KASHA JACQUELINE NABAGESERA: PIONIERA DEI DIRITTI LGBTQIA+ IN AFRICA

Kasha Jacqueline Nabagesera รจ una pioniera nell’attivismo per i diritti LGBTQIA+ e fondatrice di Freedom and Roam Uganda (FARUG), organizzazione per i diritti delle donne e delle persone lesbiche, bisessuali e queer.

LA QUESTIONE UGANDESE

L’Uganda รจ tristemente nota per essere uno dei tre Paesi africani, insieme alla Nigeria e alla Mauritania, in cui รจ prevista la pena di morte per gli omosessuali.

Il 21 marzo 2023 รจ stata approvata dalla Corte costituzionale l’Anti-Homosexuality Act (AHA) che inasprisce le pene giร  esistenti nel Codice Penale del 1950, che prevedeva l’ergastolo per โ€œchiunque avesse conoscenza carnale contro l’ordine della naturaโ€. L’attuale legge sancisce, come citato, la pena di morte per il reato di omosessualitร  aggravata. Ciรฒ significa che il reato si configura quando le persone queer vengono identificate come delinquenti seriali e/o quando si trasmette una malattia sessualmente trasmissibile durante l’atto. La citata normativa introduce inoltre, l’obbligo di denunciare alle autoritร  chiunque sia sospettato di praticare atti omosessuali e la pena qualora detta denuncia non venga sporta รจ la reclusione fino a 5 anni.

Nonostante sia stata presentata una petizione da un gruppo di attivisti LGBTQIA+ per annullare l’AHA perchรฉ incostituzionale in quanto nega la fruizione di diritti umani fondamentali, la Corte costituzionale ha respinto l’annullamento della legge con voto unanime.

Purtroppo il Paese non รจ nuovo a questo tipo di legge.

Giร  nel 2014 infatti, era stato varato una prima versione dellโ€™Anti-Homosexuality Act che prevedeva la pena di morte, poi commutata in ergastolo, per chi avesse intrattenuto relazioni sessuali con persone dello stesso sesso. La legge fu poi successivamente annullata perchรฉ non era stato raggiunto il quorum sufficiente per la sua approvazione.

Nel 2021 venne poi approvato un disegno di legge, che condannava a 10 anni di carcere chi avesse compiuto atti omosessuali. Questa legge fu poi ritirata dal Presidente Yoweri Mudeveni poichรฉ le condanne previste erano giร  presenti all’interno del Codice Penale.

DESIDERIO DI CAMBIAMENTO

In questo clima ostile Kasha Jacqueline Nabagesera inizia fin da giovanissima la promozione dei diritti LGBTQIA+ parlandone in televisione e radio, diventando non solo la prima persona a parlare apertamente della sua omosessualitร , ma anche una pioniera dellโ€™attivismo queer nel suo Paese.

Questo la porta a diventare un bersaglio di odio e violenza da parte di istituzioni e cittadini sin dalla sua vita universitaria. In questo periodo รจ stata costretta a sottoporsi tutti i giorni ad un esame del suo abbigliamento davanti ai dirigenti dell’universitร  prima delle lezioni dal momento che lโ€™ateneo sosteneva che una โ€œveraโ€ donna non potesse indossare capi maschili. Gli stessi dirigenti poi, le hanno rifiutato di alloggiare nel campus per impedire che Kasha Jacqueline Nabagesera potesse โ€œcorrompere le altre studentesseโ€.

Queste vessazioni perรฒ, non hanno prodotto altro risultato se non quello di rafforzare in lei la determinazione a portare il cambiamento in una nazione fortemente omofoba e cosรฌ nel 2003 fonda, insieme ad alcuni amici, l’organizzazione Freedom and Roam Ruanda (Farug) per denunciare le discriminazioni di cui le persone queer sono vittime.

I membri di Farug diventano bersaglio di violazioni dei diritti umani di varia natura fino ad arrivare al 2 ottobre del 2010, quando la rivista Rolling Stones Uganda pubblica la lista โ€“ corredata di nomi e foto – dal titolo โ€œHang Themโ€ dei 100 omosessuali piรน in vista. Tra i nominativi pubblicati compaiono anche quelli di Kasha Jacqueline Nabagesera e del suo amico attivista David Kato, che morirร  mesi dopo a causa di una violenta aggressione a sfondo omofobo.

Kasha invece, continua la sua battaglia in prima linea e nel 2014 fonda Bombastic, la prima rivista LGBTQIA+ che viene distribuita gratuitamente e segretamente nella capitale ugandese al fine di sensibilizzare la popolazione sulle condizioni di vita della comunitร  queer nel Paese.

Per il suo lavoro e il suo coraggio รจ conosciuta a livello mondiale e riceve diversi premi importanti come il Martin Ennals Award for Human Rights Defenders, il corrispettivo del Premio Nobel per i diritti umani, nel 2011; il Nuremberg International Human Rights Award nel 2013 e il Right Livelihood Awards nel 2015.

Nonostante le innumerevoli difficoltร  e le perdite in termini di vite umane, Kasha Jacqueline Nabagesera non ha mai ceduto o deciso di fuggire dall’Uganda poichรฉ la sua voglia di giustizia โ€“ rappresentativa di quella di tutta la comunitร  LGBTQ+ ugandese – primeggia sul terrore.

In occasione del Pride Month, noi di Large Movements APS abbiamo scelto di dar voce a storie come quella di Kasha Jacqueline Nabagesera affinchรฉ, in un momento di festa per la comunitร  LGBTQIA+ occidentale, non ci si dimentichi che in tante parti del mondo quelle conquiste sono ancora lunghe dallโ€™essere acquisite. E volevamo farlo tributando il lavoro di coloro che ogni giorno si battono per veder riconosciuti i diritti della comunitร  LGBTQIA+.

Ci auguriamo che, grazie al lavoro di Kasha e del suo magazine, il governo dellโ€™Uganda decida di eliminare dal proprio ordinamento giuridico una legge altamente lesiva dei diritti umani, mettendo in atto un processo rapido e concreto che porti alla decriminalizzazione dellโ€™omosessualitร .

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Uganda: Porto Sicuro o Polvere sotto al Tappeto? Ne parliamo con Maรซlle Noir

Sentiamo spesso parlare del conflitto nella Repubblica Democratica del Congo, come in Sud Sudan o delle continue violenze e rappresaglie in Repubblica Centraficana. Sappiamo gravemente poco, perรฒ, delle persone che scappano da questi conflitti, dei rifugiati, delle loro condizioni, e soprattutto delle condizioni delle donne che si ritrovano a fuggire per salvare le proprie vite e le proprie famiglie. Per questo oggi vorremmo porre lโ€™accento su una parte spesso tralasciata nelle narrative dei conflitti: le persone che sono spinte a fuggire da questi contesti e che nella stragrande maggioranza dei casi, contrariamente a quanto spesso viene falsamente sostenuto, rimangono in Africa cercando asilo in Stati confinanti e non scelgono di affrontare il pericolossissimo viaggio verso lโ€™Europa. Uno dei Paesi africani che accoglie una grande quantitร  di persone in fuga รจ lโ€™Uganda. Oggi ne parliamo con Maรซlle Noir, dottoranda dell’Irish Research Council presso l’Irish Centre for Human Rights dell’Universitร  di Galway. La sua ricerca affronta la questione della violenza nei confronti delle donne rifugiate attraverso una prospettiva femminista intersezionale e decoloniale, esplorando la rilevanza di un approccio femminista al diritto come alternativa alla prassi legale nel contesto dei rifugiati urbani ugandesi. Maรซlle ha una vasta esperienza nel campo dell’advocacy e della ricerca comunitaria, poichรฉ negli ultimi cinque anni ha lavorato con diverse organizzazioni nazionali e locali della societร  civile in India, Irlanda, Francia e Uganda.  รˆ anche assistente di ricerca part-time nell’ambito del progetto Horizon dell’Unione Europea su democrazia e politica, collaborando con ricercatori in Slovacchia, Austria, Italia e Irlanda. Ciao Maรซlle, รจ un piacere averti qui con noi. Innanzitutto, vorrei chiederti della popolazione rifugiata che raggiunge l’Uganda. Quali sono le principali nazionalitร  che chiedono asilo in Uganda, qual รจ la procedura per richiedere asilo nel Paese e dove sono accolti i rifugiati? รˆ importante iniziare dicendo che in Uganda risiedono oltre 1,5 milioni di rifugiati, cifra che ne fa la prima popolazione di rifugiati in Africa e la quarta al mondo. Ciรฒ si spiega con la posizione geografica dell’Uganda, crocevia di diverse zone di conflitto nei Paesi vicini, tra cui la Repubblica Democratica del Congo (RDC), il Sud Sudan, la Somalia, l’Etiopia, il Burundi, l’Eritrea, il Ruanda, ecc. L’Uganda ha anche una lunga storia di “politica di porte aperte”, sostenuta finanziariamente e politicamente dal Nord globale che sostiene lo Stato nell’accogliere i rifugiati in fuga dai conflitti e dalle persecuzioni. Per quanto riguarda la nazionalitร , il Sud Sudan, la Repubblica Democratica del Congo e la Somalia sono i Paesi di origine predominanti per i rifugiati in Uganda, in quanto costituiscono rispettivamente il 57,1%, il 32% e il 4,1% della popolazione totale rifugiata. Tuttavia, quando si tratta di rifugiati urbani, solitamente localizzati nella capitale Kampala, nella parte meridionale del Paese, questi sono principalmente Somali, Congolesi, Eritrei, Sud Sudanesi, Burundiani ed Etiopi. Il Refugee Act ugandese del 2006 amplia la definizione di rifugiato fornita dalla Convenzione sui Rifugiati del 1951 e dalla Convenzione dell’Organizzazione dell’Unitร  Africana del 1969 che disciplina gli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa, includendo il criterio del genere. Pertanto, chiunque si trovi al di fuori del proprio Paese d’origine, a causa di aggressioni esterne, occupazione, dominazione straniera od eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico, ed abbia il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalitร , appartenenza a un particolare gruppo sociale, opinione politica o genere, puรฒ ottenere lo status di rifugiato. La procedura per richiedere asilo in Uganda varia a seconda che il richiedente asilo desideri stabilirsi in un campo (che spesso viene concesso sulla base dello status di rifugiato prima facie o โ€œautomaticoโ€ ossia, di gruppi di persone che provengono da uno Stato che l’UNHCR ha riconosciuto soddisfare i requisiti oggettivi che giustificano la presupposizione dello status di rifugiato. Per queste persone dunque, dovrebbe essere piรน semplice e veloce ottenere lo status perchรฉ l’onere probatorio della situazione nel Paese di origine รจ del tutto inesistente. Si sono intenzionalmente lasciate le virgolette sul termine automatico perรฒ, perchรฉ nella realtร  questa presunzione non viene quasi mai applicata) o in cittร  (rifugiato non prima facie, al contrario, individui non appartententi alla modalitร  โ€œautomaticaโ€), ma in entrambi i casi rimane relativamente semplice. Per lo status di rifugiato โ€œautomaticoโ€, i richiedenti asilo che raggiungono il confine vengono trasferiti in uno dei numerosi centri di accoglienza del Paese per un breve colloquio con un agente dell’Ufficio del Primo Ministro (OPM) prima della registrazione e dell’ottenimento dello status di rifugiato. Questo processo dura da pochi giorni ad un massimo di un paio di settimane, a meno che non ci sia un afflusso particolarmente importante di rifugiati. รˆ piรน difficile ottenere lo status di rifugiato โ€œnon-automaticoโ€, soprattutto per potersi stabilire in una cittร . Il richiedente asilo deve registrarsi presso l’OPM e sottoporsi a una serie di colloqui con diversi interlocutori, tra cui un ufficiale di polizia e un funzionario dell’OPM incaricato di esaminare lo status, seguiti da un esame finale del caso da parte del Comitato per l’ammissibilitร  del rifugiato. Secondo l’UNHCR, nel 2022 circa l’87,5% delle domande di status di rifugiato รจ stato accolto. A titolo di confronto, nel 2022 in Italia oltre l’80% dei richiedenti asilo si รจ visto negare lo status di rifugiato. Parlando dei campi profughi ugandesi, quali sono le condizioni di accoglienza nei campi? L’Uganda รจ spesso elogiata dalla comunitร  internazionale e dai media per le sue condizioni di accoglienza esemplari che favoriscono un “porto sicuro” o addirittura un “paradiso” per i rifugiati. In effetti, sulla carta e in conformitร  con il Comprehensive Refugee Response Framework, i richiedenti asilo che hanno ottenuto lo status di rifugiato ricevono automaticamente un appezzamento di terreno da coltivare, l’accesso all’istruzione ed all’assistenza sanitaria gratuita, nonchรฉ il diritto al lavoro ed alla libertร  di movimento. Tuttavia, sappiamo che la teoria di solito differisce drasticamente dalla pratica ed รจ il caso anche del contesto dei rifugiati in Uganda. La politica di non confinamento (non-encampment policy), apparentemente progressista, promossa dal Comprehensive Refugee Response Framework, non รจ molto ben attuata in quanto la libertร  di movimento rimane condizionata all’ottenimento di un permesso rilasciato dall’OPM

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Talibรจ-Senegal

Bambini Talibรจ in Senegal: la vita in bilico tra abusi e accattonaggio

Per la strada di Dakar e in molte altre cittร  del Senegal si possono osservare ragazzi impolverati, sporchi e spesso a piedi nudi che tengono in mano lattine di pomodoro vuote o ciotole di plastica per chiedere l’elemosina, nella maggior parte dei casi si tratta dei bambini Talibรจ. Uno studio dell’UNICEF del 2007 sullโ€™accattonaggio dei bambini a Dakar, la capitale del Senegal , ha rilevato che oltre il 90% dei bambini sono Talibรจ, ad oggi perรฒ non ci sono ancora statistiche ufficiali e vengono coinvolti bambini tra gli 8 e i 15 anni. Talibรจ e Marabutto in Senegal Il termine Talibรจ nella lingua Wolof significa โ€œdiscepoloโ€ e si riferisce ai bambini che frequentano le Daara ovvero le scuole coraniche gestite dai Marabutto, coloro che insegnano i precetti dell’islam sulla base dellโ€™apprendimento mnemonico del Corano. Le Daara in Senegal hanno garantito per secoli una buona diffusione dell’educazione islamica in tutti i segmenti della popolazione del paese dell’africa occidentale. Qui spesso perรฒ si attua la punizione fisica che per molti paesi musulmani dell’africa occidentale viene considerata una parte importante del processo educativo. Tra il Talibรจ e il suo Marabutto esiste un rapporto di devozione e stretta obbedienza in quanto il Marabutto offre la sua guida e la sua protezione ai propri discepoli che esprimono la propria fiducia attraverso un sostegno economico o la decima.  In Senegal la questione dei Talibรจ non รจ vista in maniera omogenea, alcuni ne promuovono la diffusione mentre altri la chiusura. A ciรฒ si aggiunge che i genitori che decidono di mandare i figli a una Daara spesso lo fanno attraverso un affidamento di fatto, a causa delle proprie difficoltร  economiche, e per offrire un futuro migliore al bambino costruendo un rapporto con la fratellanza mussulmana a cui il Marabutto appartiene e di conseguenza per preparare il bambino alla carriera di Marabutto. Occorre notare perรฒ che la formazione dei Talibรจ rimane essenzialmente legata ai valori dellโ€™Africa occidentale in materia di educazione dei bambini. Lโ€™accattonaggio, le punizioni e la vita nelle Daara Originariamente l’accattonaggio dei Talibรจ era costituito nel chiedere cibo per integrare le scorte della Daara quando questa non poteva sostenere il proprio fabbisogno attraverso i raccolti forniti dai campi del Marabutto. Tale pratica si รจ evoluta dal momento in cui le Daara sono cresciute in ambiente urbano e hanno richiesto un cambiamento di reddito. In questo modo la pratica dell’elemosina ha fatto sรฌ che i bambini dessero denaro al posto del cibo. Il problema degli abusi dei Marabutto verso i bambini Talibรจ in Senagal non รจ soggetta alla regolamentazione statale e di conseguenza alcune scuole abusano del rapporto che intercorre tra discepolo e maestro. Spesso quella che dovrebbe essere una istituzione di educazione puรฒ assumere sfaccettature negative. Alcuni Marabutto, invece di insegnare il Corano ai loro Talibรจ, li sfruttano per il lavoro o per l’accattonaggio forzato per le strade. In alcuni casi questo sfruttamento espone i bambini a malattie, ferite, morte, abusi fisici e sessuali all’interno o all’esterno della Daara. Human Rights Watch da un’indagine su 175 bambini Talibรจ in Senegal ha stimato una media di poco meno di 8 ore al giorno, ogni giorno, di accattonaggio per poter richiedere una cifra tra i 373 CFA (0,56 โ‚ฌ) e i 445 CFA (0,67 $) nei giorni di festa. Somma difficile da raggiungere in quanto poco meno del 30% della popolazione senegalese vive con meno di 593 CFA (0,90 โ‚ฌ) al giorno e dove il 55% vive con meno di 949 CFA (1,44 โ‚ฌ). Oltre al denaro spesso vengono richieste quote alimentari come lo zucchero e il riso. Se tale quota non viene rispettata il rischio e quello di subire abusi fisici e ad esempio molti ragazzi mostrano cicatrici e lividi spesso dovuti all’applicazione di cavi elettrici o bastoni. Spesso perรฒ il Talibรจ piรน anziano, che diviene l’assistente del marabutto, รจ il responsabile per la punizione dei Talibรจ piรน giovani che non restituiscono la loro quota giornaliera o che ritornano in ritardo. Nei casi in cui il Marabutto non sorveglia i bambini, il Talibรจ piรน anziano ha potere assoluto su di questi in quanto potrร  derubarli o abusare di loro fisicamente o sessualmente. In generale i bambini rischiano percosse, abusi sessuali, incatenamento, incarcerazione e numerose forme di abbandono e di pericolo in almeno 8 delle 14 regioni amministrative del Senegal. A ciรฒ si aggiungono i rischi connessi al traffico e alla migrazione dei bambini Talibรจ in Africa, tra cui il trasporto illecito di gruppi di Talibรจ e attraverso regioni e confini nazionali. I Talibรจ senegalesi spesso sono sprovvisti di beni di prima necessitร  e alloggio, dovendo sostenere ore piรน lunghe di accattonaggio o dormire per strada. Le condizioni nelle stesse Daara urbane, inoltre, sono spesso caratterizzate da malnutrizione, mancanza di abbigliamento, esposizione a malattie e scarse cure igieniche. Spesso centinaia di bambini Talibรจ vivono in condizioni di estrema sporcizia e squallore in edifici incompiuti e privi di pareti, pavimento o finestre. Qui spazzatura, fognature e mosche intasano il terreno e l’aria e spesso i bambini dormono stipati a decine in una stanza allโ€™aperto, la maggior parte di queste senza zanzariere e quindi a rischio di infezioni o malattie. La situazione viene aggravata dal fatto che se i bambini si ammalano, questi sono costretti a mendicare per pagarsi le proprie cure. I numerosi diritti violati Dal punto di vista del diritto vi sono numerose questioni relative ai diritti umani e ai diritti dell’infanzia, pertanto la questione dei bambini Talibรจ in Senegal chiama in causa diverse convenzioni internazionali. Quando parliamo dei Talibรจ possiamo trovarci davanti a casi di schiavitรน, lavoro forzato e traffico di esseri umani. Alcune ONG sostengono che quando un Marabutto acquisisce la custodia di un Talibรจ per costringerlo a mendicare, questo corrisponde alla definizione di una โ€œpratica affine alla schiavitรนโ€ come definita dalla Convenzione supplementare sull’abolizione della schiavitรน (1956). Inoltre la Convenzione sul lavoro forzato e obbligatorio (1930) descrive il lavoro forzato come โ€œun lavoro che viene esercitato da qualsiasi persona sotto minaccia di qualsiasi sanzione e per la quale la persona in questione non si

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La diga GIBE III : le caratteristiche del progetto e il contesto etiope

In un contesto globale caratterizzato da un lento ma progressivo abbandono delle fonti fossili, progetti energetici rinnovabili trovano sempre piรน spazio soprattutto in aree caratterizzate da un processo di industrializzazione ancora in corso e dal tentativo di accelerare il proprio sviluppo economico. Uno degli strumenti piรน utilizzati per produrre energia a partire dagli anni Cinquanta ad oggi sono le dighe, affiancate spesso da impianti di irrigazione per piantagioni intensive. Nella narrazione mediatica vengono presentate come โ€œenergia pulitaโ€, in quanto le emissioni di gas climalteranti sono legate al solo processo di costruzione delle infrastrutture e non alla fase di funzionamento della diga stessa. Nonostante ciรฒ, infrastrutture del genere, soprattutto se di dimensioni imponenti, sono state e sono tuttโ€™ora una delle principali cause di distruzione di interi ecosistemi e sfollamento delle popolazioni locali interessate dai progetti. Uno studio del 2000 stimava che in tutto il mondo le grandi dighe abbiano portato tra i 40 e gli 80 milioni di persone a migrare forzatamente, dati che vanno sicuramente aggiornati e calati nel contesto odierno alla luce dellโ€™aumento dellโ€™utilizzo di questa fonte energetica. รˆ questo il caso della Diga Gibe III, la piรน grande mai costruita in Etiopia e una delle piรน alte del pianeta. In questo articolo verranno prese in analisi le caratteristiche di questa infrastruttura e come essa si colloca allโ€™interno del contesto etiope. In un secondo articolo verranno poi presi in considerazione gli effetti diretti e indiretti, e sociali e ambientali che essa ha generato e potrebbe produrre in futuro. Caratteristiche di Gibe III Gibe III da sola ha aumentato dellโ€™85% la produzione di energia in Etiopia con 1870Mw di potenza installata complessiva e una produzione prevista di 6500Gwh/anno. Collocata sul fiume Omo, si inserisce in una progettazione piรน ampia di altre quattro dighe di cui Gibe I e II sono state giร  realizzate e Gibe IV e V sono in via di pianificazione. Lโ€™enormitร  di questi progetti e il fatto che insistono tutti in un contesto naturale fragile e popolato prevalentemente da gruppi indigeni ha fatto sรฌ che lโ€™infrastruttura divenisse estremamente controversa per lโ€™elevatissimo impatto sociale e ambientale che questa ha determinato.ย  Lโ€™ipotesi di realizzare una diga di tali dimensioni risale ai primi anni del 2000. I lavori sono stati iniziati nel 2006 e il completamento dellโ€™infrastruttura si รจ raggiunto giร  nel 2015. Il progetto prevede sia un impianto idroelettrico che uno di irrigazione di vaste piantagioni industriali collocate sopra le terre ancestrali delle tribรน locali. Lโ€™impianto รจ di proprietร  dellโ€™azienda nazionale Ethiopian Electric Power Corporation, la quale ha assegnato direttamente e senza gara pubblica lโ€™appalto a Salini Impregilo, azienda italiana che dagli anni 50 opera in Etiopia e che sembra detenere il controllo assoluto sulla realizzazione di impianti idroelettrici nel quadrante essendosi giร  occupata tra le altre di realizzare Gibe I e II e avendo ricevuto fondi da parte della cooperazione italiana e da vari organismi di finanziamento internazionale per la realizzazione di questi megaprogetti. Rispetto ai finanziamenti di Gibe III, sebbene allโ€™inizio si ipotizzasse di poter fare affidamento sulla Banca Mondiale, sulla Banca Europea per gli Investimenti (BEI), e sulla African Development Bank, queste hanno deciso di ritirarsi dal progetto per numerose irregolaritร  legate soprattutto alla trasparenza nellโ€™assegnazione dellโ€™appalto a Salini e alla mancanza di una valutazione di impatto ambientale e sociale credibile. รˆ da notare come lโ€™Etiopia sia completamente dipendente dagli aiuti esteri corrispondendo essi al 90% del budget nazionale. Alla Banca Mondiale e alla BEI รจ subentrata la Industrial and Commercial Bank of China (ICBC) la quale non si รจ posta gli stessi problemi e ha deciso di procedere comunque con un finanziamento di 420milioni di dollari al progetto. Nonostante il costo originario dellโ€™infrastruttura fosse stimato intorno ai 1.5 Miliardi di dollari, alcuni studi riportano un costo che si aggirerebbe sui 2 Miliardi. Da questi sono escluse le infrastrutture legate alla rete elettrica per lโ€™esportazione verso il Kenya che verranno invece coperte in parte dalla Banca Mondiale con un finanziamento che si aggira tra i 600 e gli 800 milioni di dollari. Questโ€™ultimo elemento spinge inevitabilmente a riflettere sul ruolo che questa infrastruttura riveste nellโ€™economia etiope. Contesto energetico etiope Secondo la IEA nel 2019 lโ€™Etiopia ha prodotto 14.456 Gwh di elettricitร  attraverso le proprie dighe, ovvero il 95% dellโ€™elettricitร  prodotta nel paese, a fronte di un consumo di 10.700 Gwh nello stesso anno. La tendenza negli anni precedenti รจ simile mostrando come ad ogni aumento dei consumi sia seguito un aumento importante anche delle capacitร  produttive e viceversa, determinando quindi un surplus di energia prodotta rispetto ai bisogni interni che viene dunque esportata verso i paesi circostanti. Lโ€™obiettivo ultimo รจ di esportare un totale di 900Mw tra Sudan, Djibouti e Kenya, 500Mw dei quali andrebbero a questโ€™ultimo, e sul lungo periodo punterebbe ad arrivare anche ad Egitto, Eritrea, Yemen e altri paesi dellโ€™Africa del Sud ed Est. La produzione di 6500Gwh annui associati a Gibe III va dunque a coprire prevalentemente questo bisogno di export piรน che andare ad incontrare una crescente domanda interna di energia, dimostrando come la realizzazione di un impianto di tali dimensioni non sia poi strettamente necessario. Come si evince dai dati riportati, lโ€™Etiopia consuma i 2/3 dellโ€™elettricitร  che produce. Dunque, Gibe III sembrerebbe essere una infrastruttura la cui realizzazione viene promossa per lo sviluppo dellโ€™Etiopia, ma che se calata nei bisogni energetici etiopi contemporanei, risulta essere sovradimensionata. Questi dati mostrano un ulteriore problema: la produzione interna totale di energia elettrica รจ di circa 15.000 Gwh con i restanti 550Gwh prodotti tramite energia eolica e, in minima parte, solare.  Questo dato descrive una fortissima dipendenza del paese dallโ€™Energia idroelettrica rendendolo estremamente vulnerabile a eventuali eventi imprevisti nel settore. La compresenza di queste mega dighe, e lโ€™inevitabile effetto negativo in termini di dissesto idrogeologico, assieme alle caratteristiche geologiche dellโ€™area, secondo alcuni studi farebbero pensare ad unโ€™alta probabilitร  che si possano verificare terremoti di magnitudo compreso tra il 7 e lโ€™8 nel giro dei prossimi cinquanta anni. Questo dato metterebbe fortemente a rischio la sicurezza energetica del paese in quanto eventuali danneggiamenti a

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La voce queer di Kakuma: la storia di G.

Nei nostri articoli precedenti abbiamo parlato delle condizioni della comunitร  LGBTQ+ in Kenya e delle violazioni dei diritti umani che avvengono allโ€™interno del campo profughi di Kakuma.  Abbiamo poi raccolto la testimonianza di J, il primo caso del nostro approfondimento sulle violazioni di diritti umani allโ€™interno di Kakuma, e la testimonianza di A, donna lesbica ospite di Kakuma. Proseguendo, dunque, lโ€™inchiesta che Large Movements APS sta portando avanti insieme ad International Support Human Rights, in questo articolo analizzeremo la situazione specifica di G., nome di fantasia di un ragazzo LGBTQ+ di Kakuma con il quale abbiamo avuto modo di parlare.  Come riportato nei casi precedenti, anche G. ha dichiarato di aver lasciato il suo Paese dโ€™origine in seguito alle diverse aggressioni subite a causa della sua sessualitร  e di aver cercato rifugio nel vicino Kenya. La speranza di poter vivere lontano dalla paura e dalle violenze subite in quella che un tempo chiamava โ€œcasaโ€, รจ stata la sua bussola che lo ha guidato lungo il suo viaggio, ma la vita a Kakuma si รจ rivelata molto piรน terribile di quanto potesse immaginarsi.  La breve permanenza a Kakuma  G. รจ un cittadino ugandese. รˆ fuggito dal suo Paese quando la vita in patria era diventata insopportabile dopo diverse aggressioni subite a causa della sua sessualitร . รˆ arrivato a Kakuma nell’aprile 2020 ed รจ ripartito un anno dopo, nell’aprile 2021, quando le condizioni di vita allโ€™interno del campo erano diventate molto rischiose, essendosi trovato a vivere numerosi attacchi violenti, insieme a tutta la comunitร  LGBTQ+ di Kakuma: รจ stato quasi dato alle fiamme nel maggio del 2020 ed hanno cercato di avvelenarlo due volte. Non sorprende quindi che G. descriva le condizioni all’interno del campo di Kakuma come “orribili”. La negligenza della polizia e dello staff UNHCR  G. ha dichiarato di aver denunciato alla polizia e al personale dell’UNHCR ogni volta che รจ stato oggetto di un’aggressione. Tuttavia, tutte le e-mail che ha scritto sono state ignorate al punto che nell’aprile 2021 รจ stato costretto a fuggire per salvarsi la vita dopo essere sopravvissuto all’ennesima aggressione.  Ci ha inoltre riferito che al suo arrivo รจ stato scelto come portavoce delle persone LGBTQ+ a Kakuma. Ed รจ proprio per questo suo stretto contatto con le altre persone allโ€™interno del campo che puรฒ assicurare che ogni persona queer che conosce ha sperimentato la stessa negligenza da parte delle autoritร  e del personale dell’UNHCR. Intimidazioni, minacce e detenzioni arbitrarie sono mezzi spesso usati per opprimere la comunitร  LGBTQ+ a Kakuma e costringerla al silenzio, tanto che G. afferma che molti rapporti dell’UNHCR dal Kenya condividono informazioni e dati che non sono affatto affidabili nรฉ vicini alla veritร  del campo, perchรฉ tali informazioni sono il risultato dell’uso della forza sui rifugiati LGBTQ+, confermando che Kakuma non รจ un luogo sicuro per le persone queer e che queste hanno bisogno e meritano protezione internazionale e di essere trasferite il prima possibile. La discutibilitร  della gestione dei ricollocamenti Anche la gestione dei ricollocamenti รจ discutibile.ย I ricollocamenti sono cosรฌ importanti per le persone LGBTQ+ di Kakuma perchรฉ, innanzitutto, danno loro speranza.ย La speranza di vivere e amare liberamente, di essere la persona che sono e di diventare membri produttivi della societร .ย Soprattutto, il ricollocamento significa libertร  e sicurezza per G. e per coloro che a Kakuma vivono ancora oggi nella paura, incapaci di muoversi liberamente anche quando vengono attaccati.ย Anche se G. non ne ha mai fatto richiesta, in quanto secondo lui un trasferimento era implicito nella sua domanda di asilo, dato che il Kenya รจ un Paese ostile per le persone queer, ci ha raccontato come รจ stata gestita la situazione dei ricollocamenti mentre si trovava nel campo: all’inizio, l’UNHCR ha detto loro che c’erano pochi posti disponibili per il reinsediamento e che non erano in grado di trasferirli tutti. Poi, col pretesto dellโ€™emergenza sanitaria da Covid-19, hanno ritardato i trasferimenti ma dallo scoppio della pandemia i ricollocamenti non sono ancora avvenuti. Inoltre,ย i ricollocamenti sono stati usati come arma dal governo keniota e talvolta dal personale dell’UNHCR contro i membri piรน attivi e vocali della comunitร  LGBTQ+ che hanno cercato di denunciare le violazioni che avvenivano nel campo.ย Sostanzialmente, coloro che cercavano di denunciare le condotte gravissime a Kakuma, come G., sono stati minacciati di non essere mai trasferiti. Nel giugno 2021, dopo la morte dell’attivista 22enne Chriton Atuhwera nel campo di Kakuma avvenuta due mesi prima, G. e le persone LGBTQ+ all’interno del campo hanno lanciato una petizione all’UNHCR chiedendo protezione e di essere trasferiti. Gli agenti dell’UNHCR hanno risposto con intimidazioni a coloro che volevano aderire alla petizione, dicendo che sarebbero stati rimpatriati se avessero firmato. “Non si tratta solo di stare zitti, ma loro sono stati proattivi nel mettere a tacere la comunitร  LGBTQ+”, ha affermato in merito G. Se ti รจ piaciuto lโ€™articolo, condividi!

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