KASHA JACQUELINE NABAGESERA: PIONIERA DEI DIRITTI LGBTQIA+ IN AFRICA

Kasha Jacqueline Nabagesera è una pioniera nell’attivismo per i diritti LGBTQIA+ e fondatrice di Freedom and Roam Uganda (FARUG), organizzazione per i diritti delle donne e delle persone lesbiche, bisessuali e queer.

LA QUESTIONE UGANDESE

L’Uganda è tristemente nota per essere uno dei tre Paesi africani, insieme alla Nigeria e alla Mauritania, in cui è prevista la pena di morte per gli omosessuali.

Il 21 marzo 2023 è stata approvata dalla Corte costituzionale l’Anti-Homosexuality Act (AHA) che inasprisce le pene già esistenti nel Codice Penale del 1950, che prevedeva l’ergastolo per “chiunque avesse conoscenza carnale contro l’ordine della natura”. L’attuale legge sancisce, come citato, la pena di morte per il reato di omosessualità aggravata. Ciò significa che il reato si configura quando le persone queer vengono identificate come delinquenti seriali e/o quando si trasmette una malattia sessualmente trasmissibile durante l’atto. La citata normativa introduce inoltre, l’obbligo di denunciare alle autorità chiunque sia sospettato di praticare atti omosessuali e la pena qualora detta denuncia non venga sporta è la reclusione fino a 5 anni.

Nonostante sia stata presentata una petizione da un gruppo di attivisti LGBTQIA+ per annullare l’AHA perché incostituzionale in quanto nega la fruizione di diritti umani fondamentali, la Corte costituzionale ha respinto l’annullamento della legge con voto unanime.

Purtroppo il Paese non è nuovo a questo tipo di legge.

Già nel 2014 infatti, era stato varato una prima versione dell’Anti-Homosexuality Act che prevedeva la pena di morte, poi commutata in ergastolo, per chi avesse intrattenuto relazioni sessuali con persone dello stesso sesso. La legge fu poi successivamente annullata perché non era stato raggiunto il quorum sufficiente per la sua approvazione.

Nel 2021 venne poi approvato un disegno di legge, che condannava a 10 anni di carcere chi avesse compiuto atti omosessuali. Questa legge fu poi ritirata dal Presidente Yoweri Mudeveni poiché le condanne previste erano già presenti all’interno del Codice Penale.

DESIDERIO DI CAMBIAMENTO

In questo clima ostile Kasha Jacqueline Nabagesera inizia fin da giovanissima la promozione dei diritti LGBTQIA+ parlandone in televisione e radio, diventando non solo la prima persona a parlare apertamente della sua omosessualità, ma anche una pioniera dell’attivismo queer nel suo Paese.

Questo la porta a diventare un bersaglio di odio e violenza da parte di istituzioni e cittadini sin dalla sua vita universitaria. In questo periodo è stata costretta a sottoporsi tutti i giorni ad un esame del suo abbigliamento davanti ai dirigenti dell’università prima delle lezioni dal momento che l’ateneo sosteneva che una “vera” donna non potesse indossare capi maschili. Gli stessi dirigenti poi, le hanno rifiutato di alloggiare nel campus per impedire che Kasha Jacqueline Nabagesera potesse “corrompere le altre studentesse”.

Queste vessazioni però, non hanno prodotto altro risultato se non quello di rafforzare in lei la determinazione a portare il cambiamento in una nazione fortemente omofoba e così nel 2003 fonda, insieme ad alcuni amici, l’organizzazione Freedom and Roam Ruanda (Farug) per denunciare le discriminazioni di cui le persone queer sono vittime.

I membri di Farug diventano bersaglio di violazioni dei diritti umani di varia natura fino ad arrivare al 2 ottobre del 2010, quando la rivista Rolling Stones Uganda pubblica la lista – corredata di nomi e foto – dal titolo “Hang Them” dei 100 omosessuali più in vista. Tra i nominativi pubblicati compaiono anche quelli di Kasha Jacqueline Nabagesera e del suo amico attivista David Kato, che morirà mesi dopo a causa di una violenta aggressione a sfondo omofobo.

Kasha invece, continua la sua battaglia in prima linea e nel 2014 fonda Bombastic, la prima rivista LGBTQIA+ che viene distribuita gratuitamente e segretamente nella capitale ugandese al fine di sensibilizzare la popolazione sulle condizioni di vita della comunità queer nel Paese.

Per il suo lavoro e il suo coraggio è conosciuta a livello mondiale e riceve diversi premi importanti come il Martin Ennals Award for Human Rights Defenders, il corrispettivo del Premio Nobel per i diritti umani, nel 2011; il Nuremberg International Human Rights Award nel 2013 e il Right Livelihood Awards nel 2015.

Nonostante le innumerevoli difficoltà e le perdite in termini di vite umane, Kasha Jacqueline Nabagesera non ha mai ceduto o deciso di fuggire dall’Uganda poiché la sua voglia di giustizia – rappresentativa di quella di tutta la comunità LGBTQ+ ugandese – primeggia sul terrore.

In occasione del Pride Month, noi di Large Movements APS abbiamo scelto di dar voce a storie come quella di Kasha Jacqueline Nabagesera affinché, in un momento di festa per la comunità LGBTQIA+ occidentale, non ci si dimentichi che in tante parti del mondo quelle conquiste sono ancora lunghe dall’essere acquisite. E volevamo farlo tributando il lavoro di coloro che ogni giorno si battono per veder riconosciuti i diritti della comunità LGBTQIA+.

Ci auguriamo che, grazie al lavoro di Kasha e del suo magazine, il governo dell’Uganda decida di eliminare dal proprio ordinamento giuridico una legge altamente lesiva dei diritti umani, mettendo in atto un processo rapido e concreto che porti alla decriminalizzazione dell’omosessualità.

Conoscere è resistere!

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Diritti LGBTQ+ in Nigeria: comunità ridotta al silenzio in un sistema discriminatorio

Dei paesi africani, la Nigeria è indubbiamente uno fra i più difficili in cui vivere se si è una persona LGBTQ+. Oltre alla criminalizzazione dell’omosessualità, la Nigeria è anche uno dei paesi rimasti nei quali è prevista una pena corporale e, a seconda dei casi, anche la pena capitale per questo “reato”. A ciò si unisce un contesto sociale particolarmente avverso alle persone della comunità, costrette a vivere la loro esistenza nell’ombra, lontano da sguardi indiscreti, col rischio di essere denunciati e vedere così la propria vita rovinata per aver semplicemente espresso il proprio vero essere. Le problematiche vissute dalle minoranze sessuali nigeriane hanno origine innanzitutto nell’apparato legislativo, altamente omofobo e intollerante, e continuano nel paese reale fra la popolazione poco ricettiva delle istanze delle persone LGBTQ+ ed anzi, chiaramente avversa ad esse. Quadro Legislativo e Impatto nella Società Civile Come già anticipato sopra, la Nigeria criminalizza l’omosessualità. La condanna che la legge impone non si ferma alle condotte sessuali ma arriva a punire anche l’espressione di genere (e quindi l’identità) delle persone. E’ illegale infatti per una donna esprimersi attraverso atteggiamenti e capi maschili, viceversa per un uomo. Il forte conservatorismo della Nigeria (conseguenza anche di un radicato sentimento religioso da parte di tutta la popolazione, cristiana e mussulmana) si traduce dunque in un attacco non solo ai comportamenti sessuali delle persone, ma anche alle loro identità ed ai modi in cui queste dovrebbero esprimersi – secondo i leaders religiosi. Nel merito, la Nigeria è uno Stato federale che non presenta un solo sistema giuridico ma vede la coesistenza di più apparati legislativi che convivono ed esercitano la loro influenza all’interno dei confini nazionali. Il nord del paese (a maggioranza mussulmana) ha un proprio Codice penale Federale. Tuttavia, 12 stati settentrionali – Bauchi, Borno, Gombe, Jigawa, Kaduna, Kano, Katsina, Kebi, Niger, Sokoto, Yobe, Zamfara – hanno adottato alcune forme di Sharia (il sistema islamico di leggi e precetti di ispirazione divina), che trova applicazione non solo su tutti i mussulmani residenti in detti Stati ma anche su chiunque decida volontariamente di sottoporvisi.  Il sud della Nigeria ha una popolazione per lo più di fede cristiana e ha anch’esso un proprio Codice penale, che si applica ai soli Stati del sud. Che si tratti dunque del Codice del Nord del Paese, di quello del Sud o delle norme della Sharia, in tutti e tre i testi emergono chiaramente una certa attenzione e meticolosità nell’individuare le fattispecie che costituiscono il “reato di omosessualità” ed affini, come pure le pene da infliggere. Analizziamo dunque i punti in comune fra i sopradetti Codici e le differenze per quanto riguarda i crimini legati all’orientamento sessuale ed all’identità di genere e le conseguenti pene applicate: Il Codice penale Federale del Sud della Nigeria considera gli atti sessuali fra uomini illegali con condanna a 14 anni di reclusione. L’attività sessuale femminile, pur non essendo esplicitamente menzionata, è da intendersi configurare ugualmente lo stesso reato e quindi trova applicazione anche per le donne lesbiche la stessa pena. Il codice approfondisce la materia nel Capitolo 21 nelle sezioni 214, 215 e 217 secondo le quali: Chiunque intrattenga rapporti carnali contro l’ordine della natura o permetta a qualcun altro di farlo commette reato punibile con 14 anni di reclusione (sezione 214); Chiunque tenti di commettere le suddette condotte è punibile con 7 anni di reclusione, non senza un mandato (sezione 215). Chiunque sia uomo e commetta atti osceni, in pubblico o in privato, con un altro uomo o costringa qualcuno a commettere tali atti o anche solo provi a farlo può essere punito con 3 anni di reclusione, non in mancanza di un mandato (sezione 217). Anche il Codice Penale Federale del Nord del Paese prevede una pena fino a 14 anni di reclusione, con possibile applicazione aggiuntiva di una multa, per rapporti carnali fra persone dello stesso sesso o fra persone e animali (sezione 248). Inoltre, la sezione 405 del Codice definisce come “vagabondo” qualunque uomo si vesta con abiti femminili o che abbia fatto della sodomia il suo stile di vita o la sua professione. Le sezioni 407 e 408 prevedono, per i vagabondi, una pena di un anno di reclusione, una multa o entrambe e, nel caso di recidività dell’atto incriminato, due anni di reclusione, una multa o entrambe contemporaneamente. Nei dodici Stati settentrionali che adottano la Sharia tutte le condotte che possono costituire una “deviazione dall’ordine naturale” sono duramente punite. Sebbene ogni Stato decida come adottare la legge ed eseguire le condanne, è possibile affermare che ciascuno di essi prevede pene molto severe per il “reato” di omosessualità – che vanno dalla punizione corporale con frustate alla pena capitale, spesso praticata tramite lapidazione. Oltre a condannare ulteriori condotte riconducibili alle minoranze sessuali (rapporti sessuali fra persone dello stesso sesso, relazioni romantiche fra persone dello stesso sesso, travestitismo etc.) con sanzioni pecuniarie, periodi di reclusione, punizioni corporali e/o morte, alcuni Stati che applicano la Sharia menzionano espressamente il lesbismo fra gli altri comportamenti da condannare con un sistema di punizioni del tutto affine a quello previsto per i rapporti fra uomini. L’accenno esplicito all’omosessualità femminile è una tendenza per lo più minoritaria all’interno di certa giurisprudenza, figlia della scarsa considerazione data alle donne (in Nigeria come nel resto del mondo) che le rende soggetti invisibili del diritto, interessate da quest’ultimo solo in quanto controparte passiva dell’uomo. A questo quadro si aggiunge il fatto che, sebbene la Costituzione nigeriana affermi l’uguaglianza di tutti i cittadini e promuova uguali diritti (all’assistenza sanitaria, al lavoro etc.) per tutti, le tutele costituzionali sembrano non trovare applicazione alcuna quando la persona in questione è LGBTQ+. Tutto questo è aggravato dal fatto che la Nigeria, così come l’Italia del resto, non possiede alcuna legislazione atta a proteggere dalla discriminazione basata sull’orientamento sessuale o l’identità di genere. Percezione e Status Sociale Se le leggi, oltre che regolare uno Stato, ne riflettono anche la società non può stupire sapere che un apparato legislativo così intollerante nei confronti della comunità LGBTQ+ nasce in una

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UNITI PER KAKUMA

Nella primavera del 2022 International Support – Human Rights e Large Movements APS hanno deciso di unire le proprie competenze specifiche per portare avanti una campagna di advocacy quanto più possibile estesa per sensibilizzare l’opinione pubblica ed i decisori politici sulle condizioni di vita dei richiedenti asilo e dei rifugiati LGBTQ+ in Kenya. Spiegazione partenariato e ruoli L’Organizzazione International Support – Human Rights, è impegnata da oltre 10 anni nella tutela e salvaguardia dei diritti dei rifugiati LGBTQ+ del Kenya e dal 2018, con l’aiuto dei suoi partner e le pressioni internazionali, è riuscita a reinsediarne una parte. L’associazione ha da sempre lavorato a stretto contatto con il personale UNHCR, cercando di indirizzare l’Agenzia verso il cambiamento per garantire maggiore sicurezza per gli ospiti LGBTQ+ dei suoi campi. International Support – Human Rights si è fatta tramite delle richieste di questa categoria vulnerabile di richiedenti con il Parlamento Europeo ed ha agevolato l’adozione della Risoluzione del 2021 presentata alla Plenaria di Strasburgo. In questo testo, i Paesi europei si sono impegnati a sostenere il Kenya per migliorare le condizioni di accoglienza nei due campi profughi più grandi dell’Africa. L’Organizzazione, inoltre, è sempre stata in prima linea anche durante le emergenze, inviando soccorsi e richiedendo indagini mirate, come nel caso dell’incendio del 2021 in cui purtroppo ha perso la vita un giovane rifugiato della comunità LGBTQ+. La decisione di collaborare con questa associazione deriva direttamente dalla mission più ampia di Large Movements APS: creare un network sempre più esteso e solido di associazioni che condividono la stessa metodologia operativa, così da promuovere quel cambio di narrativa – non più demandabile – riguardante il mondo della cooperazione internazionale e dell’inclusione sociale. Questa condivisione metodologica passa anche dalla capitalizzazione delle best practices sviluppate sul campo da altre associazioni, consentendo così di estrapolare lezioni importanti per poter realizzare progetti che abbiano un impatto sociale sempre maggiore. Per di più, dal momento che uno dei nostri obiettivi a lungo termine è quello di stimolare il dialogo tra istituzioni ed i beneficiari diretti delle politiche migratorie così da realizzare proposte di legge, di intervento o progetti che tengano conto dei bisogni reali delle comunità coinvolte, l’esperienza di International Support – Human Rights in tal senso si rivela fondamentale anche per la formazione e crescita professionale del nostro team. Nel pieno rispetto della sinergia di lavoro, Large Movements APS ha messo da subito a disposizione del partenariato le proprie competenze in materia di infotainment e di progettazione, così da dar vita ad una strategia di advocacy quanto più possibile innovativa e creativa. FASE I: Ricerca ed analisi Grazie al lavoro comune, nell’ultimo anno siamo stati in grado di: Analizzare la normativa internazionale che si applica a questa tematica; Reperire informazioni sulla situazione attuale in Kenya per la comunità LGBTQ+ attraverso le interviste ai vari attori coinvolti (personale UNHCR, ONG attive sul territorio, rifugiati e richiedenti asilo LGBTQ+, giornalisti d’inchiesta operanti in Kenya, personale polizia kenyota); Raccogliere sufficienti prove per circostanziare i racconti dei rifugiati e richiedenti asilo LGBTQ+ in merito alle violazioni dei diritti umani che sono costretti a subire Di seguito, il risultato di questa prima fase di attività. Quadro normativo di riferimento Come premesso, abbiamo avuto modo di raccogliere molte testimonianze e molto materiale che documenta la scarsa protezione della comunità LGBTQ+ residente nel campo di Kakuma, alla luce del quale possiamo affermare che ci sia poca tutela per la categoria delle persone vulnerabili. Soprattutto con riferimento alle donne lesbiche, i loro bambini, le persone queer disabili e le persone trans, categorie queste maggiormente esposte a violenze e soprusi. I rifugiati della comunità LGBTQ+ subiscono abitualmente violenze ed attacchi. Tutto questo viola sia la Convenzione sullo Status di rifugiato dell’Onu, che ogni convenzione sottoscritta dal Kenya. Tutte infatti, riconoscono uguali diritti, inalienabili per tutti gli uomini. poiché tali diritti derivano dalla dignità intrinseca della persona umana. Per agevolare la piena comprensione della gravità della situazione sul terreno kenyota, si citano alcuni articoli e Convenzioni contenenti i principi fondamentali che lo stesso Kenya ha riconosciuto come applicabili a qualsiasi individuo: L‘articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e l‘articolo 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, i quali prevedono che nessuno può essere sottoposto a tortura e/o a trattamenti crudeli, inumani o degradanti o punizioni; la Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination against Women (Mar 1984) – che stabilisce una serie di norme e principi per eliminare la discriminazione contro le donne in tutte le forme, sia nella vita privata che in quella pubblica -e la Convention on the Rights of the Child (Jan/Jul 1990) – stabilisce i diritti fondamentali dei bambini e delle bambine, compresi il diritto alla vita, alla salute, all’educazione e all’espressione libera; la Carta Africana dei Diritti dell’uomo e dei popoli, sottoscritta dal Kenya insieme agli Stati membri dell’Organizzazione dell’Unità Africana. In questa Convenzione si riconosce che: (i) i diritti umani fondamentali derivano dalle azioni degli esseri umani; (ii) il loro rispetto è essenziale alla garanzia di una vita dignitosa; (iii) la protezione internazionale è strumento fondamentale per l’effettivo godimento degli stessi da parte di tutti; (iv) si ribadisce l’adesione di tutti gli Stati firmatari a tutti i principi dei diritti e delle libertà dell’uomo e dei popoli contenuti nelle Dichiarazioni, nelle Convenzioni e negli altri strumenti adottati dall’Organizzazione dell’Unità Africana, dal Movimento dei Paesi Non Allineati e dalle Nazioni Unite. L’articolo 2 della Carta sopracitata afferma “Ogni individuo ha diritto al godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti e garantiti nella presente Carta, senza distinzione alcuna di razza, etnia, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica o di altra natura, origine nazionale e sociale, fortuna, nascita o qualsiasi status”. Per completezza si potrebbero aggiungere l’orientamento sessuale e l’identità di genere – in perfetta armonia con le Linee Guida dell’UNHCR sulla definizione di gruppo sociale – ma anche senza questa specifica, il testo dell’articolo appare chiarissimo; L’articolo 7 della stessa Carta afferma che “Ogni individuo deve essere uguale davanti alla legge.  Ogni individuo ha diritto

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L’espropriazione dei diritti delle donne in Etiopia

In Etiopia, come in altre società tradizionali, il valore delle donne è misurato in base al loro ruolo di madri e mogli. Nelle città come nelle campagne, la divisione dei ruoli tra uomo e donna è ben definita, affidando al primo un controllo completo sulla vita della moglie che, costretta alla sfera domestica, raramente partecipa alla vita comunitaria. Nelle situazioni più estreme l’uomo esercita un controllo sul corpo stesso della donna, che troppo spesso viene sottoposto a tremende violazioni. Questa sottomissione istituzionalizzata del genere femminile risale ai tempi dell’occupazione italiana del Paese. I coloni bianchi hanno infatti giocato un ruolo importante nel fortificare il sistema patriarcale all’interno dei diversi gruppi etnici che popolano il Paese. Soprattutto a partire dal 1940, gli occupanti stranieri usavano le donne locali come concubine per fini di sfruttamento sessuale, usando la forza e la violenza quando queste si opponevano. Della donna etiope si parlava largamente anche in Italia, poiché veniva menzionata come uno dei motivi per cui era giusto emigrare nei territori di nuova occupazione. Il sessismo si è fatto così strada nella società etiope e rimane tutt’oggi una grave piaga da abbattere per permettere uno sviluppo realmente sostenibile in questo Paese. Oggi, Large Movements cercherà di far luce sulle caratteristiche che accomunano le donne etiopi, segnalando le maggiori difficoltà verso la parità di genere e le più gravi violazioni dei loro diritti umani che, come purtroppo succede in molti Paesi, restano saldamente ancorate alla società attraverso leggi, usanze e tradizioni che scoraggiano l’emancipazione della donna. I diversi livelli della discriminazione di genere Secondo il Global Gender Gap Report, pubblicato nel 2018 dal Global Economic Forum, l’Etiopia si classifica al 117° posto su 149 paesi, evidenziando uno stallo rispetto all’anno precedente sulla riduzione del divario di genere, già ampio in maniera allarmante. Il report analizza le disparità di genere utilizzando indicatori quantitativi in quattro contesti sociali utili a misurare la possibilità per le donne di auto-determinarsi e di rendersi indipendenti: 1. L’accesso al lavoro (indipendenza economica); 2. L’accesso all’educazione elementare, media e superiore, compresa l’università; 3. L’accesso alle cure sanitarie ed all’aborto; 4. La partecipazione attiva nella vita politica del Paese. Vediamo adesso le maggiori difficoltà che le donne affrontano negli ambiti sopraelencati, evidenziando anche le peggiori violazioni di diritti umani perpetrate ai loro danni all’interno della società odierna dell’Etiopia. 1. L’accesso al lavoro Le immense difficoltà di accesso alla professione riscontrate dalle donne etiopi vengono evidenziate dal tasso di occupazione femminile, che oscilla tra il 40 ed il 50%. Di questa percentuale, la grande maggioranza dei lavori corrisponde all’agricoltura ed all’allevamento, se non ad attività informali di scarsa rilevanza per l’economia famigliare. Inoltre, il restante della popolazione femminile si occupa delle attività di cura della casa e della famiglia – che vengono omesse dal conteggio perché non remunerate – ma non per questo non altrettanto faticose e degradanti. Tra queste, riteniamo opportuno menzionare il trasporto di carichi pesanti come le taniche d’acqua per decine di chilometri. Il divario di genere nel mercato del lavoro etiope è dunque elevatissimo, e questa condizione viene denunciata dal Report sull’Etiopia realizzato dalla Convenzione sull’Eliminazione di tutte le forme di Discriminazione contro le Donne (CEDAW), che condanna il controllo e lo sfruttamento delle donne compiuto secondo l’ideologia dominante in Etiopia. Questo risulta dunque determinante nell’impedire che la donna raggiunga uno status di indipendenza ed auto-determinazione. Le cause principali vengono identificate nelle pratiche di distribuzione delle risorse e delle opportunità e nella divisione del lavoro che non rispondono ai bisogni delle donne, bensì vanno ad alimentare il divario di genere. Il ruolo di subordinazione delle donne viene accentuato da politiche sociali, culturali ed educative che non garantiscono la loro tutela o che non vengono effettivamente attuate, andando peraltro a peggiorare la situazione di povertà nazionale. Nonostante la legge federale garantisca il diritto di pari accesso alla terra per uomini e donne, nella realtà dei fatti questa non viene applicata poiché le donne sono escluse dalla proprietà terriera, di fatto ostacolata anche per gli uomini a causa della nazionalizzazione della terra avvenuta nei primi anni ‘90. Infatti, il 70% delle donne sposate non ha possibilità di gestire i frutti del proprio lavoro agricolo poiché questo spetta al marito. La percentuale acquista rilievo se contestualizzata nella presenza schiacciante di lavori rurali del settore primario, rispetto agli altri settori, che da impiego a più del 65% della popolazione totale etiope. La difficoltà di accesso alle risorse è concreta: il livello di povertà e sottosviluppo della maggioranza delle famiglie è originato dalla carenza di risorse idriche derivanti anche dalle frequenti siccità; l’acqua viene recuperata e trasportata come possibile, pur significando viaggi lunghi e faticosi affrontati, spesso, dalle donne e dai bambini. 2. L’accesso all’istruzione In Etiopia quasi metà della popolazione è analfabeta. In un contesto fortemente rurale in cui i bambini abbandonano gli studi per poter portare un aiuto economico in casa, le donne sono i soggetti più colpiti dalla rinuncia all’istruzione. La scuola è frequentata in prevalenza da ragazzi soprattutto a partire dal livello secondario: la durata media di un percorso di studi di una studentessa in Etiopia è infatti di soli 8 anni, sempre secondo quanto evidenziato dal Report della CEDAW. La causa dell’abbandono scolastico della bambina a volte corrisponde con il matrimonio, spesso con un uomo di età molto più avanzata. I matrimoni precoci – o matrimoni forzati – sono un fenomeno largamente diffuso in Etiopia, a discapito della legge che stabilisce a 18 l’età minima per le nozze. A volte a questo segue una gravidanza precoce e l’impossibilità di varcare le mura domestiche per iniziare la carriera professionale. Secondo the World Factbook nel 2020 il tasso di fertilità è di oltre 4 figli per donna – in confronto, in Italia ammonta a 1.3 figli per donna -, dato comunque in miglioramento rispetto alla media di 7 figli registrata quaranta anni fa. Recentemente il Dipartimento di Genere del Ministero dell’Istruzione, in collaborazione con il Forum for African Women’s Education, ha introdotto una serie di programmi ed iniziative volte a scoraggiare

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Cos'è Boko Haram - Large Movements

Essere donne in Nigeria: la violenza di Boko Haram

L’intensificarsi della violenza e delle atrocità dell’organizzazione terroristica Boko Haram in Nigeria si è abbattuta più ferocemente sulle donne del paese. I rapimenti e la conseguente schiavitù delle donne da parte di Boko Haram sono costanti e solo il rapimento di quasi 300 studentesse nella città di Chibok nel 2014 ha finalmente attirato l’attenzione dei media internazionali sull’organizzazione terroristica. #BringBackOurGirls: Boko Haram e i rapimenti di donne Nel 2014 Boko Haram controllava la maggior parte dei territori della Nigeria nordorientale. L’organizzazione terroristica ha attaccato e, in alcuni casi, ”governato” più di 130 villaggi e città, dove ha imposto la sua interpretazione della Shari’a. I miliziani di Boko Haram hanno perpetrato uccisioni, raso al suolo e saccheggiato case, imprese, scuole, chiese, mercati e strutture sanitarie negli Stati federati di Borno, Yobe e Adamawa. Dal 2009 al 2014 l’organizzazione terroristica ha distrutto almeno 211 scuole nel solo Stato di Borno e rapito più di 500 donne e ragazze, di queste almeno 100 sono fuggite. Alcune delle donne rapite hanno subito diversi abusi: violenze sessuali, matrimoni forzati e conversioni forzate.  Il 14 aprile del 2014 l’organizzazione ha messo in atto il più grande rapimento di ragazze avvenuto finora: Boko Haram ha catturato 276 studentesse di una scuola secondaria gestita dal governo a Chibok, nello Stato di Borno. La notizia del rapimento ha avuto una rapida diffusione suscitando la campagna social media #BringBackOurGirls, un grido internazionale per il rilascio delle studentesse. L’atteggiamento del governo, verso il rapimento ed il movimento, viene esemplificato dall’arresto nel maggio 2014 di due donne che avevano guidato le proteste di Abuja, la capitale nigeriana. Gli attivisti sostengono che sia accaduto per il volere della moglie dell’allora presidente Goodluck Jonathan. Patience Jonathan ha infatti accusato le donne di aver messo in cattiva luce il governo del marito. Il rapimento di Chibok ha rappresentato uno spartiacque importante: prima del rapimento i funzionari del governo del nord-est della Nigeria negavano l’esistenza dell’insurrezione di Boko Haram e dei rapimenti delle donne. Purtroppo queste non sono state né le prime, né le ultime ragazze rapite da Boko Haram. Nonostante l’indignazione internazionale seguita alla campagna #BringBackOurGirls, i rapimenti non si sono fermati. Un caso analogo a quello della scuola di Chibok è accaduto il 19 febbraio 2018: i miliziani di Boko Haram hanno rapito 110 ragazze tra gli 11 e i 19 anni in una scuola femminile di Dapchi, nei pressi del confine Nord-Est tra Nigeria e Niger. L’obiettivo dell’organizzazione, in questo caso, erano le ragazze più piccole in quanto nella scuole di Dapchi erano presenti classi inferiori rispetto alla scuola di Chibok. La ragione è da ritrovare nel fatto che Boko Haram “seleziona” ragazze molte giovani e donne anziane per usarle negli attentati terroristici, mentre le ragazze in età da concepimento, tra i 14 e i 19 anni, vengono ritenute più utili per la procreazione. Il destino delle ragazze catturate da Boko Haram può assumere due tragiche alternative: diventare delle bambine kamikaze o essere usate per la procreazione. Vivere sotto Boko Haram: le testimonianze delle donne rapite Le donne rapite da Boko Haram sono state costrette a vivere al fianco dei miliziani per giorni o mesi prima di riuscire a fuggire. Spesso alle ragazze rapite sono stati assegnati compiti domestici, come cucinare, mentre altre sono state costrette a sposarsi ed a fare sesso con i membri di Boko Haram. Si ritiene quindi che Boko Haram stia cercando di “sostituire” le famiglie che i combattenti hanno dovuto lasciare quando l’esercito nigeriano ha costretto i miliziani a lasciare i villaggi ed a rifugiarsi nella boscaglia. Le ragazze di fede cristiana, inoltre, sono state costrette a convertirsi all’Islam mentre, in alcune occasioni, le donne musulmane sono state lasciate andare. Ciò sta avendo effetti sulle tensioni storiche che vi sono in Nigeria tra le comunità cristiane e quelle musulmane in quanto le azioni di Boko Haram stanno aggravando la situazione. Una delle testimonianze delle donne rapite da Boko Haram vede protagonista una giovane donna di 19 anni che è stata rapita poco dopo gli eventi di Chibok insieme al suo bambino e ad altre 5 ragazze. La donna è stata costretta a dormire sotto un albero ma una notte venne svegliata da uno dei miliziani che l’ha condotta in un cespuglio buio. Il miliziano l’ha fatta sdraiare per terra con il suo bambino al lato. Lei ha cominciato a piangere ed a pregare di non farle del male. Lui disse: “O ti uccido o faccio a modo mio”. Poi la violentò. Il giorno dopo i miliziani la liberarono dopo che lei finse di convertirsi dal cristianesimo all’Islam. Un’altra ragazza che ha avuto il coraggio di raccontare la sua esperienza aveva 18 anni  quando è stata rapita e tenuta prigioniera per tre mesi. La ragazza ha interagito direttamente con il leader di una cellula di Boko Haram ed aveva informazioni dettagliate su come funzionava il campo, sul fatto che si trovava a Gwoza e sul rapporto con il principale campo di Boko Haram nella foresta di Sambisa. Aveva anche informazioni su come Boko Haram controllava i gruppi di sicurezza. Uno dei peggiori ricordi della ragazza è stato il momento in cui l’organizzazione terroristica l’ha usata come esca per attirare nuovi combattenti o vittime. Boko Haram le chiese di trovare uomini cristiani e di portarli nella boscaglia in modo da poterli rapire. Una volta tornati al campo hanno chiesto loro di rinunciare al cristianesimo, di accettare l’Islam e di diventare membri di Boko Haram. Quando si rifiutarono, i miliziani cominciarono a tagliare le gole spargendo sangue dappertutto. La ragazza è scappata, ma il suo calvario è tutt’altro che finito. Secondo altre ragazze sfuggite a Boko Haram, i ribelli la stanno cercando. Credono che sia incinta del figlio del loro capo e vogliono il bambino. Si sposta di casa in casa quasi ogni notte, sperando che i miliziani non la trovino. A queste testimonianze si aggiungono quelle delle ex-prigioniere che hanno riconosciuto i volti delle compagne di prigionia tra gli attentatori. Ciò ha confermato che Boko Haram ha costretto alcune

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Diritti LGBTQ+ in Senegal: un mosaico di differenze senza i colori dell’arcobaleno

Il Senegal è un Paese che presenta un quadro nazionale eterogeneo sia dal punto di vista etnico che da quello linguistico e religioso. Come molte altre nazioni limitrofe, in Senegal convivono diverse popolazioni che praticano diverse fedi e parlano diversi idiomi. L’etnia dominante è la Wolof, seguita dai Fula e dai Sérèr e da altre popolazioni ancora. La religione più diffusa invece è l’Islam, praticato da circa il 95% della popolazione, segue poi il Cristianesimo (5%) mentre il resto della popolazione pratica alcune forme di animismo che, rifacendosi ad una radicata tradizione prettamente africana, permeano in realtà anche le fedi dominanti importate dall’esterno, originando un sincretismo religioso islamico e cristiano. Ogni popolo, inoltre, ha una sua lingua e la lingua ufficiale del Paese è il francese (uno dei lasciti del colonialismo). Eterogeneo, dunque, è il modo migliore per descrivere la situazione in Senegal, ma qui più che in altri paesi queste differenze interne trovano il modo di mescolarsi e mischiarsi tutto sommato armoniosamente, soprattutto rispetto ad altre controparti del Continente che presentano condizioni sociali e antropologiche simili. In una realtà come questa in cui Islam e Cristianesimo convivono pacificamente, dove popoli e lingue diversi sono comunque legati l’un l’altro da rapporti di cousinage (“cuginanza”, un legame vero e proprio avvertito dai cittadini senegalesi) ci si può aspettare un atteggiamento disteso nei confronti delle minoranze sessuali. Tuttavia non è esattamente così e le persone queer in Senegal sperimentano comunque discriminazione, oppressione e marginalizzazione all’interno della società. Quadro Legislativo e Impatto nella Società Civile L’articolo 319 del Codice Penale Senegalese legifera in materia di omosessualità. Nello specifico, l’articolo stabilisce una pena da 1 a 5 anni di carcere e una multa da 100.000 a 1.500.000 franchi per chiunque commetta un “atto contro natura con un individuo dello stesso sesso”. Inoltre, sempre secondo quanto stabilito dal Codice, il massimo della pena verrà sempre applicato se l’atto viene commesso con una persona al di sotto dei 21 anni. Con una premessa del genere è naturale che in Senegal non esista alcun riconoscimento per le coppie omosessuali (né matrimonio egualitario, né unioni civili), mentre, sebbene le regole in materia di adozioni non esprimano un chiaro divieto per le coppie formate da individui dello stesso sesso (rendendo quindi la pratica, sulla carta, possibile), è chiaro che tale diritto non venga in alcun modo goduto dagli stessi nel Paese. Mancano, inoltre, leggi che tutelino le minoranze sessuali criminalizzando l’intolleranza ed i crimini d’odio che spesso subiscono le persone LGBTQ+ senegalesi. Alla luce di un tale quadro legislativo, il Senegal negli ultimi anni ha ricevuto pressioni internazionali per abrogare la normativa discriminatoria e mettere in atto politiche di tutela per la comunità LGBTQ+. Fra gli attori internazionali che hanno spinto per questo cambio legislativo ci sono le Nazioni Unite, Amnesty International e l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama che nel giugno 2013, in visita in Senegal, invitò i paesi africani a concedere diritti alle persone omosessuali. In tutta risposta, il Presidente del Senegal, Macky Sall, rieletto di recente alle presidenziali del 2019, rispose che il Paese “non è ancora pronto a decriminalizzare l’omosessualità” aggiungendo tuttavia che questo non faceva del Senegal un paese omofobo e che anzi si qualificava come uno Stato piuttosto tollerante per le persone omosessuali e transessuali. La risposta del Capo di Stato al Presidente statunitense fu accolta dai giornali con gioia e lodi per il Presidente Sall, dimostrando che quanto da lui sostenuto non era esattamente vero. Il Senegal, infatti, rientra fra i 31 Paesi africani che criminalizzano i rapporti consensuali fra individui dello stesso sesso. La normativa inoltre è largamente applicata ed è molto lontana da essere lettera morta e, anzi, è spesso utilizzata come pretesto legislativo per arresti arbitrari, violenze ed altre violazioni dei diritti umani ai danni della comunità LGBTQ+ senegalese che, è certo, non ha assolutamente vita facile all’interno del Paese, checché ne dica il suo più alto rappresentante. Percezione e Status Sociale Le persone queer senegalesi, infatti, sono costrette a vivere la loro condizione in clandestinità, nell’impossibilità di esprimersi liberamente col rischio di incorrere in pene giudiziarie molto gravi, nel migliore dei casi, od in violenze e privazioni delle libertà fondamentali nel peggiore.  Secondo un sondaggio del 2013 del Pew Research Center di Washington, in Senegal il 97% della popolazione ritiene che l’omosessualità sia inaccettabile per la società, confermando una tendenza riscontrata dallo stesso istituto in un sondaggio simile nel 2007. L’origine di questa intolleranza risiede, in parte, sicuramente nella cultura religiosa del Paese, composta per la maggioranza da musulmani sunniti e, in piccola parte, da confessioni cristiane. L’Islam ed il Cristianesimo, sebbene abbiano tradizioni antichissime nel Paese, sono religioni d’importazione che si sono stabilite su un substrato animista tipico delle regioni africane già presente in principio – e che ancora sopravvive nel sincretismo religioso che si è originato in Senegal – ed in veri e propri culti animisti che ancora sopravvivono in alcune zone del paese e presso alcune popolazioni. Quando queste due fedi ora dominanti si sono incontrate con le credenze animiste, hanno soppiantato alcuni dei valori insiti a quel credo e li hanno sostituiti con nuovi. Fra questi ci sono sicuramente il binarismo di genere, la disparità fra i sessi e la sacralità e l’istituzionalizzazione delle relazioni eterosessuali, concetti cardine che regolano i rapporti fra fedeli islamici e cristiani, mentre è noto che le religioni animiste siano molto meno legate a certi modi d’intendere le relazioni fra persone, l’identità di genere e la sessualità (non è raro, infatti, che le figure religiose di riferimento di certi culti animisti non pratichino per forza relazioni eterosessuali).  La posizione ufficiale del governo senegalese è che l’omosessualità in sé non sia reato, solo gli atti ritenuti contro natura fra persone dello stesso sesso e questo basterebbe a rendere il Paese tollerante. Così non è, in realtà. Lo provano le numerose violazioni dei diritti umani perpetrate ai danni di molti cittadini senegalesi, violazioni che si sono verificate non soltanto quando i protagonisti si trovavano in flagranza di reato, ma anche basandosi su voci, pettegolezzi o sul mero sospetto che qualcuno potesse

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