere dei benefici portati dalle attività piratesche, realtà che pian piano promosse una forma di legittimazione nei confronti di questi gruppi criminali, garantendo ai loro membri anche una sorta di protezione e di rispetto. Uno dei fenomeni

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